DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE, VI quæ superfuit Post Epiphaniam

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE quæ superfuit Post Epiphaniam VI.

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio
Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, semper rationabília meditántes, quæ tibi sunt plácita, et dictis exsequámur et factis.
[Concedici, o Dio onnipotente, Te ne preghiamo: che meditando sempre cose ragionevoli, compiamo ciò che a Te piace e con le parole e con i fatti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses
1 Thess 1: 2-10
Fratres: Grátias ágimus Deo semper pro ómnibus vobis, memóriam vestri faciéntes in oratiónibus nostris sine intermissióne, mémores óperis fídei vestræ, et labóris, et caritátis, et sustinéntiæ spei Dómini nostri Jesu Christi, ante Deum et Patrem nostrum: sciéntes, fratres, dilécti a Deo. electiónem vestram: quia Evangélium nostrum non fuit ad vos in sermóne tantum, sed et in virtúte, et in Spíritu Sancto, et in plenitúdine multa, sicut scitis quales fuérimus in vobis propter vos. Et vos imitatóres nostri facti estis, et Dómini, excipiéntes verbum in tribulatióne multa, cum gáudio Spíritus Sancti: ita ut facti sitis forma ómnibus credéntibus in Macedónia et in Achája. A vobis enim diffamátus est sermo Dómini, non solum in Macedónia et in Achája, sed et in omni loco fides vestra, quæ est ad Deum, profécta est, ita ut non sit nobis necésse quidquam loqui. Ipsi enim de nobis annúntiant, qualem intróitum habuérimus ad vos: et quómodo convérsi estis ad Deum a simulácris, servíre Deo vivo et vero, et exspectáre Fílium ejus de coelis quem suscitávit ex mórtuis Jesum, qui erípuit nos ab ira ventúra.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol IV, Omelia XXIII – Torino, 1899]

“Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, facendo incessantemente memoria di voi nelle nostre preghiere. Ricordando la vostra fede operosa e la vostra fede travagliata e la costante speranza nel Signor nostro Gesù Cristo, al cospetto di Dio, Padre nostro, sapendo, o fratelli a Dio cari, la vostra elezione. Poiché il nostro Evangelo presso di voi non consistette soltanto in parole, ma anche in potenza ed in Spirito Santo, ed ogni pienezza, come avete veduto quali fummo tra voi per voi. E voi diventaste imitatori nostri e del Signore, ricevendo la predicazione fra grandi tribolazioni, con gaudio dello Spirito Santo. Tantoché siete stati di esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. Perché non solo la parola del Signore è passata a voi nella Macedonia e nell’Acaia, ma anche la fede che avete in Dio si è divulgata in ogni luogo, sicché non è bisogno di parlarne. Perché essi stessi raccontano di noi quale fosse la nostra entrata tra voi, e come dagli idoli vi convertiste a Dio, per servire al Dio vivo e vero, e per aspettare dal cielo il Figlio di lui (cui suscitò dai morti) Gesù, il quale ci salverà dall’ira ventura „ (I ai Tessalonicesi, I, 2-10).

In ordine di tempo questa lettera di san Paolo ai fedeli di Tessalonica, oggi dì Salonikì, una delle capitali della Macedonia, è la prima delle quattordici lettere che di lui abbiamo. L’Apostolo, vi aveva in breve tempo fondata ma Chiesa numerosa e fiorente (Atti Ap. XVII), composta specialmente di Gentili; poi costretto a partire di là per le persecuzioni degli Ebrei, era andato a Berea, poi ad Atene e finalmente a Corinto. Da Corinto aveva mandato Timoteo a Tessalonica, ed avute da lui ottime novelle di quella Chiesa, scrisse questa prima lettera, l’anno 53 o forse 54 dell’èra nostra. Essa è quasi tutta morale, e le sentenze riportate, che formano il primo capo, sono uno sfogo affettuoso del suo cuore paterno, e contengono una lode grandissima della fede di quei suoi figliuoli. – Ed ora alla spiegazione. Questa prima lettera ai Tessalonicesi, come parecchie altre di S. Paolo, è scritta a nome suo e di alcuni altri, suoi compagni e cooperatori nelle fatiche dell’apostolato. I suoi compagni e cooperatori qui nominati sono Silvano o Sila, e Timoteo, e perciò non vi deve far meraviglia se l’Apostolo parla in comune e, secondo il suo costume, comincia dagli auguri e dai rallegramenti, dicendo: “Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi …” Tutto ciò che gli uomini fanno di bene, in qualunque ordine di cose, è sempre fatto con l’aiuto di Dio, senza del quale essi non possono far nulla: è dunque giusto che del bene che l’Apostolo vedeva nei suoi Tessalonicesi, ne rendesse grazie a Dio, il quale ne era la causa prima e principale. Ben è vero che questo bene era proprio dei Tessalonicesi, ma la vera carità ci fa considerare il bene altrui come nostro; il perché come del bene nostro, così del bene che vediamo in altrui, dobbiamo ringraziare Iddio, la carità rendendo comune ogni cosa. La ragione, e più assai lo spirito di fede, ci portano in tutte le cose e in tutti gli avvenimenti ad elevarci al di sopra della terra, a fissare gli occhi della mente in Lui, che è il supremo Reggitore e fonte d’ogni bene e ringraziarlo dei doni, dei quali ci è largo ad ogni istante: ecco perché S. Paolo apre la sua lettera con quelle parole: “Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi,, . Non fa eccezione per alcuno, non mette restrizioni di tempo: “Per tutti e sempre. „ – E non solo S. Paolo con i suoi colleghi porge vivi rendimenti di grazie a Dio per i suoi figli spirituali, ma protesta di fare “incessantemente memoria di essi nelle sue preghiere.„ La carità vuole che procuriamo il bene per noi possibile ai nostri fratelli, giacché una carità inoperosa non si può nemmeno concepire. Ma tu dici: Io non posso far nulla di bene ai miei fratelli; sono povero, sono ignorante, i miei fratelli sono lontani, sono moltissimi, non li conosco nemmeno di nome: qual bene volete ch’io possa fare ad essi?  Grandissimo ed ogni giorno. — In qual maniera? — Facilissima. Non puoi tu pregare il buon Dio, il Padre celeste per essi? — Sì. — Ebbene, pregalo adunque per te, per i fratelli tuoi, per tutti, siano credenti o non credenti, siano buoni o malvagi, e tu hai procurato loro quel maggior bene, che per te sia possibile: tu hai imitato l’Apostolo, che nelle sue preghiere si rammentava sempre dei suoi cari neofiti di Tessalonica. La preghiera fatta a vicenda ci stringe tutti nei dolci vincoli della carità, ci affratella e sale a Dio più accettevole, è l’aiuto scambievole più facile e più efficace che possiamo prestarci quaggiù sulla terra. S. Paolo, mentre ringrazia Dio e lo prega per i Tessalonicesi, rammenta eziandio le ragioni, che a lui li facevano cari. Quali ragioni? Anzitutto la loro fede operosa: Operis fidei vestræ. Fondamento della vita cristiana, lo dissi più volte, è la fede, il conoscimento cioè di Dio e delle verità rivelate per Lui, che teniamo con la più irremovibile certezza. Ma che vale il conoscimento della verità senza le opere della verità? Ciò che vale il fondamento senza la fabbrica, il seme senza il frutto, il disegno senza l’edificio. La fede si compie nelle opere, e per questo S. Paolo, facendo l’elogio dei Tessalonicesi, scrive che ricordava bene la loro fede operosa, cioè la loro condotta conforme alla fede. Dilettissimi! Noi, per divina bontà, abbiamo la fede dei Tessalonicesi: ma con essa abbiamo anche le loro opere? Se Paolo comparisse in mezzo a noi e fosse testimonio della nostra condotta quotidiana, potrebbe dire di noi: « Vedo la vostra fede operosa? „ Io non lo so! E la risposta la lascio alle vostre coscienze. Ciò che so e vedo è che molti Cristiani vivono come se non fossero Cristiani, a talché se si trovassero in mezzo a pagani difficilmente si potrebbero da loro distinguere quanto alla condotta morale. Sono Cristiani perché battezzati e perché essi stessi si professano Cristiani; ma le loro opere ohimè! non sono da Cristiani. Quale contraddizione! quale vergogna per il nome Cristiano! quale argomento di bestemmia contro la nostra santa Religione! Dirsi Cristiani e vivere quasi da pagani! “La fede, scrive altrove l’Apostolo, è la prima, poi la speranza, e poi la carità, e maggiore di tutte, quasi corona delle altre, è la carità : „ sono quelle tre virtù, che avendo per oggetto Dio, si dicono anche teologali, e senza di esse è impossibile salvarci. Qui pure san Paolo le ricorda, invertendo lievemente l’ordine; infatti dice: “Rammentando l’operosa vostra fede e la carità travagliata e la costante speranza: Laboris charitatis et sustìnentìæ spei. Penso che S. Paolo chiami travagliata la carità e costante la speranza dei Tessalonicesi, perché dovevano aver sofferte molte molestie e gravi tribolazioni per la fede, ancorché noi non ne conosciamo i particolari; ma in quei principi della Chiesa ed in quei tempi le prove più dure e le persecuzioni più crudeli erano pressoché quotidiane; da una parte gli Ebrei, sempre nemicissimi dei Cristiani, dall’altra i Gentili, armati della legge e forti delle tradizioni pagane, non davano tregua ai seguaci del Vangelo, vessandoli ed opprimendoli in mille guise. Essi non potevano attingere la forza necessaria per resistere a sì fieri cimenti che nella fede, nella speranza e nella carità, i tre vincoli che ci legano a Dio e che ci fanno forti della sua fortezza. Noi pure, o cari, siamo ogni giorno sottoposti alle prove della vita cristiana: non saranno sì dure come quelle dei primi Cristiani, no: ma sono prove spesso penose, lunghe, e sotto le quali non pochi dei fratelli nostri soccombono. Vogliamo agevolare e assicurare la vittoria? Con la fede leviamo a Dio la nostra mente, con la speranza e con la carità leviamo a Lui le nostre aspirazioni e il nostro cuore, a Lui teniamoci saldamente uniti, e la vittoria non potrà fallire. Ho visto assai volte una navicella con salda fune raccomandata ad una massiccia colonna di pietra ergentesi sulla riva: i venti qua e là furiosamente la trabalzavano, e ad ogni istante pareva la dovessero sommergere o sfasciare; ma a poco a poco la procella cessava, le onde si calmavano e la navicella appariva intatta, ferma ai piedi della colonna, e quasi riposante sulle acque. Ecco un’immagine dell’anima nostra, allorché con la triplice fune della fede, della speranza e della carità sta fortemente unita a Dio. Finché con questa triplice fune stiamo uniti a Dio, non temete, il naufragio è impossibile. Rammentando io, anzi, vedendo io, così l’Apostolo, queste prove, queste opere della vostra fede, della vostra carità, della vostra speranza, ne traggo argomento sicuro, che siete stati veramente eletti da Dio, che avete la sua grazia e siete cari a Lui: Scientes, fratres dilecti a Deo, electionem vestram. Allorché noi vediamo un albero sostenere il furore del vento, diciamo: le sue radici sono ben salde e profonde, e gagliardo il suo tronco: similmente l’Apostolo, vedendo la fermezza nella fede dei suoi Tessalonicesi, e rimirando le opere della loro carità, ne arguisce la certezza della loro elezione e l’abbondanza della grazia divina nei loro cuori, perché dall’abbondanza e dalla bontà dei frutti si conosce l’albero. L’Apostolo prosegue, svolgendo più ampiamente questo pensiero, e dice: “Poiché il nostro Evangelo presso di voi non consistette soltanto in parole, ma sì ancora in potenza e in Spirito Santo, ed in ogni pienezza, come vedeste quali fummo in mezzo a voi per voi. „ Bene a ragione, così suona il linguaggio dell’Apostolo, bene a ragione voi rimanete saldi all’insegnamento ch’io vi ho dato, perché le prove ch’io vi diedi della sua verità e divina origine non si riducevano a parole: voi le vedeste nei miracoli, che Iddio a sua confermazione operò e nella diffusione mirabile dei doni dello Spirito Santo, che fu sì piena e sovrabbondante: prove queste che Iddio si compiacque operare per mio mezzo fra voi e a vostro beneficio. L’uomo, dice sapientemente S. Tommaso, non crederebbe le verità della fede se non vedesse che è dover suo il crederle. Se così non fosse, parliamo degli adulti, che si convertono alla fede, la loro fede non sarebbe ragionevole. Chi è fuori della Chiesa non può entrare nella Chiesa che seguendo la ragione, la quale gliene mostra la divina origine, onde i Padri dissero che la ragione è il pedagogo, che guida alla fede. Non occorre qui avvertire che la grazia divina opera internamente prevenendo ed accompagnando i nostri passi. Ora come l’uomo può conoscere essere dover suo il credere le verità insegnate dalla fede? Forse perché con la sua ragione le conosce vere in se stesse, come le altre verità d’ordine naturale? No; perché queste verità, fossero anche tutte di ordine naturale, non tutti gli uomini son capaci di intenderle; una gran parte poi di esse sono sopranaturali, e superano al tutto le forze della nostra ragione. In qual modo adunque possiamo noi conoscere il dovere che ci stringe di ammetterle? Un uomo si presenta a voi: egli vi insegna una dottrina che non comprendete, vi assicura che è vera: voi lo conoscete quell’uomo: è egli onesto, pieno di sapienza, né vi è possibile nemmeno sospettare che possa o voglia ingannarvi. Sul campo di battaglia ad un generale si presenta un ordine, si comanda un movimento, del quale non vede la ragione, che anzi gli pare contrario alla ragione. Il generale guarda l’ordine scritto, riconosce la firma del suo duce superiore; non esita un istante: ubbidisce. Voi, accogliendo quella dottrina, che non comprendete: il generale ubbidendo a quel comando inesplicabile, operate forse contro ragione? No; anzi, operate secondo la ragione, perché è la ragione, la qual vuole che l’uomo si rimetta al giudizio di chi conosce essere meritevole di piena fiducia. Voi non comprendete la cosa in sé, ma la comprendete con la mente di chi sapete che la comprende. È il caso nostro, era il caso dei Tessalonicesi. Essi per fermo non potevano comprendere tutte le verità che S. Paolo insegnava loro; ma vedevano quest’uomo tutto amore della verità, disinteressato: lo vedevano predicare una dottrina che non gli fruttava nessun vantaggio materiale, che gli imponeva sacrifici d’ogni maniera e lo metteva a pericolo della vita stessa; l’udivano affermare aver egli stesso veduto Cristo risorto; lo vedevano operare miracoli splendidi, indubitati, sotto i loro occhi, in conferma di ciò che insegnava; lo vedevano adorno d’ogni virtù: come dubitare della dottrina che annunziava? Era dunque ragionevole credere a tutto ciò che insegnava, com’è ragionevole che noi pure crediamo, appoggiati alle stesse prove che n’ebbero i primi cristiani, e che non variano per mutar di tempi, anzi acquistano col tempo maggior forza ed evidenza. – S. Paolo continua l’elogio dei Tessalonicesi e le sue congratulazioni, dicendo: “Voi foste imitatori nostri e del Signore, accogliendo la predicazione, fra grandi travagli, con gaudio nello Spirito Santo. „ Voi, o Tessalonicesi, imitaste me ed i miei compagni e cooperatori nel ministero apostolico; che dico: Imitaste noi! Dirò meglio, imitaste il Signor nostro Gesù Cristo. In che cosa? “Accogliendo la verità per noi predicata ed accogliendola in mezzo a molti e grandi travagli. „ Qui si fa manifesto che i buoni Tessalonicesi avevano dovuto soffrire assai: In multa tribulatione, per la fede che avevano accolto. Ma da veri discepoli di S. Paolo e di Gesù Cristo, in mezzo ai contrasti ed ai travagli sofferti per la fede, “Erano anche ripieni di gioia — Cum gaudio Spiritus Sancti. „ Quale esempio di fede e di fortezza d’animo ci danno questi primi Cristiani! vessati, tribolati, perseguitati dalle male lingue e peggio, non venivano meno, e lungi dal lagnarsi e darsi per vinti, si rallegravano. Questo è proprio, grida il Crisostomo, di coloro che son fatti superiori alla natura, e per poco non sentono i dolori, fatti simili a Gesù Cristo che, percosso, coperto di sputi, confitto alla croce, godeva; soffriva nel corpo, ma godeva nello spirito. Non è proprio dei dolori apportare gioia, ma la gioia deriva dal patire per Cristo e dal pensiero che attraverso al fuoco delle tribolazioni si passa, mercé la grazia divina, al riposo eterno. Questa vostra condotta, prosegue S. Paolo, tessendo sempre le lodi dei Tessalonicesi, è tale, “che siete stati d’esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. „ Voi, o Tessalonicesi, imitando noi, come noi imitiamo Cristo, sulla gran via della croce, avete l’onore e la gloria d’essere modelli a tutti i credenti della Macedonia non solo, ma di tutta la Grecia. Lode più magnifica di questa non poteva farsi a quella cristianità. Come ciascun cristiano deve vivere in guisa da presentare nella propria condotta un modello da potersi imitare dai suoi fratelli, così ogni famiglia, ogni parrocchia. Carissimi! Ciascuno di noi è tale? Son tali le nostre famiglie e la nostra parrocchia? O non abbiamo per avventura da arrossire? A ciascuno di noi la risposta. Era sì luminoso l’esempio dei Tessalonicesi in Macedonia e in tutta la Grecia, che S. Paolo francamente soggiunge: “Non solo la parola del Signore è proceduta da voi nella Macedonia e nell’Acaia, ma anche la fede, che avete in Dio, si è divulgata in ogni luogo, sicché non ci è mestieri parlarne. „ Le quali parole significano che la fama della predicazione evangelica fatta da Paolo ai Tessalonicesi, per opera di questi, ebbe un’eco profonda in tutte le regioni vicine di Macedonia e d’Acaia o Grecia, e si sparse largamente per ogni dove; e non solo la fama della loro conversione risuonò in tutti i paesi finitimi, ma la loro fede, provata dalla santità della vita, si propagò per guisa, che l’Apostolo non aveva bisogno di farla conoscere. I Tessalonicesi, con la franca professione della fede e con la vita virtuosa, con la quale manifestavano ed onoravano la fede stessa, in certo modo avevano esercitato nei paesi vicini il ministero apostolico, in guisa che Paolo non aveva quasi più necessità di predicare. Essi, i Tessalonicesi, avevano narrato a tutti la venuta dell’Apostolo fra loro, e come avevano lasciato il culto degli idoli e si erano dati al servizio del Dio vivo e vero; il Dio vivo e vero qui è detto per opposizione agli dei od idoli, che non erano né vivi, né veri, ma creazioni dell’ignoranza e della impostura. Ancora una volta ci si fa conoscere la grande efficacia dell’esempio: esso è una predicazione eloquentissima per guisa, che in qualche modo sembrava pareggiare la predicazione stessa dell’Apostolo e gli faceva dire: “A me ornai non occorre parlare. „ Dove si conosce la vostra conversione e la vostra fede è quasi inutile la mia parola. Per opera vostra, o Tessalonicesi, i paesi vicini hanno potuto apprendere, che è dovere volgere le spalle agli idoli e servire al vero Dio; non solo questo hanno potuto apprendere, continua l’Apostolo, ma che per noi “si aspetta dal cielo il Figlio di Dio, Gesù, che fu risuscitato. „ È stile di S. Paolo condensare in un periodo le verità più importanti, perfino negli auguri e nei ringraziamenti, e qui ne dà un saggio. Con la conversione dal gentil esimo a Dio egli unisce il termine ultimo di tutte le cose, che è la venuta di Cristo giudice e il giudizio finale, che tutti ci aspetta. È questa una delle verità capitali della nostra fede, che se fosse più spesso richiamata alla nostra mente, scuoterebbe la nostra pigrizia, ci riempirebbe d’un santo timore e ci renderebbe più solleciti nell’adempimento dei nostri doveri. L’uomo che sovente pensa al conto strettissimo che dovrà rendere a Dio di tutta la sua vita, ed alla sentenza irrevocabile che le terrà dietro, non può non sentirsi fortemente eccitato a vivere cristianamente. In alto le menti ed i cuori, sembra gridarci l’Apostolo … in alto! Ricordate che delle opere vostre, delle vostre parole, dei vostri pensieri ed affetti risponderete in un giorno solenne a quel Gesù, che vi ho predicato, che è venuto per salvarci dal peccato, e per conseguenza per salvarci dalla pena che accompagna il peccato, che è l’ira sua e l’eterna condanna.

Graduale
Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sæcula. 
[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano. V. In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.
S. Matt XIII: 31-35
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile est regnum cœlórum grano sinápis, quod accípiens homo seminávit in agro suo: quod mínimum quidem est ómnibus semínibus: cum autem créverit, majus est ómnibus oléribus, et fit arbor, ita ut vólucres cœli véniant et hábitent in ramis ejus. Aliam parábolam locútus est eis: Símile est regnum cœlórum ferménto, quod accéptum múlier abscóndit in farínæ satis tribus, donec fermentátum est totum. Hæc ómnia locútus est Jesus in parábolis ad turbas: et sine parábolis non loquebátur eis: ut implerétur quod dictum erat per Prophétam dicéntem: Apériam in parábolis os meum, eructábo abscóndita a constitutióne mundi.

OMELIA II

[Mons. Bonomelli: ut supra, Omelia XXIV- Torino, 1899; imprim.]

“Gesù agli Apostoli ed alle turbe propose un’altra parabola, dicendo: Il regno dei cieli è somigliante ad un granello di senapa, che un uomo prende e semina nel proprio campo. Esso è bene il più piccolo di tutti i semi, ma quando sia cresciuto, è maggiore di tutti gli erbaggi e diventa albero, tantoché gli uccelli dell’aria vengono e si riposano tra i suoi rami. Un’altra parabola disse loro: Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna piglia e mescola in tre misure di farina, finché tutta sia lievitata. Tutte queste cose disse Gesù alle turbe sotto la forma di parabole, e non parlava loro senza parabole, affinché si adempisse la parabola del Profeta, che dice: Aprirò in parabole la mia bocca e manifesterò cose state occulte fino dall’origine del mondo „ (S. Matteo, capo XIII, 31-35).

Allorché si seppe che Erode aveva gettato in carcere Giovanni il Precursore, Gesù lasciò la Giudea, e propriamente Gerusalemme, dove erasi recato per la festa dei Tabernacoli, e dove aveva levato di sé e della sua predicazione gran nome, e ritornò nella sua Galilea, passando di villaggio in villaggio, di città in città, annunziando quello ch’egli chiamava il regno dei cieli, ossia il Vangelo e il compimento delle promesse divine fatte per i profeti. In questo periodo della sua predicazione egli recitò molte parabole, che riflettono la natura del luogo e degli uomini ai quali predicava. Egli era in Galilea, chiamata da Plinio il giardino del frumento, e posta in parte alle rive del lago sì pescoso di Genesaret o Tiberiade. Ecco il perché delle sue parabole del seme e della zizzania, della rete gittata nel lago e del discernimento della retata. A questo tempo appartengono le due parabole che avete udite e che vi debbo spiegare. Esse sono distinte, è vero, ma il significato è identico e tende a mostrare la diffusione e la efficacia della dottrina evangelica, o della Chiesa, che è il regno di Cristo. Ed ora veniamo alla spiegazione delle due parabole. Gesù aveva recitata la parabola del buon seme, in mezzo al quale il nemico aveva poi sparso la zizzania, e per mostrare che il buon seme, cioè i fedeli, sarebbero cresciuti in gran numero, aggiunse quest’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è somigliante ad un grano di senapa, che l’uomo piglia e semina nel suo campo. „ Parve ad alcuno che la parola regno de’ cieli qui potesse indicare Gesù Cristo stesso; ma non si può ammettere, perché egli è il padrone, il re di questo regno e non il regno stesso. Senza di che Gesù Cristo è rappresentato chiaramente nell’uomo che semina il granello di senapa nel suo campo: Accipiens homo seminavit in agro suo. Nessuno di voi ignora che cosa sia la senapa, il cui sapore acre in sommo grado, fino a spremere le lacrime a chi se ne ciba, per molti rispetti è utile come condimento e come medicina. Da noi è pianta umile, ma in Oriente, e massime in Palestina, ha uno sviluppo considerevole e cresce albero alto.” Il granello di senapa, prosegue Gesù nella parabola, è il più piccolo di tutti i semi, ma quando sia cresciuto, è maggiore di tutti gli erbaggi, tantoché gli uccelli dell’aria vengono a riposarsi tra i suoi rami. „ Veramente il seme di senapa non è il più piccolo di tutti i semi: ve n’hanno altri più piccoli ancora, e non pochi, ma Cristo lo disse il più piccolo di tutti per modo di dire, per indicare il suo scopo, ed anche perché in generale questa doveva essere la credenza dei suoi uditori. Un granello sì piccolo, dice Cristo, a poco a poco cresce e diventa albero: similmente avverrà, così Egli, del regno dei cieli, della mia Chiesa. Essa è piccola, pusillus grex; è un gruppo di poveri pescatori e pubblicani, che mi seguono, ignoti al mondo e disprezzati; ma ben presto il piccolo gregge crescerà, il piccolo seme germoglierà in albero grandioso e stenderà per ogni dove i suoi rami. Era questa una figura, con la quale Gesù adombrava la sua Chiesa e l’incremento miracoloso che avrebbe ben presto avuto. – È pur sempre vera e ripiena di profonda sapienza quella osservazione volgare di S. Agostino, che le cose più grandi, avendole sempre sott’occhio, ci sembrano comuni: Assiduidate vilescunt. Quale spettacolo più grande e sublime del sole, che illumina e riscalda la terra! Dei milioni di stelle, che dipingono il cielo per tutti i tempi! Della terra, che in primavera risorge quasi da morte a vita, e qual giovane sposa si ammanta dei più vaghi colori e spande intorno i suoi profumi! E noi per poco non vi poniamo mente, perché l’abitudine ne scema e quasi ne toglie la grandezza: Assiduitate vilescunt. E ciò che avviene a noi considerando la Chiesa: il vederla al presente stabilita su tutti i punti della terra, in tutta la maestà della sua gloria e delle stupende sue creazioni ci fa quasi dimenticare l’umilissima sua origine e quasi non ci lascia vedere il miracolo della sua propagazione e conservazione. Ma piacciavi, o cari risalire i tempi: portiamoci là in Galilea, in mezzo a quei campi, dove Gesù parlava agli Apostoli ed alle turbe. Rimiratelo, questo divino Maestro: Egli fino a ieri è vissuto in una officina, lavorando come un operaio qualunque: è povero, non ha dove posare il suo capo stanco: per giunta è fieramente combattute dagli uomini del potere e della scienza: con Lui stanno alcuni pescatori ed alcuni pubblicani. poverissimi anch’essi: non scienza, non potenza, non ricchezza: non appella alle passioni ma le combatte: non blandisce il popolo, ma lo ammaestra Egli annunzia le più amare verità; è un drappello di dodici uomini illetterati, ignari del mondo, ingenui come fanciulli, vissuti sempre in quelle regioni incantevoli, sì, ma affatto isolate dal rimanente del mondo, del mondo della scienza, della forza, della grandezza. Il Capo di questo drappello non si illude sulle immense difficoltà della sua missione: sa con tutta certezza, che nella lotta con i suoi nemici soccomberà, morrà in croce, e lo sa per modo che ripetutamente l’annunzia ai suoi cari, i quali non lo possono credere. Questo piccolo drappello di uomini, che vanno errando per le colline di Galilea, senza tetto, senza danari, senza scienza umana, mendicando dì per dì il pane, ditemi, non è forse la cosa più debole, più spregevole del mondo? Non è forse vero ch’esso è simile al granellino di senapa, che l’uomo semina nel suo campo? Nulla di più evidente. Ebbene: vedete ora com’esso è cresciuto ed ha allargato i suoi rami. Quei dodici compagni di Gesù Cristo sono divenuti mille: quei settantadue discepoli sono diventati centinaia di migliaia di sacerdoti: il Vicario di Gesù Cristo siede dove a quei giorni  sedeva l’imperatore, padrone del mondo allora conosciuto: sono scomparsi gli Erodi, i farisei, gli scribi, i grandi d’allora; si ripete appena il nome dei consoli, del senato, degli imperatori, che stringevano a quei tempi in pugno le sorti dei popoli: caddero e risorsero troni, dinastie, repubbliche: si mutarono codici, istituzioni, scienze: un popolo sorse sulle rovine dell’altro per cadere anch’esso e divenire sgabello d’un altro; ma l’opera di Gesù Cristo rimase e rimane, e l’albero ogni secolo, ogni anno, ogni giorno più grandeggia. Intorno a quest’albero gigantesco, i cui rami stendono l’ombra su tutta la terra, i più gran geni — questi uccelli del cielo, dalle ali possenti — stanchi del loro volo e annoiati della loro sapienza, di secolo in secolo vengono a riposarsi all’ombra della sua dottrina, che sola dà pace, conforto e luce. “Ciò che Gesù allora vedeva e vaticinava, i suoi Apostoli non potevano che crederlo e sperarlo; noi, più felici di loro, lo vediamo. L’opera di Gesù è il prolungamento della sua Persona; il tempo ci separa da quella, ma ci fa toccar questa. „ Per vedere ed annunziare con tanta sicurezza e chiarezza l’incremento meraviglioso di quel picciolo grano, bisognava leggere nel futuro, signoreggiare gli eventi, in una parola essere arbitro assoluto d’ogni cosa; tale adunque era Gesù Cristo allorché mille e novecento anni or sono, in un angolo della Galilea, ai suoi poveri discepoli prediceva tanta grandezza. – Cercano i Padri perché mai Gesù Cristo fra i tanti semi scelse quello della senapa, e ad esso volle paragonare la miracolosa espansione del suo regno sulla terra? Perché non scelse il cedro, il terebinto, il pino, od altro albero più nobile e più eccelso, e perciò più atto ad adombrare le future grandezze della sua Chiesa? Perché, risponde S. Agostino, come il grano di senapa condisce e rende saporosi i cibi, così la dottrina del Vangelo, coll’esempio di Cristo, rende dolce e soave ciò che è duro ed aspro; come il grano di senapa caccia dal corpo gli umori viziosi, così l’insegnamento di Gesù Cristo disperde il mal germe delle nostre passioni; come il fuoco purifica ogni cosa, così la dottrina di Cristo purifica le menti ed i cuori. A questa breve parabola Gesù Cristo ne fa seguire un’altra, più breve ancora, e pur essa intesa, sotto altra forma, a riconfermare la stessa verità. – “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prende e mescola in tre misure di farina, finché tutta sia lievitata. „ Vi piaccia, o dilettissimi, richiamare alla vostra mente una verità che ho tante volte toccata, ma che è sì cara e sì bella, che non posso non ripeterla ancora. Le verità che Gesù insegna, sono altissime e veramente divine: eppure vedete con quanta semplicità le annunzia! Parla al povero popolo: si acconcia alla sua corta intelligenza, discende sino a lui, Egli che è l’eterna sapienza: piglia le immagini più comuni, che erano sotto gli occhi di tutti mentre parlava, che tutti vedevano: il grano di senapa, l’albero, gli uccelli che vi si riparano; non basta: il lievito, che la donna mescola con la farina. Quali immagini di queste più volgari, più facili a comprendersi! E di queste Gesù si vale per sollevare le menti dei suoi cari alle più sublimi verità! Il suo linguaggio è semplice senza volgarità, è chiaro senza sforzo e senza studio, è eloquente senza arte, pieno di affetto senza perdere punto di autorità: udendolo si pensa alla verità senza badare alla forma: somiglia ad un cristallo terso e polito, attraverso al quale passa un raggio di luce: non si vede che la luce. Si direbbe che la verità è nata con quella veste; tanto le sta bene! Quale insegnamento per noi, maestri del popolo, dispensatori della divina parola! Come dobbiamo aver sempre dinanzi  alla mente questo divino Modello, massime quando parliamo a voi, o figli del popolo! – Come dobbiamo imitare la sua chiarezza e semplicità, il suo fare pieno di dignità e di affabilità, la sua bontà paterna con tutti, e particolarmente coi poveri, con gli ignoranti, non cercando di piacere, ma di giovare! O divino Maestro, fate che camminiamo sempre sull’esempio che ci avete dato, che non predichiamo noi stessi, ma la verità, che cerchiamo solamente la vostra gloria e la salvezza delle anime, per le quali avete versato il vostro sangue! – Ed ora applichiamo la parabola. Il lievito si forma della farina stessa opportunamente inacidita: mescolato poi con la farina, o meglio, con la pasta, in breve la lievita  tutta, la dilata e fa sì che il pane sia gustoso, facile a digerirsi e salubre. Chi potrebbe nutrirsi di pane non lievitato? Ora che rappresenta esso questo lievito? Gesù Cristo, o la sua dottrina, o la sua grazia, che poi è lo stesso. Che rappresenta essa quella farina, o quella pasta, che ha bisogno di ricevere il lievito? L’uman genere intero! Il Verbo divino, l’infinita sapienza e virtù del Padre si unisce all’anima e al corpo assunto in unità di persona nel seno illibato di Maria, e a quell’anima e a quel corpo benedetto comunica tutta la pienezza dei suoi doni, tantoché nella stessa umanità assunta egli diventa centro di luce, di verità e di grazia, diventa, usiamo la metafora del Vangelo, il lievito divino di tutto l’uman genere, perché tutti da Lui, e da Lui solo riceviamo ogni bene: Et de plenitudine ejus nos omnes accepimus. E vedete come opera questo lievito mescolato con la farina: opera a poco a poco, senza rumore: opera, ma a patto che venga a contatto con la farina: opera, comunicando a questa la sua virtù e diffondendola in ogni parte secondoché essa è preparata a riceverla: e la comunica in guisa che essa stessa, la farina lievitata, diventa atta a comunicare ad altra indefinitamente il lievito. Questa virtù od efficacia del lievito per se stessa non cessa mai per comunicarsi che faccia. Così avviene del lievito divino di Gesù Cristo e del suo Vangelo: esso si comunica alle anime a poco a poco, le penetra, le investe, le trasforma senza rumore, direi quasi, senza sforzo; ma per operare è necessario che vi sia qualche contatto tra Gesù Cristo e l’anima nostra. Questo contatto si ottiene mediante la parola di Dio, che per l’orecchio o per l’occhio scende al cuore; si ottiene mediante l’unione con la Chiesa, nella quale Gesù Cristo vive ed opera; si ottiene coi Sacramenti, mezzi o canali infallibili della grazia; si ottiene soprattutto ricevendo in noi debitamente la stessa adorabile persona di Gesù Cristo nella S. Eucaristia. E si riceve questo lievito divino della verità e della grazia da ciascuno che il voglia, in guisa che poi lo può comunicare ad altri, né, per parteciparsi che taccia, scema mai punto. Il lievito divino, portato da Cristo e deposto nella sua Chiesa, ogni giorno si dilata, e verrà giorno nel quale tutta l’umana natura ne sarà penetrata e felicemente trasformata. Portatori e spanditori di questo lievito santo, furono primieramente gli Apostoli e i loro successori e noi, secondo la misura delle nostre forze, proseguiamo l’opera loro. E guai a noi se non ci adopereremo secondo le nostre forze affinché il vivifico lievito si spanda nelle anime alle nostre cure commesse. – Riportata la brevissima parabola del lievito, l’Evangelista soggiunge: “Tutte queste cose disse Gesù con parabole alle turbe, e senza parabole non parlava loro. „ Da questa affermazione di S. Matteo parrebbe che Gesù presentasse sempre la sua dottrina in forma di parabole, e non mai altrimenti; la qual cosa è contraddetta dal fatto che Gesù molte volte annunziò le verità più alte senza velo di parabole, e ne siano prova irrefragabile i capi V, VI e VII dello stesso S. Matteo, dove si riporta, possiam dire, tutta la dottrina morale evangelica, nel discorso detto del monte, né vi è traccia di parabola. Come dunque si hanno da intendere queste parole dell’Evangelista? Nelle parabole riferite da S. Matteo in questo luogo, e nelle due per noi interpretate, si ribadisce costantemente l’idea della Chiesa e del regno dei cieli, che deve stabilirsi e propagarsi per ogni dove; è questa la verità che Gesù Cristo presenta sempre sotto il velame della parabola, sia perché ne rendeva più facile la intelligenza alle anime rette, sia perché non era prudenza svelare quel gran fatto futuro in tutta la sua grandezza: avrebbe urtato molti pregiudizi e avrebbe trovato increduli non pochi, né per allora v’era necessità urgente di annunziarlo apertamente. Alle parole che avete udite, l’Evangelista, a modo di conferma e spiegazione, aggiunge queste altre, con le quali si chiude la nostra omelia: “Acciocché si adempisse la parola del profeta, che dice: Aprirò in parabole la mia bocca: manifesterò cose state occulte fino dall’origine del mondo. „ Gesù parlava in parabole, così S. Matteo, adempiendo il vaticinio di Davide (Ps. LXXVII), che l’aveva tanti secoli prima annunziato, e facendo conoscere chiaramente agli uomini ciò che fino a principio i profeti ed i patriarchi avevano oscuramente promesso e indicato. Poiché è cosa manifesta che tutto ciò che Gesù Cristo fece e insegnò, in qualche modo, in Mosè e nei profeti era contenuto come in germe: tutta la economia patriarcale, profetica e mosaica era l’introduzione al regno di Cristo, era l’adombramento della sua dottrina, onde Cristo stesso appella ai profeti e a Mosè e protesta che era venuto, non a distruggere, ma sì a compiere la legge.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Hæc nos oblátio, Deus, mundet, quǽsumus, et rénovet, gubérnet et prótegat. [Questa nostra oblazione, chiediamo, o Dio, ci purifichi e rinnovi, ci governi e protegga.]

Communio
Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis. [In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio
Orémus.
Cœléstibus, Dómine, pasti delíciis: quǽsumus; ut semper éadem, per quæ veráciter vívimus, appétimus.
[O Signore, nutriti del cibo celeste, concedici che aneliamo sempre a ciò con cui veramente viviamo.]

 

 

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXVII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXXVII.

L’ORDINE E IL MATRIMONIO.

L’ordine secondo il Cattolicesimo e secondo il protestantesimo. — I preti cattivi ed oscurantisti. — Vane obbiezioni contro il celibato dei preti. — A che servono tanti frati e tante monache? — La vita di clausura. — Perché e in che modo la Chiesa osteggia il matrimonio civile? — Perché non vuole il divorzio?

— E in quanto al sacramento dell’Ordine che crea i sacerdoti, quale diversità vi passa tra i Cattolici e i protestanti!

Una diversità grandissima. Noi cattolici lo riconosciamo vero Sacramento, istituito da Gesù Cristo; che conferisce un potere spirituale di compire o amministrare gli altri Sacramenti, e la grazia di compirli e amministrarli santamente. I protestanti invece negano che Gesù Cristo abbia istituito questo sacramento e il conseguente sacerdozio: essi si ritengono tutti sacerdoti; ma siccome ci vogliono taluni a conferire il Battesimo, a celebrare la Cena e a fare il sermone, eccetera, perciò pensano doversi a tutto ciò deputare degli individui appositi, i ministri o pastori. Così che poi riteniamo che i sacerdoti hanno un potere spirituale che viene da Dio ed è un vero potere; i protestanti invece nei loro ministri o pastori riguardano dei semplici deputati per l’adempimento degli uffici religiosi, deputati che non hanno alcun potere speciale e che sono in tutto perfettamente uguali a ciascuno dei loro correligionari.

— Se la cosa è così, la condizione dei ministri protestanti è quella di semplici ufficiali.

Precisamente: ufficiali del popolo, oppure dello Stato.

— Dunque presso i protestanti non vi è autorità religiosa.

No, e se pure vi è, è data o concessa dallo Stato, rappresentante del popolo.

— Così lo Stato domina esso la religione.

Certo. In Germania il capo della religione è l’imperatore; in Inghilterra, in Danimarca, in Svezia e Norvegia i capi religiosi sono i re, oppure anche le regine. Sono essi che stabiliscono i pastori, essi che decidono le questioni religiose, essi che determinano fede e liturgia. E così presso a poco succede tra gli Scismatici di Russia, ove lo Czar è considerato il Vescovo esterno della Santa Sinodo, ma ove in realtà egli comanda a piacimento il Corpo episcopale e gli altri Ordini del Clero.

— Per altro avevo inteso dire che l’Ordine si teneva valido presso i protestanti anglicani.

Sì, a questo proposito si fecero varie volte delle questioni. Ma nel 1896 Leone XIII

ha posto fine alle medesime con un’enciclica in cui riconfermando ciò che intorno alle Ordinazioni dei protestanti Anglicani avevano già dichiarato altri Sommi Pontefici, ha nuovamente e solennemente dichiarato, essere nulle presso gli Anglicani le Ordinazioni dei così detti Vescovi e altri ministri ecclesiastici, perché  sostanzialmente cangiato e alterato il rito, ossia la forma del Sacramento sotto il re Edoardo VI. In detta Enciclica (Apostolicæ curæ) il Papa parla altresì indirettamente dei luterani, calvinisti e di tutte le altre molteplici sette protestanti [non da escludere naturalmente il satanico modernista “novus ordo” del Vaticano II, che ha modificato integralmente in senso peggiorativo anche rispetto agli anglicani, blasfemo e sacrilego, la formula consacratoria dei non-Vescovi e non-sacerdoti, rendendo così le loro ordinazioni assolutamente invalide e … carnevalesche – ndr. -], tra le quali devonsi pure annoverare i ritualisti e puseysti. Epperò resta provato per tutti costoro, che non hanno né vescovi, né sacerdoti, né sacrificio, ma che i loro così detti vescovi e ministri non sono che semplici secolari con moglie e figli.

— Stando così le cose mi pare che non ci sia da stupirsi, se tra i ministri protestanti e preti scismatici succedano tanti disordini. Tuttavia anche tra i preti cattolici ve ne sono ben bene di quelli cattivi! di quelli ambiziosi, avari, guasti!

Che ve ne siano alcuni non lo nego, ma che ve ne siano ben bene, come dici tu e come dicono tanti altri, è assolutamente falso. Del resto, che perciò? Alla fin fine non sono uomini anch’essi di carne e di ossa come voi? E per quei pochi che vengono meno alla santità del loro carattere, non ve ne sono centinaia e migliaia che vivono da preti ottimi e zelanti? Che sacrificano i loro agi, le loro sostanze, la loro vita per dedicarsi interamente al bene spirituale ed anche temporale degli uomini, loro fratelli?

— Non avrebbero tuttavia un po’ di ragione coloro che dicono i preti essere oscurantisti, nemici della scienza e del progresso?

Come? i preti oscurantisti, nemici della scienza e del progresso! Ma forse che nella lunga serie delle scoperte, che onorano lo spirito umano, non ne siano uscite dalla testa di monaci o preti? Non sono monaci, preti e vescovi che aprirono l’America a Cristoforo Colombo? Non sono preti, vescovi e Papi che protessero l’invenzione nascente della stampa? Ed oggi ancora in tutte le scienze filosofiche, storiche, fisiche, matematiche, non vediamo figurare con onore nomi di preti? Se dovessi farti dei nomi, non la finirei così presto. Oh per chi vuol aver occhi non è difficile di vedere che il prete, tutt’altro che essere oscurantista, nemico della scienza, la coltiva alacremente e benedice di cuore le sue felici applicazioni, che chiamiamo progresso.

— Mi persuado di quanto ella asserisce. Ma ora mi dica un po’: perché si obbligano i preti al celibato? Non sarebbe meglio che si ammogliassero?

Già, anche questa, che i preti debbano restare celibi, rompe i nervi a tanti messeri. Ma forseché, a chi rifletta un po’ seriamente sul ministero sacerdotale, non si manifesti la somma convenienza del celibato ecclesiastico? Il prete di consuetudine ordinaria deve celebrare ogni giorno la santa Messa; deve predicare spesso il sacro Vangelo; deve amministrare i Sacramenti, e non solo nei tempi normali, ma eziandio in tempi di colèra, di pestilenza, e simili; deve attendere al ministero delle confessioni; e per tutto ciò, pare a te che sarebbe meglio che fosse ammogliato? Sarebbe possibile allora che compiesse i suoi uffici con quello spirito di pietà, di zelo, di carità, di sacrificio, di abnegazione che si richiede? Potrebbe ancora nell’udire le confessioni godere la fiducia dei penitenti? Questi non temerebbero sempre che avesse a tradire il segreto sacramentale con la moglie? E nel caso di qualche morbo pestilenziale esporrebbe ancora con tanta facilità la sua vita per porgere agl’infermi i conforti religiosi? Eh via, lasciamo un po’ stare i preti quali sono. Se la Chiesa fin dai primi tempi ha voluto così, ne aveva certamente i suoi buoni motivi.

— Sta bene quanto lei dice. Ma Iddio non ha detto ad Adamo ed Eva: « Crescete e moltiplicatevi »? Dunque il celibato dei preti, e così pure la verginità delle monache, è contrario alla legge divina.

Caro mio, quelle parole furono più una benedizione che un precetto. E quando pure si vogliano riguardare come tale, fu fatto ai primi uomini, dai quali dipendeva la propagazione dell’uman genere, in seguito a tutta insieme la famiglia umana, nella quale non dovrà venir meno il matrimonio, ma non a tutti e singoli. Così Dio avrebbe fatto un precetto impossibile a molti, in parecchi casi assurdo, che Gesù Cristo e gli Apostoli avrebbero trasgredito per i primi.

— Ma il celibato e la verginità non riescono di danno alla società ed alla patria, cui potrebbesi dare maggior numero di figli?

E credi tu che per uno Stato, per una società qualunque, il maggior bene sia una popolazione numerosa? Molte volte ciò può essere un vero danno, massime quando in quello Stato, in quella società mancano i mezzi di vivere, manca il lavoro, l’istruzione e simili, ragioni per cui, come talora vediamo, le popolazioni sono costrette ad emigrare in massa. Del resto perché non pigliarsela col celibato forzato degli eserciti stanziarii, fonte perenne di immoralità, col celibato che molti signori impongono ai loro servi, e soprattutto col celibato licenzioso di certa gente? Perché non pigliarsela in modo speciale colle vere cause del deperimento delle nazioni, che sono la voluttà, la scostumatezza, la libertà che si concede al vizio, eccetera, eccetera?

— Sì, ciò è verissimo. Ma dacché siamo entrati in questo campo mi permetta ancora a questo riguardo una domanda. A che cosa servono tanti frati e tante monache? Non sono gente oziosa e inutile?

Ti compatisco nel tuo linguaggio, perché so bene che, anziché i sentimenti tuoi, esprimi quelli di coloro, il cui carattere distintivo è la franchezza, la leggerezza e l’impudenza nel parlare di ciò che ignorano. Tu dunque domandi a che servono tanti frati e tante monache? Ed io ti rispondo con le parole del gran Papa, che fu Leone XIII. « Gli ordini religiosi non hanno soltanto reso, fin dalla loro origine, immensi servigi alla Chiesa: li hanno anche resi alla società civile. Hanno avuto il merito di predicare la virtù alle moltitudini tanto coll’apostolato dell’esempio quanto con quello della parola, di formare ed abbellire gli spiriti coll’insegnamento delle scienze sacre e profane, e d’accrescere anche con opere brillanti e durevoli il patrimonio delle belle arti. Mentre i loro dottori illustravano le Università colla profondità e l’estensione del loro sapere, mentre le loro case diventavano il rifugio delle cognizioni divine ed umane, e nel naufragio della civiltà salvavano da certa rovina i capi d’opera dell’antica sapienza, spesso altri religiosi internavansi in regioni inospitali, paludi o foreste impenetrabili, e là prosciugando, dissodando, sfidando tutte le fatiche e tutti i pericoli, coltivando, col sudore della loro fronte, le anime nel tempo stesso che la terra, fondavano attorno ai loro conventi ed all’ombra della croce dei centri di popolazione, che diventarono borgate o città fiorenti, governate con dolcezza, dove l’agricoltura e l’industria cominciarono e prendere sviluppo. « Quando il piccolo numero di sacerdoti od il bisogno dei tempi lo richiesero, si videro uscire dai chiostri legioni di apostoli eminenti per la santità e la dottrina, che portando valorosamente il loro concorso ai Vescovi esercitarono nella società l’azione più felice pacificando le discordie, soffocando gli odi, riconducendo i popoli al sentimento del dovere e rimettendo in onore i principii della Religione e della civiltà cristiana. – « Tali sono, indicati brevemente, i meriti degli ordini religiosi nel passato. La storia imparziale li ha registrati ed è superfluo di estendervisi più lungamente. Né la loro attività, né il loro zelo, né il loro amore del prossimo si trovano oggidì menomati. Il bene che essi compiono colpisce tutti gli occhi e le loro virtù brillano di uno splendore, che nessuna accusa, nessun attacco ha potuto appannare. – « Delle Corporazioni religiose le une, votate all’insegnamento, inculcano alla gioventù, nel tempo stesso l’istruzione, i principii religiosi, la virtù ed il dovere, sui quali riposano essenzialmente la tranquillità pubblica e la prosperità degli Stati. Le altre, consacrate alle diverse opere di carità, portano un soccorso efficace a tutte le miserie fisiche e morali negli innumerevoli asili, nei quali curano gli ammalati, gl’infermi, i vecchi, gli orfani, gli alienati, gli incurabili, senza che mai alcuna opera pericolosa, ributtante ed ingrata fermi il loro coraggio o diminuisca il loro ardore. Questi meriti riconosciuti più d’una volta dagli uomini meno sospetti, più d’una volta onorati da ricompense pubbliche, fanno di quelle congregazioni la gloria di tutta quanta la Chiesa e la gloria particolare e splendente di quella patria, che esse hanno sempre servito nobilmente e che amano con un patriottismo capace, lo si vide mille volte, di affrontare con gioia la morte ». E dopo tutto ciò ti pare ancora che i frati e le monache non servano a nulla? siano gente oziosa e inutile? In quella vece non potrebbe taluno domandare con più ragione: Che cosa fanno quei gaudenti del mondo, che abbandonano i soffici letti alle dieci del mattino e passano la vita al caffè, al teatro, al giuoco, al passatempo continuo? Costoro, si può dire che sia gente molto laboriosa ed utile?

— Ella mi ha risposto veramente a tono; ma per lo meno non sono inutili le monache di clausura?

E pare a te che sia cosa poco utile offrire a Dio la propria persona in sacrificio espiatorio per coloro che si abbandonano alla colpa, pregare e lodare il Signore per coloro che lo bestemmiano, arrestare i divini flagelli e attirare le divine benedizioni, e farsi le mediatrici della grazia e del perdono, gli angeli tutelari delle famiglie, le protettrici degli Stati? Credilo, solo al dì dell’universale giudizio si potrà riconoscere e calcolare il gran bene che fecero alla società tutte le monache di clausura.

— Ho inteso a dire tuttavia che talora se ne trovano in certi monasteri di quelle che vi stanno per forza, e che per tutte la vita passa triste e rabbiosa. In questo caso non è una tirannia il costringere queste povere donne a rimanere così sepolte vive?

Anche qui tu reciti bene la lezione dei mondani ignoranti. Mettiamo pure che qualche volta nei tempi di mezzo, in cui v’erano tanti disordini ci sia stata qualche monaca costretta a rimaner chiusa in monastero contro sua voglia e menasse vita triste e rabbiosa, come tu dici; se ne potrà perciò far colpa alla Chiesa od a qualche istituto religioso, o non si deve piuttosto ascrivere il fatto alla prepotenza di qualche padre snaturato o di qualche scellerato tiranno, che così ad ogni costo volevano? Ma oggidì poi, con questi chiari di luna, è possibile che vi siano ancora delle monache per forza! E se quelle che trovansi presentemente, come tu dici, sepolte vive, lo sono di loro spontanea volontà per rendersi vittime volontarie di amore a Dio e di espiazione per i peccati dei popoli, c’è a dire che menino vita triste, rabbiosa, e si reputino infelici! Ah! io vorrei che coloro, i quali hanno sì storte idee intorno a queste avventurate colombe, che gemono di amore tra i forami della pietra, potessero vedere da vicino la pace, la gioia, la felicità vera che esse godono, e poi capirebbero quanto grande sia il loro inganno. « Se havvi al mondo persone contente ed allegre, scrive il P. Gallerani, sono i religiosi; e ciò che più monta le comunità più strette ed osservanti sono le più giulive. Tal era fra gli altri il monastero delle Carmelitane, nel quale andò a rinchiudersi Madamigella Luisa di Francia, figlia del re Luigi XV, e se ne disse beata. Pochi giorni dopo il suo ingresso furono a visitarla le reali principesse sorelle sue. Era il tempo di pasqua, quando anche le Carmelitane interrompono il lor digiuno e le principesse curiose d’assistere alla cena della sorella scesero al refettorio. Alcune patate e un po’ di latte freddo formavano tutta la cena. Esse a tal vista sospirarono profondamente, ma Luisa rideva, e cibavasi del miglior gusto del mondo. Avvezza a portare nel secolo scarpine ben comode, quando dovette mutarle nei duri zoccoli carmelitani, se le gonfiaron le gambe sì fattamente che appena poteva camminare. Il suo letto poi, oltre che duro, era per giunta sì stretto che, nel voltarsi dormendo, le occorse più volte di dar del capo nelle pareti. Ma da queste e somiglianti avventure ella non faceva altro che trarre argomento di piacevoli celie per ricreare le sorelle. – « Credetemi, ella diceva, io sono assai più felice di quel che merito, e sotto ogni rispetto ho guadagnato venendo qui. È vero che a Versailles io avevo un buon letto, ma su quel letto io non dormiva sovente che sonni interrotti: qui invece su questo duro giaciglio, appena coricata, buona notte fino al suono della campanella. Là mi vedeva dinanzi una tavola ben servita, ma bene spesso io pativa d’inappetenza; dove qui a questa mensa sì parca io porto una fame che vale per ogni salsa. Là eran poche tre ore per far la mia toeletta, qui tre minuti son anche troppi. Là due cameriere intorno a me non bastavano: qui ho due mani che mi servono meglio di tutte le cameriere. Quanto poi alla pace dell’anima, mio Dio che differenza! Io posso ben dire con verità che un solo giorno passato nella casa del Signore mi dà più contentezza che non me ne davano mille nella mia reggia ». Cosi ella. Né si creda che fosse questo un fervor passeggero. Tutta la vita le corse così serena; talché venuto a visitarla, parecchi anni dopo, il famoso Gustavo Adolfo re di Svezia, ed avendo osservato tutto il mobile della sua cella, consistente in un crocifisso, un tavolino, una sedia e un saccone per letto, « Come, esclamò, è proprio qui che abita una principessa reale di Francia? » A cui ella « Sicuramente, rispose; ed è anche qui che si dorme meglio che alla Corte; è qui che si prende questa buona cera, che voi ora mi vedete in volto e che prima io non aveva ». Ecco l a vita triste e rabbiosa delle monache di clausura! … E questo fia suggel, che ogni uomo sganni!

— E d ora quanto al matrimonio vorrei domandarle: Perché la Chiesa si ostina a non

volerlo interamente cedere alle civili autorità?

E la Chiesa credi tu che potrebbe fare ciò senza tradire il suo dovere? Il matrimonio è anch’esso un Sacramento istituito da Gesù Cristo, e Sacramento grande, come dice S. Paolo, perché raffigura l’unione indissolubile che vi è tra Gesù Cristo e la Chiesa, sua mistica sposa. Ora poiché Gesù Cristo medesimo ha affidato la cura e l’amministrazione dei Sacramenti alla sua Chiesa, ed essa sola per l’autorità ricevuta da Gesù Cristo può mantenerli tutti e costantemente nella loro integrità e convenientemente regolarli, così essa sola può mantenere e regolare il Matrimonio nella perfezione a cui fu innalzato dal Divino Redentore; epperciò ad essa sola deve sottostare questo Sacramento come tutti gli altri. Che avverrebbe del Matrimonio se fosse abbandonato all’incostanza delle leggi civili, le quali spesso hanno origine dal capriccio e dalle passioni, e le quali cangiano secondo il mutarsi dei tempi, dei luoghi e delle persone?

— Ma nel Matrimonio oltre al Sacramento non c’è anche un contratto fra i due sposi? Regoli dunque la Chiesa il Sacramento e l’amministri a chi vuole riceverlo, lo Stato regolerà il contratto.

Ma qui sta lo sbaglio, caro amico. Perciocché non si possono separare nella pratica due cose che sgorgano da una sola e medesima causa come un solo e medesimo effetto. Vedi, nell’ordine cristiano per tal modo il contratto è congiunto al Sacramento, che non vi può essere vero e legittimo contratto per gli sposi, senza che sia perciò stesso Sacramento; giacché Gesù Cristo non ha aggiunto il Sacramento al contratto, ma il contratto stesso elevò a Sacramento, per modo che nel Matrimonio cristiano il contratto ed il Sacramento si identificano in una cosa unica ed indivisibile. È chiaro adunque, che il Matrimonio cristiano nella sua essenza e nelle sue proprietà fondamentali, che sono l’unità e la indissolubilità, non può sottostare ad altro potere che a quello della Chiesa. Invano il potere civile dice agli sposi cristiani: Io vi congiungo: in fondo alla loro coscienza congiunge un bel nulla. Invano direbbe: Io vi concedo il divorzio; voi potete separarvi; non concederebbe nulla: niuna separazione sarebbe perciò legittimata dinanzi a Dio. – E se vi hanno dei Cristiani, che non curando e fors’anche disprezzando l’insegnamento della Chiesa e il volere di Dio, nel contrarre la loro unione non facciano che il così detto matrimonio civile, dinanzi alla Chiesa e dinanzi a Dio essi non sono affatto marito e moglie, epperò si trovano in continuo stato di peccato mortale.

— Ma dunque la Chiesa nega allo Stato ogni potere sul Matrimonio?

No, amico; non esagerare le mie conclusioni. Non è questo che pretenda la Chiesa. Entrando la società coniugale nella società civile, dove può essere un elemento di prosperità o di disordine, è impossibile sottrarla all’autorità di coloro, che hanno l’ufficio di provvedere al bene ed all’ordine pubblico. Per la prosperità di una nazione, per la sicurezza delle famiglie, pel giusto ordinamento della vita sociale può essere necessario che lo Stato in cose accessorie stabilisca per i contraenti il Matrimonio delle condizioni giuste, ragionevoli e salutari, a cui il Cristiano deve sottomettersi in coscienza. Che anzi non solo il potere civile deve regolare le cose accessorie del Matrimonio, ma ei dovrebbe altresì, per rispondere esattamente al suo ufficio, esigere e tutelare la santità del Sacramento. Col che, non solo egli presterebbe concorde la mano all’autorità della Chiesa, ma favorirebbe pure sommamente la vera libertà de’ suoi dipendenti, evitando per tal modo che dalle sue leggi siano talvolta impediti di santamente regolare lo stato di loro coscienza. – La Chiesa adunque non nega alla civile autorità ogni potere intorno al Matrimonio, che anzi di certi poteri vorrebbe pel bene de’ suoi figliuoli un ben più attivo esercizio; e nello stato presente di cose vuole che i fedeli compiano il così detto atto civile per assicurare ai coniugati ed alla loro prole gli effetti civili, ma la Chiesa vuole soprattutto, e in nome di Dio comanda, che il Matrimonio sia celebrato dinanzi al suo rappresentante, il sacerdote, e i Cristiani si regolino secondo la giusta credenza che il Matrimonio è un Sacramento, il quale importa un nodo indissolubile.

— Ma perché la Chiesa vuole assolutamente che questo nodo sia indissolubile?

Perché la Chiesa non può volere diversamente dal modo che vuole Iddio. E l’indissolubilità è condizione essenziale al matrimonio, secondo l’ordinamento datogli dallo stesso Dio fìn dal principio dei tempi e rinnovato chiaramente da Gesù Cristo nel santo Vangelo, dove disse: « Ciò che Dio ha congiunto, l’uomo non si attenti di separare ».

— Dunque, quando pure le leggi dello Stato approvino e concedano il divorzio, non sarà mai in nessun caso possibile?

No, mai e poi mai, neppure nel caso in cui i coniugi fossero condannati a stare per sempre separati l’un dall’altro, come ad esempio se il marito fosse condannato al carcere a vita, o fosse partito per lontano paese, dal quale non intende più ritornare. Insomma per volere di Dio il Matrimonio cristiano è un vincolo indissolubile e nessun pretesto avrà forza di romperlo. Il divorzio che si attenta di farlo non è che un orribile mostro, che senza riuscirvi, con la sua immonda bava ne avvelena l’intima vita, cagionandone spaventosi ed indicibili mali. Ma di questo basti così.

— E basti pure, perché neppur io ricerco altro.