CONOSCERE SAN PAOLO (31)

III. LE PREPARAZIONI PROVVIDENZIALI.

1. LA PRIMA TAPPA DELL’UMANITÀ. – 2. L’ÈRA DELLA PROMESSA. — 3. IL REGIME DELLA LEGGE. — 4. GLI ELEMENTI DEL MONDO. — 5. LA PIENEZZA DEI TEMPI.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Decretato il disegno della salvezza, bisognava differirne l’esecuzione? Poiché l’uomo non può rialzarsi da sé, a che scopo fargli sperimentare la propria impotenza? Quale gloria può rendere a Dio un ritardo fatale a tante vittime? Si risponde che avendo la missione del Cristo un effetto retroattivo, il valore della sua morte redentrice riguarda dunque anche le generazioni anteriori. Siccome vi furono dei giusti prima di Gesù Cristo e non poterono essere giusti se non per mezzo del Mediatore universale della grazia, i santi dell’antica alleanza sono dunque frutti anticipati del Calvario. Ma se l’Apostolo ci autorizza a trarre queste conclusioni non le trae egli stesso: egli si contenta di fare appello al « proposito » di Dio che si svolge « nel corso dei secoli » (Ephes. III, 11); al più invoca il bisogno provvidenziale di lasciare che i tempi giungano alla loro pienezza e il genere umano arrivi alla maggiore età. È legge di natura che si vada alla perfezione per gradi, e l’uomo non arriva all’età matura se non passando per l’infanzia e la giovinezza. Dio non ha sdegnato di piegarsi a queste armonie, perché esse fanno maggiormente risplendere la sua misericordia e la sua sapienza. Egli condurrà dunque l’uomo al suo punto terminale per quattro tappe successive: la legge di natura, il tempo delle promesse, il periodo dell’alleanza e l’èra della grazia. Così la provvidenza conduce l’umanità di progresso in progresso: questa idea eminentemente biblica, da cui si sono ispirati due dei più bei libri usciti dalla mano dell’uomo, è quella che si è convenuto di chiamare, in san Paolo, la filosofia della storia, è quella che assai più giustamente si chiamerebbe la sua teologia della provvidenza. – La creazione della prima coppia umana apre la storia religiosa dell’umanità. San Paolo non ci dice quale sarebbe stata la condizione dell’uomo sopra la terra, se l’uomo non avesse peccato: come i suoi colleghi egli non cerca di esplorare le regioni nebulose delle possibilità o delle ipotesi e raramente spinge il suo sguardo di là dall’orizzonte reale. Egli si contenta di rimandarci al racconto della Genesi quando fa dipendere dalla disobbedienza di Adamo la perdita dell’amicizia divina, la morte e l’inclinazione al male. Egli non fa nessuna allusione a una rivelazione primitiva, poiché la rivelazione per mezzo della quale i pagani percepivano gli attributi di Dio nello specchio del mondo sensibile, è una rivelazione naturale, inerente all’intelligenza (Rom. I, 20), e la conoscenza che essi ebbero della legge eterna non era che il giudizio della loro coscienza e della loro ragione (Rom. II, 14-15). – La sollecitudine di cui furono sempre oggetto i pagani anche quando furono peggiori i loro traviamenti, quella sollecitudine che aveva lo scopo immediato di incitarli a cercare Dio e lo scopo ultimo di condurveli (Act. XVII, 26-27), non si potrebbe chiamare provvidenza soprannaturale, se non si fosse prima dimostrato che non ve ne fu altra nell’ordine presente. In virtù della stessa provvidenza, Dio li tiene, come gli Ebrei, sotto il dominio del peccato: a tutti poi si propone di fare misericordia (Rom. XI, 32; Gal. III, 22). Se altrove si dice che Dio, « nei secoli passati, lasciò che tutti i Gentili camminassero nelle loro vie (Act. XIV, 16) » tortuose, che li abbandonò ai loro istinti perversi e al loro senso riprovato (Rom. I, 28), questo non si può intendere di un abbandono totale e assoluto, perché nello stesso luogo si afferma che Dio non ha cessato di rendere testimonianza a se stesso con i suoi benefizi (Act. XIV, 17), che rimane sempre il Dio dei Gentili non meno che degli Ebrei (Rom. III, 29), che medita di trarre profitto dalla loro miseria e persino dalla loro malizia, per trarli dall’abisso (Rom. III, 29). L’allegoria dell’olivo buono e dell’olivastro (Rom. XI, 24) dimostra bensì che gli Ebrei avevano ricevuto dal celeste agricoltore cure speciali, ma non permette di conchiudere che l’olivastro fosse restato privo di ogni cura; anzi l’educazione naturale della gentilità è talora messa a confronto con l’educazione soprannaturale di cui fu favorito il popolo eletto, e da ambe le parti le istituzioni morali e religiose che preludevano al Vangelo, per quanto fossero differenti, sono messe sotto il medesimo concetto di dottrine elementari e somigliate ad un alfabeto che il mondo, ancora bambino, si provava a decifrare (Gal. IV, 9; Col. II, 8). – La preparazione dei Gentili alla fede può parere soprattutto negativa; ma la diffusione del Cristianesimo nei paesi pagani sta a dimostrare che essa non fu meno efficace. Il disprezzo ispirato dall’assurda e immonda folla del panteon greco-romano, il disgusto prodotto, a lungo andare, da una corruzione sfrenata, la sazietà del vizio, che a poco a poco andava guadagnando le anime oneste, il disordine intellettuale prodotto dal fallimento delle filosofie, l’aspirazione ad un ideale religioso più elevato, il risveglio delle coscienze, il vago sospetto del Dio sconosciuto, furono altrettanti predicatori muti che prepararono la via ai banditori del Vangelo.

2. Tra lo stato di natura e il regime della Legge, s’intercala l’èra della promessa. Se ne potrebbero cercare gli inizi nel primo annunzio di un redentore dato subito dopo la caduta, oppure nella speranza data a Noè dopo il diluvio; ma si sa che l’Apostolo la fa datare da Abramo il quale la personifica. La promessa è quasi sempre definita con la Legge in funzione. Perché dunque la Legge! Essa fu aggiunta per le trasgressioni, fino a che venisse quel seme cui era stata fatta la promessa; (essa fu) promulgata dagli Angeli per mezzo di un mediatore. Ora il mediatore non è di uno solo, ma Dio è solo (Gal. III, 19-20). Bisogna dire che quest’ultima frase sia molto oscura, se suggerì agli esegeti centinaia di spiegazioni. Però, siccome la maggior parte dei commentatori suppongono, contro ogni evidenza, che qui il mediatore sia Gesù Cristo, e siccome quasi tutti gli altri considerano più le parole che il contesto, il numero delle interpretazioni veramente ammissibili si riduce in modo singolare. Il mediatore della Legge non è Gesù Cristo, ma Mosè, e lo scopo di san Paolo non è quello di far vedere la superiorità della Legge, ma la sua imperfezione e la sua instabilità. L’inferiorità della Legge, messa in confronto con la promessa, risulta, da questo stesso contrasto: la promessa è un testamento, la Legge è un contratto; la promessa è assoluta, la Legge è condizionata; la promessa viene da Dio senza intermediari, la Legge è promulgata dal mediatore; la promessa è confermata da Dio con giuramento, la Legge è preparata e trasmessa dagli Angeli. Per conseguenza la promessa è immutabile, la Legge è suscettibile di abrogazione; la promessa fatta senza limitazione di tempo è eterna, la Legge data sotto la riserva della promessa è temporanea; la promessa impegna la fedeltà di Dio in modo assoluto, la Legge non impegna la fedeltà di Dio se non soltanto finché dura la fedeltà del popolo. Tutto questo si riassume nella formola: « Il mediatore », per sua natura, « non è mediatore di un solo » contraente. Dove egli interviene, vi è sempre un contratto bilaterale, che, subordinato a due volontà differenti, si può rescindere; « ma », nella promessa fatta da Dio senza restrizioni e senza condizioni « Dio. è solo » in causa; nessuno potrà infirmare la sua irrevocabile decisione, ed Egli è obbligato verso se stesso a non ritirarla a danno degli interessati. Perciò la Legge, venendo dopo le promesse, non può né abolirle né modificarle; mentre la promessa di Dio porta in se stessa la sua garanzia. San Luca, san Paolo e l’autore dell’Epistola agli Ebrei sono i soli che parlino della promessa nel senso tecnico. Con questo essi intendono il complesso delle prospettive graziose aperte nell’avvenire al padre dei credenti, per lui e per la sua discendenza: il possesso di una dimora stabile, una discendenza più numerosa che le stelle del cielo ed i granelli di sabbia del deserto, finalmente e soprattutto la benedizione che si deve riversare sopra tutte le nazioni della terra. Nel senso più largo, la promessa comprende tutti i benefici messianici fino alla loro completa realizzazione in cielo. Siccome l’oggetto ne è insieme uno e multiplo, gli autori sacri parlano ora di più promesse, ora di una sola (Rom. IV, 13-20; IX, 8-9, etc. ); ma è certo che tutte le promesse hanno il loro compimento nel Cristo: « I n virtù della promessa Dio ha suscitato a Israele un Salvatore, Gesù… Poiché quanto vi è di promesse divine tutto è diventato in Lui; perciò anche noi (pronunziamo) per mezzo di lui alla gloria di Dio l’amen (II  Cor. ) » della lode e del ringraziamento. – Quali sono i veri eredi della promessa? A prima vista la risposta sembra facile. Il possesso delle promesse non è uno dei privilegi d’Israele? (Rom. IX, 4). I Gentili non erano estranei alla promessa e perciò senza speranza? (Ephes. II, 12). Il Cristo non è forse « ministro della circoncisione per (provare) le veracità di Dio, confermando le promesse fatte ai padri? (Rom. XV, 8) ». Ma d’altra parte, i Gentili divenuti Cristiani sono di pieno diritto compartecipi della promessa (Ephes. III, 6), e l’Apostolo afferma a più riprese che la promessa era loro destinata fin dall’origine (II Cor. VII, 1; Gal. IV, 28, etc.). Per risolvere l’antinomia, bisogna scoprire il principio secondo il quale si distribuiscono e si comunicano le benedizioni lasciate in eredità ad Abramo. Qui trionfa il dialettico rotto alle sottigliezze della scuola. Nella storia della promessa, Paolo rileva tre particolarità notevoli. La promessa non si estende a tutti i figli di Abramo; passa prima ad Isacco con l’esclusione d’Ismaele, poi a Giacobbe con l’esclusione di Esaù (Rom. IX, 8). Il principio di questa differenza è quello dell’elezione, della libera scelta di Dio: non è la posterità carnale quella che erediterà benedizioni, ma la posterità spirituale. In secondo luogo, la promessa fatta ad Abramo è universale, perché in lui saranno benedette tutte le nazioni (Gal. III, 8). Il principio di questa estensione è la fede: i veri figli di Abramo saranno quelli che avranno la fede del padre dei credenti. Finalmente la promessa è collettiva poiché si riferisce non a ciascuno dei discendenti del patriarca, ma alla sua razza, al suo seme (Rom. III, 9). Il principio di questo rapporto collettivo è l’unione al Cristo, sorgente unica di benedizioni: i veri eredi di Abramo non sono dunque gli Ebrei, ma i Cristiani, in quanto formano col Cristo una medesima Persona mistica, la discendenza spirituale di Abramo. Così la promessa ha tre caratteri che la rendono somigliante al Vangelo: come il Vangelo, essa è universale; come il Vangelo, si poggia sopra la fede; come il Vangelo, dipende dalla grazia. La promessa è il Vangelo in prospettiva, e il Vangelo è la promessa compiuta.

3. Se tali sono le prerogative della promessa, il regime della Legge, invece di essere un passo innanzi nella marcia dell’umanità, non segnerà dunque un passo indietro? Questa obiezione si presentò alla mente di san Paolo il quale ne dà la risposta: « Ebbene, (noi Ebrei) siamo forse da più (dei Gentili)? Non del tutto (Gal. III, 16) ». Vi sono due punti nei quali vi è eguaglianza, e nei quali gli Ebrei non si possono vantare di alcun privilegio: il dominio del peccato e il modo di giustificazione per mezzo della fede (Gal. II, 16; Rom. III, 9); questo tuttavia non esclude ogni differenza. « Che cosa ha dunque di più l’Ebreo o che cosa gli giova la circoncisione? Molto per ogni verso. Anzitutto essi hanno ricevute in deposito gli oracoli di Dio (Rom. III, 9) ». È forse poca cosa l’essere depositari della rivelazione? La rivelazione è una luce per l’intelligenza e una guida per la volontà. L’abuso che si può fare di un benefizio, non ne diminuisce punto il valore. Ma la rivelazione non è sola: essa è per gli Ebrei il principio o l’accompagnamento di altri titoli onorifici. Essi sono figli d’Israele; essi hanno l a filiazione adottiva e la gloria e le alleanze, e la legislazione (mosaica) e il culto (legittimo) e le promesse; essi sono della stirpe dei patriarchi e da essi è nato, secondo la carne, il Cristo che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli (Rom. IX,4). – Queste nove prerogative riassumono la loro preminenza: Israeliti, portano il nome di uno dei più grandi servi di Jehovah; questo nome scelto da Dio medesimo non è una semplice denominazione nazionale; è un titolo glorioso del quale gli Ebrei furono sempre fieri, che san Paolo rivendica a sé con orgoglio e non teme di applicare ai Cristiani. — Come popolo specialmente eletto da Dio, sono figli di adozione; di loro Dio poté dire per bocca dei profeti: « Israele è il mio primogenito »; questa adozione, benché sia collettiva, è pur sempre una preziosa fonte di benefizi divini. — Jehovah abita in mezzo ai suo popolo e manifesta sensibilmente la sua presenza con la gloria, con quello splendore soprannaturale che talora avvolgeva il propiziatorio dell’arca e ricordava la nube luminosa che guidava gli Israeliti attraverso il deserto. — Eredi dei patriarchi e come essi oggetto di una predilezione divina, gli Ebrei ereditano pure alleanze conchiuse tra Dio e i santi personaggi del passato, Noè, Abramo, e Mosè; queste alleanze che impegnano la fedeltà di Dio, sono per essi un pegno di protezione e di aiuto. — Soli fra tutte le nazioni della terra, essi posseggono una Legge discesa dal cielo e trasmessa per mezzo degli Angeli; se la Thora fu per essi un peso, fu anche un sommo onore: « Dio non fece altrettanto con le altre nazioni e non manifestò loro i suoi giudizi ». — Con la Legge, è rivelato il culto legittimo, il solo gradito a Dio poiché è il solo ispirato e sanzionato da Lui, il solo che al suo valore intrinseco unisca un significato figurativo che lo rialza e lo nobilita. — Gli Ebrei sono ancora in un senso speciale i detentori delle promesse fatte da Dio all’umanità; siccome queste promesse riguardano il Messia ed il Messia deve nascere da loro, essi ne hanno in certo modo il patrimonio. — È per loro anche un titolo di gloria il discendere da quei patriarchi che Dio onorò di più con la sua amicizia; la gloria del padre è pure la gloria dei figli, e la famiglia partecipa all’onore, di ciascuno dei suoi membri; san Paolo combatte il sentimento esagerato degli Ebrei a questo riguardo, ma non ne contesta il principio: « Se la radice è santa, anche i rami saranno santi ». — Finalmente il sommo onore è quello di essere, secondo la carne, i parenti del Cristo, del Messia, dell’Uomo-Dio. Ciò che soprattutto distingue gli Ebrei dagli altri popoli, è il privilegio di custodire il deposito della rivelazione e di avere ricevuto la Legge per loro guida. Quando san Paolo parla della Legge, intende sempre la Legge mosaica; egli non ne riconosce altra, benché qualche volta dia il nome di legge, per analogia, ad altre forze morali. Ora — e su questo punto l’Apostolo non mutò mai parere — la Legge è buona, la Legge è giusta, la Legge è nobile, la Legge è santa, la Legge è spirituale, la Legge è di Dio. Essa non è assolutamente perfetta, nel senso che non si possa immaginare nulla di meglio, ma è eccellente perché si riassume in quello che vi è di più eccellente, l’amore; e a lei non si possono imputare gli abusi di cui fu occasione. La sua imperfezione compare soltanto se si paragona a qualche cosa di più perfetto, o se si riflette agli inconvenienti che ne derivano. Questa considerazione si può fare sotto quattro aspetti: l’aspetto storico, l’aspetto psicologico, l’aspetto metafisico e l’aspetto teologico. Storicamente, la promessa fatta ai patriarchi è assoluta e anteriore alla Legge: dunque la Legge non può né annullarla né  restringerla; e la giustificazione, dipendendo dalla promessa, non può neppure dipendere dalla Legge. Questa non guarì affatto gli Ebrei dalle loro passioni; allo straripare del male non oppose che una diga impotente. — Non si poteva sperarne di più, poiché in fin dei conti, che cosa è una legge? È una luce e una barriera; una luce che mostra la via, una barriera che non permette di uscirne: luce inopportuna per una volontà vacillante, barriera provocatrice per una volontà perversa (Rom. VII, 7-9). La legge porta una nuova obbligazione senza portare un nuovo aiuto; essa dunque altro non può fare che manifestare, aggravare, moltiplicare il peccato (Gal. VIII, 19). — L’esperienza più comune c’insegna che l’uomo, in presenza di una legge, prova istinti di ribellione, e sente nel tempo stesso che l’appoggio offerto dalla ragione alla legge, non è un contrappeso sufficiente: egli non fa il bene che ama, e fa il male che aborrisce. Se non capisce nulla di questo fenomeno contradittorio, lo constata tuttavia facilmente. Così pure capisce che la legge non è la causa del male e che ne è solamente l’occasione; e intanto, essendo conscio dell’insufficienza della legge, cerca un aiuto fuori di essa e si rivolge verso la misericordia (Rom. VII, 5-25). — Qui interviene il principio teologico. Si potrebbe concepire un altro ordine di provvidenza, nel quale la Legge potesse giustificare; e in tale ipotesi « la giustizia sarebbe veramente per mezzo della Legge (Gal. III, 21) ». Ma nell’economia attuale, la salvezza dell’uomo dipende dalla grazia, e l’uomo nonna diritto di vantarsene (Gal. VI, 14). Ora se la Legge sola giustificasse, l’uomo potrebbe vantarsi di aver compiuto con le sole sue forze una magnifica prodezza; ma allora noi non avremmo più bisogno dei Cristo e « il Cristo sarebbe morto invano (Gal. II, 21) ». Pure dichiarando che la Legge « è incapace di giustificare », Paolo dice che « coloro che avranno osservato la Legge saranno giustificati (Gal. III, 21) ». Egli assicura che la Legge fu data « per (condurre a) la vita », e afferma che fu sopraggiunta « per aumentare le trasgressioni (Rom. VII, 12) ». Non vi è una flagrante contradizione in queste asserzioni? Niente affatto. La Legge per se stessa è incapace di giustificare, ma gli Ebrei non furono mai lasciati con la sola Legge. Nel dare la Legge agli Ebrei, che erano già i depositari delle promesse fatte ad Abramo, Dio voleva conferire loro la vita soprannaturale, non per mezzo della sola Legge che ne era incapace, ma per mezzo della grazia aggiunta alla Legge come un principio superiore e indipendente. Quando Dio vide che la sua prima intenzione era frustrata per colpa degli Ebrei, sanzionò il fatto compiuto e volle che il peccato abbondasse per mezzo della Legge, per far sovrabbondare la grazia (Rom. V, 20). Le due finalità non sono punto contrarie perché si muovono in piani diversi. Da quanto precede, si può vedere che la dottrina di san Paolo relativamente alla Legge mosaica è di una grandissima complessità. Proviamoci a segnarne le linee principali: Come espressione della volontà divina, la Legge è buona, santa e spirituale (Rom. VII, 12); ma considerata in se stessa essa è soltanto una luce che rischiara l’intelligenza senza dare forza alla volontà, è soltanto una barriera la quale provoca lo spirito di ribellione senza arrestarlo efficacemente; essa è dunque, per un essere corrotto, una causa accidentale di trasgressioni, ed in questo senso essa moltiplica il peccato e fa nascere l’ira (Rom. V, 15-20). Sotto l’aspetto storico, la Legge veniva dopo la promessa gratuita, assoluta, universale, eterna, che essa stessa non poteva né annullare né soppiantare né limitare né completare né restringere (Gal. III, 21). Essa era dunque, per sua natura, temporanea e locale, destinata ad un popolo unico e per un tempo determinato. Non bisognerebbe conchiudere che essa fosse nociva o inutile: era un benefizio di Dio e una prerogativa d’Israele, non soltanto come rivelazione, ma come intimazione del volere divino (Rom. IX, 4). Bene osservata, essa sarebbe stata una sorgente di meriti e una causa di giustificazione (Rom. II, 13). Questo appunto è ciò che Dio aveva di mira nel concederla: essa era data per condurre alla vita eterna (Rom. VII, 10). Infatti essa per se medesima non conferisce i l privilegio della fede e della grazia, non lo toglie neppure; ora essa veniva proposta ad un popolo che già possedeva la promessa, e da questa poteva derivare l’aiuto necessario all’osservanza salutare della Legge. onesto primo fine della Legge fu reso vano dall’indurimento degli Ebrei: la Legge infatti non oppose che un ostacolo impotente all’irrompere del peccato e al traboccare del male (Rom. VIII, 3). Dio tuttavia la mantenne per motivi degni della sua sapienza; Egli ne fece una custode attenta per preservare gli Ebrei dai contatti pericolosi, un’istitutrice incaricata di condurli al Cristo. E se il compito pedagogico della Legge fu soprattutto negativo, essa ebbe tuttavia l’onore di essere la depositaria del monoteismo e della verità rivelata (Gal. III, 24). Ma essa portava in sé germi molteplici di caducità. Il regime della Legge doveva morire di morte naturale, quando fosse giunta l’età matura del genere umano (Gal. II, 25), quando fosse venuto il momento fissato da Dio per l’emancipazione del mondo (Gal. IV, 4-5), quando fosse sonata l’ora segnata per l’adempimento della promessa fatta al Padre dei credenti (Gal. V, 4-5), quando fosse apparso il Cristo che è il suo fine e il suo limite, quando fosse inaugurata l’economia della grazia con la quale essa è, incompatibile.

4. Cosi l’umanità in cammino s’istruisce e progredisce come un uomo che dovrà vivere sempre. Questo essere collettivo che cerca oscuramente il suo destino e non lo trova se non nel Cristo, è per san Paolo il mondo: il mondo che fu già invaso dal peccato (Rom. V, 12), che si ammanta invano di sapienza (I Cor. V, 12), che Dio cerca di riconciliarsi nel Cristo (Rom. III, 19), che egli obbliga a dichiararsi debitore verso la giustizia divina (Rom. III, 19), che egli giudicherà un giorno in compagnia degli eletti (I. Cor. VI, 2). L’istruzione che il mondo va raccogliendo nel corso dei secoli e di cui è tanto orgoglioso, altro non è, in confronto con la scienza del Cristo, che un’educazione rudimentale, paragonabile all’alfabeto che s’insegna ai bambini, e san Paolo le dà il nome espressivo di elementi del mondo. Quattro volte, in due testi distinti, l’Apostolo adopera questa espressione che il contesto mette in luce. Egli scrive ai Galati: « Anche noi, quando eravamo bambini, eravamo asserviti agli elementi del mondo… Allora non conoscendo Dio, voi servivate quelli che per natura non sono dèi; ma ora conoscendo Dio o piuttosto essendo conosciuti da lui, perché ritornate a gli elementi deboli e poveri ai quali di nuovo volete assoggettarvi! Voi osservate i giorni e i mesi e le stagioni e gli anni » (Gal. IV, 3). Il pensiero dell’Apostolo è semplice: Una volta, ignorando Dio, voi servivate esseri che non avevano nulla di divino; ma ora conoscendo il vero Dio, perché vi asservite a cose vane, quali sono gli elementi dal mondo? Il contrasto è tra l’ignoranza passata e la presente che rende i Galati giudaizzanti affatto, inescusabili; e l’accento sta su la parola « servire » che indica una soggezione volontaria. Tre particolari ci aiuteranno a stabilire il senso degli « elementi del mondo ». Prima della loro conversione, gli Ebrei erano come minorenni (νήπιοι=nepioi) che in san Paolo vuol sempre dire uno stato di conoscenza imperfetta; ma oggi, illuminati dalla fede, essi hanno cessato di essere pupilli, non sono più sotto il pedagogo. Una volta essi erano sotto il giogo e la custodia della Legge e così erano asserviti agli elementi del mondo: essere liberati dalla Legge mosaica ed essere liberati dagli elementi del mondo, per l’Apostolo, è una sola e medesima cosa. In quanto ai Gentili, essi erano pure sotto il dominio degli elementi del mondo, e san Paolo rimprovera loro con un’insistenza non priva di pleonasmo, di voler ritornare a quella schiavitù, perché osservano i giorni, i mesi, le stagioni e gli anni. I Galati non volevano ritornare all’idolatria né ad un culto superstizioso degli angeli e dei geni: nell’Epistola non vi è nulla che suggerisca tale ipotesi; dappertutto non si tratta che di osservanze legali o di prescrizioni innestate sopra la Legge. Bisogna dunque dire che san Paolo comprende in una nozione generale il rituale mosaico ed i costumi religiosi del gentilesimo, per qualificarli tutti insieme come « rudimenti poveri e infermi ». È la religione cristiana che al confronto li rimpiccolisce e li schiaccia. – Coloro che negli elementi del mondo vorrebbero vedere degli esseri personali, fanno vedere che essi sono paragonati a tutori e ad economi, che sono chiamati poveri e infermi, che i Galati sono loro asserviti come erano una volta asserviti agli idoli. Ma queste ragioni sono assai deboli, e molto si stenterebbe a prenderle sul serio, se non fossero presentate con tanta sicurezza. Infatti anche la Legge è paragonata ai tutori e agli economi ed anzi è chiamata pedagogo, senza che per questo diventi una persona; l’Epistola agli Ebrei può benissimo fare menzione dell’infermità della Legge senza conferirle con questo la personalità, ed è noto che l’aggettivo povero (πτωχός =ptokos) si applica molte volte alle cose; Analmente se gli elementi del mondo rivestissero un carattere personale per il fatto che i Galati sono asserviti a loro, che cosa si dovrà dire del testo di san Paolo: « Essi servono il loro ventre e non il Cristo? ». – Il passo dell’Epistola ai Colossesi dice ancora più chiaramente che cosa sono gli elementi del mondo: “Vigilate affinché nessuno vi seduca con la filosofia e con un vano inganno, secondo la tradizione degli uomini, secondo gli elementi del mondo e non secondo il Cristo. Se siete morti col Cristo agli elementi del mondo, perché vi lasciate imporre leggi come se viveste nel mondo? Non prendere ( vi si dice), non assaggiare, non toccare! Tutto questo è di un uso pericoloso. (Sì, ma solamente) secondo i precetti e gl’insegnamenti degli uomini” (Col. II, 8). – Gli elementi del mondo non potrebbero essere meglio definiti, per una parte, dalla loro identità reale con la tradizione degli uomini, dall’altra parte, con la loro opposizione alla vera dottrina del Cristo. La sinonimia, tra elementi del mondo e tradizione degli uomini è molto chiara, perché il mondo è per san Paolo l’umanità lasciata a se stessa o sottratta all’influenza vivificatrice del Cristo, e perché tutto il contesto converge verso l’idea di una dottrina filosofica, tradizionale, elementare, che si deve correggere con l’insegnamento del Vangelo. E non si dica che la Legge di Mose, essendo un’istituzione divina, non può essere presentata come una tradizione umana; poiché, in questo caso, i falsi dottori di Colossi mescolavano alle osservanze mosaiche certe pratiche di un ascetismo arbitrario; e del resto le prescrizioni mosaiche non hanno più altro valore che quello di tradizioni puramente umane, dal momento in cui il Cristo morendo le ha inchiodate alla sua croce. L’antica legislazione, Legge imperfetta abrogata dal Vangelo, ombra che svanisce dinanzi alla nuova luce, ha fatto il suo tempo. – Ancorché per gli altri conservasse ancora un qualche valore, la Legge mosaica non ne avrebbe più per il Cristiano morto con Gesù Cristo a tutte le passate servitù. Infatti « per la Legge il Cristiano è morto alla Legge », egli non vive più « nel mondo (Gal. II, 19) » estraneo alle influenze del Cristo e ancora soggetto alle istituzioni rudimentali di altri tempi. Oramai quelle restrizioni caduche hanno perduto per lui la loro forza imperativa. Non sono più altro che « insegnamenti umani i quali possono avere una (falsa) rinomanza di sapienza, di pietà spontanea, di umiltà, di austerità, ma che in realtà, pure mortificando il corpo, non fanno che impinguare la carne (Col. Ii, 22-23) », il principio opposto all’azione dello Spirito Santo in noi. – Prescrizioni mosaiche, tradizioni sovrapposte dai rabbini al codice del Sinai, pratiche suggerite dal sentimento religioso normale o sviato, ecco che cosa indica san Paolo costantemente col nome di elementi del mondo, che l’apparizione del Cristo, nel quale sono tutti i tesori di scienza e di sapienza, dissipa come un’ombra.

5. Questo improvviso rovesciamento di cose, questo gran cambiamento di scena avviene nella pienezza dei tempi o nella pienezza del tempo (Ephes. I, 10). Le due espressioni non sono totalmente sinonime: la seconda indica l’istante in cui l’umanità uscita dall’infanzia e resa capace di istituzioni più robuste, più virili, entra in possesso dei suoi diritti, dei suoi privilegi e della sua eredità: la prima implica una serie di periodi storici che si succedono secondo un disegno prestabilito, come il ciclo regolare delle stagioni porta a volta a volta le gemme, i fiori e i frutti. La pienezza del tempo è il termine liberamente fissato dalla sapienza divina; la pienezza dei tempi è il coronamento delle preparazioni provvidenziali.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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