GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (32): GNOSI ED UMANESIMO -1-

GNOSI, TEOLOGIA DI Satana -32-

Gnosi ed UMANESIMO (1)

[Elaborato da: É. Couvert: La gnose contre la foi, Ed. de Chiré, 1989]

La gnosi è l’anima dell’Umanesimo, di tutto il Rinascimento [in realtà rinascimento del paganesimo e del culto solare di Mithra, con annesso becero ed assurdo eliocentrismo], che in nome di una pretesa e falsa libertà di pensiero e di coscienza, ha guidato la ribellione a Dio – pretendendo di averne causato addirittura la morte – ed al suo Cristo, ha stravolto, in unione con la gnosi islamica e giudaico-kabbalista, le fondamenta del Cristianesimo e della sua Chiesa, demolendone prima il potere temporale [1871] e poi, si fieri potest, quello spirituale [dal 26 ottobre del 1958]. La “Rivolta” ha interessato tutta la società, tutta la cultura, le arti, il pensiero, addirittura ha imposto un falso modello astronomico, fondato sul nulla, sull’immaginario di visionari allucinati, occultisti astrologi, alchimisti e veri e propri stregoni, definiti ancor oggi “scienziati”; coinvolte sono state naturalmente la letteratura, la filosofia, la teologia, virata dal sano e lucido tomismo, alle fantasie ofidiche della nuova teologia modernista. Il nostro É. Couvert, che non sapremo mai ringraziare abbastanza per la sua opera di “talpa-segugio” anti-gnostico, ha elaborato dei capitoli veramente straordinari per farci rivivere e comprendere l’ambiente in cui è rinata, nonché l’evoluzione storico-culturale della gnosi, vero cancro del Cristianesimo, e dell’intero pensiero umano. Possiamo ringraziarlo pregando per la sua conversione alla Chiesa Cattolica, quella vera, che non è la sinagoga satanica del “novus ordo”, fogna di tutte le eresie, infestata e disfatta dalla lebbra gnostica; possa finalmente comprendere – e chi meglio di lui – che Gesù Cristo non poteva ingannarci consentendo l’errore nella sua Chiesa o l’apostasia del suo “vero” Vicario, infallibile capo visibile della sua Sposa, senza macchia e senza rughe, Corpo mistico di Cristo, e parte del vero “PLEROMA”, [non la contraffazione luciferina], cioè la pienezza di Cristo, costituita dal Capo, l’uomo-Dio, e dalla Chiesa, membra del corpo, secondo la meravigliosa definizione di San Paolo ai Colossesi ed agli Efesini.

Introduzione

Fin dalle origini del Cristianesimo, abbiamo visto che gli gnostici si sono sforzati di penetrare nella giovane Chiesa per depositarvi il germe del loro culto satanico. Ma fu all’epoca un insuccesso clamoroso. A partire dal IV secolo, essi dovettero lavorare nell’ombra, e così la loro azione continuò discreta e nell’oscurità attraverso i secoli del Medio Evo. Qui e là, la loro dottrina satanica, appariva improvvisamente per ripiombare con altrettanta velocità nelle voragini dalle quali faceva capolino. Ad esempio: gli eretici Sabelliani, spiegavano Dio come una monade in espansione. Marcello, Vescovo di Ancyra, parlava di “dilatazione del divino” e del “logos” esteriorizzantesi da se stesso attraverso una energia attiva [emanazione!], benché rimanesse sempre Dio. Gli Ariani credevano che Gesù-Cristo e lo Spirito-Santo fossero delle emanazioni di Dio Padre [eoni!], che Gesù-Cristo fosse un uomo perfetto la cui anima fosse il “Logos”, in comunicazione diretta con Dio. – Più tardi, nel XII secolo, si vede apparire, senza apparenti legami con una gnosi precedente, un monaco calabrese, che pretendeva di aver intravisto, passeggiando al sole nel giardino del suo convento, un giovane uomo che gli tendeva una coppa dalla quale bevve alcuni sorsi. Joachim de Flore aveva gustato da un calice meraviglioso la “rivelazione dell’avvenire”, la visione del “Vangelo eterno”. Egli partì per la Terra santa, al ritorno si fermò in un monastero della Sicilia, alle falde all’Etna, ove ebbe un’estasi di tre giorni, simile ad un’agonia:« … io ero ai suoi piedi, racconta un suo discepolo: io scrivevo, e due altri erano con me. Egli dettava notte e giorno. Il suo volto era pallido come una foglia secca di un albero. » Egli annunciava la fine della legge del Cristo che doveva retrocedere, nell’anno 1260, e far luogo alla legge dello Spirito. La terza età, proclamava, sarà quella del Vangelo eterno, della legge dell’amore ed il tempo della libertà. La sua dottrina fu propagata dai francescani. E Jochim stesso non fu perseguitato. Dante, gnostico occultista, lo pone tra gli eletti e gli attribuisce il titolo di profeta. Egli ebbe discepoli in Germania, nel secolo XIV, i « Fratelli del libero Spirito», Maestro Eckart, Tauler, Suso. Nei fatti egli insegnava la più classica delle gnosi. La fine dell’umanità è un fondersi in Dio per mezzo dell’opera dello Spirito ed in questa unione, l’anima dell’uomo non è che Dio stesso!  – Maestro Eckart continua l’insegnamento di Joachim de Flore. « L’anima, egli dice nei suoi sermoni, “Nisi granum frumenti”, sfugge alla sua natura, al suo essere alla sua vita e nasce nella divinità. È là che c’è il suo divenire. Essa diviene sì totalmente un solo essere al quale non resta altra distinzione che questa: «Esso resta Dio, ed essa resta anima. » Questa unione, « Einung », è nei fatti una fusione di due esseri in una sola divinità totale: è il ritorno all’ “unità primordiale” dei nostri gnostici. Il Papa Giovanni XXII, condannò in una bolla del 1329 questa tesi di maestro Eickart: « noi Ci metamorfosizziamo totalmente in Dio e ci convertiamo in Lui allo stesso modo che il pane, nel Sacramento, si cambia in Corpo di Cristo. Io sono così cambiato in Lui, perché Egli stesso mi fa essere suo. Unità, quindi, non similitudine. Con il Dio vivente è vero che non c’è alcuna distinzione. » Come questa, attraverso i secoli del Medio Evo, si può seguire una linea segreta di penetrazione, nel pensiero cristiano, di una gnosi che si nasconde sotto un linguaggio apparentemente cristiano. Ma se si vuole assistere veramente ad un ritorno in forze della gnosi nel pensiero cristiano, bisogna attendere il XV secolo, con la fioritura dell’Umanesimo nel Rinascimento. È allora che il pensiero gnostico va ad esercitare un’influenza decisiva su tutta la mentalità dell’élite coltivata nel XVI secolo, di tal sorta che dopo di allora, essa non ha mai cessato di avvelenare gli spiriti fino ad esplodere ai nostri giorni, malgrado gli sforzi energici della Chiesa per preservare la dottrina cristiana contro questa nuova invasione. Il Romanticismo degli ultimi secoli, ad esempio, non è stato che una riesumazione dell’Umanesimo gnostico. – Se si vuol definire con precisione l’Umanesimo del Rinascimento, occorre riconoscere che esso è stata il risultato di una penetrazione della gnosi cabalistica insegnata dai rabbini del XV secolo nella società cristiana del loro tempo.

LA KABBALA, FORMA GIUDAICA DELLA GNOSI.

Gli gnostici si sono sforzati, fin dai primi secoli, di penetrare nel giudaismo della diaspora in modo da indurre i rabbini, fedeli alla Rivelazione dell’Antico Testamento, a rinnegare il vero Dio, Yeowah. Essi hanno spiegato loro infatti, che Yeowah non era che un’entità demoniaca, che la legge di Mosè era stata da lui inventata per ridurre i Giudei alla schiavitù del Demiurgo, rinchiudendoli in una rete di istituzioni e principi arbitrari, manifestando la volontà determinata di un tiranno malvagio. Così essi hanno inondato la Siria e la Palestina di canti gnostici da loro composti. Vi si ritrova in essi tutto il principio dell’emanazione, le idee neoplatoniche, con uno stato di esaltazione e di entusiasmo grazie al quale si “volava nell’aria” sul “carro dell’anima”, e si compivano ogni sorta di miracoli, accompagnati da allucinazioni e da visioni. – Il risultato di questa penetrazione gnostica in Israele fu, nel corso del Medio Evo, l’apparizione della Kabbala, o “tradizione”. La sua forma definitiva si è espressa nel libro dello “Zohar”, cioè “Lo splendore”. Esso si presenta sotto la forma di un commentario del Pentateuco, insegnato da rabbi Simon Ben Jochai al suo circolo di pii uditori; la sua redazione attuale risale in gran parte a Moïse de Léon. Ne diamo un riassunto secondo Moïse Cordovero e Isaac Luria. – Ma è innanzitutto necessario sbarazzare lo Zohar di tutta una stravagante mitologia la cui lettura è veramente penosa per una intelligenza ordinaria e sana. I kabbalisti si sono ingegnati nell’avviluppare il loro insegnamento con un rivestimento fantasioso destinato in realtà a nascondere le loro vere intenzioni. In questo, per la verità, essi non hanno fatto che seguire l’esempio dei nostri primi gnostici. Era in effetti difficile far abbandonare ai rabbini il vero culto di Yeowah, e per questo bisognava fingere di seguire la Rivelazione dell’Antico Testamento, poi darne un commento rispettoso che doveva però lentamente pervenire ad invertirne completamento il vero senso. Si continuava a parlare del “Santo, il suo nome benedetto”, della “creazione”, ma queste parole si caricavano di un senso nuovo ed inaudito in precedenza in Israele, quello della gnosi, come già in precedenza esposto. Il “Gran Tutto”, il “Pleroma” dei nostri gnostici, si chiama, presso di loro l’« En-Sof », cioè il non-limitato”, il grande Essere immutabile, eterno, infinito, che racchiude in sé tutte le forme. Per spiegare l’apparizione del mondo visibile e la molteplicità degli esseri che popolano l’universo, i kabbalisti hanno ricorso come al solito, alla nozione di emanazione e contrazione. Il “gran Tutto” primitivo, esce dal “caos”, si contrae per lasciare un vuoto all’interno di sé, dal quale appaiono le forme determinate e multiple delle creature che sono il riflesso apparente dell’ « En-Sof ». In altri termini, il “gran Tutto” non è altro che la somma, la totalità delle cose finite. Per spiegare questo passaggio dall’uno al molteplice, dall’indeterminato alle forme concrete, gli gnostici avevano inventato delle potenze divine intermedie, gli Arconti, capaci di produrre gli esseri. Essi sono chiamati “Zephirot” dai kabbalisti. Il loro numero ed i loro attributi possono variare da una scrittore all’altro, ma il loro ruolo resta essenziale nella produzione delle cose finite distinte tra loro per le qualità, la gradazione, le determinazioni. – Una nozione fondamentale della kabbala è che essa rappresenta la maniera di presentare il panteismo più assoluto, è la corrispondenza di struttura tra i due mondi, quello dell’« En-Sof » ed il mondo visibile, oggetto della nostre percezioni: «Tutte le cose, ci dice lo Zohar, dipendono le une dalle altre e tutte sono collegate le une alle altre, affinché si sappia che: tutto è Uno, e tutto è l’Antico e niente è separato da Lui ». L’Antico, è il nome velato per designare la divinità originale, fonte di tutti gli esseri; lo Zohar precisa ancora: « Quando si afferma che le cose sono state create dal niente, non si vuole parlare del nulla propriamente detto, perché non può mai succedere che un essere venga da un non essere. Ma si intende con il nome di non-essere ciò che non si concepisce né dalla sua causa, né per essenza, ma è, in una parola, la causa delle cause, quello che noi chiamiamo il Non-Essere primitivo, perché è anteriore all’universo, e con questo noi intendiamo non sono gli oggetti materiali, ma anche la Saggezza sulla quale è fondato il mondo … Tutte le cose di cui questo mondo è composto, lo spirito, come il corpo, rientrano nel principio e nella radice dalla quale sono usciti. Esso è la l’inizio la fine di tutti i gradi della creazione, tutti i gradi sono marcati dal suo sigillo e non lo si può nominare se non come l’unità. Esso è l’Essere unico, malgrado le forme innumerevoli dalle quali è rivestito. » Tutto questo è perfettamente gnostico. Si riconoscono in queste considerazioni: – la filosofia di Spinoza, secondo la quale Dio è al tempo stesso causa e sostanza dell’Universo; – la filosofia di Hegel, per la quale il mondo apparente non è che la manifestazione di “Dio primordiale incosciente”; – la filosofia di tanti filosofi moderni che si son ingegnati nello sviluppare temi gnostici sotto le forme più disparate e stravaganti. – Lo Zohar studia anche l’uomo. Già Maimonide aveva distinto nell’uomo, altre al corpo ed all’anima, una intelligenza materiale, incaricata di animare il corpo, ed una intelligenza comunicata, emanazione dell’Anima universale del Mondo. Si tratta dunque di una costituzione tripartita dell’uomo, tale come si è sempre insegnato nella gnosi. Per il kabbalista, il corpo non è un rivestimento, ma il principio intermedio, cioè la Psiche dei nostri gnostici: è divisa in due anime, così da partecipare e della materia e dello spirito: questa è la nephesh, principio animale e sensitivo a contatto immediato con il corpo; la Ruach, invece, è la sede della vita morale ed il principio di animazione; “Neschama” resta l’anima spirituale, l’emanazione divina, l’intelligenza pura, lo pneuma degli gnostici. Tutte le anime preesistono nel mondo e cadono nei corpi in seguito ad una caduta; « Notate, spiega lo Zohar, che tutte le anime di questo mondo, che sono il frutto delle opere del Santo … sia esse benedetto, non formano prima della loro discesa sulla terra, che un’unità, poiché queste anime fanno parte tutte di un solo e medesimo mistero, e quando discendono giù in questo mondo, si separano in maschio e femmina; sono i maschi e le femmine che si uniscono. » Da qui, la trasmigrazione delle anime, insegnata già dagli gnostici nella metempsicosi. « Notate, dice sempre lo Zohar, che il Santo … esso sia benedetto, impianta le anime quaggiù; se esse prendono radici, è bene, altrimenti le strappa anche più volte e le trapianta fino a che mettano radici … le trasmigrazioni sono inflitte alle anime come punizione e variano secondo la colpevolezza … Ogni anima che si è resa colpevole durante il suo passaggio in questo mondo è, per punizione, obbligata a trasmigrare tante volte, quanto necessita perché essa raggiunga, con la sua perfezione, il sesto grado della regione dalla quale essa emana. » Si trova ancora nello Zohar la dottrina della Reminiscenza: « Anche prima della creazione, tutte le cose di questo mondo si trovavano presenti al pensiero divino, tutte le sue forme che gli sono proprie, così come tutte le anime umane, prima di scendere in questo mondo, esistevano davanti a Dio, nel cielo, nella forma che hanno conservato quaggiù e tutto ciò che apprendono sulla terra, esse lo conoscevano già prima di arrivarvi. » – Ecco come Adolphe Franck riassume la posizione dell’uomo, secondo lo Zohar: « L’uomo è allo stesso tempo il riepilogo ed il termine più elevato della creazione. Egli non è soltanto l’immagine del mondo, dell’universalità degli esseri, ivi compreso l’Essere assoluto, egli è anche e soprattutto l’immagine di Dio, considerato nell’insieme dei suoi attributi infiniti. Egli è la presenza divina sulla terra, è l’Adamo celeste che, uscendo dall’oscurità suprema e primitiva, ha prodotto questo Adamo terrestre … ». Rabbi Simon ben Jochaï spiega ai suoi discepoli che « la forma dell’uomo racchiude tutto ciò che è nel cielo e sulla terra, gli esseri superiori come gli esseri inferiori ». Non si poteva dir meglio che l’uomo è Dio stesso manifestato. Gli umanisti del Rinascimento non dimenticheranno affatto la lezione dei rabbini. Essi rappresenteranno l’uomo con gli arti divaricati, perfettamente descritto in un cerchio, nell’uovo primitivo dal quale sono stati estratti tutti gli esseri; i diari di Leonardo da Vinci e di Albert Dürer sono le proporzioni umane rappresentanti questa sovrapposizione della forma umana in una figura geometrica che vuol suggerire che l’uomo è la misura del mondo! – Come vediamo, la kabbala non è altro che la gnosi tradotta in ebraico. Il contenuto dottrinale è lo stesso, e gli si possono opporre gli stessi argomenti di buon senso che una ordinaria intelligenza non può mancare di trovare, se appena vuol prendersi la briga di riflettere un poco. Infine, il serpente ispiratore di tutta questa mitologia menzognera, non ha avuto remora né riguardo nel menzionare se stesso. Egli ha spiegato ai cabalisti che egli non è assolutamente il nemico del genere umano, bensì, al contrario, il suo protettore ed il suo padrino, che egli, poverino, è stato una vittima dell’ingiusta gelosia del Demiurgo, creatore della materia, che l’Arcangelo San Michele e le altre potenze celesti che lo avevano precipitato nell’abisso, erano dei veri demoni, mentre lucifero, belzebuth e astaroth erano l’innocenza e la luce stessa. Ecco che allora il regno di Michele e della sua milizia, deve ben presto finire, ed egli stesso sarà riabilitato e reintegrato nel cielo con la sua falange. Il nome del serpente velenoso è samael. Il giorno in cui ritroverà il suo nome e la sua natura di angelo, si ritaglierà la prima sillaba, che vuol dire “veleno” mentre la seconda è il termine comune designante tutti gli Angeli. Niente è cattivo, niente è maledetto: tutto ciò che si chiama il male, è in Dio stesso, l’altra faccia del bene. I mistici giudei del periodo talmudista, riflettendo sulla natura di Dio, avevano dichiarato che « Dio è il luogo in cui soggiorna l’universo »; essi avevano impiegato la parola “Ma kom” che vuol dire “piazza”, per designare Dio. Filone si esprimeva già così: « Dio è chiamato Ma kom (il luogo) perché racchiude l’Universo », nel suo trattato “De Somniis”. Come abbiano fatto dunque i rabbini, nel corso del Medio Evo, a riciclarsi aderendo in tutto alla kabbala? È cosa che sarà molto difficile da comprendere. In effetti questa nuova dottrina è la totale inversione dell’insegnamento della Bibbia, ed in particolare della Genesi. Ciò che è certo è che il giudaismo contemporaneo ha abbandonato il culto del vero Dio ed ha spinto questo abbandono alla sue estreme conseguenze. M. Th. Reinach, un’autorità in Israele, dichiara nella “Grande Enciclopedia”, che emergerà dal giudaismo « una religione superiore, conciliante la nozione della divinità, anima del mondo e sorgente del bene, con i dati della scienza, che la religione supera ma non saprebbe contraddire, accettando dal Cristianesimo il suo principio di fraternità universale già proclamata dai Profeti, ma correggendo il suo pessimismo che non vede salvezza che nell’altra vita, salvezza che scaturisce invece dal miglioramento infinito della specie umana: è questa la forma moderna della speranza messianica ».

GLI UMANISTI ALLA SCUOLA DEI RABBINI

È in Italia, nel corso del Medio Evo, che l’attività letteraria dei Giudei esercitò una influenza considerevole sul pensiero cristiano all’epoca in cui l’imperatore Federico II di Hohenstaufen aveva invitato il celebre Anatoli di Provenza a tradurre in ebraico gli scritti di Averroè, poi in latino le opere di Maimonide. Dal XIV secolo, gli scrittori giudei si avvicinarono ai principali rappresentanti della cultura italiana. Guido Romano studia la filosofia scolastica e scrive sul soggetto, dei trattati in ebraico. Suo cugino Manoello [Manuel Romano o Manoello Giudeo], divenne amico intimo di Dante, scrisse una sorta di Divina Commedia in lingua ebraica, nella quale fa l’elogio del suo amico e deplora la morte del grande (?!) poeta fiorentino in un sonetto in italiano. Dante stesso, come ben sappiamo, ha preso come modello della sua Divina Commedia, ricopiandolo in gran parte, il “Libro del viaggio notturno” del mistico arabo Ibn el Arabi, scritto ottanta anni prima. Questo trattato descrive in effetti una traversata dei tre mondi dell’aldilà: l’inferno, il purgatorio, il paradiso, con gli stessi incontri e le medesime peripezie e riportando molti personaggi simili. Ora, Ibn el Arabi era affiliato alla setta mistica degli “Assassini”, ed il suo libro era stato tradotto in ebraico. È così che da questo ambiente culturale, Dante ha tratto il suo odio per il Papato. Egli mette nell’Inferno nella “bolgia” dei simoniaci, i Papi Nicola III, Clemente V, Bonifacio VIII, con i corpi conficcati in buche, testa all’ingiù, piedi all’aria. Cotti al fuoco! Essi avevano invertito l’ordine stabilito da Dio, era giusto che fossero invertiti a loro volta; essi avevano calpestato la santa fiamma dello spirito: la Santa Fiamma brucia in compenso i loro piedi. La Chiesa subisce un affronto cruento, ricevendo uno schiaffo più violento di quello del Nogaret sul volto di Bonifacio VIII. Essa ne resterà per lungo tempo abbattuta. Gli umanisti del Rinascimento, non fecero altro che sviluppare questo odio satanico contro Roma, e Lutero non avrà difficoltà ad ammassare tutta questa spazzatura per gettarla in faccia al Papato. Elia Del Medigo insegna pubblicamente a Padova e Firenze; egli viene anche scelto un giorno, dal senato di Venezia, per arbitrare un grande incontro filosofico. Per costituirsi professori e maestri del pensiero religioso, gli scrittori giudei cominciano a produrre edizioni della loro bibbia ebraica, poi delle grammatiche e dei dizionari ebraici: il primo tipografo di Mantova è un medico giudeo che lavora con una donna. Un altro edita a Reggio Calabria. Ecco ben presto i nostri umanisti inquieti: la Chiesa non possedeva dunque la vera Bibbia. Le Pogge si chiede secondo quali principi San Girolamo avesse tradotto la Vulgata. Bruni gli risponde che leggere la Bibbia nell’originale, è mostrare una diffidenza ingiusta rispetto all’opera intrapresa da san Girolamo. Nel 1482, i Giudei furono cacciati dalla Sicilia e si rifugiarono a Firenze. È là che essi formano Pico della Mirandola (1463-1494): sotto la direzione di Elia Del Médigo e di Jonachan Alemanno, a mezza voce e porte chiuse, coi vetri oscurati, nella sua camera di Firenze, Pico studia la kabbala nelle scritture misteriose portate dall’Oriente, per passare poi ad elementi di arabo e di caldeo. Egli si approfondisce nello studio dei numeri. Pretende di ritrovare nella kabbala l’incarnazione del Verbo, la divinità del Messia, la Gerusalemme celeste. Gesù vi appare, egli crede, come colui che unisce tutte le cose nel Padre, per il quale tutto è fatto e tutto diviene, e tutto  sabbatizza. Gesù è rivelato in ogni tempo come il Pallas di Orfeo, lo spirito paterno di Zoroastro, il Figlio di Dio di Mercurio, la Saggezza di Pitagora, la sfera intelligibile di Parmenide, il Verbo di Platone. Presso di lui tutto procede per via di simboli, allegorie, immagini. Ogni rivelazione è esoterica, ermetica. Gesù non ha scritto, ma ha rivelato i suoi misteri ai suoi discepoli, come insegna Origene [passato già ai Manichei], e secondo Dionigi l’Aeropagita, questi ultimi devono impegnarsi formalmente a non confidare nulla attraverso la scrittura, ma a trasmettere tutto bocca a bocca. – In Germania altri rabbini formano e plasmano Reuchlin (1455-1522). Nel 1492, nel momento in cui i rabbini di Toledo e di Cordova, cacciati dalla Spagna, camminavano verso la Germania, un Giudeo, medico dell’imperatore Massimiliano, fece dono a Reuchlin di un manoscritto prezioso della Bibbia. Nel 1494, Reuchlin pubblica il suo libro “De Verbo mirifico”, il cui senso era: “solo i Giudei hanno conosciuto Dio”. Nel 1498, tre mesi dopo il supplizio di Savonarola, egli visita Firenze, raccoglie l’anima del martire tra i visionari che lo piangono, torna ai suoi studi e pubblica nel 1506 i suoi “Rudimenta hebraica”, e nel 1512 il suo “Lexicon Hebraicum”. La dottrina centrale della kabbala, egli dice, ha per oggetto il Messia, essa trae la sua origine immediatamente dall’illuminazione divina. Grazie a questa luce, l’uomo diviene capace di penetrare il contenuto della dottrina, interpretando simbolicamente le lettere, le parole, le frasi della Scrittura. Egli è inoltre lo zio del celebre compagno di Lutero, Melantone. In Francia il neo-platonismo circola nelle opere di Lefebvre d’Etaples. Gli scritti dello pseudo-Dionigi esercitano molte attrattive sugli umanisti che li credono autentici. Nel 1521, in una “Raccolta di allegorie e sentenze morali estratte dai due Testamenti”, noi vediamo apparire delle formule ben conosciute sull’illuminazione dell’intelligenza e la “purgazione dei sentimenti”. – La penetrazione platonica è manifesta in un erudito ebraizzante, Charadame de Seez. Sotto il titolo di “Alfabeto ebraico”, egli pubblica nel 1529, un piccolo trattato di mistica dionisiaca. Egli vede nell’ebraico, lingua sacra, tutto un simbolismo. Questa lingua è stata, egli dice, insegnata direttamente da Dio; essa è dunque eminentemente divina. Le parole hanno un senso celato. Nel triplo nome di Gerusalemme gli apparirà, ad esempio, quello della Trinità. Egli cerca nelle lettere, nella loro forma, nella loro consonanza, nella loro armonia, nel loro numero, tutto un senso nuovo. L’uno figura essere di Dio, imperituro e semplice, l’altro, il Cristo, questi gli elementi del mondo materiale o le forme multiple della creazione, queste altre l’uomo, la sua intelligenza, il suo corpo. L’alfabeto ebraico racchiude così tutta una teologia e questo non è altra cosa che la speculazione neo-platonica di Hermète Trismegisto. La gerarchia del mondo, l’armonia degli esseri “non soltanto nelle cose che sono visibili, ma anche nelle cose umane che l’occhio non percepisce.” Questo ritorno al platonismo è l’opera degli ebraizzanti. Noi potremmo continuare così la lunga lista degli scrittori e delle opere destinate a diffondere il pensiero giudaico negli ambiente intellettuali del Rinascimento, ma la lista sarebbe fastidiosa ed inutile.

UNA SETTA DI INIZIATI

Nel XV secolo gli umanisti, così formati dalla kabbala giudaica ed impregnati di neo-platonismo, hanno coperto l’Europa occidentale, salva la Spagna dalla quale i Giudei erano stati espulsi, di una rete densa di relazioni e di attive complicità. Essi hanno fatto circolare, prima sotto traccia, e poi sempre più apertamente, una moltitudine di opere di violenta polemica anticristiana, opere nelle quali viene insultato e disprezzato il Papato, si biasimano gli ordini religiosi con un odio feroce contro tutto ciò che potrebbe riferirsi all’ascesi, alla rinunzia, alla povertà volontaria … Legati tra di loro da un segreto comune, gli umanisti praticano un metodo meraviglioso ed efficace per darsi una grande autorità intellettuale sull’élite coltivata del loro tempo, schivando scrupolosamente tutti i rischi connessi al loro accanito combattimento. Essi cominciano con l’assicurarsi la protezione del potente del giorno, un cardinale, un vescovo, un principe, un re, lo stesso imperatore, finanche il Papa. Essi li lusingano di volta in volta senza vergogna, servono indifferentemente l’uno o l’altro. Fidelfo si mette a servizio dei Visconti, poi della Repubblica ambrosiana, poi degli Sforza. Fontana serve indifferentemente gli Aragonesi ed i francesi che erano venuti a cacciarli da Napoli. Appena un personaggio emerge, essi accorrono, si rendono disponibili, lusingano, “scodinzolano e leccano”. – Redigono all’inizio dei loro scritti delle grandi dichiarazioni di ortodossia onde sfuggire ai fulmini dei tribunali dell’Inquisizione o del Santo Officio. Ad esempio, Marsilio Ficino scrive al principio delle sue opere: « In tutte le cose che sono state trattate da me qui o altrove, io non voglio proporre nulla che non sia stato approvato dalla Chiesa ». (« Tantum adsertum esse volo, quantum ad Ecclesia comprobatur »). Una volta assicurati i loro “deretani”, gli umanisti sono di un’audacia incredibile; essi ingiuriano i loro avversari, si prendono gioco dei tribunali ecclesiastici, pubblicano satire incendiarie, ingaggiano violente polemiche, sversano tonnellate di spazzatura sulla Chiesa, soprattutto sugli ordini mendicanti, in tutta impunità. Se talvolta un tribunale ecclesiastico si inquieta e comincia un processo per diffamazione, è ben presto fermato nelle procedure dal potente protettore di turno che interviene discretamente. – Si riporta ad esempio, la storia di Lorenzo Valla: nato a Roma nel 1415, studia la storia, dichiara che la famosa donazione dell’imperatore Costantino alla Santa-Sede è un falso. Allora insulta il Papa, afferma che una cortigiana è più utile allo società di un religioso, pretende di non aver mai incontrato un Papa uomo onesto ed aggiunge una moltitudine di altre “gentilezze” di tal sorta. Deve egli darsi alla fuga e rifugiarsi presso Alfonso il Magnanimo, re di Napoli e protettore degli uomini di preteso talento (cioè degli umanisti), nel 1445. Ma Valla è anche un violento ed un litigioso; egli maneggia meglio la spada che la penna, e la polizia napoletana comincia ad interessarsi di lui e minaccia una tempesta, avendo egli scritto delle cose folli sulla Trinità e sul libero arbitrio. Viene così condannato ad essere bruciato vivo dall’Inquisizione. Ma il re Alfonso interviene, e Valla viene rilasciato per essere frustato nel chiostro di San Giacomo. Egli torna in seguito a Roma ove ha la fortuna di trovare il Papa Niccolò V. il quale gli accorda una pensione; diviene poi canonico, curiale e professore  vantato e celebre. – Simile avventura, ugual copione, si legge nella storia dell’Accademia di Roma ove vediamo comparire una vera società segreta. – Un giorno, il Papa Paolo II (1464-1471) destituì dal collegio degli abbreviatori  della cancelleria romana, diversi umanisti e li rimpiazzò con altri più sicuri da un punto di vista dottrinale. Nel corso di venti mesi, essi sedettero alla porte del palazzo pontificale senza riuscire a farsi ricevere. Uno di essi, Platina, scrisse allora al Papa minacciandolo di andare a visitare i re ed i principi per invitarli a convocare un Concilio davanti al quale Paolo II avrebbe dovuto poi discolparsi della condotta tenuta nei loro confronti. Questa insolenza lo fede condurre al Castel Sant’Angelo; il resto della truppa degli umanisti, si riunì presso uno di essi, Pomponio Leto. Così nacque l’Accademia romana di cui lo storico Grecorovius ci dice che essa « funzionava come una loggia di classici franco-massoni ». Per evitare di essere perseguiti, i membri di questa accademia si riuniscono in catacombe. Essi celebrano il Natale come anniversario della fondazione di Roma; il loro “papa” è Pomponio Leto, « questo oracolo delle buone lettere, ci dice Antonio di Verona, il capo singolare delle muse, il sovrano pontefice » (maximus pontifex); Platina è chiamato il “pater amatissimus”. Quest’ultimo, Callimacus, Luca Toloza ed i loro amici che « si sono appassionati alla storia di Roma, l’hanno apprezzata, e perché Roma ritorni al suo primitivo stato, hanno deliberato di sottrarre questa città all’assoggettamenti ai preti ». Papa Paolo II si inquieta e verso gli ultimi giorni del febbraio del 1468, la polizia pontificia arresta i membri dell’Accademia con l’accusa di lesa maestà pontificale e cospirazione: essi avevano progettato semplicemente di assassinare Paolo II e proclamare la repubblica. Pomponio Leto fugge a Venezia, ma ripreso viene imprigionato con gli altri nel Castel Sant’Angelo. – Il Papa successivo, Sisto IV, purtroppo, si incarica di mettere in libertà i prigionieri dalla loro prigione. Platina viene nominato addirittura bibliotecario del Vaticano, Pomponio viene ristabilito alla Sapienza. Le riunione dell’Accademia possono quindi riprendere. E qui si riprende a sacrificare a San Vittore, a San Fortunato, a San Genesio: queste sono dei nomi di “copertura” della Fortuna, della Vittoria, del “Genetliaco” della città eterna. Nel 1483 l’imperatore Federico accorda all’Accademia romana, che è definitivamente recuperata, il diritto di creare dei dottori e di incoronare poeti. Il cerchio è chiuso; i sovversivi sono padroni del terreno nella stessa Roma, qui al centro della Cristianità. – Altra società segreta … nel 1545, Sozzini, o Soccino, o Socino, nato a Siena nel 1525, fonda a Vicenza una società segreta per la distruzione del Cristianesimo che vuole rimpiazzare con il “puro razionalismo”. Nel 1546, egli organizza una conferenza a Vicenza ove arrivano delegati da tutta Europa, uniti tra loro dall’odio per tutto il Cristianesimo. Nel corso di questa conferenza si conviene come mezzo per distruggere la Religione di Gesù-Cristo, il formare una società segreta. L’apostata Ochino, vecchio generale dell’ordine dei Cappuccini, è anch’egli presente a questo incontro come uno dei più virulenti. Papa Paolo III, informato di tale conferenza di Vicenza, indirizza una lettera alla Repubblica di Venezia per segnalare questo pericoloso focolaio di corruzione. Si arresta Giulio Trevisan e Francesco de Lugo, che venono giustiziati. Gli altri, tra cui Ochino e Lelio Sozzini, riescono a fuggire. Essi divengono in Europa i propagatori di una nuova dottrina che pretende di ricostruire sulle rovine della Chiesa un tempio che avrebbe accettato tutte le credenze, dal libero pensiero fino al culto di lucifero. Ecco gli inizi della setta massonica e del blasfemo ecumenismo. Alla morte di Lelio, suo figlio Fausto Sozzini (1539-1604) fu suo zelante continuatore. Adriano Lemmi, antico Maestro del Grand’Oriente di Italia, ha presentato, durante la sua elezione, il 29 settembre 1893, Lelio Sozzini come il vero padre della franco-massoneria. – La complicità delle grandi autorità politiche e religiose è considerevole in questa diffusione delle sette anticristiane nel corso del Rinascimento. Re, imperatori, cardinali, finanche Papi, si fanno efficaci e zelanti protettori di coloro che preparavano la loro caduta … incredibile e colpevole accecamento! – Un giorno che Erasmo, sconvolto davanti alle conseguenze violente di una riforma protestante che egli aveva singolarmente contribuito a fomentare, scriveva della sua sconfitta al suo amico, il principe Alberto di Carpi; costui gli risponde sottolineando per bene le vere responsabilità: « I principi ecclesiastici ed i laici, egli scrive, raccolgono ora i frutti della semenza che hanno sparso a profusione, o di cui essi tutti hanno almeno favorito la crescita. Sono i poeti che hanno contribuito più ad eccitare in Germania la rivola contro la Chiesa e la società. Sono essi che hanno incoraggiato tutte queste violazioni del diritto di cui noi siamo tutti i giorni testimoni. Ma chi dunque ha sostenuto questi uomini? Sono i dignitari ecclesiastici, finanche quelli di rango più elevato. Essi hanno intrattenuto alle loro corti voluttuose queste persone dalle tendenze semipagane, che gettano il disprezzo su tutto ciò che sia rimasto caro al popolo e non hanno altro scopo che di ribaltare tutto ciò che esiste. » Questa lettera è estratta dai “Lucubrationes” nelle quali Erasmo, deluso dai risultati della riforma luterana, aveva raccolto i documenti nell’ultima parte della sua vita.

[1. Continua …]

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (V)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I. , Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO III

Dogma che ha cagionato la divisione del mondo soprannaturale.

L’Incarnazione del Verbo, causa della caduta degli angeli — Prove: dottrina dei Teologi — San Tommaso — Viguier — Suarez — Catharin.

Decretato sino ab æterno il dogma dell’Incarnazione del Verbo, fu a suo tempo proposto all’adorazione degli Angeli. Alcuni accettarono umilmente la superiorità ch’esso creava in favore dell’uomo; altri, ribellatisi per la preferenza data all’umana natura, protestarono contro il divino consiglio. Tale essendo l’opinione della maggior parte degli illustri dottori, essa merita per ogni rispetto l’attenzione del teologo e del filosofo. Il primo vi trova la soluzione delle più alte questioni della scienza divina. Al secondo spiega essa unicamente il carattere intimo dell’eterna lotta del bene e del male. Comunque siasi, tre incontrovertibili proposizioni ci sembrano dimostrarne la giustezza. Il mistero dell’Incarnazione fu la prova degli Angeli: 1° se essi hanno avuto cognizione di questo mistero; se questo mistero era di natura da ferire l’orgoglio loro e da eccitare gelosia; 3° se il Verbo incarnato è l’unico oggetto dell’odio di satana e dei suoi angeli. – Sentiamo i dottori che stabiliscono questa triplice verità: « Sin dal principio della loro esistenza, dice san Tommaso, tutti gli Angeli conobbero in qualche maniera il mistero del regno di Dio adempito mediante il Cristo; ma soprattutto partendo dal momento in cui essi furono beatificati con la visione del Verbo: visione che non ebbero mai i demonii, imperocché fu essa la ricompensa della fede degli angeli buoni. (Mysterium regni Dei, quod est impletum per Christum, omnes quidem angeli a principio aliquo modo cognoverunt; sed maxime ex quo beatificati sunt visione Verbi, quam dæmones nunquam habuerunt. – P. I, q. LXIV, art. 1, ad. 4) » – Che tutti gli Angeli, senza eccezione, abbiano avuto sin dal primo istante della loro creazione una certa conoscenza del Verbo eterno, la ragione si eleva sino a capirlo. Il Verbo è il sole di verità che illumina ogni intelletto che esce dalla notte del nulla; non ve ne sono però altri. Gli Angeli come specchi di una rara perfezione non poterono non riverberare qualche raggio di quel sole divino, del quale essi erano le più perfette immagini. Ma, quantunque essi avessero la coscienza di se medesimi, e delle verità che possedevano, quei raggi erano ancora velati e dovevano esserlo. Creati gli Angeli nello stato di grazia, non godettero però sin dall’origine della visione beatifica. Essi non conobbero dunque che imperfettamente il regno di Dio mediante il Verbo. Le cognizioni preliminari degli spiriti angelici furono, che questo Verbo adorabile, pel quale tutto è stato fatto, sarebbe il punto d’unione tra il finito e l’infinito, tra il Creatore e la creazione tutta quanta, e che in tal modo stabilirebbe gloriosamente il regno di Dio sopra l’universalità delle sue opere. Era insomma il mistero in germe dell’Incarnazione, o della unione ipostatica del Verbo con la creatura; ma nulla di più. (Fa d’uopo dire altrettanto dello stesso Adamo, e per le stesse ragioni. S. Th. II. 2a, q. n, art. 7. corp., ec.; e q. I, p. XCIV, art. 1, corp). – Spiegando le parole del maestro: « Gli Angeli, dice un dotto discepolo di san Tommaso, hanno una duplice cognizione del Verbo, cognizione naturale e soprannaturale. » – « Una cognizione naturale, con cui essi conoscono il Verbo nella sua immagine, risplendente nella loro propria natura. Questa prima cognizione, illuminata dalla luce della grazia e riferita alla gloria di Dio e del Verbo, costituiva quella beatitudine naturale nella quale essi furono creati. Pur tuttavia essi non erano ancora perfettamente beati, poiché essi erano capaci di una maggior perfezione, e che potevano perderla, il che infatti ebbe luogo per un gran numero. « Una cognizione soprannaturale o gratuita, in virtù della quale gli Angeli conoscono il Verbo per essenza e non per immagine. Essa non fu data loro al primo istante della loro creazione, ma al secondo, dopo una libera elezione per parte loro. » – Ascoltiamo adesso Suarez, per la cui bocca, dice Bossuet, parla tutta la scuola: « Bisogna tenere per molto probabile l’opinione che crede, che il peccato originale commesso da lucifero, sia stato il desiderio dell’unione ipostatica: ciò che l’ha reso sin da principio il nemico mortale di Gesù Cristo. Ho detto che questa opinione è molto verosimile, e continuo a dirlo. Abbiamo dimostrato che tutti gli Angeli, nello stato di prova, avevano avuto rivelazione del mistero dell’unione ipostatica che doveva compiersi nella natura umana. È dunque credibilissimo che lucifero abbia trovato in ciò l’occasione del suo peccato e della sua caduta. » (Viguier, cap. III, § 11, vers. 6, p. 79) – Una delle glorie teologiche del concilio di Trento, Catharin, sostiene altamente la stessa opinione, e con altri commentatori spiega egli così il testo di san Paolo: E allorquando lo introdusse di nuovo nel mondo, Egli disse: che tutti gli angeli l’adorino. (Hebr. I, 6). Perché questa parola di nuovo, una seconda volta? « Perchè il Padre eterno aveva già introdotto una prima volta il suo Figliuolo nel mondo, allorché, sin dal principio, Egli lo propose all’adorazione degli Angeli e rivelò loro il mistero dell’incarnazione. Lo introdusse una seconda volta, allorquando lo mandò sulla terra per incarnarsi effettivamente. Ora, a questa prima introduzione e rivelazione, lucifero ed i suoi angeli rifiutarono a Gesù Cristo di adorarlo ed obbedirlo. Tale fu il loro peccato. « Difatti, secondo la dottrina comune dei Padri, il demonio ha peccato per invidia contro l’uomo, ed è più probabile ch’egli abbia peccato prima che l’uomo fosse creato. Ora, non bisogna credere che gli angeli abbiano invidiato la perfezione naturale dell’uomo, in tanto che creata ad immagine e similitudine di Dio. In questa supposizione, ogni Angelo avrebbe avuto la stessa ragione, ed anche una più forte, quella d’ingelosire gli altri Angeli. È dunque più verosimile che il demonio abbia peccato per l’invidia della dignità con cui ha visto innalzare la umana natura nel mistero dell’Incarnazione. » (Opusc. de gloria Beator. apud Vasquez, pars I, q. LXIII, disp. 233). – Nel capitolo seguente verranno nuove autorità a confermare l’opinione dell’illustre teologo.

CAPITOLO IV.

(continuazione del precedente.)

Naclanto — Nuovo passo di Viguier — Ruperto — Ragionamento —

Testimonianza di san Cipriano, di sant’Ireneo, di Cornelio a Lapide

— Conclusione.

Un altro membro del concilio di Trento, il dottissimo vescovo di Foggia, Naclanto, così si esprime: « Sin dal principio, lucifero e lo stesso Adamo conobbero il Cristo, almeno per il lume della fede e di una rivelazione particolare, come il Creatore, il Signore e l’Oceano di tutti i beni. Ma, traviati per propria loro colpa, rimossero gli occhi dalla luce, e come se non l’avessero conosciuto per il Signore e per l’autore di ogni grazia e di ogni felicità, rifiutarono di sottometterglisi. Essi lo disprezzarono altresì nel modo il più empio: cosi la Scrittura spiega il non conoscerlo. Quanto a lucifero, la cosa è evidente. Non solo egli pretese innalzarsi da sé medesimo nel cielo, ma di più uccidere Cristo, invadere il suo trono e costituirsi in suo luogo. » (Enarrat, in epist ad Eph., cap. I, p. 49, in-fol.). –  Per stabilire che l’odio verso il Verbo incarnato fu il peccato di lucifero, e che non ha altro scopo che di combatterlo, Naclanto dimostra dal canto suo che il Verbo incarnato non ha altro pensiero che di combattere satana e di distruggere l’opera sua, « Cristo è venuto per distruggere le opere del diavolo. Infatti, muore Cristo, e il capo di satana è schiacciato, e cacciato egli stesso dal suo impero. Cristo scende all’inferno, e satana è spogliato; le armi ed i trofei nei quali riponeva egli la sua fiducia gli son tolti. Cristo trionfa, e satana, nudo e prigioniero, è consegnato e lasciato in balìa del disprezzo del mondo, e lasciato in. Esempio ai suoi partigiani. » (Venit Christus ut dissolvat opera diaboli. Cliristo moriente, contritum est caput ejus; et ipse foras est a principatu dejectus. Christo descendente, Tartarus est spoliatus, et arma et trophaea in quibus confidebat sunt direpta. Christo triumphante, nudus et captivus palam est ostentatus, et reliquia ejus membris in exemplum traductus. Enarr. In Epist. ad Eph., XI, p. 100).  – La stessa dottrina trovasi, ma in una maniera più esplicita, nel gran teologo spagnolo Viguiero. Parlando del testo di san Tommaso (Part. I, q. LXIII, art. 3; et De malo, q. XVIII, art. 8, ad 4) egli dice: « lucifero, considerando la bellezza, la nobiltà e la dignità della sua natura e della sua superiorità su tutte le creature, dimenticò la grazia di Dio, a cui tutto doveva. Disconobbe inoltre i mezzi di giungere alla perfetta felicità che Dio riserba ai suoi amici. Pieno d’orgoglio, ambì quella felicità suprema, e il cielo dei cieli, retaggio della natura umana, che doveva essere unita ipostaticamente al Figlio di Dio. Egli invidiò quel posto, il quale, nella Scrittura è chiamato la destra di Dio, s’ingelosì dell’umana natura, e comunicò il suo desiderio a tutti gli Angeli, dei quali egli era naturalmente il capo. – « Siccome egli era superiore agli Angeli nei doni naturali, cosi volle esserlo pure nell’ordine soprannaturale. Insinuò loro dunque di sceglierlo per mediatore o mezzo di giungere alla beatitudine soprannaturale, in luogo del Verbo incarnato, predestinato da tutta la eternità a questa missione. Tale è il significato dèlle sue parole: Io salirò al cielo; sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, salirò sul monte del testamento al lato di settentrione. Sormonterò l’altezza delle nuvole, sarò simile all’Altissimo.  (Is., XIV, 13, 14) « Risovvenendosi i buoni Angeli allo stesso istante della grazia di Dio, come principio di tutti, i beni, e conoscendo per via della fede la passione del vero mediatore, il Verbo incarnato, cui gli eterni decreti avevano riserbato il posto e l’ufficio di mediatore del quale Lucifero voleva impadronirsi, non vollero per niente associarsi alla sua rapina. Essi gli seppero resistere; e grazie al merito della passione preveduta del Cristo, vinsero mediante il sangue dell’Agnello. In cotal modo quella gravitazione verso Dio che fin dal primo istante di loro creazione avevano essi incominciata, parte per inclinazione naturale, parte per impulso della grazia, liberamente, ma imperfettamente, la continuarono poi in piena e perfetta libertà. « In quanto agli angeli cattivi, ve ne furono di tutte le gerarchie e di tutti gli ordini, in tutto formanti la terza parte del cielo. Abbagliati essi, come Lucifero, dalla nobiltà e dalla bellezza della loro natura, si lasciarono adescare dalla brama di ottenere la bellezza soprannaturale, mediante le proprie loro forze e col soccorso di Lucifero; se ne stettero alle di lui suggestioni, applaudirono al suo progetto, portarono invidia alla natura umana, e giudicarono che l’unione ipostatica, l’ufficio di mediatore e la destra di Dio, si addicevano meglio a Lucifero che alla natura umana, inferiore alla natura angelica. « Dopo quell’istante, la cui durata ci è ignota, di libera e completa elezione, l’Iddio onnipotente comunicò ai buoni Angeli la chiara visione della sua essenza, e condannò al fuoco eterno i cattivi, con lucifero, loro capo, a cui disse: Tu non salirai, ma scenderai, e sarai trascinato nell’inferno.(Isa. XIV, 1). Gli Angeli buoni, avendo Michele e Gabriele alla loro testa, tosto eseguirono l’ordine di Dio, e comandarono a lucifero ed ai partigiani suoi di uscire dal cielo, dove pretendevano rimanere. – Bisognò loro malgrado obbedire. « In conseguenza di quanto abbiamo visto, risulta chiaro:

1° Che lucifero non ha peccato per avere ambito di essere uguale a Dio; era egli troppo illuminato da ignorare ch’è impossibile uguagliare Dio, essendo impossibile che vi fossero due infiniti. Inoltre è impossibile che una natura di un ordine inferiore diventi una natura d’un ordine superiore; attesoché bisognerebbe, perciò, ch’ella si annientasse. Egli non poté concepire un tal desiderio, conciossiachè ogni creatura desidera altresì, innanzi tutto e invincibilmente, la sua conservazione. Perciò il Profeta Isaia non gli fa dire: Io sarò uguale, sarò simile a Dio.

2° É evidente che Lucifero ha peccato desiderando in un modo colpevole la rassomiglianza con Dio. Ambì egli d’essere il capo degli Angeli, non solamente per l’eccellenza della sua natura, privilegio di cui godeva, ma volendone esser loro mediatore per ottenere la beatitudine soprannaturale: beatitudine che voleva acquistare egli stesso con le sue proprie forze. Cosi è che egli desiderò l’unione ipostatica, l’ufficiò di mediatore ed il posto riserbato all’umanità del Verbo, come ad esso conveniente meglio che alla natura umana, alla quale sapeva che il Verbo doveva unirsi. Il volere impadronirsene era dunque per parte sua, un atto di rapina. Perciò Nostro Signore Gesù Cristo lo chiama ladro. » (Viguier, cap. m, § 11, vers. 15, p. 96, 97). – Ruard, Molina e altri sommi teologi professano la stessa dottrina in un modo non meno assoluto: assolute. Molto prima di costoro il celebre Ruperto area espresso la stessa sentenza. Intorno a quelle parole del Salvatore: Egli fu omicida sino da principio, e voi volete compiere i desideri del Padre vostro, egli dice: Il Figliuolo di Dio parla qui della sua morte. Cosi, niente impedisce d’intendere per questo primitivo omicidio, l’antico odio di satana contro il Verbo. Quest’odio, anteriore alla nascita dell’uomo, satana arde di soddisfarlo. Per giungere al suo intento, adopra tutti i mezzi di far porre a morte quello stesso Verbo di Dio, attualmente rivestito dell’umana natura. « Ciò è tanto più vero, in quanto che Nostro Signore aggiunge: Ed egli non fu fedele al vero; il che ebbe luogo avanti la creazione dell’uomo. Infatti, nel momento in cui sollevandosi contro il Figliuolo, che solo è l’immagine del Padre, egli disse nel suo orgoglio: Io sarò simile all’Altissimo, divenne omicida dinanzi a Dio, salvo a divenirlo dinanzi agli uomini, facendo morire per mano dei Giudei l’eterno oggetto dell’odio suo…. Queste parole, egli non rimase fedele alla verità, significano che egli non ha continuato ad amare Colui il quale è la verità, il Figlio di Dio. Difatti rimanere nella verità è lo stesso che amare la verità; e rimanere o tenersi a Cristo è la stessa cosa che amare Cristo. Satana è dunque omicida sin dal principio, perché ha sempre tenuto per la verità, che è il Verbo, un odio indicibile.1 » (Comment. in Joan., lib. VII, ad illa: Ille erat homicida, n° 242 a 224).  Questa notevole testimonianza può riassumersi cosi: lucifero, avanti la sua caduta, conosceva le adorabili persone della SS. Trinità, e le amava. Troppo grandi erano i suoi splendori per permettergli d’essere geloso di Dio, tanto meno ancora di avere la pretensione di divenirlo. Allora egli tenevasi nel vero. Ma quando seppe che il Verbo doveva unirsi alla natura umana, a fine di divinizzarla, e, divinizzandola, innalzarla al disopra degli Angeli, al disopra del medesimo lucifero, allora non stette più nel vero. L’orgoglio entrò in lui, questo lo condusse alla ribellione; dalla ribellione all’odio, dall’odio alla caduta. – La stessa ragione dall’altra parte, per poco che essa rifletta, si persuade facilmente che la prova degli Angeli ha dovuto consistere nel credere al mistero dell’Incarnazione. Prima di tutto, il peccato degli Angeli è stato un peccato d’invidia; questo è un punto indiscutibile della dottrina cattolica. Fra tutti i Padri ascoltiamo solamente san Cipriano, parlando dell’invidia: « Come è grande, o miei dilettissimi figli, esclama egli, quel peccato che ha fatto cadere gli Angeli; che ha offuscato quelle alte intelligenze, e rovesciato dai troni loro quelle potenze sublimi; che ha ingannato lo stesso ingannatore! Di qui appunto è discesa sulla terra l’invidia. Per cagion sua perì colui che, pigliando a modello il maestro della perdizione, obbedì alle sue ispirazioni, come sta scritto: Per invidia del demonio la morte entrò nel mondo. » (Invidia diaboli mors introivit in orbem terrarum. – Opusc. de zelo et livore.) In conseguenza, l’invidia degli angeli non ha potuto avere che due oggetti: Dio o l’uomo. Rispetto a Dio, il volere essere simile a Dio, uguale a Dio, considerato in se medesimo, e fatta astrazione dal mistero della Incarnazione, è un desiderio che l’angelo non ha potuto avere: « Questo desiderio, dice san Tommaso, è assurdo e contro natura; e l’angelo lo sapeva. » (Scivit hoc esse impossibile, naturali cognitione…. et dato quod esset possibile, hoc esset contra naturale desiderium. Pars I; q. LXIII, art. 3, corp.; id Petav. de Ang. cap. XI, n° 22) – L’uomo è stato dunque l’oggetto della gelosia di lucifero. « Per la gelosia concepita contro l’uomo, dice sant’Ireneo, l’angelo divenne apostata e nemico dell’uman genere. » (Ex tunc enim apostata est angelus et ininnicus, ex quo zelavit plasma Dei et inimicum illum Deo facere agressus est. Lib. IV”, Adv. hæres., cap. LXXVIII). – Ma come noi abbiamo già visto, l’angelo non aveva nessuna ragione d’invidiare la dignità naturale dell’uomo. Questa dignità consiste nella creazione ad immagine ed a somiglianza di Dio. Ora, l’Angelo stesso è fatto ad immagine di Dio, ed anche in un modo più perfetto dell’uomo. (S. Aug.: De Trinit, lib. XII, cap. VII). Una sola cosa innalzava l’uomo al disopra dell’Angelo e poteva eccitare la sua gelosia, cioè l’unione ipostatica. – Se il dogma dell’Incarnazione, considerato in sé medesimo, basta per spiegare la caduta di lucifero; lo spiega ancor meglio riguardato nelle sue relazioni e ne’suoi effetti. Da un lato, questo mistero è il fondamento e la chiave di tutto il disegno divino, tanto nell’ordine della natura che in quello della grazia. Dall’altro esigeva dagli Angeli, per essere accettato, il più grande atto di abnegazione: atto sublime relativamente alla sublime ricompensa che doveva coronarlo. Tutta la creazione, materiale, umana, ed angelica, come discesa da Dio, a Dio deve risalire; imperocché il Signore ha fatto tutto per sé e per sé solo. (Universa propter semetipsum operatus est Dominus. Prov., XVI, 4. — Ego Dominus, hoc est nomen meum, et gloriam meam alteri non dabo. Is. XLII, 8). Ma una distanza infinita separa il creato dall’increato. Per colmarla, è necessario un mediatore; e poiché è necessario, si troverà. Formando il punto di congiunzione, e come la saldatura del finito con l’infinito, questo mediatore sarà il legame misterioso che unirà tutte le creazioni tra di esse e con Dio. (S. Aug. Soliloq. cap. VI. Chi sarà egli? Evidentemente Colui il quale, avendo fatte tutte le cose, non può lasciare l’opera sua imperfetta: sarà dunque il Verbo eterno. Alla natura divina unirà ipostaticamente la natura umana, nella quale si danno convegno la creazione materiale e la creazione spirituale. Mercé di questa unione in una medesima Persona, dell’Essere divino e dell’essere umano, del finito e dell’infìnito, Dio sarà uomo, e l’uomo sarà Dio. Questo Dio-uomo diventerà la deificazione di tutte le cose, principio di grazia e condizione di gloria, anco per gli Angeli, i quali dovranno adorarlo come loro Signore e loro padrone. (S. Iren. Adv. hæres., lib. III, cap. VIII, et Corn. a Lap., in Epist. ad Eph. ap. I, 10).Un uomo-Dio, una Vergine-Madre, l’innalzamento più smisurato dell’essere il più umile, la natura umana preferita alla natura angelica, l’obbligo d’adorare, in un uomo-Dio, il loro inferiore divenuto loro superiore! A questa rivelazione, l’orgoglio di Lucifero si rivolta, e si manifesta la sua invidia. Iddio l’ha visto. La giustizia, rapida come la folgore, colpisce il ribelle ed i complici suoi, in quelle colpevoli disposizioni, le quali, facendo eterno il loro delitto, eternizzano il loro castigo. Tale è la grande battaglia della quale parla san Giovanni.Il Cielo ne fu il primo teatro: la terra sarà il secondo.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (IV)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I. , Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO II

Divisione del Mondo Soprannaturale.

Certezza di questa divisione: il dualismo universale e permanente — Causa di questa divisione: un atto colpevole — Origine storica del male — Spiegazione del passo di San Giovanni: Una gran battaglia ebbe luogo in cielo etc. — Natura di questa battaglia — Grandezza di essa — In qual Cielo ebbe luogo — Due ordini di verità: le verità naturali e le soprannaturali — Gli Angeli conoscono naturalmente le prime con certezza — La prova ebbe per oggetto una verità dell’ordine soprannaturale — Caduta degli Angeli.

Abbiamo dunque visto che il mondo superiore, il mondo delle pure intelligenze, governa necessariamente l’uomo e il mondo che gli è inferiore. Logicamente ne risulta che il Re del mondo superiore è il vero Re di tutte le cose. Gli Angeli e gli uomini, forze della natura, non sono che i suoi agenti. Tutto dipende da lui; Egli solo non dipende da alcuno. In conseguenza di ciò parrebbe che nell’universo tutto dovesse esser pace e unità. Invece altra è la realtà; dappertutto è il dualismo. Ora il dualismo non è nel mondo inferiore se. Non perché è nel mondo superiore; è nel mondo dei fatti, perché è nel mondo delle cause. La divisione e la guerra son dunque scoppiate nel cielo, innanzi di discendere sulla terra. Come esse sono tra gli uomini, profonde, accanite, universali, permanenti, cosi lo sono tra gli angeli. In una parola, il mondo soprannaturale, diviso in buono e cattivo, tale é la seconda verità fondamentale che bisogna mettere in chiaro. – Dio essendo la bontà per essenza, tutto ciò che esce dalle di lui mani non può essere che buono. (Deus charitas est. I Joan., IV, 16. — Vidit Deus cuncta quæ fecerat, et erant valde bona. Gen. I, 31). –  Essendo che una parte degli abitanti del mondo superiore sono malvagi, e che non sono tali per natura, fa d’uopo per necessità concludere ch’essi lo sono divenuti. Nessuno diventa malvagio che per sua colpa. Ogni colpa suppone il libero arbitrio. Gli Angeli cattivi sono dunque stati liberi, e hanno abusato della loro libertà. Ma quale è la prova a cui hanno essi volontariamente mancato? Se la ragione ne conferma resistenza, la rivelazione soltanto può spiegarne la natura. Sotto pena di sragionare eternamente, fa d’uopo dunque interrogare Dio medesimo, autore della prova e testimone dei suoi resultati. Ecco ciò che l’Antico dei giorni dice al suo più intimo confidente: Una gran battaglia ebbe luogo nel Cielo; Michele e gli angeli suoi combattevano contro il Dragone; e il Dragone combatteva, e seco i suoi Angeli. (Et factum est praefium magnum iu cœlo; Michael et Angeli ejus præliabantur cum Dracone; et Draco pugnabat et Angeli ejus. Apoc., XII, 7). – Queste poche parole racchiudono tesori immensi di luce. In ciò solamente sta l’origine storica del male. Dappertutto altrove incertezze, contradizioni, tenebre, oscillazioni eterne. E poiché siamo giunti al gran problema del mondo, tratteniamoci a considerare ogni sillaba dell’Oracolo divino. – Quale è questo combattimento, praelium? Essendo gli Angeli puri spiriti, questo combattimento non fu una lotta materiale, come quella dei Titani della mitologia; né una battaglia simile a quelle che si danno sulla terra, dove ora dall’una, ora dall’altra parte, i combattenti si assalgono da lontano con proiettili, si pigliano corpo a corpo, si gettano a terra, e si calpestano. In ciò essendo gli esseri tanti attori, un combattimento di Angeli è puramente intellettuale. È una contesa tra puri spiriti, in cui alcuni dicono si a una verità, e altri no. Grande combattimento, prælium magnum. Grande è infatti sotto qualunque punto di vista lo si ravvisi. Grande, pel numero e la potenza dei combattenti; grande, perché fu il principio di tutti gli altri; grande pei suoi resultati immensi, eterni; grande per la verità che ne fu l’oggetto. Per dividere il Cielo in due campi irreconciliabili, per trascinare nell’abisso la terza parte degli Angeli, e per assicurare per sempre la felicità degli altri, bisogna che questa verità tanto contrastata fosse un domma fondamentale. (Et cauda ejus trahebat tertiam partem stellamm Cœli, et misit eos iu terram. Apoc., XII, 4). – Quale può essere la natura di questa verità proposta come prova, all’adorazione delle gerarchie celesti? Per gli Angeli come per gli uomini vi sono due sorta di verità: le verità dell’ordine naturale e quelle dell’ordine soprannaturale. Le prime non oltrepassano le facoltà naturali dell’Angelo e dell’uomo. Ma delle seconde è altrimenti: spieghiamo dunque questo punto di dottrina. Ogni essere, come opera di un Dio infinitamente buono, è creato per la felicità. La felicità dell’essere consiste nella sua unione col fine pel quale egli è stato creato. Tutti gli esseri essendo stati creati da Dio e per Iddio, la loro felicità consiste nella unione di questi con Dio. Negli esseri intelligenti, fatti per conoscere e per amare, questa unione ha luogo mediante la cognizione e l’amore. Quest’amore e questa cognizione, svolte per quanto lo concedano le forze della natura, costituiscono la felicità naturale della creatura. Iddio non se n’è contentato. A fine di procurare agli esseri dotati di intelligenza una felicità infinitamente maggiore, cioè la sua bontà essenzialmente comunicativa, ha voluto che gli Angeli e gli uomini si uniscano al Bene supremo, per via di una conoscenza molto più chiara e mediante un amore molto più intimo, che non lo esigeva la loro naturale felicità: quindi, la bontà soprannaturale. Di qui pure, due sorta di cognizioni di Dio e della verità: una, naturale che consiste nella vista di Dio, in quanto la creatura n’è capace con le sue proprie forze; l’altra soprannaturale che consiste in una vista di Dio, superiore alle forze della natura e infinitamente più chiara della prima. Questa seconda cognizione è un favore tutt’affatto gratuito. Gli Angeli e gli uomini, come esseri liberi, debbono, per assicurarsene il possesso, soddisfare alle condizioni alle quali Iddio lo promette. – Da ciò infine derivano, com’è stato detto, relativamente agli Angeli ed all’uomo, due sorta di verità: le verità dell’ordine naturale, e le verità dell’ordine soprannaturale. Gli Angeli conoscono perfettamente, completamente, nei loro principiì e nelle loro ultime conseguenze, nell’insieme e minutamente, tutte le verità dell’ordine naturale, vale a dire che rientrano nella sfera nativa della loro intelligenza. Per essi, in questa sfera, non avvi alcun errore, nessun dubbio: per conseguenza nessuna possibile contradizione. Donde viene loro questa mirabile prerogativa? dall’eccellenza stessa della propria natura. Spieghiamo ancora questo punto d’alta filosofia, tanto nota alla barbarie del medio evo. e tanto sconosciuta nel nostro secolo dei lumi. L’Angelo è una intelligenza pura. Il suo intendimento è sempre un atto, non mai una potenza; cioè dire che l’Angelo non ha soltanto, come l’uomo, la facoltà o la possibilità di conoscere, ma che conosce attualmente. Ascoltiamo quei grandi filosofi, sempre antichi e sempre nuovi, che chiamansi i Padri della Chiesa ed i teologi scolastici. « Gli Angeli, dicono essi, per conoscere non hanno bisogno né di cercare, né di ragionare, né di comporre, né di dividere: essi si guardano e vedono. La ragione è questa, che sino dal primo istante della loro creazione, hanno avuto tutta la loro perfezione naturale e posseduto le specie intelligibili, o rappresentazioni delle cose, perfettamente luminose, per mezzo delle quali vedono tutte le verità che possono conoscere naturalmente. – Il loro intendimento è come uno specchio perfettamente puro, nel quale si riflettono e s’imprimono senz’ombra, senza accrescimento né diminuzione, i raggi del sole di verità. – « Altra cosa è l’intendimento dell’uomo, uno specchio imperfetto, cosparso di macchie più o meno dense, e più o meno numerose, le quali non scompaiono che in parte sotto lo sforzo laborioso e di continuo rinnovato dello studio e del raziocinio. La ragione è che l’anima umana, essendo unita al corpo, deve ricevere successivamente cose sensibili; e per via di queste, una parte delle specie intelligibili, mediante le quali gli è fatta conoscere la verità. È appunto cosi che l’anima è unita al corpo. » (Angelus semper est actu intelligens, non quandoque actu et quandoque potentia, sicut nos. S. Thn i p., q. l , art. 1). – Poiché, sino dall’istante della loro creazione, gli Angeli conobbero perfettamente, tutte le verità dell’ordine naturale, così la loro prova ha avuto necessariamente per oggetto qualche verità dell’ordine soprannaturale. Queste verità essendo inaccessibili alle forze native del loro intendimento, non vengono essi a conoscerle che per via della rivelazione. « Negli angeli, dice san Tommaso, vi sono due conoscenze: una naturale, con cui conoscono le cose tanto per la loro essenza che per (le specie innate. In virtù di questa conoscenza, essi non possono capire i misteri della grazia, perché questi misteri dipendono dalla pura volontà di Dio. L’altra soprannaturale, che gli beatifica, e in virtù di essa vedono il Verbo e tutte le cose nel Verbo. Con questa visione, conoscono i misteri della grazia, non tutti, né tutti egualmente, ma secondo che a Dio piace rivelarglieli. »E il combattimento ebbe luogo nel cielo, in Cœlo. Qual è questo cielo? Sonovi tre cieli o tre sfere di verità: il cielo delle verità naturali; il cielo della visione beatifica; il cielo della fede, intermediario tra i due primi. Abbiamo visto già che fino dal primo istante della loro creazione, gli angeli conoscono perfettamente nel loro insieme e nelle loro ultime conseguenze, tutte le verità dell’ordine naturale. Questa conoscenza forma la loro gloria, statuendo l’immensa superiorità di questi sull’uomo,. Così non havvi, da parte loro nessun interesse a protestare contro alcuna di queste verità. Nessuna possibilità di farlo; imperocché ogni essere ripugna invincibilmente alla sua distruzione. Le verità dell’ordine naturale essendo connaturali agli Angeli, protestare contro di esse sarebbe stato un protestare contro l’essere proprio: il negarle poi, sarebbe stato una specie di suicidio: dunque la battaglia non ebbe luogo nel cielo delle verità naturali. Tanto meno ebbe per teatro il cielo della visione beatifica; poiché questo, come ricompensa della prova, è l’eterno soggiorno della pace. Ivi, tutte le intelligenze angeliche ed umane, poste in faccia alla verità contemplata da esse senza velo, confermate nella grazia, unite in carità e confermate nella gloria, vivono della stessa vita, senza opposizioni, senza divisioni e senza possibili gare.Qual è dunque il cielo del combattimento? Evidentemente la dimora, o lo stato nel quale gli Angeli dovevano, come l’uomo, subire la prova per meritare la gloria. In che questa consisteva? Certamente ancora nell’ammissione di qualche mistero sconosciuto dell’ordine soprannaturale. Questa ammissione, per essere meritoria doveva costare. Essa ebbe dunque per oggetto qualche mistero il quale, al cospetto degli Angeli, sembrava urtare la loro ragione, derogare alla propria eccellenza e nuocere alla gloria loro. Ammettere umilmente questo mistero sopra la parola di Dio, adorarlo a malgrado delle sue oscurità e delle ripugnanze della loro natura, a fine di vederlo dopo averlo creduto; tale era la prova degli Angeli. Con quest’atto di sottomissione, queste intelligenze sublimi, curvando la loro fronte luminosa dinanzi all’Altissimo, gli dicevano: « Noi non siamo che creature; Voi solo siete l’Essere degli esseri. La vostra sapienza è infinita; grande com’essa, la nostra non è. La vostra carità agguaglia la vostra saggezza; noi abbracciamo nella pienezza dell’amore il mistero che vi degnate rivelarci. »Nei consigli di Dio, quest’atto di adorazione, che implica l’amore e la fede, era decisivo per gli Angeli, come un atto simile lo fu per Adamo, come lo è per ognuno di noi: chiunque non crederà, sarà condannato. (Qui vero non crediderit. condemnabitur. Marc.XVI, 16) – « E Michele e gli angeli suoi combatterono contro il Dragone. Michael et angeli ejus prælìabantur cum Dracone. Appena venne proposto di credere a questo domma, uno degli Arcangeli più luminosi, Lucifero, mandò il grido della ribellione: « Io protesto: ci si vuol far discendere, ed io salirò. Si vuole umiliare il mio trono, io lo innalzerò al di sopra degli astri. Io sederò sul monte dell’alleanza, ai fianchi dell’Aquilone. Io e nessun altro, sarò simile all’Altissimo. » 2 (“Conscendam, super astra Dei exaltabo solium meum, sedebo in monte testamenti, in lateribus Aquilonis…., similis ero Altissimo. Is., XIV, 13, 14). – Una parte degli angeli, ripete: « noi protestiamo. Tale è la prima origine del protestantismo. In questo senso può lusingarsi di non essere d’oggi.) » – A queste parole, un Arcangelo, luminoso quanto Lucifero, esclama: «Chi è simile a Dio? chi può rifiutarsi di credere, di adorare ciò che propone alla fede e all’adorazione delle sue creature? Io credo e adoro. » Quis ut Deus? La moltitudine delle celesti gerarchie ripete: « Noi crediamo e adoriamo. » Lucifero ed i suoi aderenti non appena commessa la colpa essendo stati puniti, si videro cangiati in demoni orribili, e furono precipitati negli abissi di quell’inferno che il loro stesso orgoglio aveva scavato. Spaventevole severità della giustizia di Dio! Quale n’è la causa, e donde viene ch’Egli abbia avuto misericordia per l’uomo e non per un angelo? La ragione sta nella superiorità della natura angelica. Gli angeli sono immutàbili, mentre l’uomo non lo è. San Tommaso dice: « essere un articolo della fede cattolica, che la volontà degli Angeli buoni è confermata nel bene, e la volontà dei cattivi, ostinata nel male. La causa di questa ostinazione non è nella gravità della colpa, bensì nella condizione della natura. Fra l’apprensione dell’Angelo e l’apprensione dell’uomo avvi questa differenza, che l’Angelo comprende o afferra immutabilmente col suo intelletto, come noi stessi afferriamo i primi principii che conosciamo. Al contrario l’uomo, con la sua ragione, apprende o afferra la verità, in una maniera variabile, andando da un punto all’altro, avendo pure la possibilità di passare dal si al no. Di guisa che la sua volontà non aderisce a una cosa che in un modo variabile, conservando essa altresì la facoltà di distaccarsene, e di appigliarsi alla cosa contraria. Diverso è il caso della volontà dell’Angelo: essa aderisce stabilmente e immutabilmente. » Noi conosciamo l’esistenza, il luogo ed il resultato della prova; ma qual ne fu la natura? In altri termini: qual è il domina preciso, la cui rivelazione diventò la pietra d’inciampo, per una parte delle celesti intelligenze? L’esame di tale questione sarà l’argomento dei seguenti capitoli.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: LÆTITIÆ SANCTÆ DI S. S. LEONE XIII

Letitiæ sanctæ è l’ennesima Enciclica che Leone XIII dedica al Santo Rosario, ritenuto rimedio efficace non solo per i mali spirituali, ma pure per quelli materiali e sociali. Di questi mali sociali, il Pontefice traccia una profilo rapido facendone una breve analisi, riportando quelli che, secondo Lui, sono i tre fattori perniciosi principali alla base di ogni malessere sociale del tempo, che sono in fondo rimasti tali, anzi ancor più virulenti oggi, e che sono: 1° – l’avversione alla vita umile e laboriosa; 2° – l’orrore della sofferenza; 3° – la dimenticanza dei beni futuri, oggetto delle nostre speranze. Mai si è vista un’analisi così precisa, succinta e veritiera dei mali che devastano l’umanità. Queste brevi parole possono prendere il posto di interi trattati, di codici civili, di enciclopedie dei popoli, tanto sono efficaci nella descrizione, seppur concisa, ma chiarissima, della situazione analizzata. Ma, con ancor maggiore chiarezza e meraviglia, a questi tre mali pestilenziali, il Sommo Pontefice, oppone il singolo opportuno rimedio, riportandoli tutti alle tre serie di Misteri del Santo Rosario, strumento « …  meravigliosamente efficace nel curare i mali dei nostri tempi, e nell’arginare i gravissimi mali della società ». È una goduria dell’anima e della mente la lettura di queste brevi pagine che giustificano a pieno titolo la definizione di “Luce  e Maestra dei popoli” che viene giustamente data alla Chiesa Cattolica, all’unica vera Chiesa di Cristo, nella persona del suo Vicario. Ogni altra parola rovinerebbe l’incanto e la gioia della lettura, per cui senz’altro passiamo alla meditazione di questo breve ma veramente straordinario documento magisteriale:

Leone XIII

Lætitiæ sanctæ

Lettera Enciclica

La pia pratica del Rosario
8 settembre 1893

La santa letizia, arrecataci dal felice compimento del cinquantesimo anniversario della Nostra consacrazione episcopale, si è intensamente accresciuta per il fatto che della Nostra gioia abbiamo avuto partecipi i cattolici di tutto il mondo, stretti come figli intorno al Padre, in una splendida manifestazione di fedeltà e d’amore. In ciò, con rinnovata gratitudine, riconosciamo ed esaltiamo un disegno della divina provvidenza sommamente benevolo verso di Noi e, nello stesso tempo, assai proficuo alla sua Chiesa, Ma il Nostro animo si sente spinto a salutare e lodare anche l’augusta Madre di Dio, che di questo beneficio è stata potente mediatrice presso Dio. La sua singolare bontà, che nel lungo e mutevole periodo della Nostra vita abbiamo sperimentata in vari modi efficace, risplende ogni giorno più manifesta innanzi ai nostri occhi, e, ferendoci soavissimamente il cuore, lo rinsalda con fiducia soprannaturale. – Ci sembra di udire la voce stessa della Regina del cielo, ora benevolmente incoraggiarCi, in mezzo alle terribili traversie della chiesa; ora aiutarCi, con larghezza di ispirazioni, nelle decisioni da prendere per il bene comune; ora anche ammonirci a stimolare il popolo cristiano alla pietà e al culto della virtù. Già molte volte, in passato, ci siamo fatto un gradito dovere di rispondere a questi desideri della Vergine. Ora fra le utilità, che con la sua benedizione abbiamo raccolto dalle Nostre esortazioni, è giusto ricordare lo straordinario sviluppo della devozione del suo santo “rosario”: sia per l’incremento e la costituzione di confraternite sotto questo titolo; sia per la divulgazione di scritti dotti e opportuni; sia anche per l’ispirazione data a veri capolavori artistici. – Ed oggi, quasi accogliendo la stessa voce dell’amorosissima Madre, con cui ci ripete: “Grida, non stancarti mai”, ci piace riparlarvi, venerabili fratelli, del Rosario Mariano, ora che si avvicina il mese d’ottobre: mese che volemmo consacrato a questa cara devozione, e che arricchimmo coi tesori delle sante indulgenze. La Nostra parola, tuttavia, non avrà lo scopo immediato di tributare nuove lodi a una preghiera, già di per se stessa tanto eccellente, ne’ di stimolare i fedeli a praticarla con sempre maggiore fervore; parleremo piuttosto di alcuni preziosissimi vantaggi, che da essa possono derivare, quanto mai rispondenti alle condizioni e alle necessità degli uomini e dei tempi presenti. Perché Noi siamo assolutamente convinti che, se la pratica del rosario sarà rettamente seguita, in modo da poter spiegare tutta l’efficacia che le è insita, apporterà non soltanto ai singoli individui, ma anche a tutta la società, la più grande utilità. – Tutti sanno quanto Noi, per il dovere del supremo Nostro apostolato, ci siamo adoperati per contribuire al bene della società, e quanto siamo ancor disposti a farlo, con l’aiuto di Dio. Abbiamo spesso ammonito i governanti a non fare e a non applicare leggi che non siano conformi alla mente divina, norma di somma giustizia. E, d’altra parte, abbiamo più di una volta esortato quei cittadini che, o per intelligenza, o per meriti, o per nobiltà del sangue, o per averi, sono in posizione di privilegio rispetto agli altri, a difendere e a promuovere, in unione di intenti e di forze, gli interessi supremi e fondamentali della società. – Ma nello stato presente della società civile, sono troppe le cause che indeboliscono i legami dell’ordine pubblico e sviano i popoli dalla doverosa onestà dei costumi. Tuttavia i mali che più pericolosamente minano il bene comune ci sembrano principalmente i tre seguenti: “l’avversione alla vita umile e laboriosa; l’orrore della sofferenza; la dimenticanza dei beni futuri, oggetto delle nostre speranze”. – Noi lamentiamo – e con Noi lo devono riconoscere e deplorare anche coloro che non ammettono altra regola che il lume della ragione, né altra misura all’infuori dell’utilità – Noi lamentiamo che una piaga veramente profonda abbia colpito il corpo sociale da quando si è cominciato a trascurare quei doveri e quelle virtù, che formano l’ornamento della vita semplice e comune. Da ciò, infatti, consegue che, nei rapporti domestici, i figli, insofferenti di ogni educazione, che non sia quella della mollezza e della voluttà, arrogantemente rifiutano l’obbedienza, che la natura stessa loro impone. Per questo motivo gli operai si allontanano dal proprio mestiere, rifuggono dalla fatica, e, scontenti della propria sorte, levano lo sguardo a mete troppo alte, e aspirano a un’avventata ripartizione dei beni. Nello stesso tempo ne consegue l’affannarsi di molti che, dopo aver abbandonato il paese nativo, cercano il frastuono e le numerose lusinghe della città. Per questo motivo ancora, è venuto a mancare il necessario equilibrio tra le classi sociali; tutto è fluttuante; gli animi sono agitati da rivalità e da gelosie; la giustizia è apertamente violata; e coloro che sono stati delusi nelle loro speranze, cercano di turbare la pubblica tranquillità con sedizioni, con disordini e con la resistenza ai difensori dell’ordine pubblico. – Ebbene contro questi mali Noi pensiamo che si debba cercare rimedio nel rosario di Maria, composto da una ben ordinata serie di preghiere e dalla pia contemplazione di misteri relativi a Cristo redentore e alla sua Madre. Si spieghino in una forma esatta e popolare i misteri gaudiosi, presentandoli agli occhi dei fedeli come altrettanti quadri e vive raffigurazioni delle virtù. E così ognuno vedrà quale facile e ricca miniera essi offrano di insegnamenti, atti a trascinare, con meravigliosa soavità, gli animi all’onestà della vita. – Ecco davanti al nostro sguardo la Casa di Nazareth, dove ogni santità, quella umana e quella divina, ha posto la sua dimora. Quale esempio di vita comune! Quale modello perfetto di società! Ivi è semplicità e candore di costumi; perpetua armonia di animi; nessun disordine; rispetto scambievole; e infine l’amore: ma non quello falso e bugiardo, bensì quell’amore integrale, che si alimenta nella pratica dei propri doveri, e tale da attirare l’ammirazione di tutti. Là non manca la premura di procurarsi quanto è necessario alla vita; ma col “sudore della fronte” e come conviene a coloro che contentandosi di poco, si studiano piuttosto di diminuire la loro povertà, che di moltiplicare i loro averi. E soprattutto questo, ivi regna la più grande serenità di animo e letizia di spirito: due cose che accompagnano sempre la coscienza del dovere compiuto. – Orbene questi esempi di modestia e di umiltà, di tolleranza della fatica, di bontà verso il prossimo e di fedele osservanza dei piccoli doveri della vita quotidiana, e, in una parola, gli esempi di tutte queste virtù, non appena entrano nei cuori e vi si imprimono profondamente, a poco a poco vi producono certamente la desiderata trasformazione dei pensieri e dei costumi. Allora i doveri del proprio stato non saranno più ne’ trascurati ne’ ritenuti fastidiosi, ma saranno, anzi, graditi e piacevoli; e la coscienza del dovere, pervasa da un senso di letizia, sarà sempre più decisa nell’operare il bene. Di conseguenza i costumi diventeranno più miti sotto ogni aspetto; la convivenza familiare trascorrerà nell’amore e nella letizia; le relazioni con gli altri saranno intonate a maggior rispetto e carità. – E se queste trasformazioni dagli individui si estenderanno alle famiglie, alle città, ai popoli e alle loro istituzioni, è facile vedere quali immensi vantaggi ne deriveranno all’intera società. – Il secondo funestissimo male, che Noi non deploreremo mai abbastanza, perché sempre più diffusamente e rovinosamente avvelena le anime, è la tendenza a sfuggire il dolore e allontanare con ogni mezzo tutte le avversità. La maggior parte degli uomini infatti non considera più, come dovrebbe, la serena libertà di spirito come un premio per chi esercita la virtù e sopporta vittoriosamente pericoli e travagli; ma insegue una chimerica perfezione della società, in cui, rimosso ogni sacrificio, si trovino tutte le comodità terrene. Ora questo acuto e sfrenato desiderio di una vita comoda fatalmente indebolisce gli animi, che quand’anche non crollino del tutto, pur tuttavia ne restano talmente snervati che prima vergognosamente cedono di fronte ai mali della vita, e poi miseramente soccombono. – Ebbene, anche contro questo male è ben giustificato attendersi un rimedio dal rosario di Maria, il quale, per la forza dell’esempio, può grandemente contribuire a fortificare gli animi. E ciò si otterrà, se gli uomini fin dalla loro prima infanzia, e poi costantemente in tutta la loro vita, s’applicheranno nel raccoglimento alla meditazione dei misteri dolorosi. Attraverso questi misteri, vediamo che Gesù, “duce e perfezionatore della fede”, prese a fare e ad insegnare, affinché vedessimo in Lui stesso l’esempio pratico degli insegnamenti, che egli avrebbe dato alla nostra umanità, circa la tolleranza del dolore e dei travagli; e l’esempio di Gesù giunse a tal punto che Egli stesso volontariamente e di gran cuore abbracciò tutto ciò che vi è di più duro a sopportarsi. Lo vediamo infatti oppresso dalla tristezza, fino a sudare sangue da tutte le sue membra. Lo vediamo legato come un ladro, giudicato da uomini iniqui, e fatto bersaglio ad oltraggi e calunnie. Lo vediamo flagellato, coronato di spine, crocifisso, considerato indegno di continuare a vivere e meritevole di morire fra i clamori di tutto un popolo.
Consideriamo l’afflizione della sua santissima Madre, la cui “anima” non fu solo sfiorata, ma addirittura “trapassata dalla spada del dolore”; cosicché meritò di essere chiamata, e realmente divenne la Madre dei dolori. – Chiunque non si contenterà di guardare, ma mediterà spesso esempi di così eccelsa virtù, oh come si sentirà spinto a imitarli! Per lui, sia pure “maledetta la terra, e faccia germogliare spine e triboli”; sia pure lo spirito oppresso dalle sofferenze, o il corpo dalle malattie, non vi sarà mai alcun male, causato dalla perfidia degli uomini, o dal furore dei demoni, non vi sarà mai calamità, pubblica o privata, che egli non riesca a superare con pazienza. È proprio vero quindi il detto: “È da Cristiano fare e sopportare cose ardue”; perché chiunque non voglia essere indegno di quel nome, non può fare a meno di imitare Cristo che soffre. E si badi che per rassegnazione non intendiamo la vana ostentazione di un animo indurito al dolore, come l’ebbero alcuni filosofi antichi; ma quella rassegnazione, che si fonda sull’esempio di colui che “in luogo della gioia, che gli si parava innanzi, sostenne il supplizio della croce disprezzandone l’ignominia” (Eb XII, 2); quella rassegnazione che, dopo aver chiesto a Lui il necessario aiuto della grazia, non rifiuta in nessun modo di affrontare le avversità; anzi se ne rallegra e considera un guadagno qualunque sofferenza, per quanto acerba essa sia. La Chiesa Cattolica ha sempre avuto, e ha tuttora, insigni campioni di tale dottrina: uomini e donne, in gran numero, in ogni parte del mondo, di ogni condizione. Costoro, seguendo le orme di Cristo, sopportano, in nome della fede e della virtù, contumelie e amarezze di ogni genere, e hanno come loro programma, più coi fatti che con le parole, l’esortazione di san Tommaso: “Andiamo anche noi, e moriamo con lui” (Gv XI, l6). Oh piaccia al cielo che esempi di così ammirevole fortezza si moltiplichino sempre di più, affinché ne sgorghi sicurezza per la società e virtù e gloria per la chiesa! – Il terzo male, a cui bisogna trovare un rimedio è particolarmente proprio degli uomini dei nostri giorni, Infatti gli uomini dei tempi passati, anche quando ricercavano con eccessiva passione le cose terrene, pur tuttavia non disprezzavano del tutto quelle celesti; anzi i più sapienti tra gli stessi pagani insegnarono che questa nostra vita è un luogo di ospizio e una stazione di passaggio, piuttosto che una dimora fissa e definitiva. Molti invece dei moderni, sebbene educati nella fede cristiana, inseguono talmente i beni transitori di questa terra che, non solo dimenticano una patria migliore nell’eternità beata, ma, per eccesso di vergogna, giungono a cancellarla completamente dalla loro memoria, contro l’ammonimento di s. Paolo: “Non abbiamo qui una città permanente, ma cerchiamo quella avvenire” (Eb. XIII,14). Chi voglia esaminare le cause di questa aberrazione noterà subito che la prima di esse è la convinzione di molti che il pensiero delle cose eterne spenga l’amore della patria terrena e impedisca la prosperità dello stato. Calunnia odiosa e insensata. E difatti i beni, che speriamo, non sono di tale natura da assorbire i pensieri dell’uomo fino al punto di distrarlo interamente dalla cura degli interessi terreni. Lo stesso Cristo, pur raccomandandoci di cercare prima di tutto il regno di Dio, ci insinua con ciò che non dobbiamo trascurare tutto il resto. E infatti, se l’uso dei beni terreni e degli onesti godimenti, che ne derivano, serve di stimolo e di ricompensa alla virtù; se lo splendore e il benessere della città terrena – che poi ridondano a vanto dell’umana società – sono considerati come un’immagine dello splendore e della magnificenza della città eterna: non sono ne indegni di uomini ragionevoli, ne’ contrari ai disegni di Dio, Perché Dio è nello stesso tempo autore della natura e della grazia; e perciò non può aver disposto che l’una ostacoli l’altra e siano tra di loro in lotta; ma al contrario che amichevolmente unite, ci guidino, per una più facile via, a quella eterna felicità, alla quale, sebbene mortali, siamo destinati. – Ma gli uomini dediti al piacere ed egoisti, che immergono e avviliscono talmente i loro pensieri nelle cose caduche da non saper assurgere più in alto, costoro, piuttosto che cercare i beni eterni attraverso i beni sensibili, di cui godono, perdono completamente di vista l’eternità; cadendo così in una condizione veramente abietta, In verità Dio non potrebbe infliggere all’uomo una punizione più terribile che abbandonandolo per tutta la vita alle lusinghe dei vizi, senza mai uno sguardo al cielo. – A questo pericolo non sarà esposto colui che, recitando il Santo Rosario, mediterà con attenzione e con frequenza le verità contenute nei “misteri gloriosi”. Da quei misteri, infatti, brilla alla mente dei cristiani una luce così viva che ci fa scoprire quei beni, che il nostro occhio umano non potrebbe mai percepire, ma che Dio – noi lo crediamo con fede incrollabile – ha preparato “a quelli che l’amano”. Da essi impariamo inoltre che la morte non è uno sfacelo che tutto sperde e distrugge, ma un semplice passaggio e un cambiamento di vita. Impariamo che la via del cielo è aperta a tutti: e quando osserviamo Cristo che ritorna in Cielo, ricordiamo la sua bella promessa: “Vado a prepararvi il posto”. Impariamo che vi sarà un tempo in cui “Dio asciugherà ogni lacrima dei nostri occhi; in cui non vi saranno più ne’ lutti, ne’ pianto, ne’ dolore, ma saremo sempre col Signore, simili a Dio, perché lo vedremo come Egli è, attingendo al torrente delle sue delizie, concittadini dei santi”, nella felice unione della gran Madre e Regina. – Un’anima che si nutra di queste verità, dovrà necessariamente infiammarsene e ripetere la frase di un grande Santo: “Oh come mi sembra sordida la terra, quando guardo il Cielo!”; dovrà necessariamente rallegrarsi al pensiero che ” un istante di una nostra lieve sofferenza produce in noi una misura eterna di gloria”, E veramente qui soltanto sta il segreto di armonizzare il tempo con l’eternità, la città terrena con quella celeste e di formare dei caratteri forti e generosi. E se questi poi diverranno molto numerosi, ne sarà, senza dubbio, consolidata la dignità e la grandezza dello stato; e fiorirà tutto ciò che è vero, che è buono, che è bello; fiorirà in armonia con quella norma, che è il sommo principio e la fonte inesauribile di ogni verità, di ogni bontà e di ogni bellezza. – Ora chi non vede la verità di ciò che abbiamo osservato fin da principio; di quali preziosi beni, cioè, sia fecondo il Santo Rosario? Quanto esso sia meravigliosamente efficace nel curare i mali dei nostri tempi, e nell’arginare i gravissimi mali della società? – Ma, come ognuno facilmente comprende, di tale efficacia saranno più direttamente e più largamente partecipi gli ascritti alle sacre Confraternite del Rosario, perché ad essa acquistano un particolare titolo, sia per la loro fraterna unione, sia per la loro speciale devozione verso la Vergine santissima. Tali sodalizi autorevolmente approvati dai Romani Pontefici e da essi arricchiti di privilegi e di tesori d’indulgenze, hanno una loro propria forma di ordinamento e di disciplina, Tengono riunioni in giorni determinati, e sono forniti dei mezzi più adatti per fiorire nella pietà e per rendere utili servizi anche alla società civile. Essi sono come schiere militanti che, guidate e sorrette dalla celeste Regina, combatterono le battaglie di Cristo, in virtù dei suoi santi misteri. E in ogni occasione, ma specialmente a Lepanto, si è potuto vedere come la Vergine gradisca le preghiere, le feste e le processioni di questi suoi devoti. – È dunque ben giusto che, non soltanto i figli del patriarca san Domenico – obbligati certo più degli altri a motivo della loro vocazione -, ma anche tutti coloro che hanno cura d’anime – specialmente nelle chiese dove queste Confraternite sono canonicamente erette – si adoperino con tutto il loro zelo a moltiplicarle, svilupparle e assisterle. Desideriamo anzi ardentemente che si dedichino a questo lavoro anche coloro che intraprendono missioni, sia per portare la dottrina di Cristo agli infedeli, sia per rafforzarla nei fedeli. – Noi non dubitiamo che, per le esortazioni di tutti costoro, molti Cristiani saranno pronti non solo ad iscriversi a queste Confraternite, ma anche a sforzarsi, con ogni mezzo, di raggiungere i già indicati vantaggi spirituali, che formano come la ragione di essere e, per così dire, la sostanza del Santo Rosario. L’esempio poi degli iscritti alle Confraternite trascinerà anche gli altri fedeli ad una maggior stima e devozione verso il rosario; i quali cosi’ stimolati porranno ogni loro impegno – come Noi vivissimamente desideriamo – a ricavare anch’essi, nella più larga misura, salutari vantaggi da questa pratica. – Eccovi la speranza che ci sorride. È essa che in mezzo a tante pubbliche calamità ci guida e profondamente ci consola. Si degni Maria, Madre di Dio e degli uomini, ispiratrice e maestra del santo rosario, di avverare pienamente questa speranza, accogliendo le comuni preghiere, Noi abbiamo fiducia, venerabili fratelli, che, per lo zelo di ciascuno di voi, i vostri insegnamenti e i Nostri voti produrranno ogni specie di bene e contribuiranno, in particolare, alla prosperità delle famiglie, e alla pace dei popoli. – Intanto, come pegno dei favori celesti e testimonianza della Nostra benevolenza, impartiamo di cuore nel Signore, a ciascuno di voi, al vostro clero e al vostro popolo l’apostolica benedizione.

Roma, presso S. Pietro, l’8 settembre 1893, anno decimosesto del Nostro pontificato.

 

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XXI dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Esth. XIII: 9; 10-11
In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, cœlum et terram et univérsa, quæ cœli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es. [Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, coelum et terram et univérsa, quæ coeli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es. [Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Orémus.
Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.
[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Lectio
Lectio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes VI: 10-17
Fratres: Confortámini in Dómino et in poténtia virtútis ejus. Indúite vos armatúram Dei, ut póssitis stare advérsus insídias diáboli. Quóniam non est nobis colluctátio advérsus carnem et sánguinem: sed advérsus príncipes et potestátes, advérsus mundi rectóres tenebrárum harum, contra spirituália nequítiae, in coeléstibus. Proptérea accípite armatúram Dei, ut póssitis resístere in die malo et in ómnibus perfécti stare. State ergo succíncti lumbos vestros in veritáte, et indúti lorícam justítiæ, et calceáti pedes in præparatióne Evangélii pacis: in ómnibus suméntes scutum fídei, in quo póssitis ómnia tela nequíssimi ígnea exstínguere: et gáleam salútis assúmite: et gládium spíritus, quod est verbum Dei.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie, vol. IV, Marietti ed., Omelia XVII, Torino, 1889]

“Fratelli, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Vestite tutta l’armatura di Dio, perché possiate tener fronte alle insidie del demonio; poiché noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma sì contro i principati, contro le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. Per questo pigliate l’intera armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e in ogni cosa trovarvi ritti in piedi. Presentatevi adunque al combattimento cinti di verità i lombi, coperti dell’usbergo della giustizia, calzati i piedi in preparazione dell’Evangelo della pace. Sopra tutto prendete lo scudo della fede, col quale possiate spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Pigliate anche l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio „.

Ve lo dissi altra volta e ve lo ripeto oggi, la seconda metà della lettera ai fedeli di Efeso, e precisamente gli ultimi tre capi, non sono in sostanza che una magnifica serie di verità morali, che si confanno ad ogni classe di persone. Sembra che l’Apostolo voglia per poco condensare tutta la morale cristiana in quelle sentenze, senza nemmeno curarsi di ordinarle tra loro o darne qualche prova. Le annunzia con una chiarezza che è pareggiata solo alla brevità, le addossa l’una all’altra, e nella foga dello scrivere ne ripete più d’una, le inculca con tutto l’ardore della sua grand’anima. Si ammirano, e a ragione, le belle sentenze morali che qua e là sono sparse nei libri di Cicerone, di Epitteto, di Seneca e di Marco Aurelio, e quando si pensa che erano pagani, non possiamo tenerci dall’ammirare quegli uomini; ma io non dubito di affermare, che, raccogliendo tutte le sentenze morali di quei filosofi, non avremmo la decima parte di quelle che l’Apostolo, con una semplicità e concisione tutta sua, ha dettato in questi tre capi. – Dopo aver messo sott’occhio ai suoi cari figliuoli i vizi che dovevano fuggire, e le virtù che dovevano praticare, e il tesoro che dovevano custodire, accenna ai nemici che avevano da combattere, e con un linguaggio tutto militare, li ammaestra intorno al modo di combatterli e vincerli. E qui comincia il nostro commento. – S. Paolo, dopo aver esortato i figli ad ubbidire ai genitori, ed i genitori ad allevare, educare ed ammonire i loro figli, guardandosi dal provocarli ad ira; dopo aver esortati i servi ad ubbidire ai padroni di buon grado, e i padroni a trattare umanamente i servi, ricordandosi che anch’essi hanno un Padrone, che è Dio, continua e scrive: “Fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. „ Allorché un capitano sta per spingere le sue schiere contro il nemico, un nemico formidabile, grida: “Soldati, siate forti, pugnate da valorosi: il vostro re vi guarda, ed egli ha pronte altre schiere per sostenere le vostre: avanti!” — Similmente l’Apostolo, incoraggiando i Cristiani alla battaglia contro il comune nemico, grida: ” Siate forti, e combattete da soldati intrepidi. „ E dove attingeremo la forza per combattere e vincere? — Non in noi stessi, che siamo deboli, senza confronto più deboli dei nostri nemici; ma in Dio, che è onnipotente, e sotto gli occhi del quale combattiamo. Egli ci avvalorerà, Egli sarà con noi, e col suo Nome sulle labbra e con la sua forza in cuore, noi saremo vincitori. In questa guerra sì aspra e crudele vincono quei soldati che diffidano di sé, che non escono dalle fila, dove l’ubbidienza li ha posti, che ripongono tutta la loro fiducia in Dio. – S. Paolo prosegue e dice: “Pigliate l’armatura intera di Dio, affinché possiate tener fronte alle insidie del diavolo. „ — Ogni Cristiano, scrive Tertulliano, è un soldato che pugna sotto la bandiera di Cristo: — ora ogni soldato deve avere la sua armatura: il soldato di Cristo e di Dio deve avere l’armatura, non degli uomini, ma di Dio, e questa deve indossare: Induite armaturam Dei. In che consista questa armatura di Dio lo vedremo tosto partitamente. – Ora ci piaccia considerare questa espressione di S. Paolo: “Affinché possiate tener fronte alle insidie del demonio: „ non dice che dobbiamo assalire il nemico (il che pure talvolta sì ha da fare), ma dice che dobbiamo far fronte, o resistere, come più sotto si esprime. Voi sapete che vi è un doppio genere di guerra, l’una dicesi offensiva, e si ha quando si assalta il nemico; l’altra difensiva, e si ha quando si mantiene il proprio posto e si aspetta a pie’ fermo il nemico per ributtarne gli assalti. In generale noi Cristiani dobbiamo attenerci alla guerra difensiva contro il nemico; per vincerlo a noi basta conservare la grazia, restar fedeli a Dio, mantenerci saldi al nostro posto, sventare le sue insidie occulte e respingere i suoi assalti scoperti; resistere, tener fronte alla tentazione, è vincere.E chi è desso il nostro nemico? Paolo l’ha nominato: ” Il demonio — Adversus insidias diaboli. „ Appena il nome del demonio gli è caduto dalla penna, l’Apostolo si affretta a farcelo conoscere, e scrive: “Noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma contro i principati e le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. „Non ingannatevi, grida S. Paolo, non abbiamo guerra contro la carne e il sangue, vale a dire contro uomini come noi, che sarebbe pur sempre faticosa e non senza pericoli, ma contro i demoni, che furono Angeli, e dei primi, principati e podestà (Da questo luogo di S. Paolo apparisce che anche nelle gerarchie superiori, come sono i Principati e le Podestà, v’ebbero degli spiriti apostati), e che hanno parte, e non piccola, nel governo di questo basso e tenebroso mondo, in una parola, contro gli spiriti malvagi, che ci contendono le cose e i beni celesti. — Quante cose apprendiamo da questa sentenza dell’Apostolo! Apprendiamo che esistono i demonii, che sono nostri giurati nemici e ci tendono senza tregua insidie e inganni; che per forza, scaltrezza e potenza, sono di gran lunga a noi superiori; che spiegano la malefica loro azione in questo mondo, adoperandosi ad impedirci il conseguimento dei beni celesti.I demoni adunque esistono, è un articolo di fede, che si incontra ad ogni pagina dei Libri santi, e a cui fanno eco le tradizioni di tutti i popoli della terra. I demoni sono spiriti, e perciò non si vedono, non si toccano, sono immortali, e non possiamo formarci un’idea precisa della loro natura, come degli Angeli buoni. Allorché li vedete dipinti qua e là nelle forme più brutte, più orride, non dovete credere che siano veramente tali, come non dovete credere che gli Angeli buoni abbiano forme di giovani bellissimi ed alati, come si rappresentano. Impotenti come siamo a farci un’idea di puri spiriti, siano buoni, siano cattivi, ci ingegniamo alla meglio di ritrarne le figure, bellissime di quelli, bruttissime di questi.Questi demoni furono creati da Dio, e creati buoni, adorni di grazia e ricolmi dei doni più eletti, e divennero malvagi perché si inorgoglirono, si levarono contro il loro Creatore e gli rifiutarono la dovuta ubbidienza, e Dio li cacciò dal cielo. E perché sono essi sì ripieni di odio contro di noi uomini, che non abbiamo fatto nulla contro di loro? — Perché sono malvagi, e i malvagi non vogliono che il male; perché, odiando Dio, odiano anche gli uomini, nei quali risplende l’immagine di Dio; perché essi rifiutarono la loro ubbidienza a Dio in quanto lo videro prima dei secoli fatto Uomo, e perciò ripetono la loro rovina eterna dall’amore singolare ch’Egli ebbe per noi uomini; perché in noi uomini combattono Gesù Cristo, Dio-Uomo, e quelli che sono chiamati a tenere il loro luogo.E perché Dio permette che i demoni, sparsi sulla terra, tendano insidie e combattano gli nomini? Perché la prova è necessaria per tutti: perché senza battaglie non c’è vittoria, senza lotte non c’è corona. Vi fu la prova su in cielo; la volle per sé Gesù Cristo e l’ebbero tutti quelli che furono prima di noi; perché non l’avremmo ancora noi? La storia del cielo e della terra, degli uomini e degli Angeli, è una storia di battaglie incessanti, di sconfitte e di vittorie: così vuole Iddio, così vuole il nostro bene; pigliamo adunque il nostro posto e combattiamo animosamente. Ma qui odo farmisi una difficoltà, che è prezzo dell’opera esaminare e sciogliere: San Paolo insegna che la nostra lotta è contro gli spiriti malvagi, non contro gli uomini: ma S. Paolo stesso e tutta la tradizione ecclesiastica ci insegnano che dobbiamo combattere anche contro la carne, contro le passioni, contro il mondo, e che questi sono nemici nostri non meno dei demoni. Come dunque si possono spiegare queste dottrine opposte? Non vi sono, né vi possono essere dottrine opposte nell’insegnamento cristiano. Certo la carne con le sue passioni, il mondo con i suoi scandali, i tristi con le loro arti sono nostri nemici, e contro di essi ci conviene combattere senza posa: ma chi poi ha sollevati contro di noi questi uomini? Chi ha messo in rivolta la carne e le passioni? Chi ha riempito la terra di tristi, e li muove ai nostri danni? Il primo artefice dei nostri mali, colui che introdusse nel mondo il peccato, la morte, le passioni, gli scandali, è il demonio; il mondo e la carne sono due alleati che il demonio ha tirato dalla sua parte, e dei quali si vale per combatterci; onde l’Apostolo poté ben dire che la nostra guerra è contro gli spiriti maligni, perché sono essi i primi e principali nostri nemici. E qui, o carissimi, non vi dispiaccia che mi allarghi alquanto e vi parli di queste lotte e battaglie, che abbiamo con la carne e con il mondo, e con il loro duce supremo, che è il demonio. Queste battaglie nel linguaggio comune della Chiesa si chiamano tentazioni. Ora io vi domando: Possiamo noi sfuggire alle tentazioni? A tutte è impossibile sottrarci: converrebbe non vivere su questa terra, non avere questo corpo, in una parola non essere uomini, e che Dio facesse un miracolo per affrancarcene, nondimeno dobbiamo riconoscere che un buon numero di queste tentazioni possiamo cessarle, schivando le occasioni, vegliando attentamente sui nostri sensi, mortificando le nostre passioni e usando di tutti quei mezzi, che la prudenza cristiana ci suggerisce. – E siamo noi obbligati a schivare tutte quelle tentazioni che è in poter nostro schivare? Indubbiamente, per l’amore che dobbiamo avere per noi stessi e per il timore di offendere Dio, noi abbiamo l’obbligo di schivare quelle tentazioni che prevediamo, e quest’obbligo è in ragione del pericolo, che ci farebbero correre di peccare e dei sacrifici necessari per sfuggirle. E come governarci con quelle tentazioni che sono inevitabili, o che per evitarle ci imporrebbero sacrifici impossibili o troppo gravi? Quando è una necessità affrontare la tentazione, non vi è ombra di peccato, appunto perché è impossibile che siamo costretti a commettere il peccato. Allora, o dilettissimi, non temete, fidenti in Dio, affrontate la tentazione, e non potrà fallire la vittoria. – Il primo passo della tentazione è il pensiero cattivo e il diletto che essa con la immaginativa ci fa pregustare, se acconsentiamo: il pensiero, che ci si affaccia non cercato, il diletto che ci cagiona, se noi non acconsentiamo, non costituisce peccato di sorta, nemmeno leggero. Se noi deliberatamente accarezziamo il pensiero cattivo, volontariamente ci fermiamo nel piacere disordinato, allora il nemico entra nell’anima nostra, e nel connubio della nostra volontà, con la tentazione si compie il peccato. Il peccato (e questo, o cari, non dimenticatelo mai), allora penetra nel vostro cuore e vi resta padrone, quando la vostra volontà apre la porta, e alla tentazione che domandava di entrare, dice: “Entra; sì, io ti voglio. „ Finché non pronuncia il si dell’assenso, la tentazione rimane fuori, e può menar rumore, minacciare, dilettare, rinnovare cento, mille volte le sue tentazioni e i suoi assalti, essa non può nuocere, anzi non fa che accrescere i meriti della resistenza. Ora ascoltiamo l’Apostolo, che ci insegna il modo sicuro di vincere qualunque prova, sia quanto si voglia fiera ed ostinata. “Presentatevi cinti i lombi da verità, coperti con la corazza della giustizia, calzati i piedi in preparazione all’Evangelo della pace, e sopra tutto pigliate lo scudo della fede, col quale spegnere i dardi infuocati del maligno, e prendete l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio. „ Voi vedete che S. Paolo, volendo armare il soldato cristiano per le battaglie contro gli spiriti malvagi, piglia bellamente l’immagine del soldato terreno. Il soldato, al tempo dell’Apostolo, doveva anzi tutto provvedersi di armi, che valessero a difenderlo dai colpi dei nemici, ed eccovi il balteo, o cingolo che si stringeva ai fianchi, e la corazza che gli copriva il petto, ed i calzari o le gambiere che difendevano le gambe e i piedi, e lo scudo, con cui riparava quasi tutta la persona, e finalmente l’elmo, che ricopriva il capo; è questa l’armatura intera del soldato antico, che Paolo con elegante e ingegnosa metafora applica al soldato cristiano. “Presentatevi cinti i lombi da verità. „ Il balteo, o cingolo militare, era un ornamento, e nello stesso tempo rendeva il soldato più spedito e pronto a camminare, onde anche al presente chi deve salire monti suole stringersi fortemente i fianchi. Anche il Cristiano deve correre per una lunga via, e spesso deve salire i monti ripidi e dirupati della virtù: stringasi dunque ai fianchi il cingolo, non materiale, ma spirituale della verità: Succinati lumbos vestros in ventate. La verità sia sempre con noi, sia come una cintura ai nostri lombi, e non sentiremo la fatica del cammino. Forse in questo luogo la parola verità, come vogliono alcuni interpreti, significa la schiettezza dell’anima, la fedeltà alle promesse fatte a Dio e la piena signoria che dobbiamo del continuo esercitare sopra noi stessi, rintuzzando le nostre passioni. Del resto ciascuno comprende che tutte codeste interpretazioni in sostanza si riducono ad una sola, ed è questa, che dobbiamo in ogni cosa seguire la verità, sempre, e la sola verità. “Siate coperti con la corazza della giustizia — Induti loricam justitice. „ La giustizia, nel senso più largo, usato nelle sacre Scritture, significa la virtù e la santità, il complesso di tutte quelle opere, che rendono l’uomo caro a Dio: la giustizia fa rendere a ciascuno ciò che gli si deve, e in questo senso la giustizia esprime la virtù e la santità nel suo grado più perfetto, ed è per questo che i Libri santi dicono uomo giusto, per dire uomo santo. Essere adunque coperti della corazza della giustizia vale quanto dire essere adorni di tutte le virtù; e se voi siete adorni di tutte, che potrà mai fare il nemico contro di voi? Nulla. – “E abbiate calzati i piedi in preparazione al Vangelo della pace. „ I piedi sono ordinati a camminare: S. Paolo adunque vuol dire: I vostri piedi siano coperti e difesi per guisa, che possiate camminare alacremente nelle vie del Vangelo, cioè osservare i precetti e le verità sante del Vangelo, che in mezzo alle pugne vi condurranno alla pace, alla vera pace, che supera ogni umana comprensione. Ma ciò che ” sopra tutto — in omnibus „ dobbiamo procurar di fare, è, scrive S. Paolo, –  di pigliare lo scudo della fede — Sumentes scutum fidei. „ La fede, cioè le verità rivelate nel loro complesso, la fede, cioè la nostra salda adesione alle verità rivelate, deve essere il nostro scudo di difesa in queste pugne contro il nemico. Allorché la nostra mente tiene fisso fermamente l’occhio sulle verità nella fede, per modo d’esempio della presenza di Dio, del giudizio divino, dell’inferno e andate dicendo, come volete che sia possibile darla vinta alle tentazioni? Ponete che allorquando il nemico vi eccita al furto, alla bestemmia, alla turpitudine od a qualunque altro peccato, vedeste Dio nella sua maestà di giudice, e dall’una parte il cielo con tutte le sue gioie, e l’inferno con le sue fiamme divoratrici, e vi si dicesse: Se tu commetti questo peccato, ti vedrai tosto chiuso per sempre il cielo, e sarai gettato in mezzo a quelle fiamme sempiterne, credete voi che un uomo potrebbe commettere quel peccato? Ah! Per quanto fosse violenta e terribile la tentazione in quella vista del cielo e dell’inferno e del Giudice supremo, troverebbe la forza di respingerla? Sopra mille forse non ne trovereste un solo forsennato al punto da volere il peccato e con esso precipitarsi subito nell’inferno. Ora che fa essa la fede? Ci mette vive sotto gli occhi le verità eterne, ce le fa toccare e sentire: come volete che l’uomo s’arrenda alla tentazione finche quelle gli stanno innanzi? La fede adunque è lo scudo impenetrabile che ci copre contro tutti gli assalti del nemico. –  S. Paolo, nella lettera agli Ebrei (capo XI), celebra le lodi della fede, ed afferma che tutti quelli che furono salvi, lo furono per la fede; per la fede i santi, continua l’Apostolo, vinsero i regni, operarono la giustizia, turarono le bocche dei leoni, spensero le fiamme, divennero forti in guerra, vinsero i tormenti, gli scherni, la morte, tutto. Contro questa fede si spezzeranno e si estingueranno i dardi infuocati del maligno. Solevano gli antichi non solo aguzzare la punta delle frecce, ma le avvolgevano in bitume e resina od altre materie infiammabili, e, appiccatovi il fuoco, le scagliavano contro i nemici per trafiggerli col ferro e bruciarli col fuoco. Le tentazioni, così S. Paolo, fossero anche come queste frecce acute e ardenti, non temete, si spunteranno e si spegneranno sullo scudo della vostra fede. Al primo indizio adunque della tentazione, al primo avvicinarsi del nemico, levate alto il vostro scudo, ravvivate la fede, pensate a Dio che vi guarda, che tiene in mano la corona, e la vittoria sarà vostra. “Prendete ancora l’elmo della salute — Galeam salutis assumite. „ Il soldato deve coprire e difendere ogni parte del suo corpo, ma sopra tutto il capo, perché là principalmente è la vita, e dal capo dipende tutto il corpo. Che sono le parole e le opere? Sono figlie, sono manifestazioni dei nostri pensieri, perché diciamo e facciamo poi ciò che prima pensiamo. Volete voi che le parole e opere vostre siano buone e sante? Badate ai pensieri, custodite la vostra mente con l’elmo della salute, e non lasciate mai che in essa entrino pensieri se non di salute degni d’un Cristiano. Dopo le armi che sono a difesa, l’Apostolo viene a quelle di offesa, e ne nomina una sola, la più nobile e più comune, la spada, scrivendo: “Pigliate la spada dello spirito, ossia la spada spirituale, che è la parola di Dio — Sumite gladium spiritus, quod est verbum Dei. „ Anche in altra lettera (agli Ebrei) S. Paolo paragona la parola di Dio ad una spada a due tagli, che penetra fino alla divisione dell’anima e dello spirito. La spada, debitamente maneggiata, serve a difesa, ma sopra tutto vale ad offesa, e con essa si ferisce e si atterra il nemico. Similmente, con la parola di Dio, che sveglia, avviva, nutre e rafforza la fede, difendiamo noi stessi ed atterriamo il nemico. Una fede, che non è alimentata dalla parola di Dio, è un seme, un albero, su cui non cade mai la pioggia, inaridisce e dissecca; è come l’occhio, a cui non risplende mai raggio di luce, è un corpo a cui vien meno il cibo. La fede, grida S. Paolo, viene dall’udito, cioè dalla parola: senza la parola, ossia l’istruzione, la fede dorme, se non è morta. Sopra abbiamo udito l’Apostolo comandare ai fedeli di pigliare lo scudo della fede, per spegnere i dardi infuocati del nemico; qui vuole che la nutriamo e la ravviviamo con la parola di Dio. – La parola di Dio, alimento della fede, noi la troviamo nei Libri santi e in tutte le letture buone, acconce alle condizioni speciali di ciascuno. Ma in modo affatto particolare la parola di Dio si ascolta in chiesa, allorché il ministro di Dio la spiega, e di questa singolarmente dovete essere solleciti. E perché? Perché essa v’è data dalla Chiesa in modo autorevole e sicuro; perché a questa parola, che si annunzia nel tempio, è congiunta una grazia speciale, e perché la presenza del popolo ivi raccolto è di edificazione a tutti. Non sia dunque mai che voi, o fratelli, potendolo, veniate meno a questo dovere di ascoltare la parola divina in chiesa, voi e i vostri figli. – Non dite: noi siamo istruiti abbastanza e non abbiamo bisogno di recarci in chiesa a udire il prete. Sarete istruiti, non lo nego, ma non sarà cosa inutile udirvi ripetere ciò che sapete. Non dite: noi studieremo la Religione da noi, in casa. Permettete che ne dubiti; avrete forse la volontà, ma io temerei che da voi non piglierete sì facilmente in mano il Catechismo per studiarlo: e poi lo faceste anche, sarete voi sempre sicuri di intenderlo a dovere? La fede, dice S. Paolo, è la spada spirituale: essa a poco a poco arrugginisce: è opera del sacro ministro mantenerla pulita e lucida e acuta: dunque ogni domenica portatela al tempio e l’avrete sempre quale dev’essere la spada del vero soldato di Cristo. – Cristo a nostro conforto e nostro ammaestramento permise d’essere tentato: come vinse e rimandò confuso e svergognato il tentatore? Col gettargli in faccia la parola di verità, la parola di Dio. Siate tutti, o cari, soldati di Cristo: date di piglio alle armi, che l’Apostolo vi ha messe innanzi, copritevi da capo a piedi, impugnate la spada della parola di Dio, maneggiatela con coraggio e la vittoria è sicura, e dopo la vittoria la corona.

Graduale
Ps LXXXIX: 1-2
Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie.
V. Priúsquam montes fíerent aut formarétur terra et orbis: a saeculo et usque in sæculum tu es, Deus.

[O Signore, Tu sei il nostro rifugio: di generazione in generazione.
V. Prima che i monti fossero, o che si formasse il mondo e la terra: da tutta l’eternità e sino alla fine]

ALLELUJA

Allelúja, allelúja Ps 113: 1
In éxitu Israël de Ægýpto, domus Jacob de pópulo bárbaro.
Allelúja. [Quando Israele uscí dall’Egitto, e la casa di Giacobbe dal popolo straniero. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XVIII: 23-35
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, jussit eum dóminus ejus venúmdari et uxórem ejus et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes. Et prócidens consérvus ejus, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi ejus, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus ejus, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum.
Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

OMELIA II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, Omelia XVIII]

“Il regno dei cieli è assomigliato ad un re il quale volle trarre i conti con i suoi servi. E avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E non avendo egli da pagare, il suo padrone comandò ch’egli, la sua moglie e i suoi figliuoli e tutto quanto aveva fosse venduto, e così fosse pagato. Allora quel servo cadendo a terra, si buttò davanti a lui, dicendo: Deh! abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. E il padrone impietosito di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ora quel servo, uscito fuori, trovò uno de’ suoi conservi, il quale gli  doveva cento danari, ed afferratolo, lo strangolava, dicendo: Pagami ciò che mi devi! E quel suo conservo, cadendo in terra, lo pregava, dicendo: Abbi pazienza verso di me, ed io ti pagherò tutto. Ma colui non volle; anzi andò e lo cacciò in prigione finché avesse pagato il suo debito. Ora i conservi di lui, veduto il fatto, ne furono grandemente rattristati, e vennero al padrone e gli narrarono tutto il fatto. Allora Il signore lo chiamò a sé e gli disse: Servo malvagio! io ti condonai tutto quel debito, perché tu me ne avevi pregato. E non era dunque giusto che tu avessi pietà del tuo conservo, com’io ancora aveva avuto pietà di te? E adirato il suo padrone, lo diede in mano ai carcerieri infino a tanto che avesse pagato tutto il debito. Così farà ancora il Padre mio celeste con voi, se non rimetterete di cuore ciascuno al proprio fratello i falli suoi „ ( S . Matteo, XVIII, 24-35).

È questa la lezione evangelica, che oggi la Chiesa ci propone di meditare. Questa parabola fu recitata da Gesù Cristo in Galilea, nell’ultima dimora che vi fece, poco prima dell’ultimo suo viaggio a Gerusalemme per la festa della Scenopegia o dei Tabernacoli; festa che cadeva intorno al venti di settembre, e durava otto giorni; onde si può ritenere che la parabola fu come il termine della sua predicazione in Galilea, sette mesi circa prima della sua morte. Un valente scrittore moderno della vita di Gesù Cristo afferma che tutta l’indole, tutto il carattere del regno dei cieli predicato da Gesù Cristo, è racchiuso in questa bellissima parabola (P. Didon, vol. 1, pag. 477). Essa adunque è ben degna di tutta la vostra attenzione. Prima di cominciare la spiegazione della mostra parabola, è necessario conoscere i fatti che diedero occasione a Gesù di proporla. Da S. Luca (capo XVII, 3) apprendiamo che Gesù Cristo disse agli Apostoli: “Se il fratello tuo ha peccato contro di te, riprendilo: e se si pente, tu perdonagli. „ Qui sottentra S. Matteo, e narra che Pietro allora, rivoltosi a Gesù, disse: “Signore, quante volte, peccando contro di me il fratel mio, gli perdonerò? Fino a sette volte ? „ E Gesù gli disse : “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette; „ espressione che nell’uso ebraico vuol dire sempre, senza limiti. Data questa risposta, Gesù disse la parabola che dobbiamo interpretare. Fin d’ora voi comprendete, considerati gli antecedenti, che l’argomento e lo scopo della medesima debba essere ribadire la necessità del perdono. “Il regno dei cieli è assomigliato ad un re, il quale volle trarre i conti con i suoi servi. „ Altra volta accennai il significato diverso che nei libri del nuovo Testamento ha l’espressione regno dei cieli. E fuor di dubbio che qui essa significa il tutto insieme che è necessario per entrare e restare nella Chiesa, per appartenere al regno di Gesù Cristo nel tempo e nella eternità. – Non occorre il dirlo, il re è Dio, è Gesù Cristo medesimo; i servi sono i credenti, i debiti del servo rappresentano le offese o i peccati, la resa dei conti il giudizio divino, il castigo inflitto al servo la pena dovuta ai peccati a rigore di giustizia. Il re, dice il Vangelo, volle fare i conti con i suoi servi di quanto essi gli dovevano, ed egli doveva a loro. Carissimi! Noi viviamo nella casa di questo buon Re, che è la  Chiesa: siamo i suoi servi, e siamo provveduti largamente e per modo, che non ci manca nulla. Noi dobbiamo prestare i nostri servigi e ubbidire ad ogni cenno il Padrone celeste; noi, sue creature, saremmo obbligati a servirlo in ogni cosa, anche senza mercede, perché Egli è padrone nostro assoluto; ma è tanta la sua bontà e la sua magnificenza, ch’Egli vuole pagare e generosamente ogni nostro servigio, come vuole eziandio che noi rispondiamo d’ogni nostro fallo e ne portiamo la giusta pena. C’è un libro, il libro della nostra coscienza ed il libro della sapienza infinita di Dio, sul quale tutto si scrive, ciò ch’Egli ci dà e ciò che noi tacciamo, pensiamo o diciamo. Nulla sfugge, nulla si dimentica, nulla si cancella; quei due libri sono indistruttibili, e contengono l’intera storia della nostra vita, e secondo il risultato di quelli sarà la mercede o la pena che riceveremo. E questa una verità consolante e insieme terribile; consolante, perché d’ogni opera buona, ancorché minima, avremo il premio; terribile, perché di ogni atto, di ogni parola men che retta avremo il condegno castigo. Quel libro lo scriviamo noi stessi, di nostra mano, in ogni istante, bene o male che sia, e lo scriviamo, lasciate che così mi esprima, con la punta di diamante della nostra libera volontà. Prima della resa finale dei conti, noi possiamo cangiare le partite dei debiti col pentimento, e possiamo anche cancellare i crediti, le opere buone con i peccati; in breve è in poter nostro scrivere su quei libri ciò che vogliamo, mutare le parti, aumentare crediti o debiti: il risultato ultimo si vedrà quel dì che il Padrone ci dirà: “Rendi conto delle opere tue opere”. Questo pensiero ci stia sempre dinanzi agli occhi della mente, affinché ci sia uno stimolo continuo a cancellare i debiti ed accrescere i crediti, fuggendo i peccati e compiendo opere buone. – Ma ripigliamo la parabola.”Avendo cominciato a fare i conti, fu presentato al re un servo, che era debitore di diecimila talenti. „ Debito enorme, ma che rappresenta purtroppo secondo verità i debiti che noi abbiamo con Dio. Miei cari! Abbracciamo con uno sguardo rapido tutti i peccati per noi commessi dal dì che acquistammo l’uso della ragione fino ad oggi, per il corso di venti, quaranta, sessant’anni. Tutti i peccati di pensieri, di desideri, di parole, di opere, di omissione, commessi da giovinetti, da uomini, da vecchi, in casa, da soli, in compagnia, in scuola, in mezzo alla società, nei vari uffici tenuti, contro Dio, il prossimo, nell’adempimento dei nostri doveri e andate dicendo. Mio Dio! Qual numero sterminato! Il pensiero ne rimane oppresso. E dire che questi peccati, in quanto sono commessi da noi, creature miserabili, contro Dio, suprema Maestà e sommo nostro benefattore, e commessi sotto i suoi occhi, e commessi per un vile piacere, e commessi abusando dei doni suoi, hanno una cotale infinita malizia! Tutto questo considerando, non è vero, o cari che, per ragione del numero e della gravezza, i nostri peccati costituiscono un debito immenso con Dio e rispondono pur troppo ai diecimila talenti, che il servo doveva al suo padrone? Scoperto il gran debito, il servo sventurato non lo poteva negare; era l’opera sua: bisognava pagarlo. Ma come mai un povero servo poteva pagare quel debito colossale? Era impossibile. Così, o dilettissimi, è impossibile a noi, con le sole nostre forze, pagare i debiti che abbiamo con Dio. La speranza di cancellarli per noi è tutta riposta nella smisurata bontà di Dio, che voglia benignamente condonarceli. Continua la parabola: “Non avendo il servo con che pagare, il padrone comandò che egli stesso, il servo, la moglie ed i figli e tutto quanto aveva, fosse venduto, e così fosse pagato. „ Noi inorridiamo udendo che per pagare i debiti potessero essere venduti, non solo il servo debitore, ma la moglie ed i figli, e ci sembra ed è veramente spaventosa crudeltà. Ma è da avvertire che Gesù Cristo espone una parabola, e non approva, né disapprova siffatta enormità, come non approvò, né poteva approvare il furto del fattore ingiusto. – È da sapere, che le antiche legislazioni davano il diritto ai creditori, non solo di gettare in carcere i debitori impotenti a pagare, ma di venderli e di vendere eziandio le loro mogli ed i loro figli; e questa legge pare fosse in vigore, in alcuni casi almeno, anche presso gli Ebrei (Vedi il libro IV dei Re, capo IV, 1, seg.). Qui torna acconcio ricordare la sapientissima regola, che quanto alla spiegazione delle parabole ci dà S. Giovanni Crisostomo; la regola è questa, che non si vuol sempre applicare ogni parte della parabola in guisa, che quadri rigorosamente alla verità. Se qui si volesse spingere il significato della parabola in modo da applicarla in ogni sua parte, dovremmo dire che dei debiti del marito e del padre ne debbono rispondere anche la moglie ed i figli, e che questi possono essere puniti per i peccati commessi da quelli, che sarebbe orribilissima iniquità. Noi sappiamo che i peccati sono personali, e che ciascuno deve rispondere dei peccati proprii e non di quelli commessi da altri, siano pure persone tra loro legate da vincoli strettissimi. Gesù Cristo, nella parabola, come dissi, narra la cosa come avveniva o poteva avvenire, senza approvarla. All’udire quel terribile comando che fece, che disse il misero servo? È facile immaginarlo: non gli restava che una cosa sola da tentare, e la tentò. “Cadendo a terra, si buttò dinanzi al padrone, dicendo: Deh! abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. „ È il grido che esce dal cuore di chi sente la propria impotenza, del naufrago, che si dibatte in mezzo al mare, che non ha speranza se non nell’altrui soccorso. “Abbi pazienza per me — Patientìam habe in me. „ Egli non nega il suo debito, non lo diminuisce, non si scusa, solamente implora pietà. In tutto questo, noi pure possiamo e dobbiamo imitare questo servo: dobbiamo riconoscere e confessare il cumulo dei nostri peccati, guardarci dallo scusarli come che sia, riporre ogni nostra speranza nella misericordia di Dio, e gridare a Lui: “Abbi pazienza, abbi pietà di me, o Signore. „ Il servo, in quelle distrette crudeli, sotto la minaccia del padrone, era sincero? La lingua era essa fedele testimonio del cuore? Ciò che subito dopo avvenne, ci mostra che solo il timore gli strappò di bocca quel grido affannoso, e che nel cuor suo non v’era ombra di pentimento. Del resto nelle parole che aggiunge: “Io ti pagherò tutto „ si scorge una bugia. In qual modo, egli, povero servo, carico di famiglia, poteva nutrire filo di speranza di potere quandochessia pagare per intero quel debito immenso ? Non era meglio per lui confessare la propria impotenza ed appellare umilmente alla bontà e carità del padrone, anziché promettere ciò che non avrebbe potuto far mai? Parla di voler osservare giustizia quando non può avere scampo che nella misericordia! Ecco l’orgoglio male dissimulato. Il padrone a quella vista, a quel grido, a quella scena, s’impietosì: Misertus autem dominus servi illius. Lo rimirò con occhio di compassione, e senza badar punto alla promessa del misero: “Io pagherò tutto, „ non ridusse il debito a quelle proporzioni che rendevano possibile al debitore il pagamento, che sarebbe stato larghezza grande, ma, secondando il suo cuore, gli condonò tutto, nulla esigendo: Et debitum dimisit ei. Quale generosità! Quanta carità in questo padrone! Essa ci rappresenta al vivo la carità veramente infinita di Dio verso di noi peccatori. Noi ci gettiamo ai piedi di Lui nella persona dei suoi ministri: riconosciamo la moltitudine dei nostri debiti, dei nostri peccati, e la impossibilità di soddisfare alla sua giustizia: noi gli diciamo: Signore, abbiamo peccato: le nostre iniquità sono senza numero: siamo pentiti, perdonateci; — ed Egli, il buon Dio, ci condona ogni debito e ci rimanda consolati. – Ho detto che quel servo malvagio non era pentito in cuor suo, come apparisce da ciò che narra subito dopo il Vangelo. Come dunque quel padrone gli condonò il debito, egli che doveva leggergli in cuore e che doveva conoscere ciò che, uscendo di là, avrebbe fatto? Nel Vangelo non è scritta parola che non giovi a nostra istruzione. Dio certamente fugge nel nostro cuore e vede se siamo pentiti dei nostri peccati allorché ci inginocchiamo ai piedi del suo ministro; se, pentiti, alla parola del suo ministro che dice: “Io ti assolvo, „ aggiunge la sua, e l’anima è sciolta da ogni peccato. Ma se noi diciamo con la lingua: Siamo pentiti, — e il cuore non risponde, Dio, che vi legge, alla parola del ministro: “Io ti assolvo, „ non aggiunge la sua, e noi partiamo con tutti i peccati sull’anima e forse con l’aggiunta d’un sacrilegio, se mentiamo alla nostra coscienza. In questo luogo del Vangelo, il Re, o Padrone, che raffigura Dio, volle fare la parte del ministro e mostrare che si appagava della confessione esterna, quasi non vedesse dentro dell’anima, e ciò, credo io, a conforto di quanti in suo luogo esercitano questo ufficio di misericordia. Il servo, avuta l’intera condonazione di tutto il suo debito, uscì e se n’andava a casa. Noi ci immaginiamo quell’uomo pieno di gioia, di gratitudine verso il generoso padrone, e, come avviene in questi casi, con l’animo tutto inchinevole ad atti caritatevoli e magnanimi. Ma non era così. Appena uscito, quel servo, a pochi passi del padrone, “trovò uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari, e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: Rendi ciò che mi devi. „ Chi di noi non sente ribollire il sangue e fremere l’anima tutta al vedere questo servo scellerato, che due minuti dopo aver avuta la piena condonazione del suo debito sì enorme, afferra per il collo il suo compagno e vuole il pagamento di poche lire, che gli sono dovute? La carità avuta dal padrone gli imponeva di usarla col suo conservo. Questo, colto all’improvviso, a quel modo, non seppe far meglio che imitare il suo creditore stesso, e cadendo anch’egli ai piedi, non del padrone, ma del suo compagno, lo pregava, dicendo: Abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. „ All’udire dalla bocca del conservo quelle stesse parole ch’egli aveva rivolte al padrone con esito sì felice, al vedersi ai piedi il compagno in quell’atteggiamento stesso ch’egli aveva tenuto col padrone; a quella promessa di pagar tutto, che si poteva credere sincera, perché possibile, anzi facile l’adempirla, trattandosi di sì lieve somma, pare che il feroce servo dovesse sentirsi disarmato e dovesse o accontentarsi della promessa, o rimettere, come era più naturale, tutto il debito. Non fu così. A quell’umile preghiera del conservo parve maggiormente sdegnarsi: non volle saperne nemmeno di aspettare; se ne andò e lo cacciò in carcere finché restituisse il debito. Il contrasto tra la condotta del padrone col servo debitore, e laèàp condotta del servo debitore con il suo compagno è così mostruoso, che lo spendervi intorno più parole è affatto superfluo: è cosa che si sente più che non si possa dire. Qui viene spontanea una applicazione pratica assai importante. Dio ha condonato a noi, a ciascuno di noi, il gran debito dei nostri peccati, e quante volte! E noi, abbiamo noi perdonato ai fratelli nostri, che per avventura alcuna volta ci offesero? Le offese da questi recateci sono cose lievissime confrontate a quelle che noi abbiamo fatte a Dio, sia pel numero, sia per la gravezza. Ebbene: Dio ha perdonato a noi, e forse noi abbiamo rifiutato di perdonare al fratello! Il Creatore perdona alla creatura e la creatura non perdona alla creatura! L’infinita Maestà perdona a questo miserabile servo, e questo miserabile servo ricusa il perdono al fratello, suo conservo! E se perdona tal volta con la lingua, non perdona sempre col cuore, e cova in fondo all’anima il rancore, l’astio e il segreto desiderio della vendetta, che si rivela nella parola amara, nel fare altezzoso, nell’atto di dispetto! – Ritorniamo alla nostra parabola. “I compagni di quel servo videro ogni cosa e ne furono grandemente rattristati, e vennero al padrone e gli narrarono quanto era accaduto. „ Questo particolare della parabola è come l’ornamento della stessa, ed aggiunge naturalezza al fatto; il padrone, che è Dio, non ha bisogno che altri gli faccia conoscere le cose. “Il padrone allora chiamò quel servo, e gli disse: “Servo malvagio! Io ti condonai tutto quel debito, perché me ne pregasti: non era dunque giusto che tu pure avessi pietà del tuo conservo, com’io l’ebbi di te? „ Rimprovero più giusto e più meritato di questo non si può immaginare. ” E il padrone sdegnato lo mise in mano ai carcerieri finché restituisse tutto il debito. „ Il carcere qui significa senza dubbio il carcere eterno, troppo dovuto a quel servo spietato ed ingratissimo verso il suo Signore. Questa sentenza del padrone non è senza una difficoltà, ed è mestieri snodarla. Noi sappiamo che allorquando Iddio ci perdona i peccati, questi sono perdonati per sempre, e quando pure per nostra sventura ricadessimo negli stessi od in altri, quelli non rivivono più mai, né ce ne chiederà conto. Come dunque avviene che qui il padrone condanna il servo per quei debiti, o peccati, che gli aveva generosamente condonati? Come si spiega? Forse è da intendere la parabola in questo senso, che il servo crudele non era pentito del fallo, e perciò non aveva ricevuto il perdono che in apparenza: la sua atroce durezza col conservo mostrò pubblicamente che pentimento non c’era, e quindi gli si infligge il castigo prima minacciato. Forse, e meglio si può intendere in quest’altro modo: il debito era rimesso, cancellati tutti i peccati: ma la crudeltà feroce usata col conservo era sì detestabile delitto, che equivaleva nella gravezza al debito già prima condonato, e perciò traeva sul miserabile lo stesso castigo. – Qual è l’insegnamento di questa parabola? È tutto racchiuso nell’ultima sentenza sì bella e sì chiara: ” Così farà ancora il Padre mio celeste con voi, se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello. „ Volete voi da Dio il perdono dei vostri peccati? Perdonate ai fratelli vostri le offese che vi hanno fatto. Non volete voi perdonare? Neppure il Padre perdonerà a voi. Torna qui quella sentenza del Vangelo: “Perdonate e sarete perdonati; „ e l’altra della orazione insegnataci da Gesù Cristo stesso: ” Perdonate a noi i nostri peccati come noi perdoniamo ai nostri offensori. „ E non vi sfugga, o cari, quella parola assai significante, che si incontra nella sentenza del divino Maestro: “Se non condonerete di cuore. „ Intendete? Il perdono non deve essere sulle labbra e negli atti esterni, ma deve sgorgare dal cuore: De cordibus vestris: là risiede, come la colpa, così la virtù.

Credo

Offertorium
Orémus
Job I. 1
Vir erat in terra Hus, nómine Job: simplex et rectus ac timens Deum: quem Satan pétiit ut tentáret: et data est ei potéstas a Dómino in facultátes et in carnem ejus: perdidítque omnem substántiam ipsíus et fílios: carnem quoque ejus gravi úlcere vulnerávit. [Vi era, nella terra di Hus, un uomo chiamato Giobbe, semplice, retto e timorato di Dio. Satana chiese di tentarlo e dal Signore gli fu dato il potere sui suoi beni e sul suo corpo. Egli perse tutti i suoi beni e i suoi figli, e il suo corpo fu colpito da gravi ulcere.]

Secreta
Suscipe, Dómine, propítius hóstias: quibus et te placári voluísti, et nobis salútem poténti pietáte restítui. [Ricevi, propizio, o Signore, queste offerte con le quali volesti essere placato e con potente misericodia restituire a noi la salvezza.]

Communio
Ps CXVIII: 81; 84; 86
In salutári tuo ánima mea, et in verbum tuum sperávi: quando fácies de persequéntibus me judícium? iníqui persecúti sunt me, ádjuva me, Dómine, Deus meus. [L’ànima mia ha sperato nella tua salvezza e nella tua parola: quando farai giustizia di coloro che mi perseguitano? Gli iniqui mi hanno perseguitato, aiutami, o Signore, Dio mio.]

Postcommunio
Orémus.
Immortalitátis alimoniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, quod ore percépimus, pura mente sectémur.
[Ricevuto il cibo dell’immortalità, Ti preghiamo, o Signore, affinché di ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, conseguiamo l’effetto con animo puro]

 

 

 

 

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXXII.

I SACRAMENTI.

I Sacramenti sono sette, né più né meno — Loro natura ed efficacia. — Errori del protestantesimo. — Condizioni per l’efficacia dei sacramenti in chi li riceve. — In chi li amministra. — Il carattere impresso da certi sacramenti. — Cerimonie e lingua latina nella loro amministrazione.

— Dunque Gesù Cristo per salvarci, oltre all’aver predicato la sua dottrina ha istituito altresì dei Sacramenti?

Sì, affine di comunicarci per essi la sua grazia, quella grazia, che Egli ci ha riguadagnato coi meriti della sua incarnazione, passione e morte.

— E di ciò si è veramente certi?

Certissimi; ed è di fede. Il Vangelo ci mostra Gesù Cristo che comanda ai suoi Apostoli di battezzare le genti nel nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, ed ecco il Battesimo; che promette questo Divino Spirito a tutti quelli, che dovevano credere in Lui, ed ecco la Cresima; che transustanzia il pane e il vino nel suo corpo e nel suo sangue e dice agli Apostoli : « Fate questo in memoria di me », ed ecco l’Eucaristia; che dà loro il potere di rimettere i peccati, ed ecco la Penitenza; che li manda per le ville e borgate della Giudea ad annunziare il Vangelo e ad ungere gl’infermi per risanarli, ed ecco l’Olio Santo; che li elegge come ministri della sua parola e della sua grazia, ed ecco l’Ordine; che santifica le nozze colla sua presenza, ed ecco il Matrimonio. Certamente durante la vita di Gesù Cristo, i Sacramenti non sono ancora ben determinati; ma compie e conferma tutto ciò che li riguarda in quelle ripetute apparizioni, che fece agli Apostoli suoi durante i quaranta giorni, in cui ancora si fermò sulla terra dopo la sua Risurrezione. E gli Apostoli istruiti da Gesù Cristo e investiti del suo potere, poiché ebbero ricevuto lo Spirito Santo, subito si diedero ad amministrare tutti e sette questi Sacramenti.

— E perché mai Gesù Cristo ha istituito sette Sacramenti, né di più né di meno?

Certamente perché nella sua infinita sapienza vide bene il fare così e non diversamente. È un fatto che questo numero di sette è misterioso e sacro: sette sono le epoche della vita del mondo, sette i giorni della settimana, sette i bracci del candeliere del tempio, sette i suggelli del libro dell’Apocalisse, sette gli spiriti che stanno più vicino a Dio, sette i doni dello Spirito Santo, eccetera, eccetera; dunque anche sette i Sacramenti. S. Tommaso poi ci mostra bellamente che in tal numero i Sacramenti armonizzano pienamente la nostra vita spirituale con quella corporale. Difatti la nostra vita corporale si produce per la generazione, si svolge con l’accrescimento di forze, si sostiene col cibo, si ripara con la medicina, si rinnova con speciali cure, si governa con l’autorità e si riproduce dalla convivenza dell’uomo con la donna; e la vita spirituale sì genera in noi col Battesimo, si rafforza con la Cresima, si alimenta con l’Eucaristia, si restituisce o si ristora con la Penitenza, si rimette in piena vigoria con l’Olio santo, si regge nel corpo della Chiesa per l’Ordine e si rinnovella pel Matrimonio.

— Ho inteso dire che per riguardo al numero, i protestanti non si accordano né con noi cattolici, né fra di loro.

* È così. Per molti di essi i Sacramenti si riducono a due: il Battesimo e l’Eucaristia; e per di più intesi a loro modo. L’Eucaristia è diventata in mano loro una cena volgare, in cui si mangia un po’ di pane e si beve qualche sorso di vino in memoria di Cristo. Quanto al Battesimo, quasi tutti i protestanti lo dichiarano una semplice cerimonia esteriore, indifferente quanto alla santificazione ed alla vita eterna, senz’altro scopo né altra efficacia, fuorché di attestare ufficialmente che il battezzato venne ascritto tra i membri della Chiesa.

— Ma che ragioni hanno avuto i protestanti di rigettare così i Sacramenti?

E che ragioni vuoi che abbiano avuto? Nessun’altra che la loro superbia e la loro audacia. Fino all’anno 1517 la Chiesa cattolica pacificamente, senza contrasto alcuno, in Oriente e in Occidente, in privato ed in pubblico, aveva sempre professata la dottrina dei sette Sacramenti, come dimostrano chiaramente tutti i libri liturgici, tutti i Padri della Chiesa, tutti i Concilii, tutte le memorie più antiche. Non ci voleva dunque in Lutero e in tutti i suoi seguaci un bel fegato per venir fuori a dire che i Sacramenti della Chiesa erano umane invenzioni, ritrovati dei preti, e d’un colpo solo rigettarli?

— Oh sì! senza dubbio. Ma perché mai Gesù Cristo a conferirci la sua grazia, che è cosa invisibile, ha voluto istituire dei riti sensibili?

Ti farò rispondere da S. Tommaso e da S. Agostino. Il primo dice: « È proprio dell’umana natura l’essere condotta dalle cose corporali e sensibili al conoscimento delle spirituali ed intellettuali; onde molto opportunamente la sapienza divina volle conferire all’uomo, secondo la sua natura, i mezzi della salute con alcuni segni corporali e visibili, che si chiamano Sacramenti ». S. Agostino poi a questo riguardo così si esprime: « La religione essendo fatta per l’uomo, composto di due sostanze, materiale e spirituale, deve presentarsi sotto un doppio aspetto, materiale e spirituale: e nel Sacramento c’è la grazia spirituale ed invisibile, e c’è il rito materiale e visibile ». A tutto ciò si può aggiungere che il rito materiale e visibile significando la grazia spirituale ed invisibile, che apporta all’anima il Sacramento, ci rappresenta in modo esteriore e in certa guisa ci accerta l’azione interiore della grazia; di guisa che nel vedere ad esempio nel Battesimo l’acqua a scorrere sul capo, ci si rappresenta la grazia, che discende nell’anima e la purifica, e ci accerta, per così dire, in modo pratico di tale effetto.

— Ma è proprio certo che i Sacramenti ci danno la grazia di Dio?

Anche questa è verità di fede, perché  chiaramente indicata da Gesù Cristo, riconosciuta ed insegnata dagli Apostoli. La grazia, che ci santifica, viene da Dio per i meriti di Gesù Cristo, e i sacramenti sono quali strumenti nelle mani di Dio per produrla nelle nostre anime. Epperò ben a ragione la Chiesa ha condannato l’asserzione opposta dei protestanti, i quali nei Sacramenti non vedono altro che dei segni nudi d’ogni efficacia, o tutto al più delle semplici figure della grazia divina, oppure dei segni che svegliano ed eccitano la fede, per la quale siamo giustificati.

— E com’è che i Protestanti negano la grazia dei Sacramenti?

La cosa è chiara. Secondo l’insegnamento cattolico la grazia è un’azione immediata di Dio sull’anima, mercé la quale il nostro essere viene trasformato, santificato, reso simile a Dio e a Lui annodato in modo ineffabile. Il protestantesimo invece nega questa dottrina e riguarda la grazia come alcunché di puramente esterno, una imputazione della giustizia stessa di Cristo, la quale si ottiene unicamente per la fede. E questa fede per esso non è già l’adesione del nostro spirito ai dogmi rivelati, ma è una fiducia, che ci fa credere con certezza che Dio cessa di imputarci i nostri peccati per imputarci la giustizia del Figliuol suo. – Questa fiducia supplisce tutte le opere e quindi anche i Sacramenti, che tra le opere di religione sono le più sante. Ma che cosa vi ha di più falso di questa teoria dei protestanti, secondo lo stesso insegnamento della Sacra Scrittura, che pure essi invocano a loro sostegno? – Certamente vi sono in S. Paolo varii testi, che se si prendono isolatamente, come fanno appunto i protestanti, sembrerebbero indicare che la sola fede giustifica, come ti sembrerebbero indicare ciò quel verso del Pange lingua « Sola fides sufficit », se lo pigliassi da solo senza considerare il resto dell’inno. Ma non ci vuole un gran talento per capire che i testi, a cui si aggrappano i protestanti, devono essere esaminati nel contesto del discorso. Ed esaminati in tal guisa significano chiaramente che la fede non è la fiducia del protestantesimo, ma la predicazione delle verità evangeliche e l’adesione del nostro spirito a queste verità, e che se la fede è il principio della nostra giustificazione, non ne è già il tutto, ma che per la nostra giustificazione insieme con la fede si richiedono assolutamente le buone opere, come infatti dimostrano chiarissimamente moltissimi altri testi di S. Paolo e di S. Giacomo, il quale sentenzia nel modo più esplicito che « la fede senza le opere è morta » (V. capo II, versetto 26). Le opere adunque sono necessarie alla nostra giustificazione, e tra di esse in primo luogo i Sacramenti. Tantoché Gesù Cristo ne’ suoi precetti unisce la loro distribuzione alla predicazione della fede, e ne fa come di essa una condizione di salute. « Andate, dice Egli, ammaestrate tutte le genti, battezzandole. Chi crederà e sarà battezzato andrà salvo ».

— Ho ben inteso. Ma ora mi dica un po’: se tutti i sacramenti conferiscono la grazia, non bastava che Gesù Cristo ne istituisse uno solo?

Gesù Cristo poteva anche non istituirne alcuno, e darci lo stesso la grazia sua immediatamente. Egli invece non volle fare così, ma volle invece istituire dei sacramenti per comunicarcela mediante i medesimi, e istituirne sette. Dunque sia fatto com’Egli volle. Del resto c’è anche la ragione di ciò. I Sacramenti ci danno tutti la grazia, oppure ce l’aumentano, ma oltre a questa grazia prima, ce ne danno ciascuno un’altra affatto speciale e propria di ciascuno di essi, che si chiama anche sacramentale, di quella guisa che tutti i cibi hanno l’effetto comune di nutrire, ma ciascuno nutre a seconda delle sue speciali proprietà.

— Anche questo l’ho inteso. E la grazia dei Sacramenti si riceve proprio da tutti!

No, la grazia dei sacramenti si riceve da coloro, che sono ben disposti, giacché per ricevere ogni Sacramento si richiedono delle speciali disposizioni; perciò se queste mancano, la grazia non si riceve, come una stanza che sia interamente chiusa non può ricevere la luce del sole, ancorché questo vi batta contro, oppure come in una vasca non può penetrare l’acqua che viene ad essa da un canale, se dessa è otturata.

— E quei che ricevono la grazia, la ricevono tutti nella stessa misura?

Nemmeno: ma secondo le più o meno buone disposizioni che si hanno, di quella guisa ancora che in una camera entra più o meno luce, secondo che è più o meno aperta alla medesima.

— Mi ricordo d’aver appreso che vi sono Sacramenti dei vivi e sacramenti dei morti.

Non so però che ai morti si diano Sacramenti.

Tu hai voglia di scherzare. I Sacramenti dei vivi sono quelli che si hanno da ricevere in istato di grazia, ossia di vita spirituale; e quelli dei morti, cioè il Battesimo e la Penitenza, sono quelli che danno la grazia, ossia la vita dell’anima, a quelli che per il peccato ne sono privi.

— Vuol dire adunque che per ricevere i Sacramenti dei vivi, cioè la Cresima, l’Eucarestia, l’Olio santo, l’Ordine e il Matrimonio, bisogna sempre essere in grazia di Dio, e per ricevere quei dei morti bisogna essere in peccato.

La tua conseguenza è giusta nella prima parte, riguardo ai Sacramenti dei vivi, ma falsa nella seconda riguardo ai Sacramenti dei morti. Può essere benissimo che un uomo adulto, prima di ricevere il Battesimo, o la Penitenza, facesse un atto di carità perfetta, che gli sciogliesse dall’anima il peccato, e così ricevendo quei Sacramenti si troverebbe già in grazia. Così pure chi va a confessarsi di soli peccati veniali, perché di mortali non ne ha commessi, si confessa in grazia di Dio, giacché i peccati veniali non ci tolgono dall’anima la grazia santificante.

— E in questo caso essendovi già nell’anima la grazia, questi Sacramenti ne portano ancora dell’altra?

Senza dubbio. In questo caso fanno l’effetto dei sacramenti dei vivi, vale a dire aumentano la grazia, che già si trova nell’anima.

— E se chi amministra i Sacramenti si trova in peccato mortale, chi li riceve ottiene pure la grazia di Dio?

Sì; è dottrina di fede anche questa. La ragione è manifesta. Non è già il ministro dei Sacramenti che produca la grazia, ma Iddio stesso per mezzo dei Sacramenti. « Che importa, dice S. Tommaso, che il canale, per cui passa l’acqua, sia di argento, di piombo, di ferro, di legno, o di terra? Conduce sempre l’acqua lo stesso. Così è dei Sacramenti, che sempre ci danno la grazia, qualunque sia il ministro che ce li dia ».

— E se il ministro di un Sacramento fosse un scismatico, un eretico, anche allora il sacramento conferirebbe la grazia?

Sì, anche allora, purché il ministro scismatico od eretico sia nella condizione di poter essere vero ministro di quel Sacramento, e questo sia ben amministrato. Questa verità fu riconosciuta e dichiarata dalla Chiesa fin dai tempi più antichi, quando mostrò e stabilì essere valido il Battesimo anche conferito dagli eretici. Nota però che in ogni caso chi amministra i Sacramenti deve aver l’intenzione di fare quello che fa la vera Chiesa, di amministrare cioè veramente i Sacramenti di Gesù Cristo; e perciò se un cotale amministrando un Sacramento intendesse, ad esempio, di fare uno scherzo, il Sacramento non sarebbe valido, né conferirebbe grazia alcuna.

— Supponga un po’ che un ministro eretico o scismatico conferisse i Sacramenti con l’intenzione di fare quello che fa la Chiesa eretica o scismatica, li conferirebbe egli validamente?

Sì, se egli crede che la Chiesa eretica o scismatica, cui appartiene, sia la vera Chiesa di Gesù Cristo, perché in questo caso, anche senza volerlo egli ha l’intenzione che si identifica con la vera Chiesa di Gesù Cristo, vale a dire con la nostra Chiesa Cattolica.

— Dunque i Battesimi, che si amministrano presso gli eretici e i scismatici, sono validi e conferiscono la grazia?

Sì, ma intendilo bene, quando siano ben amministrati, cioè quando siano amministrati con la debita materia, forma ed intenzione: perché altrimenti non sono validi e non conferiscono la grazia.

— Ma io ho già veduto ridare il Battesimo a qualche protestante convertito. Perché ridarglielo se già l’aveva ricevuto validamente?

Ricordati quello che già ti ho detto. Perché il Sacramento sia valido bisogna che sia ben amministrato e con l’intenzione di fare quello che fa la Chiesa di Gesù Cristo. Ora nel protestantesimo per lo più il battesimo riguardandosi solo come una cerimonia esteriore, senza efficacia alcuna per la nostra santificazione, non si può essere certi che sia stato ben amministrato. Epperò la Chiesa a quelli che si convertono dal protestantesimo (e, quando ha ragione di dubitare, anche a quelli che si convertono da altre eresie) ridà il Battesimo, sotto condizione che non sia stato valido quello che hanno già ricevuto.

— Mi ricordo pure di aver appreso che certi Sacramenti imprimono il carattere.

Sì, i Sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Ordine imprimono il carattere; è questa verità di fede, abbastanza dichiarata nella Sacra Scrittura e manifestissima dalla sacra tradizione.

— Che cos’è propriamente questo carattere?

Il carattere, dice il Concilio di Trento, è un certo segno spirituale, incancellabile, impresso nell’anima di chi lo riceve. E ciò vuol dire, come spiega S. Tommaso, che è una qualità, che distingue l’anima che l’ha ricevuto da quelle che non l’hanno ricevuto, dinanzi a Dio, agli Angeli e ai beati, per modo che altro apparisce il battezzato, altro il cresimato, altro l’ordinato da quelli che non lo sono. Questo carattere resta sempre in noi, anche allora che abbiamo peccato, ed è molto probabile che rimanga eziandio nella vita futura sia in cielo, che nell’inferno.

— Mi pare di aver abbastanza capito, Ora vorrei domandarle il perché nell’amministrare i Sacramenti si facciano tante cerimonie. Non sarebbe meglio farne a meno?

Niente affatto. Il circondare di riti e cerimonie certi atti solenni di grande importanza è cosa all’uomo troppo naturale. Nelle stesse cose umane, siano private che pubbliche, ci sono modi, usi, costumi, cerimoniali, che non si possono omettere senza essere biasimati dagli uomini di senno. E ciò perché le cerimonie esteriori ci parlano alla mente e al cuore e ci fanno meglio comprendere l’importanza degli atti che si compiono. L’adoperare perciò riti e cerimonie nel culto, e specialmente nei Sacramenti, è quasi un bisogno della natura umana e della religione. E ciò è tanto vero, che anche coloro, che respingono i Sacramenti e gli atti del culto, provano poi la necessità nei loro atti e nelle loro funzioni di scimmiottare le cerimonie stesse della Chiesa.

— Ma perché la Chiesa nell’amministrare i Sacramenti fa uso della lingua latina, che il popolo non capisce? Non sarebbe meglio che adoperasse la lingua propria di ogni paese?

Così può sembrare a primo aspetto, ma così non è. La Chiesa deve conservare presso tutti i popoli l’unità della dottrina e dei Sacramenti; ora se essa permettesse l’amministrazione dei medesimi in ciascuna lingua propria d’ogni paese, correrebbe facilmente il rischio di vederli a poco a poco alterati, giacché chi non vede con che facilità traducendo un libro da una lingua ad un’altra si altera il suo contenuto? Inoltre le lingue tutte a poco a poco si mutano: oggidì ad esempio non si parla più come nel seicento e nel cinquecento. Così la Chiesa di tratto in tratto dovrebbe mutare anch’essa le sue formule, altra cosa difficile e pericolosa assai. Di più avendo ogni lingua una fisionomia propria, certe espressioni voltate dal latino in altre lingue potrebbero suonare assai male e persino eccitare le risa. Quindi è, che per queste e per varie altre ragioni la Chiesa sapientemente ha sempre ritenuto ne’ suoi riti liturgici la lingua latina. È vero che il popolo non capisce tutto, ma molte cose gli vengono spiegate nei catechismi, e per chi vuole non mancano i libri devoti, dove dei riti della Chiesa, accanto al testo latino, vi è altresì la traduzione in lingua volgare.

— Le sue ragioni mi hanno persuaso. Intanto la ringrazio delle molte cognizioni, che mi ha dato a riguardo dei Sacramenti.

MEDITAZIONE SUL VANGELO: L’INFERNO

L’INFERNO

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, vol. III. Società Ed. “Vita e Pensiero” – Milano, 1939 – imprim.]

Un filosofo francese faceva un giorno, con la sua anima, questo dialogo: « Anima mia, se tu abusi, non solo sarai infelice in questa vita, ma ancora dopo morte, nell’inferno ». – E l’anima dal fondo gli rispondeva con un filo di fiato: « Ma chi ha detto che c’è l’inferno? ». E il filosofo: « L’inferno è così orrendo, che anche solo il dubbio che ci possa essere, ci dovrebbe costringere a far giudizio ». L’anima ardì rispondergli: « Io son certa che l’inferno non c’è ». « Anima mia, non dir bugie ! » gridò il filosofo. « Se sei persuasa che l’inferno non c’è, io ti sfido » (Diderot). – Quando dalla bocca di qualche uomo ascolto l’eresia: « Morto io, morto tutto. L’inferno è una favola… », io lo guardo con un sorriso di compassione e dico: « Buon uomo non dir bugie, che tu stesso non sei persuaso delle tue parole. È la tua vita sregolata; è un certo guadagno ingiusto a cui ti sei attaccato; è quell’affetto impuro che non vuoi spegnere in cuore; è quel peccato che non vuoi confessare, che ti fa dir così ». – « Finito noi, finito tutto: mai nessuno è venuto a dirci quello che c’è di là ». — Non dir questo, che non è vero. Oggi stesso viene Gesù, Gesù morto e risorto, Gesù, Figlio di Dio che non inganna, oggi stesso viene col suo Vangelo e ti dice che l’inferno c’è. « Come un re che festeggia le nozze del suo figliuolo, così è il regno dei cieli. Erano stati invitati molti, e il re per tempo li mandò a chiamare. Non vennero. Li mandò a chiamare un’altra volta: e quelli schernirono, batterono, uccisero i poveri servi. « Il re adirato disse: Le nozze si faranno egualmente e senza di loro. Andate negli incroci delle vie, e tutti quelli che passeranno invitate alla mia festa. – « Allora una folla d’ogni colore si riversò al banchetto: ogni posto fu occupato. – « Il re passò nelle sale a salutarli; ma vide un uomo senza la veste nuziale. Fremette e gli disse: Amico! in quest’arnese si viene qui? — Il misero taceva. — Prendetelo! stringetegli con ferri mani e piedi, e buttatelo di fuori nell’oscurità, dov’è pianto e stridore di denti ». Mittite eum in tenebras exteriores, ibi fletus et stridor dentium. – Il Signore parla chiaro: se qualcuno gli comparirà mal vestito, (e il peccato è un pessimo vestito), sarà buttato fuori dalla sua presenza, nell’oscurità ove in eterno piangerà nello stridor dei denti. Dunque l’inferno c’è. E c’è perché Dio è giusto; perché Dio è buono.

Ecco tre pensieri da comprendere bene.

1. L’INFERNO C’È

Se lo dicesse un profeta che l’inferno c’è, gli credereste voi? Ebbene: ricordate che non uno, ma molti profeti sono venuti sulla terra a dir alla gente che l’inferno c’è. Isaia così parla dei dannati: « Il verme che li rode non morrà mai; il fuoco che li divora non si spegnerà mai » (LXVI, 24). – E Daniele dice: « Tutti risorgeranno: alcuni destinati alla vita eterna, altri alla rovina eterna ».

Se venisse Gesù Cristo a dirvelo, credereste che l’inferno c’è? Ebbene: sappiate che Gesù Cristo è venuto e l’ha detto; e più d’una volta Egli stesso ci ha insegnato che è molto meglio sottoporci in questo mondo ai più dolorosi sacrifici, anche a lasciarci amputare un braccio e cavare un occhio piuttosto che incorrere nel supplizio eterno (S. Matth., XVIII, 8). Egli stesso parlando del giudizio finale, ci rivelò le parole che dirà ai condannati: «Via da me, o maledetti; andate in fuoco eterno ». E quelli dovranno entrare nel tormento senza fine. Ibunt hi in supplicium æternum (S. Matth., XXV, 4 6).

Se venisse qua a dirvelo un Apostolo, S. Paolo per esempio, credereste allora che l’inferno c’è? Ebbene: sentite S. Paolo, che cosa scrive ai Tessalonicesi: « Quelli che non riconosceranno Dio, quelli che non obbediranno al Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, riceveranno in morte tormenti eterni (II Tess., I, 8).

Non basta? È necessario forse che vengano a dirvelo trecento vescovi insieme? Ebbene: sono i trecento vescovi, tutti raccolti a Nicea che dissero: « Quelli che faranno bene entreranno nella vita eterna. Ma quelli che faranno male entreranno nel fuoco eterno » (Simb. Atan.).

L’inferno c’è. Più chiaro di così non potrebbe dirvelo nemmeno un dannato, se vi comparisse in casa vostra. E se non credete alle testimonianze dei profeti, di Cristo, degli Apostoli, di tutta la Chiesa, non credereste neppure a vederlo coi vostri occhi stessi. Fareste anche voi come Gaetano Negri che diceva: « Se io, proprio con i miei occhi, in pieno giorno, vedessi anche un miracolo, non crederei ». Come, mai? « Correrei in casa, mi caccerei in letto, mi metterei il ghiaccio sul cervello, persuasissimo d’aver un febbrone ».

2. C’È PERCHÈ DIO È GIUSTO

Semei figlio di Gera aveva rincorso lungo il Cedron il re David, lanciandogli la maledizione peggiore. Ora, morto David, Salomone lo fece chiamare e gli disse: « Fabbricati una casa in Gerusalemme e là vi abiterai, senza uscir mai dalla città. Poiché se ti coglieranno, in qualche giorno, oltrepassare il Cedron, tu morrai: il tuo sangue allora sia sopra il tuo capo ». Semei rispose al re: «Dici bene, perché io ho maledetto David. Così farò ». – Dopo tre anni fu riferito a Salomone che Semei era uscito da Gerusalemme, fino a Geth. Mandò subito a chiamarlo: «Semei! Semei! Non te l’avevo io minacciato? Non te l’avevo io predetto, che ogni qualvolta fossi uscito dalla città e avessi passato il Cedron t’avrei messo a morte? Ora ci sei caduto. Muori dunque, e di questa morte tu solo fosti la causa; tu solo e la tua malizia ». Dominus reddidit malitiam tuam in caput tuum (III Re, II, 44). E Salomone fece spiccare la testa a Semei di Gera. – Nessuno poté accusare Salomone d’ingiustizia o di crudeltà per questa morte, poiché Semei era stato preavvisato. E chi allora potrà accusare d’ingiustizia il Signore quando ci condannerà all’inferno, se più e più volte ci ha avvisati, scongiurati, minacciati? quando anche oggi, vi fa ammonire dal sacerdote che spiega il suo Vangelo? « L’uomo avvisato — dice un proverbio — è mezzo salvato ». E se dopo tutto questo noi cadiamo in inferno, l’ingiustizia non è di Dio, ma nostra. Malitia tua in caput tuum.

« È impossibile — si sente dire — che l’inferno esista; Dio è troppo buono … ». È vero, cristiani; Dio è troppo buono; è infinitamente buono. Ma è pure infinitamente giusto. Che direste voi di un uomo che avesse un braccio lungo e l’altro corto corto? che è un mostro. Allora non fatemi di Dio un mostro. Non crediate che il braccio della sua misericordia sia lungo lungo, e quello della sua giustizia corto corto. Dio è buono, ma anche giusto. – Vedete: a questo mondo c’è poca giustizia. Gli iniqui spesso trionfano: hanno ricchezze, palazzi, cibi, vesti, amici, onori. E nelle cause hanno sempre ragione. Mentre ci sono invece degli uomini buoni che al mondo soffrono: soffrono la miseria, le malattie, l’ingiustizia dei più forti. Ad essi, molte volte, come al povero Lazzaro, vien negato perfino quello che si butta ai cani. È necessario allora che la giustizia si faccia almeno nell’altro mondo; che il povero Lazzaro abbia nel cielo quel che gli fu negato in terra; e che all’Epulone sia negato in cielo quel che ha negato agli altri in terra. Dio è giusto! consolatevi, voi che patite, perché Egli vede ogni vostro dolore, conta ogni lagrima vostra, ogni vostro affanno, anche il più nascosto… niente andrà perduto; di tutto sarete compensati. Dio è giusto! Spaventatevi, uomini tristi, che vivete nel peccato; che non osservate le leggi di Dio; che angariate il vostro prossimo… niente andrà perduto; di tutto sarete puniti, anche di un desiderio cattivo. La vostra pena è l’inferno; che c’è, perché Dio è giusto.

3. C’È PERCHÈ DIO È BUONO

Di solito si dice che l’Inferno non c’è perché Dio è buono e non può farci soffrire così. Ma io vi dico che appunto perché Dio è buono, l’inferno c’è. – Un magnifico re, che aveva un unico figlio, una volta cominciò a voler bene anche al figliuolo di un suo schiavo, che non aveva nulla di suo, che viveva solo perché egli lo faceva vivere. Il gran re lo nutrì ogni giorno, lo arricchì, lo colmò di favori e arrivò perfino a chiamarlo suo figlio, a farlo erede d’ogni sua sostanza insieme all’unigenito suo. Questo figlio adottivo, un giorno malaugurato, commise un pessimo delitto e fu condannato a morte dalla giustizia. Il re non poteva andar contro giustizia. Era straziato dal dolore, eppure l’amava ancora. E in una follia, che solo l’amore potrebbe spiegare, piuttosto che lasciar condannare lui — figlio di schiavo, che non aveva nulla di suo, che viveva solo perché egli lo faceva vivere — preferì veder morire il suo unigenito: l’innocente. E sopportò che questi patisse fame e stanchezza, obbrobrio e dolore, che fosse tradito, messo in croce. Tutto sopportò, pur che l’altro si salvasse. Non basta: l’amore non è ancor stanco. L’altro non si pente; salvato ritorna ancora al pessimo delitto. Il gran re lo segue per ogni via, gli perdona più volte, lo conforta. Inutilmente: eppure l’amore, non è ancor stanco. Lo perseguita con rimorsi; lo fa avvisare dai suoi ministri; ma lo sciagurato s’abbandona al capriccio di tutte le sue passioni. Una volta annunciano al re che egli è malato da morire. Il re lascia ogni cosa e corre al suo capezzale e lo chiama: « Guardami in viso: sono io, il tuo Re, ma chiamami padre, che tu sei mio figlio. Guardami, son io ». E l’ingrato stringe i pugni, si nasconde nelle coltri, gli volta le spalle, e rantola nell’agonia: «Vattene! che non ti voglio ». Oh dite: che farà adesso l’amore? L’amore non corrisposto, o peggio tradito, è terribile nelle sue vendette. Ne potrebbe dire l’orgoglio umano qualcosa! Che farà allora il gran re con quell’ingrato? Che farà allora Dio col peccatore, poiché già tutti l’avete indovinato, il gran re è Dio e il figlio ingrato è il peccatore? Egli non ha più che la vendetta per salvare il proprio onore. Cadi, peccatore, cadi nel fuoco che non si spegne mai; cadi nel dolore che non ha fine, mai; cadi nell’inferno. L’inferno c’è perché Dio è amore, e guai a chi non lo ama. Con lui non si scherza (Gal., VI, 7). Questo non è mio pensiero, ma è di S. Giovanni; ed io non ho fatto che ampliarlo: « Quis non timebit te, Domine, quia tu solus pius es? ». Dobbiamo dunque temere Dio, appunto perché è buono.

CONCLUSIONE

Lisimaco, bruciato dalla sete, pur d’avere una tazza d’acqua fresca, onde placare quel tormento d’arsura, diede i suoi beni e il suo regno e la sua felicità in mano del nemico. E bevve. Dopo quella breve soddisfazione, mirando la tazza vuota, scoppiò in pianto. « Dii boni! quam ob brevem voluptatem amisi felicitatem summam ». « Un regno per una tazza d’acqua! la felicità di tutta la vita per il rinfresco d’una bevanda! Condannarmi a un fuoco eterno per liberarmi da un poco di sete! Che ho mai fatto… ». E cominciò a piangere che riempì di lagrime quella tazza che aveva vuotata d’acqua. – Quando commettiamo il peccato, la pazzia di Lisimaco la ripetiamo noi. Per un breve piacere, per la soddisfazione momentanea d’una passione, perdiamo ogni merito, il paradiso, la somma felicità di goder Dio e ci condanniamo al fuoco eterno. Se così abbiamo fatto, giacché siamo ancora in tempo, riempiamo con le lacrime del pentimento la tazza del piacere, che abbiamo vuotata. Queste lacrime varranno a spegnere il fuoco che ci potrebbe tormentare nei secoli dei secoli.

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: LUX VERITATIS DI S. S. PIO XI

11 Ottobre: nel giorno in cui la Chiesa Cattolica festeggia la Maternità della Beata Vergine Maria, riportiamo il testo della lettera enciclica “Lux Veritatis” di S. S. Pio XI, scritta in occasione del XV centenario del Concilio di Efeso, nel corso del quale vennero definiti dei dogmi di fede basilari della dottrina cattolica ed indispensabili per la salvezza eterna. Tra di essi, fu solennemente enunciato il dogma della Maternità di Maria con il titolo di THEOTOKOS, Madre di Dio, che l’infame Nestorio aveva osato negare. La lettura e la meditazione di questa lettera, ricca di dati storici e di verità di fede, sarà di sommo profitto per chi vuole abbeverarsi alle fonti della dottrina Cattolica per aspirare alla vita eterna. In questo giorno di grande Festa per la Chiesa e per i Cattolici che hanno in sommo grado il culto di Maria, Vergine e Madre di Dio, incidiamo nei nostri cuori le parole del Sommo Pontefice riportate in:

LUX VERITATIS

LETTERA ENCICLICA

DEL SOMMO PONTEFICE

PIO XI


AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
NEL XV CENTENARIO
DEL CONCILIO DI EFESO CHE PROCLAMÒ
LA MATERNITÀ DIVINA DI MARIA

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

La storia, luce di verità e testimonio dei tempi, se rettamente consultata e diligentemente esaminata, insegna che la promessa fatta da Gesù Cristo: « Io sono con voi … fino alla consumazione dei secoli » , non è mai venuta meno alla sua Chiesa e non verrà quindi mai a mancare in avvenire. Anzi quanto più furiosi sono i flutti dai quali è sbattuta la nave di Pietro, tanto più pronto e vigoroso essa sperimenta l’aiuto della grazia divina. E ciò in modo singolarissimo avvenne nei primi tempi della Chiesa, non solo quando il nome cristiano era ritenuto delitto esecrabile da punirsi con la morte, ma anche quando la vera fede di Cristo, sconvolta dalla perfidia degli eretici che imperversavano soprattutto in Oriente, fu messa in gravissima prova. Infatti, come i persecutori dei cristiani, l’uno dopo l’altro, miseramente scomparvero, e lo stesso Impero romano cadde in rovina, così tutti gli eretici, quasi tralci inariditi perché recisi dalla vite divina, più non poterono succhiare la linfa vitale né fruttificare. – La Chiesa di Dio invece, fra tante procelle e vicissitudini di cose caduche, unicamente confidando in Dio, proseguì in ogni tempo il suo cammino con passo fermo e sicuro, né mai cessò di difendere vigorosamente l’integrità del sacro deposito della verità evangelica affidatole dal divino Fondatore. – Questi pensieri si riaffacciano alla Nostra mente, Venerabili Fratelli, nell’accingerCi a parlarvi in questa Lettera di quel veramente faustissimo avvenimento che fu il Concilio celebrato ad Efeso quindici secoli fa, nel quale, come fu smascherata l’astuta protervia degli erranti, così rifulse la inconcussa fede della Chiesa, sorretta dall’aiuto divino. – Sappiamo che per Nostro consiglio furono costituiti due Comitati di uomini insigni, incaricati di promuovere nel modo più solenne commemorazioni di questo centenario, non solo qui in Roma, capitale dell’orbe cattolico, ma in ogni parte del mondo. Né ignoriamo che le persone alle quali affidammo tale incarico speciale si adoperarono alacremente di promuovere la salutare iniziativa, senza risparmio di fatiche o di sollecitudini. Di questa alacrità dunque — assecondata, si può dire, dappertutto dal volenteroso e veramente mirabile consenso dei Vescovi e dei migliori fra i laici — non possiamo che grandemente congratularCi, perché confidiamo che ne abbiano a derivare, anche per l’avvenire, grandi vantaggi per la causa cattolica. – Ma considerando Noi attentamente questo avvenimento storico e i fatti e le circostanze ad esso connessi, stimiamo conveniente all’ufficio apostolico affidatoCi da Dio, rivolgerCi personalmente a voi con un’Enciclica in quest’ultimo scorcio del centenario e nella ricorrenza del tempo sacro in cui la B. V. Maria per noi « diede alla luce il Salvatore », e intrattenerCi con voi intorno a questo argomento che certo è della massima importanza. Nel fare ciò nutriamo ferma speranza che non solo le Nostre parole torneranno gradite ed utili a voi e ai vostri fedeli, ma, se esse verranno attentamente meditate con animo desideroso di verità da quanti Nostri fratelli e figli dilettissimi sono separati dalla Sede Apostolica, confidiamo che essi, convinti dalla storia maestra della vita, non potranno non provare almeno la nostalgia dell’unico ovile sotto l’unico Pastore, e del ritorno a quella vera fede, che gelosamente si conserva sempre sicura e inviolata nella Chiesa Romana. Infatti, nel metodo seguito dai Padri e in tutto lo svolgimento del Concilio di Efeso nell’opporsi all’eresia di Nestorio, tre dogmi della fede cattolica specialmente brillarono agli occhi del mondo nella piena loro luce, e di essi Noi tratteremo in modo speciale. Essi sono:

– che in Gesù Cristo unica è la Persona, e questa divina;

– che tutti devono riconoscere e venerare la B. V. Maria come vera Madre di Dio; e infine,

– che nel Romano Pontefice risiede, per divina istituzione, l’autorità suprema, somma e indipendente, su tutti e singoli i Cristiani, nelle questioni concernenti la fede e la morale.

I

Per procedere dunque con ordine nella trattazione, facciamo Nostra quella sentenziosa esortazione dell’Apostolo delle genti agli Efesini: « Riuniamoci finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore. Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di Lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità » . Le quali esortazioni dell’Apostolo, come furono seguite con sì mirabile unione d’animo dai Padri del Concilio di Efeso, così vorremmo che tutti, senza distinzione, facendo tacere ogni pregiudizio, le ritenessero come a sé rivolte e le mettessero felicemente in pratica. – Come è universalmente risaputo, autore di tutta la controversia fu Nestorio; non però nel senso che la nuova dottrina sia sbocciata tutta dal suo ingegno e dal suo studio, avendola egli certamente derivata da Teodoro, vescovo di Mopsuestia; ma egli, svolgendola poscia con maggiore ampiezza, e rimessala a nuovo con una certa apparenza di originalità, si diede a predicarla e a divulgarla con ogni mezzo con grande apparato di parole e di sentenze, dotato com’era di facondia singolare. Nato a Germanicia, città della Siria, si recò da giovane ad Antiochia per istruirsi nelle scienze sacre e profane. In questa città, allora celeberrima, professò dapprima la vita monastica; ma poi, volubile com’era, abbandonato questo genere di vita e ordinato sacerdote, si dedicò totalmente alla predicazione, cercandovi, più che la gloria di Dio, il plauso umano. La fama della sua eloquenza destò tanto favore nel pubblico e talmente si diffuse che, chiamato a Costantinopoli, allora priva del suo Pastore, fu elevato alla dignità episcopale, fra la più grande aspettazione comune. In questa così illustre sede, anziché astenersi dalle massime perverse della sua dottrina, continuò anzi a insegnarle e a divulgarle con maggiore autorità e baldanza. – Per bene intendere la questione, giova qui accennare brevemente ai principali capi dell’eresia nestoriana. Quell’uomo arrogante, giudicando che due ipostasi perfette, vale a dire la umana di Gesù e la divina del Verbo, si fossero riunite in una comune persona, o « prosopo » (com’egli si esprimeva), negò quell’ammirabile unione sostanziale delle due nature, che chiamiamo ipostatica; pertanto insegnò che l’Unigenito Verbo di Dio non s’era fatto uomo, ma si trovava presente nell’umana carne per la sua inabitazione, per il suo beneplacito e per la virtù della sua operazione. Di qui, non doversi Gesù chiamare Dio, ma « Theophoros » ossia Deifero; in modo non molto dissimile da quello per cui i profeti e gli altri santi possono chiamarsi Deiferi, cioè per la grazia divina loro concessa. – Da queste perverse massime di Nestorio seguiva doversi riconoscere in Cristo due persone, l’una divina e l’altra umana; e così ne scendeva necessariamente che la B. V. Maria non era veramente Madre di Dio, ossia « Theotócos », ma piuttosto Madre di Cristo uomo, ossia « Christotócos », o al più Accoglitrice di Dio, ossia « Theodócos » . – Questi empi dogmi, predicati non più nell’oscurità del segreto da un uomo privato, ma apertamente in pubblico dallo stesso Vescovo di Costantinopoli, produssero negli animi, massime nella Chiesa orientale, una gravissima perturbazione. E fra gli oppositori dell’eresia nestoriana, che non mancarono nemmeno nella capitale dell’Impero di Oriente, tiene certamente il primo posto quell’uomo santo e vindice della cattolica integrità che fu Cirillo, Patriarca di Alessandria. Questi, non appena conosciuta l’empia dottrina del Vescovo di Costantinopoli, zelantissimo com’era non soltanto dei figli suoi, ma altresì dei fratelli erranti, difese validamente presso i suoi la fede ortodossa, e si adoperò con animo fraterno di ricondurre Nestorio alla norma della verità, indirizzandogli una lettera. – Riuscito vano questo caritatevole tentativo a motivo della pervicace ostinazione di Nestorio, Cirillo, non meno buon conoscitore che fortissimo assertore dell’autorità della Chiesa Romana, non volle spingere più oltre la discussione né sentenziare di sua autorità in una causa tanto grave, senza prima domandare e udire il giudizio della Sede Apostolica. Scrisse perciò « al Beatissimo e a Dio dilettissimo Padre Celestino », una lettera piena di deferenza, dicendogli fra l’altro: « L’antica consuetudine delle Chiese ci induce a comunicare alla Tua Santità simili cause … » . « Né vogliamo abbandonare pubblicamente la comunione di lui (Nestorio), prima di farne cenno alla Tua pietà. Degnati pertanto di significarci la Tua sentenza, onde chiaramente ci possa constare se convenga che noi comunichiamo con uno che favorisce e predica una siffatta erronea dottrina. Quindi l’integrità della Tua mente e il Tuo parere su questo argomento deve venire esposto chiaramente per iscritto ai vescovi piissimi e a Dio devotissimi della Macedonia e ai Pastori di tutto l’Oriente » . – Nestorio stesso non ignorava la suprema autorità del Vescovo di Roma su tutta la Chiesa; e di fatto ripetutamente scrisse a Celestino, sforzandosi di provare la sua dottrina e di guadagnarsi e accattivarsi l’animo del santo Pontefice. Ma indarno; perché gli stessi scritti incomposti dell’eresiarca contenevano errori non lievi; e il Capo della Sede Apostolica non appena li scorse, mettendo subito mano al rimedio perché la peste dell’eresia non divenisse, temporeggiando, più pericolosa, li esaminò giuridicamente in un Sinodo, e solennemente li riprovò e ordinò che parimenti da tutti fossero riprovati. – E qui desideriamo, Venerabili Fratelli, che riflettiate attentamente quanto, in questa causa, il modo di procedere del Romano Pontefice differisca da quello seguito dal Vescovo di Alessandria. Questi infatti, pur occupando una sede stimata la prima della Chiesa Orientale, non volle, come abbiamo detto, dirimere da sé una gravissima controversia concernente la fede cattolica, prima di aver ben conosciuto il pensiero della Sede Apostolica. Celestino invece, riunito a Roma un Sinodo, esaminata ponderatamente la causa, in forza della suprema e assoluta sua autorità su tutto il gregge del Signore, pronunziò solennemente questa decisione sul Vescovo di Costantinopoli e sulla dottrina di lui: « Sappi dunque chiaramente », così scrisse a Nestorio, « che questa è la nostra sentenza: se di Cristo, Dio nostro, non predichi ciò che affermano la Chiesa Romana e Alessandrina e tutta la Chiesa Cattolica, come anche ottimamente sostenne la sacrosanta Chiesa di Costantinopoli fino a te, e se entro dieci giorni da computarsi da quello in cui avrai avuto notizia di questa intimazione, non ripudierai, con una confessione chiara e per iscritto, quella perfida novità che tenta di separare ciò che la Sacra Scrittura unisce, sei cacciato dalla comunione di tutta la Chiesa Cattolica. Il testo del nostro giudizio su di te abbiamo inviato, per mezzo del ricordato figlio mio il diacono Possidonio, con tutti i documenti, al santo mio consacerdote Vescovo della predetta città di Alessandria, che di tutto questo affare con maggior pienezza C’informò, perché, in nostra vece, faccia in modo che questa nostra decisione venga conosciuta da te e da tutti i fratelli; perché tutti debbono sapere quanto si fa, quando si tratta della causa di tutti » . – L’esecuzione di questa sentenza fu poi demandata dal Romano Pontefice al Patriarca di Alessandria con queste gravi parole: « Pertanto, forte dell’autorità della nostra Sede, tenendo le nostre veci, eseguirai, con forte vigore questa sentenza: o entro dieci giorni, da computarsi dal giorno di questa intimazione, egli condannerà con una professione scritta le sue perverse dottrine e confermerà di ritenere intorno alla natività di Cristo, Dio nostro, la fede professata dalla Chiesa Romana, da quella della tua santità e dall’universale sentimento; oppure, se ciò non farà, subito la tua santità, provvedendo a quella Chiesa, sappia ch’egli dev’essere in tutti i modi rimosso dal nostro corpo » . – Alcuni scrittori antichi e moderni, quasi per eludere la chiara autorità dei documenti riferiti, vollero su tutta questa controversia proferire giudizio, spesso con un’orgogliosa iattanza. Anche ammesso, così vanno sconsideratamente dicendo, che il Pontefice Romano abbia pronunciato una sentenza perentoria ed assoluta, provocata dal Vescovo di Alessandria emulo di Nestorio, e quindi da lui ben volentieri fatta sua, resta però il fatto che il Concilio, riunitosi più tardi ad Efeso, tornò a giudicare da capo tutta la causa, già giudicata e assolutamente condannata dalla Sede Apostolica, e con la suprema sua autorità stabili ciò che da tutti doveva ritenersi in tale questione. Quindi credono di poter concludere che il Concilio Ecumenico gode di diritti assai maggiori e più forti che non l’autorità del Vescovo di Roma. – Ma chi con lealtà di storico e con animo spoglio di pregiudizi riguardi diligentemente ai fatti e ai documenti scritti, non può non riconoscere che tale obiezione posa sul falso ed è solo una simulazione di verità. Anzitutto conviene avvertire che quando l’imperatore Teodosio, anche in nome del suo collega Valentiniano, indisse il Concilio Ecumenico, la sentenza di Celestino non era ancora giunta a Costantinopoli, e quindi non vi era per nulla conosciuta. In secondo luogo avendo Celestino appreso della convocazione del Concilio di Efeso da parte degli Imperatori, non si mostrò affatto contrario; anzi scrisse a Teodosio  e al Vescovo di Alessandria lodando il provvedimento e annunziando la scelta del Patriarca Cirillo, dei Vescovi Arcadio e Proietto e del prete Filippo, quali suoi legati, perché presiedessero al Concilio. Nel fare ciò il Romano Pontefice non rilasciò tuttavia all’arbitrio del Concilio la causa come non ancora giudicata, ma fermo restando, come si espresse, « quanto da Noi già si è stabilito » , affidò l’esecuzione della sentenza da lui pronunciata ai Padri del Concilio, in modo che essi, se fosse stato possibile, dopo essersi insieme consultati e aver pregato Iddio, si adoperassero per ricondurre all’unità della fede il Vescovo di Costantinopoli. Infatti, avendo Cirillo domandato al Pontefice come regolarsi in quell’affare, se cioè « il Sacro Sinodo dovesse riceverlo (Nestorio) nel caso che condannasse quanto aveva predicato; oppure valesse la sentenza già da tempo pronunziata, per essere ormai spirato il tempo dell’indugio », Celestino gli rispose: « Sia questo l’ufficio della tua santità insieme col venerando Concilio dei fratelli, di reprimere cioè gli strepiti sorti nella Chiesa, e di far sapere che, con l’aiuto divino, il negozio si è concluso con la desiderata correzione. Né diciamo già di non essere presenti al Concilio, non potendo non essere presenti a coloro con i quali, ovunque essi si trovino, Noi siamo congiunti per l’unità della fede … Costì Noi ci troviamo, perché pensiamo a ciò che costì si tratta per il bene di tutti; trattiamo presenti in ispirito ciò che non possiamo trattare presenti di corpo. Penso alla pace cattolica, penso alla salute di chi perisce, purché questi voglia confessare la sua malattia. E ciò diciamo perché non sembri che veniamo meno a chi forse vuole correggersi … Provi egli che Noi non abbiamo i piedi veloci ad effondere il sangue, conoscendo che anche per lui è offerto il rimedio ». – Queste parole di Celestino ne dimostrano l’animo paterno e attestano chiaramente ch’egli non bramava di meglio se non che rifulgesse alle menti accecate il lume della fede, e che la Chiesa fosse rallegrata dal ritorno degli erranti; tuttavia le prescrizioni da lui fatte ai legati in partenza per Efeso, sono certamente tali da manifestare la cura sollecita con cui il Pontefice ordinò che fossero mantenuti intatti i divini diritti della Sede Romana. Si legge infatti, tra l’altro: « Comandiamo che si debba custodire l’autorità della Sede Apostolica; poiché così parlano le istruzioni che vi sono state date, che cioè dobbiate esser presenti al Concilio e che se si venga alla discussione, voi dobbiate giudicare delle loro opinioni, non già entrare nella lotta » . Né diversamente si comportarono i legati, col pieno consenso dei Padri del Concilio. Infatti, ubbidendo con fermezza e fedeltà ai predetti ordini del Pontefice, giunti ad Efeso, quando già era finita la prima tornata, chiesero che fossero loro consegnati tutti i decreti della precedente riunione, perché potessero venire ratificati in nome della Sede Apostolica: «Domandiamo che vogliate esporci quanto fu trattato in questo santo Sinodo prima del nostro arrivo, affinché, secondo la mente del beato nostro Papa e di questo santo Concilio, anche noi lo confermiamo …» . – E il prete Filippo pronunciò dinanzi a tutto il Concilio quella famosa sentenza sul primato della Chiesa Romana, che viene riferita nella Costituzione dogmatica « Pastor Æternus » del Concilio Vaticano. Essa dice: «Nessuno dubita, anzi tutti i secoli conoscono, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa cattolica, ricevette le chiavi del regno dal Signor Nostro Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, e che a lui fu data la potestà di sciogliere e legare i peccati; ed egli fino a questo tempo e sempre vive nei suoi successori ed esercita il giudizio » . – Che più? Forse che i Padri del Concilio Ecumenico si opposero a questo procedere di Celestino e dei suoi legati? Assolutamente no. Anzi rimangono documenti scritti che ne manifestano chiarissimamente la riverenza e l’ossequio. Quando infatti i legati pontifici, nella seconda tornata del Concilio, leggendo la lettera di Celestino, dissero fra l’altro: «Abbiamo inviato, nella nostra sollecitudine, i santi fratelli e consacerdoti, Arcadio e Proietto, Vescovi, e il nostro prete Filippo, uomini specchiatissimi e concordi con Noi, perché intervengano alle vostre discussioni ed eseguano ciò che già da noi è stato stabilito; e ad essi non dubitiamo che la vostra santità debba dare l’assenso …», i Padri, lungi dal ricusare questa sentenza come di giudice supremo, l’applaudirono anzi unanimemente e salutarono il Romano Pontefice con queste onorifiche acclamazioni: «Questo è il giusto giudizio! A Celestino, nuovo Paolo, a Cirillo nuovo Paolo, a Celestino custode della fede, a Celestino concorde col Sinodo, a Celestino tutto il Concilio rende grazie: un solo Celestino, un solo Cirillo, una sola la fede del Sinodo, una sola la fede del mondo ». – Come poi si venne alla condanna e alla riprovazione di Nestorio, i medesimi Padri del Concilio non credettero di poter liberamente giudicare da capo la causa, ma apertamente professarono di essere stati prevenuti e « costretti » dal responso del Romano Pontefice: « Conoscendo … che egli (Nestorio) sente e predica empiamente, costretti dai canoni e dalla lettera del Santissimo Padre nostro e consacerdote Celestino, Vescovo della Chiesa Romana, versando lacrime, veniamo necessariamente a questa lugubre sentenza contro di lui. Pertanto Gesù Cristo, nostro Signore, assalito dalle blasfeme voci di lui, per mezzo di questo santo Sinodo ha definito il medesimo Nestorio privato della dignità episcopale e separato da ogni consorzio e riunione sacerdotale ». – Questa fu altresì la professione fatta da Fermo, Vescovo di Cesarea, nella seconda sessione del Concilio, con le seguenti chiare parole: « L’Apostolica e Santa Sede del santissimo Vescovo Celestino, con la lettera indirizzata ai religiosissimi Vescovi, prescrisse anche in precedenza la sentenza e la regola intorno a questo caso; conformemente ad esse … giacché Nestorio, da noi citato, non è comparso, mandammo ad effetto quella condanna, proferendo contro di lui il giudizio canonico ed apostolico ». – Orbene, i documenti finora da noi ricordati provano in modo così ovvio e significativo la fede già allora comunemente in vigore in tutta la Chiesa intorno all’autorità indipendente ed infallibile del Romano Pontefice su tutto il gregge di Cristo, che Ci richiamano alla mente quella nitida e splendida espressione di Agostino sul giudizio pochi anni prima pronunziato dal papa Zosimo contro i Pelagiani nella sua Epistola Tractoria: « In queste parole la fede della Sede Apostolica è tanto antica e fondata, tanto certa e chiara è la fede cattolica, che non è lecito a un cristiano dubitare di essa » . m- È così avesse potuto intervenire al Concilio di Efeso il santo Vescovo di Ippona! come vi avrebbe illustrato i dogmi della verità cattolica con quell’ammirabile sua acutezza d’ingegno, vedendo il pericolo delle discussioni, e come li avrebbe difesi con la sua forza d’animo! Ma quando i legati degli Imperatori giunsero ad Ippona per consegnargli la lettera di invito, non poterono far altro che piangere estinto quel chiarissimo luminare della sapienza cristiana e la sua sede devastata dai Vandali. – Non ignoriamo, Venerabili Fratelli, che alcuni di coloro che, specialmente ai nostri giorni, si dedicano alle ricerche storiche, si affannano non solo ad assolvere Nestorio di ogni taccia di eresia, ma ad accusare il santo Vescovo di Alessandria Cirillo quasi che questi, mosso da iniqua rivalità, calunniasse Nestorio e si adoperasse con tutte le sue forze a provocarne la condanna per dottrine non mai da lui insegnate. E i medesimi difensori del Vescovo di Costantinopoli non si peritano di lanciare la medesima gravissima accusa al beato Nostro antecessore Celestino, della cui imperizia Cirillo avrebbe abusato, e allo stesso sacrosanto Concilio di Efeso. – Ma contro un siffatto attentato, non meno vano che temerario, proclama unanime la sua riprovazione la Chiesa tutta, la quale in ogni tempo riconobbe come meritamente pronunziata la condanna di Nestorio, ritenne ortodossa la dottrina di Cirillo, annoverò sempre e venerò il Concilio Efesino tra i Concili Ecumenici celebrati sotto la guida dello Spirito Santo. – Ed infatti, pur tralasciando molte altre eloquentissime testimonianze, valga quella di moltissimi seguaci dello stesso Nestorio. Essi videro svolgersi gli eventi sotto i propri occhi, né erano legati a Cirillo da vincolo alcuno; eppure, benché spinti alla parte contraria dall’amicizia con Nestorio, dalla grande attrattiva dei suoi scritti e dall’acceso ardore delle dispute, nondimeno, dopo il Sinodo Efesino, come colpiti dalla luce della verità, a poco a poco abbandonarono l’eretico Vescovo di Costantinopoli, che appunto secondo la legge ecclesiastica era da evitare. Ed alcuni di essi certamente sopravvivevano ancora, allorché il Nostro predecessore di f. m. Leone Magno, così scriveva al Vescovo di Marsala Pascasino, suo legato al Concilio di Calcedonia: «Tu ben sai che tutta la Chiesa Costantinopolitana, con tutti i suoi monasteri e molti Vescovi, prestò il suo consenso e sottoscrisse alla condanna di Nestorio e di Eutiche, e dei loro errori » . – Nella lettera dogmatica, poi, all’imperatore Leone, egli accusa apertissimamente Nestorio come eretico e maestro di eresia, senza che alcuno gli contraddica. Egli scrive: « Si condanni dunque Nestorio, che opinò la Beata Vergine Maria essere madre soltanto dell’uomo e non di Dio, stimando altra essere la persona umana ed altra la divina, e non ritenendo un solo Cristo nel Verbo di Dio e nella carne, ma separando e proclamando altro essere il figlio di Dio, altro il figlio dell’uomo » . Né alcuno può ignorare che questo stesso fu solennemente sancito dal Concilio di Calcedonia, il quale riprovò nuovamente Nestorio e lodò la dottrina di Cirillo. Così pure il santissimo Nostro predecessore Gregorio Magno, non appena fu innalzato alla cattedra del beato Pietro, dopo avere ricordato — nella sua Lettera sinodica alle Chiese orientali — i quattro Concili Ecumenici, cioè il Niceno, il Costantinopolitano, l’Efesino e il Calcedonese, si esprime intorno ad essi con questa, nobilissima ed importantissima sentenza: «… Su di essi si innalza, come su pietra quadrata, l’edificio della santa fede; su di essi poggia ogni vita ed azione; chi non si appoggia ad essi, anche se sembri essere pietra, giace tuttavia fuori dell’edificio » . – Tutti dunque ritengano come certo e manifesto che veramente Nestorio propalò errori ereticali, che il Patriarca Alessandrino fu invitto difensore della fede cattolica, e che il Pontefice Celestino, col Concilio di Efeso, difese l’avita dottrina e la suprema autorità della Sede Apostolica.

II

Ma è tempo ormai, Venerabili Fratelli, che passiamo a considerare più profondamente quei punti di dottrina, i quali, mediante la condanna stessa di  Nestorio, furono apertamente professati e autorevolmente sanciti dal Concilio Ecumenico di Efeso. Orbene, oltre la condanna dell’eresia Pelagiana e dei suoi fautori, tra i quali senza dubbio era Nestorio, l’argomento principale che vi fu trattato, e che fu solennemente e unanimemente confermato da quei Padri, riguardava la sentenza del tutto empia e contraria alle Sacre Scritture, propugnata da questo eresiarca; ond’è che fu proclamato come assolutamente certo ciò che egli negava, e cioè in Cristo essere una sola persona, la Persona divina. Nestorio infatti, come dicemmo, ostinatamente sosteneva che il Divin Verbo si unisce all’umana natura in Cristo, non già sostanzialmente e ipostaticamente, bensì mediante un vincolo meramente accidentale e morale; e i Padri di Efeso, condannando appunto il Vescovo di Costantinopoli, proclamarono apertamente la vera dottrina dell’Incarnazione, che deve essere da tutti fermamente ritenuta. Ed invero Cirillo, nelle sue epistole e nei suoi capitoli, già in precedenza indirizzati a Nestorio e poi inseriti negli Atti di quel Concilio, accordandosi mirabilmente con la Chiesa di Roma, con chiare e ripetute parole ne difende la dottrina: « Pertanto in nessun modo è lecito scindere l’unico Signor nostro Gesù Cristo in due figli … La Scrittura infatti non dice che il Verbo ha associato a sé la persona umana, ma che si è fatto carne. Il dire che il Verbo si è fatto carne, significa che Egli, come noi, si è unito con la carne e col sangue; Egli dunque fece suo il nostro corpo e nacque uomo dalla donna, senza nondimeno abbandonare la divinità e la filiazione dal Padre: restò quindi, nella stessa assunzione della carne, quello che era » . – Infatti, come sappiamo dalle Sacre Scritture e dalla tradizione divina, il Verbo di Dio Padre non si congiunse con un uomo, già in sé sussistente, ma uno stesso e medesimo Cristo è il Verbo di Dio esistente ab æterno nel seno del Padre e l’uomo fatto nel tempo. Poiché la mirabile unione della divinità e dell’umanità in Cristo Gesù, Redentore del genere umano, la quale a ragione vien detta ipostatica, è appunto quella che è inconfutabilmente espressa nelle Sacre Lettere, allorché lo stesso unico Cristo, non solo è appellato Dio ed uomo, ma viene anche descritto in atto di operare e come Dio e come uomo, ed infine, di morire in quanto uomo e di risorgere glorioso dalla morte in quanto Dio. In altri termini, quello stesso che è concepito per virtù dello Spirito Santo nel seno della Vergine, nasce, giace nel presepe, si dice figlio dell’uomo, soffre, e muore confitto in croce, è quello stesso appunto che dall’Eterno Padre, in modo miracoloso e solenne è proclamato « mio Figlio diletto », dà con potere divino il perdono dei peccati, restituisce per virtù propria la sanità agli infermi e richiama i morti alla vita. Ora tutto ciò, mentre dimostra ad evidenza essere in Cristo due nature, dalle quali procedono operazioni umane e divine, non meno evidentemente attesta uno essere Cristo, Dio e Uomo nello stesso tempo, per quella unità della persona divina, per la quale è detto « Theànthropos ». – Inoltre, non vi è chi non veda come questa dottrina, costantemente insegnata dalla Chiesa, sia comprovata e confermata dal dogma della Redenzione umana. Infatti, come avrebbe potuto Cristo essere chiamato « primogenito fra molti fratelli » , essere ferito a causa della nostra iniquità, redimerci dalla schiavitù del peccato, se non fosse stato dotato di natura umana, come noi? E parimenti come avrebbe Egli potuto del tutto placare la giustizia del Padre celeste, offesa dal genere umano, se non fosse stato insignito, per la sua persona divina, di una dignità immensa e infinita? – Né è lecito negare questo punto della verità cattolica per la ragione che, se si dicesse che il Redentore nostro è privo della persona umana, per ciò stesso potrebbe sembrare che alla sua natura umana mancasse qualche perfezione, e quindi diventerebbe, come uomo, inferiore a noi. Poiché, come sottilmente e sagacemente osserva l’Aquinate, « la personalità in tanto appartiene alla dignità e alla perfezione di qualche cosa, in quanto appartiene alla dignità e alla perfezione di quella cosa l’esistere per se stessa, il che si intende col nome di persona. Però è più degno, per qualcuno, esistere in un altro di sé più elevato, che esistere per sé; quindi la natura umana è in maggiore dignità in Cristo, che non lo sia in noi, perché in noi, esistendo quasi per sé, ha la propria personalità; in Cristo, invece, esiste nella Persona del Verbo. Così pure l’essere completivo della specie appartiene alla dignità della forma; tuttavia la parte sensitiva è più nobile nell’uomo per la congiunzione ad una più nobile forma completiva, che non lo sia nel bruto animale, nel quale essa stessa è forma completiva ». – Inoltre è bene qui notare che, come Ario, quell’astutissimo sovvertitore dell’unità cattolica, impugnò la natura divina del Verbo, e la sua consostanzialità con l’Eterno Padre, così Nestorio, procedendo per una via del tutta diversa, rigettando cioè l’unione ipostatica del Redentore, negò a Cristo, sebbene non al Verbo, la piena ed integra divinità. Infatti, se in Cristo la natura divina fosse stata unita con quella umana solamente con vincolo morale (come egli stoltamente vaneggiava) — ciò che, come abbiamo detto, hanno in certo qual modo conseguito anche i profeti e gli altri eroi della santità cristiana, per la propria intima unione con Dio — il Salvatore del genere umano poco o nulla differirebbe da coloro che Egli ha redenti con la sua grazia e col suo sangue. Rinnegata dunque la dottrina dell’unione ipostatica, sulla quale si fondano ed hanno solidità i dogmi dell’Incarnazione e della redenzione umana, cade e rovina ogni fondamento della Religione Cattolica. – Però non Ci meravigliamo se, alla prima minaccia del pericolo dell’eresia Nestoriana, tutto l’orbe cattolico ha tremato; non Ci meravigliamo se il Concilio Efesino vivamente si è opposto al Vescovo di Costantinopoli che combatteva con tanta temerità ed astuzia la fede avita, ed eseguendo la sentenza del Romano Pontefice lo ha colpito col tremendo anatema. – Noi pertanto, facendo eco, in armonia di animo, a tutte le età dell’era cristiana, veneriamo il Redentore del genere umano non come « Elia… o uno dei profeti » nei quali abita la divinità per mezzo della grazia, ma ad una voce col Principe degli Apostoli, che ha conosciuto tale mistero per rivelazione divina, confessiamo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » . – Posta al sicuro questa verità dogmatica, se ne può facilmente dedurre che l’universale famiglia degli uomini e delle cose create è stata elevata dal mistero dell’Incarnazione a tale dignità, da non potersene certamente immaginare una maggiore, certo più sublime di quella alla quale fu innalzata con l’opera della creazione. Poiché in tal maniera nella discendenza di Adamo vi è uno, cioè Cristo, il quale perviene proprio alla sempiterna e infinita divinità, e con la stessa è congiunto in modo arcano e strettissimo; Cristo, diciamo, fratello nostro, dotato della natura umana, ma anche Dio con noi, ossia Emmanuele, che con la sua grazia e i suoi meriti, riconduce tutti noi al divino Autore, e ci richiama a quella beatitudine, dalla quale eravamo miseramente decaduti a causa del peccato originale. Nutriamo dunque per lui sensi di gratitudine, seguiamo i suoi precetti, imitiamone gli esempi. Così saremo consorti della divinità di colui « che si è degnato farsi partecipe della nostra umanità » . – Se però, come abbiamo detto, in ogni tempo, nel corso dei secoli la vera Chiesa di Gesù Cristo ha con somma diligenza difeso pura e incorrotta tale dottrina dell’unità di persona e della divinità del suo Fondatore, non così, purtroppo, avviene presso coloro che miseramente vagano fuori dell’unico ovile di Cristo. Infatti, ogni volta che qualcuno con pertinacia si sottrae al magistero infallibile della Chiesa, abbiamo da lamentare in lui anche una graduale perdita della sicura e vera dottrina intorno a Gesù Cristo. In realtà, se alle tante e così diverse sette religiose, a quelle in modo speciale sorte dal secolo XVI e XVII in poi, le quali si gloriano ancora del nome cristiano e al principio della loro separazione confessavano fermamente Cristo Dio e uomo, domandassimo che cosa ora ne pensano, ne avremmo risposte del tutto dissimili e fra loro contraddittorie; perché, sebbene pochi di essi abbiano conservato una fede piena e retta riguardo alla persona del nostro Redentore, quanto agli altri però, se in qualche maniera affermano qualcosa di simile, questo sembra piuttosto un residuo di quel prezioso aroma di antica fede, di cui ormai hanno perduto la sostanza. – Infatti essi presentano Gesù come un uomo dotato di divini carismi, congiunto in un certo modo misterioso, più degli altri, con la divinità, e a Dio vicinissimo; ma sono molto lontani dalla intera e genuina professione della fede cattolica. Altri infine, non riconoscendo nulla di divino in Cristo, lo dichiarano semplice uomo, adorno sì di esimie doti di corpo e di animo, ma soggetto anche ad errori e alla fragilità umana. Da ciò appare manifesto che tutti costoro, allo stesso modo di Nestorio, vogliono con ardire temerario « separare Cristo » e pertanto, secondo la testimonianza dell’Apostolo Giovanni, « non sono da Dio ». – Noi dunque, dal supremo fastigio di questa Sede Apostolica, esortiamo con cuore paterno tutti coloro che si gloriano di essere seguaci di Cristo, e che in Lui ripongono la speranza e la salute sia dei singoli sia dell’umano consorzio, ad aderire ogni giorno più fermamente e strettamente alla Chiesa Romana, nella quale si crede Cristo con fede unica, integra e perfetta, lo si onora con sincero culto di adorazione, lo si ama con perenne e vivida fiamma di carità. Si ricordino costoro, in modo speciale coloro che governano il gregge da Noi separato, che quella fede dai loro antenati solennemente professata in Efeso, è conservata immutata, e viene strenuamente difesa, come nell’età passata così al presente, da questa suprema Cattedra di verità; si ricordino che una tale purezza e unità di fede è fondata ed ha fermezza nella sola pietra posta da Cristo, e parimenti che solo per mezzo della suprema autorità del Beato Pietro e dei suoi Successori si può conservare incorrotta. – E quantunque di questa unità della Religione Cattolica abbiamo trattato più diffusamente pochi anni addietro nell’Enciclica Mortalium animos, gioverà tuttavia richiamarla qui brevemente in memoria, poiché l’unione ipostatica di Cristo, confermata in modo solenne nel Concilio Efesino, propone e rappresenta il tipo di quella unità di cui il nostro Redentore volle ornato il suo corpo mistico, cioè la Chiesa, « un solo corpo » , « ben compaginato e connesso » . E veramente, se la personale unità di Cristo è l’arcano esemplare al quale Egli stesso volle conformare l’unica compagine della società cristiana, ogni uomo di senno comprende che questa non può affatto sorgere da una certa vana unione di molti discordanti fra loro, ma unicamente da una gerarchia, da un unico e sommo magistero, da un’unica regola del credere, da un’unica fede dei Cristiani. – Questa unità della Chiesa, che consiste nella comunione con la Sede Apostolica, fu nel Concilio di Efeso splendidamente affermata da Filippo, legato del Vescovo Romano, il quale, parlando ai Padri Conciliari che ad una voce plaudivano alla lettera inviata da Celestino, proferì queste memorande parole: « Rendiamo grazie al santo e venerabile Sinodo, perché letta a voi la lettera del santo e beato Papa nostro, voi, membra sante, vi siete congiunti al capo santo con le vostre sante voci e con le vostre sante acclamazioni. Infatti la vostra beatitudine non ignora che il beato Apostolo Pietro è capo di tutta la fede ed anche degli Apostoli ». – Più che in passato, ora maggiormente, Venerabili Fratelli, è necessario che tutti i buoni siano stretti in Gesù Cristo e nella sua mistica sposa, la Chiesa, da un’unica, medesima e sincera professione di fede, poiché dappertutto tanti uomini cercano di scuotere il soave giogo di Cristo, respingono la luce della sua dottrina, calpestano le fonti della grazia, e infine ripudiano la divina autorità di Colui, che è diventato, secondo il detto evangelico, « il segno di contraddizione » . – Siccome da tale lacrimevole defezione da Cristo provengono innumerevoli mali che vanno ogni giorno crescendo, tutti cerchino l’opportuno rimedio da Lui, che « è stato dato agli uomini sulla terra e nel quale solamente possiamo avere salvezza ». – Così soltanto con l’aiuto del Sacro Cuore di Gesù, potranno spuntare tempi più felici per gli animi dei mortali, tanto per i singoli uomini, quanto per la società domestica e per la stessa società civile, al presente così profondamente sconvolta.

III

Dal punto della dottrina cattolica fin qui toccato, necessariamente deriva quel dogma della divina maternità, che predichiamo, della B. Vergine Maria: «non già come ammonisce Cirillo, che la natura del Verbo o la sua divinità abbia tratto il principio della sua origine dalla Vergine Santissima, ma nel senso che da Lei trasse quel sacro corpo informato dall’anima razionale, dal quale il Verbo di Dio, unito secondo la ipostasi, si dice sia nato secondo la carne » . Invero se il figlio della B. Vergine Maria è Dio, per certo Colei che lo generò deve chiamarsi con ogni diritto Madre di Dio; se una è la Persona di Gesù Cristo, e questa divina, senza alcun dubbio Maria deve da tutti essere chiamata non solamente Genitrice di Cristo uomo, ma Deipara, « Theotòcos ». Colei dunque che da Elisabetta sua cugina è salutata «Madre del mio Signore », della quale Ignazio Martire dice che ha partorito Iddio, e dalla quale Tertulliano dichiara che è nato Iddio, quella stessa noi veneriamo come alma Genitrice di Dio, cui l’eterno Iddio conferì la pienezza della grazia e che elevò a tanta dignità. – Nessuno poi potrebbe rigettare questa verità, tramandataci fin dall’inizio della Chiesa, per il fatto che la B. Vergine abbia fornito sì il corpo a Gesù Cristo, senza però generare il Verbo del Padre celeste; infatti, come a ragione e chiaramente già fin dal suo tempo risponde Cirillo, a quel modo che tutte le altre donne nel cui seno si genera il nostro terreno composto ma non l’anima, si dicono e sono veramente madri, così Ella ha similmente conseguito la divina maternità dalla sola persona del Figlio suo. – Giustamente quindi il Concilio Efesino ancora una volta riprovò solennemente l’empia sentenza di Nestorio, che il Romano Pontefice, mosso dallo Spirito divino, aveva condannato un anno prima. – E il popolo di Efeso era compreso da tanta devozione e ardeva di tanto amore per la Vergine Madre di Dio, che appena apprese la sentenza pronunziata dai Padri del Concilio, li acclamò con lieta effusione di animo e, provvedutosi di fiaccole accese, a folla compatta li accompagnò fino alla loro dimora. E certo, la stessa gran Madre di Dio, sorridendo soavemente dal cielo ad un così meraviglioso spettacolo, ricambiò con cuore materno e col suo benignissimo aiuto i suoi figli di Efeso e tutti i fedeli del mondo cattolico, perturbati dalle insidie dell’eresia nestoriana. – Da questo dogma della divina maternità, come dal getto d’un’arcana sorgente, proviene a Maria una grazia singolare: la sua dignità, che è la più grande dopo Dio. Anzi, come scrive egregiamente l’Aquinate: « La Beata Vergine, per il fatto che è Madre di Dio, ha una dignità in certo qual modo infinita, per l’infinito bene che è Dio » . Il che più diffusamente espone Cornelio a Lapide con queste parole: « La Beata Vergine è Madre di Dio; Ella dunque è di gran lunga più eccelsa di tutti gli Angeli, anche dei Serafini e dei Cherubini. È Madre di Dio; Ella perciò è la più pura e la più santa, così che dopo Dio non si può immaginare una purezza maggiore. È Madre di Dio; perciò qualsiasi privilegio concesso a qualunque Santo, nell’ordine della grazia santificante, Ella lo ha al di sopra di tutti » . – E allora perché i Novatori e non pochi acattolici riprovano così acerbamente la nostra devozione alla Vergine Madre di Dio, quasi riducessimo quel culto che solo a Dio è dovuto? Ignorano forse costoro, o non attentamente riflettono come nulla possa riuscire più accetto a Gesù Cristo, che certamente arde di un amore grande per la Madre sua, quanto il venerarla noi secondo il merito, premurosamente riamarla e studiarci, con l’imitazione dei suoi esempi santissimi, di guadagnarcene il valido patrocinio? – Non vogliamo però passare sotto silenzio un fatto che Ci riesce di non lieve conforto, come cioè ai nostri tempi, anche alcuni tra i Novatori siano tratti a conoscere meglio la dignità della Vergine Madre di Dio, e mossi a venerarla ed onorarla con amore. E questo certamente, quando nasca da una profonda sincerità della loro coscienza e non già da un larvato artificio di conciliarsi gli animi dei cattolici, come sappiamo che avviene in qualche luogo, Ci fa del tutto sperare che, con l’aiuto della preghiera, la cooperazione di tutti e con l’intercessione della B. Vergine che ama di amore materno i figli erranti, questi siano finalmente un giorno ricondotti in seno all’unico gregge di Gesù Cristo e, per conseguenza, a Noi che, sebbene indegnamente, ne sosteniamo in terra le veci e l’autorità. – Ma nella missione della maternità di Maria, ancora un’altra cosa, Venerabili Fratelli, crediamo doveroso ricordare: una cosa che torna certamente più dolce e più soave. Avendo Ella dato alla luce il Redentore del genere umano, divenne in certo modo madre benignissima, anche di noi tutti, che Cristo Signore volle avere per fratelli. Scrive il Nostro Predecessore Leone XIII di f.m.: «Tale ce la diede Iddio: nell’atto stesso in cui la elesse a Madre del suo Unigenito, le ispirò sentimenti del tutto materni, che nient’altro effondessero se non misericordia ed amore; tale da parte sua ce l’additò Gesù Cristo, quando volle spontaneamente sottomettersi a Maria e prestarle obbedienza come un figlio alla madre; tale Egli dalla croce la dichiarò allorché, nel discepolo Giovanni, le affidò la custodia e il patrocinio su tutto il genere umano; tale infine si dimostrò Ella stessa, quando, raccolta con animo grande quella eredità d’un immenso travaglio lasciatale dal Figlio moribondo, si diede subito a compiere ogni ufficio di madre ». – Per questo avviene che a Lei veniamo attratti come da un impulso irresistibile, e a Lei confidiamo con filiale abbandono ogni cosa nostra — le gioie cioè, se siamo lieti; le pene se siamo addolorati; le speranze se finalmente ci sforziamo di risollevarci a cose migliori —; per questo avviene che se alla Chiesa si preparano giorni più difficili, se la fede viene scossa perché la carità si è raffreddata, se volgono in peggio i privati e pubblici costumi, se qualche sciagura minaccia la famiglia cattolica e il civile consorzio, a Lei ci rifugiamo con suppliche, per chiedere con insistenza l’aiuto celeste; per questo, infine, quando nel supremo pericolo della morte, non troviamo più da nessuna parte speranza ed aiuto, a Lei innalziamo gli occhi lacrimosi e le mani tremanti, chiedendo fervidamente, per mezzo di Lei al Figlio suo, il perdono e l’eterna felicità nei cieli. – A Lei, dunque, ricorrano tutti con più acceso amore nelle presenti necessità dalle quali siamo travagliati; a Lei domandino con suppliche pressanti « di impetrare che le fuorviate generazioni tornino all’osservanza delle leggi, nelle quali è riposto il fondamento d’ogni pubblico benessere, e donde promanano i benefìci della pace e della vera prosperità. A Lei chiedano molto intensamente ciò che tutti i buoni devono avere in cima ai loro pensieri: che la Madre Chiesa ottenga il tranquillo godimento della sua libertà, la quale non indirizza ad altro che alla tutela dei supremi interessi dell’uomo, e dalla quale, come gli individui, così la società, anziché danno, trasse in ogni tempo i più grandi e inestimabili benefìci ». – Ma sopra ogni altra cosa, un particolare e certamente importantissimo beneficio desideriamo che da tutti venga implorato, mediante la intercessione della celeste Regina. Ella cioè, che è tanto amata e tanto devotamente onorata dagli Orientali dissidenti, non permetta che questi miseramente fuorviino e che sempre più si allontanino dall’unità della Chiesa e quindi dal Figlio suo, del quale Noi facciamo le veci sulla terra. Tornino a quel Padre comune, la cui sentenza accolsero tutti i Padri del Concilio Efesino e salutarono con plauso unanime quale « custode della Fede »; facciano ritorno a Noi, che per tutti loro portiamo un cuore assolutamente paterno, e volentieri facciamo Nostre quelle tenerissime parole con le quali Cirillo si sforzò di esortare Nestorio, affinché « si conservasse la pace delle Chiese e rimanesse indissolubile tra i sacerdoti di Dio il vincolo della concordia e dell’amore ». – Voglia il Cielo che spunti quanto prima quel lietissimo giorno in cui la Vergine Madre di Dio, fatta ritrarre in mosaico dal Nostro antecessore Sisto III nella Basilica Liberiana (opera che Noi stessi abbiamo voluto restituire al primitivo splendore), possa vedere il ritorno dei figli da Noi separati, per venerarla insieme con Noi, con un solo animo e una fede sola. Cosa che certamente Ci riuscirà oltre ogni dire gioconda. – Riteniamo inoltre di buon augurio l’essere toccato a Noi di celebrare questo quindicesimo centenario; a Noi, vogliamo dire, che abbiamo difeso la dignità e la santità del casto connubio contro i cavillosi assalti d’ogni genere; a Noi che abbiamo solennemente rivendicato alla Chiesa i sacrosanti diritti dell’educazione della gioventù, affermando ed esponendo con quali metodi dovesse impartirsi, a quali princìpi conformarsi. – Infatti questi due Nostri insegnamenti trovano sia nelle mansioni della divina maternità, sia nella famiglia di Nazaret un esimio modello da proporsi all’imitazione di tutti. Effettivamente, per servirci delle parole del Nostro Predecessore Leone XIII di f. m., « i padri di famiglia hanno in Giuseppe una guida eccellentissima di paterna e vigile provvidenza; nella Santissima Vergine Madre di Dio, le madri hanno un insigne modello di amore, di verecondia, di spontanea sottomissione e di fedeltà perfetta; in Gesù poi, che era a quelli sottomesso, i figli trovano un modello di ubbidienza tale da essere ammirato, venerato ed imitato ». – Ma è particolarmente giovevole soprattutto che quelle madri dei tempi moderni, le quali, infastidite della prole e del vincolo coniugale, hanno avvilito e violato i doveri che si erano imposti, sollevino lo sguardo a Maria, e seriamente considerino a quanto grande dignità il compito di madre sia stato da Lei innalzato. Così si può allora sperare che, con la grazia della celeste Regina, siano indotte ad arrossire dell’ignominia inflitta al grande sacramento del matrimonio, e che siano salutarmente animate a conseguire con ogni sforzo i pregi ammirabili delle virtù di Lei. – E qualora tutto ciò avvenga secondo i Nostri desideri, se cioè la società domestica — principio fondamentale di tutto l’umano consorzio — verrà ricondotta a così degnissima norma di probità, senza dubbio potremo affrontare e porre finalmente un riparo a quello spaventoso cumulo di mali da cui siamo travagliati. In tal modo avverrà « che la pace di Dio, la quale supera ogni intendimento, custodirà i cuori e le intelligenze di tutti », e che l’auspicatissimo regno di Cristo venga dovunque e felicemente ristabilito, mediante la mutua unione delle forze e delle volontà. Né vogliamo por fine a questa nostra Enciclica senza manifestarvi, Venerabili Fratelli, una cosa che certamente riuscirà a tutti gradita. Desideriamo cioè che non manchi un ricordo liturgico di questa secolare commemorazione: un ricordo che giovi a rinfervorare nel Clero e nel popolo la più grande devozione verso la Madre di Dio. Perciò abbiamo ordinato alla Sacra Congregazione dei Riti che vengano pubblicati l’Ufficio e la Messa della Divina Maternità, da celebrarsi in tutta la Chiesa universale. – Intanto a ciascuno di voi, Venerabili Fratelli, al clero e al popolo vostro, come auspicio dei celesti favori e quale pegno del Nostro cuore paterno, impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 dicembre, nella festa della Natività di N. S. Gesù Cristo, dell’anno 1931, decimo del Nostro Pontificato.

 

PIUS PP. XI

CONOSCERE SAN PAOLO (20)

CONOSCERE SAN PAOLO (20)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LIBRO QUINTO

Le pastorali.

CAPO II

Dottrina delle Pastorali.

I . GLI ERRORI COMBATTUTI.

  1. ERRORI SEGNALATI A TITO. — 2. ERRORI SEGNALATI A TIMOTEO. — 3. CARATTERI COMUNI.

1 . La sollecitudine di conservare intatto il deposito della fede è, insieme con le disposizioni relative alla scelta dei sacri ministri, l’argomento principale di questo gruppo di lettere. L’Apostolo sente il bisogno di assicurare la parola di Dio contro gli assalti malsani di una fantasia senza freno e di una scienza senza regola. La verità sana e forte servirà di antidoto contro le dottrine perniciose che, come la cancrena, minacciano d’invadere il corpo della Chiesa (II Tim. II, 17). – Il pericolo del contagio ha prodotto in lui un’impressione così viva, che quasi ad ogni pagina ripete queste metafore di medicina, come gli avviene ordinariamente per tutte le idee che sono profondamente penetrate nella sua mente. – Prima di venire a conclusioni, lasciamo parlare il testo. Con Tito, l’Apostolo si esprime in questi termini: “Vi sono, specialmente tra i circoncisi, molti spiriti turbolenti, vani, ciarloni e seduttori, ai quali bisogna chiudere la bocca. Essi sconvolgono intere famiglie, insegnando per un vile interesse quello che non si deve insegnare… Riprendili severamente, affinché abbiano una fede sana e non si attacchino a favole giudaiche e a prescrizioni di uomini che respingono la verità. Tutto è puro per coloro che sono puri, ma niente è puro per gl’impuri e gl’increduli, la cui intelligenza e la cui coscienza sono macchiate. Essi fanno professione di conoscere Dio ma lo rinnegano con le loro azioni: essi sono abbominevoli, ribelli e incapaci di ogni opera buona (It. I, 10-11, 13-16). Evita le questioni stolte, le genealogie, le querele, le dispute intorno alla Legge, perché sono inutili e vane. Dopo uno o due avvisi, allontanati dal fautore delle discordie, sapendo che un uomo di questa specie è pervertito e che peccando si condanna da se stesso” (Tit. III, 9-11). – Gli errori messi in vista hanno questi caratteri: Si tratta di dottrine sparse tra i fedeli, poiché Paolo ingiunge a Tito di chiudere la bocca a quelli che le propagano, di riprenderli severamente e, in caso di ostinazione, di separarsi da loro; ma non intendiamo di escludere le influenze esterne, e coloro che « facendo professione di conoscere Dio lo rinnegano con le loro azioni », sono certamente Ebrei infedeli, e non giudaizzanti. Queste dottrine sono rivolte di preferenza ai convertiti dal giudaismo; sono dispute intorno la Legge, le quali non possono avere per autori o per fautori altri che Ebrei oppure giudaizzanti; esse dispongono a dare ascolto agli spacciatori di favole giudaiche e di prescrizioni arbitrarie che riguardano le purificazioni rituali e la distinzione degli alimenti puri e impuri. – Quello che più colpisce l’Apostolo, non è tanto la falsità di quelle dottrine, quanto la loro vanità e la loro inutilità. I loro propagandisti hanno per motivo un vile interesse; sono vani ciarloni che ingannano i semplici col ciarlatanesimo delle loro stolte questioni e delle loro strane genealogie. Invece di discutere con loro, bisogna imporre loro di tacere e se resistono, scacciarli dalla Chiesa.

2. Vediamo ora gli errori ricordati nelle due lettere a Timoteo: “Partendo dalla Macedonia, ti ho pregato di restare a Efeso per imporre a certuni di non insegnare altre dottrine e di non andar dietro a favole ed a genealogie senza fine, le quali suscitano discussioni, anziché far progredire l’opera di Dio nella fede. Il fine di questa prescrizione è la carità che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Alcuni essendosene allontanati, si sono traviati in vani discorsi: pretendono di essere dottori della Legge e non capiscono quello che dicono nè quello che affermano con sicurezza” (I Tim. I, 3-7).“Lo Spirito dice chiaramente che negli ultimi tempi alcuni abbandoneranno la fede, attaccandosi a spiriti di errore e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia d’impostori dalla coscienza macchiata che proscriveranno il matrimonio e l’uso di alimenti che Dio h a creato affinché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli e dai seguaci della verità. Ora ogni creatura di Dio è buona e nulla si deve respingere, purché si prenda con rendimento di grazie; poiché la parola di Dio e la preghiera lo santificano” (I Tim. IV. 1-4). – Se qualcuno dà un altro insegnamento e non aderisce alle salutari parole del Nostro Signor Gesù Cristo e alla dottrina conforme alla pietà, è un superbo, un ignorante, un uomo preso dalla malattia delle questioni  oziose e delle dispute di parole: di qui nascono l’invidia, le querele, le calunnie, i cattivi sospetti, le discussioni ^terminabili di uomini che hanno l a mente pervertita e che, privi della verità, s’immaginano che la pietà sia un mezzo di guadagno” (I Tim. VI, 3-5). – “Scongiurali in nome di Dio, di evitare le dispute di parole che servono alla rovina degli uditori. Sforzati di diportarti dinanzi a Dio da uomo provato, da operaio che non ha da arrossire, dispensando con rettitudine la parola di verità. Fuggi i discorsi vani e profani; perché i loro autori affondano sempre di più nell’empietà e la loro parola si propagherà come una cancrena. Di questo numero sono Imeneo e Fileto che hanno abbandonato la fede, dicendo che la risurrezione è già avvenuta, ed hanno sovvertita la fede di alcuni” (II. Tim. 14-18). – “Sappi che alla fine dei tempi sorgeranno giorni difficili. Gli uomini saranno egoisti, cupidi, gonfi… con l’esteriore della pietà, senza averne la realtà. Fuggi anche costoro. Tra loro ve ne sono che s’insinuano nelle case e seducono femminucce cariche di peccati, agitate da passioni di ogni sorta. Imparando sempre, essi non possono arrivare mai alla conoscenza della verità. Come Gianne e Giambre si opposero a Mosè, costoro si oppongono alla verità, corrotti di mente, pervertiti nella fede. Ma essi non faranno più progresso, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quei due” (II Tim. III, 1-9).  – “Verrà un tempo in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina. Abbandonati al desiderio di udire quello che accarezza le loro orecchie, si prenderanno una turba di maestri e, distogliendo il loro udito dalla verità, si volgeranno verso le favole” (II Tim. IV, 3-3).Tre di questi testi riguardano il presente, e gli altri tre — il secondo e gli ultimi due — l’avvenire (I Tim. IV, 1; II Tim. III, 1; II Tim. IV, 3). Gli errori attualmente in corso hanno precisamente i caratteri che abbiamo veduto nell’Epistola a Tito. Sono dottrine sparse tra i fedeli, poiché Timoteo riceve la missione d’imporre silenzio a coloro che le vanno spacciando. Costoro sono evidentemente Ebrei di nazionalità, perché si spacciano per dottori della Legge. Le dottrine stesse non sono tanto eresie, quanto questioni oziose atte a suscitare querele: dispute di parole che non concludono nulla, vane ciarle e pettegolezzi. Le espressioni incontrate nell’Epistola a Tito, si ritrovano costantemente anche qui: la situazione è dunque la stessa.Ma l’errore non può vivere se non a condizione di crescere; esso si propaga come la cancrena. L’Apostolo prevede per l’avvenire un traboccare di false dottrine,, che andrà di pari passo con la corruzione dei costumi: saranno le aberrazioni presenti portate alla loro più alta potenza; già si vanno agitando nell’ombra. A forza di dominare, lo spirito di contesa arriverà fino allo scisma; non si sopporterà più la verità; si abbandonerà la fede; si farà ressa intorno a falsi dottori e a falsi profeti che apertamente predicheranno dottrine diaboliche. Non si tratterà più soltanto di fiabe e di genealogie, di dispute di parole e di querele riguardo la Legge, di pratiche arbitrarie e senza frutto; si proscriverà il matrimonio, si condanneranno come cattive certe creature, o per l’influenza del dualismo o per un malinteso ascetismo. Finalmente l’amore del lucro cagionerà mille abusi detestabili, e si copriranno con la maschera dell’ipocrisia i peggiori eccessi.

3. Riunendo in un quadro generale tutti i caratteri, senza distinguere troppo il futuro dal presente, ci possiamo fare un’idea precisa dei predicatori, dei loro motivi e delle loro dottrine. I predicatori sono Ebrei o giudaizzanti. Soprattutto appartengono alla circoncisione (Tit. I, 10): si chiamano dottori della Legge (I Tim. I, 17); vanno dietro a favole giudaiche (Tit. I, 14); si abbandonano a dispute intorno alla Legge (Tit. III, 9); resistono alla verità come i due celebri impostori resistevano a Mosè (Tit. III, 8). Essi sono seduttori (Tit. I, 10), ipocriti (II Tim. III, 5), spiriti turbolenti (Tit. I 10), vani ciarloni (I Tim. I, 6), uomini di mente pervertita (II Tim. III, 8), ai quali prudono le orecchie (II Tim. IV, 3), incapaci di intendere la verità (II Tim. III, 7), gente avida di guadagno (I Tim. VI, 5; Tit. I, 11) e di popolarità, che getta la divisione nella Chiesa e nelle famiglie (I Tim. III, 6), che fa combriccole e prepara scismi. Le dottrine che essi propagano, non sono tanto eresie, quanto novità, pericolose per la loro stessa inutilità, perché coltivano una curiosità malsana, pascolano la mente di fiabe e l’avvezzano al falso e all’irreale. Una parola difficile a tradursi (I Tim. I, 3) riassume bene l’insegnamento di questi dottori senza missione. Essi generalmente non insegnano cose contrarie alla dottrina dell’Apostolo, ma insegnano cose che egli ha giudicato mutile e pericoloso insegnare, e insegnano diversamente da lui gli articoli del suo vangelo. Paolo spiega la natura di quelle novità con proibire di « andar dietro a favole ed a genealogie interminabili ». Si sarebbe tentati di pensare ai mitografì greci, a quegli storici delle origini i quali raccoglievano le favole riguardanti gli dei e le liste genealogiche a cui si riduceva quasi tutta la storia primitiva (Polibio). Ma le parole di San Paolo non permettono di pensare né alle leggende della mitologia pagana né alle genealogie degli dei e degli eroi. Difatti quelle favole di cui parla l’Apostolo sono dette giudaiche e il passo parallelo dimostra che sono spacciate da persone che si chiamano dottori della Legge. Del resto possiamo credere che fossero insulsaggini o pettegolezzi simili a quelli di cui sono zeppi i libri talmudici. In quanto alle genealogie interminabili e soprattutto senza profitto, gli apocrifi dell’Antico Testamento, composti in tempi poco lontani dall’era cristiana, ce ne danno più di un esempio. Lo spirito amante di novità si lascia abbagliare dal falso splendore dei sofismi: « O Timoteo, custodisci il deposito, evitando le parole profane e vuote di senso come pure le contradizioni di una falsa scienza di cui fanno pompa certuni che hanno deviato dalla fede (I Tim. VI, 20) ». Prima questioni oziose, poi obiezioni sciocche e arguzie sterili, finalmente la perdita della fede: tale è la via dell’errore.

II. I DIGNITARI ECCLESIASTICI.

1 . SACERDOTI E DIACONI. — 2. QUALITÀ RICHIESTE NEI CANDIDATI. — 3. VEDOVE E DIACONESSE.

1 . Nelle lettere autentiche di Sant’Ignazio, all’alba del secondo secolo, la terminologia e le attribuzioni della gerarchia ecclesiastica sono già completamente fissate. Vi sono tre ordini distinti: il Vescovo sempre unico (Ephes. I, 3), i sacerdoti strettamente associati al vescovo e così intimamente uniti tra loro, che si chiamano ordinariamente col nome collettivo di πρεσβυτέριον (=presbuterion) o collegio sacerdotale (Ephes. II, 2; IV, 1, etc.), finalmente, nell’ultimo grado, i diaconi che devono obbedienza ai sacerdoti e al Vescovo, come a loro stessi devono obbedienza i fedeli. Il Vescovo, il presbiterato e i diaconi costituiscono il clero; il clero e i laici costituiscono la Chiesa. L’episcopato è monarchico e residenziale: Ignazio è Vescovo di Antiochia, Policarpo di Smirne, Onesimo di Efeso, Polibio di Traile, Damaso di Magnesia. Il vescovo compie o dirige la cerimonia del Battesimo e dell’agape, la celebrazione dei matrimoni e soprattutto la consacrazione dell’eucaristia; ma gli è sempre lecito delegare ad altri la sua autorità. I sacerdoti e i diaconi non devono esercitare nessuna funzione, se non lo sa o se non vi assiste il Vescovo. I laici poi non hanno nessuna parte nel governo della Chiesa: il loro compito è di obbedire al Vescovo, oppure al Vescovo e al presbiterato, oppure al Vescovo, al presbiterato e ai diaconi (Ephes. IV, 1), poiché i due ordini inferiori sono uniti al Vescovo come le corde alla lira (Ephes. IV, 1): non vi è che un’eucaristia, una carne del Cristo, un calice del suo sangue, un altare un Vescovo col presbiterato e con i diaconi. – Le Pastorali presentano un ordinamento assai più primitivo, il che distrugge il paradosso dei critici i quali vogliono che siano state scritte in pieno secolo secondo, da un falsario desideroso di promuovere la gerarchia in via di formazione. Però l’evoluzione ulteriore che avvenne molto in fretta e dappertutto nella stessa maniera, con tutti i caratteri di uno sviluppo legittimo, dimostra che le linee generali erano state tracciate in precedenza dagli Apostoli, dietro, le indicazioni del Maestro e sotto l’impulso sempre vigile dello Spirito Santo. Essa dunque ci può servire per interpretare i dati oscuri dell’età apostolica; ma vi sarebbe paralogismo se si trasportassero a quei tempi remoti le funzioni e le denominazioni di un tempo più recente. Ciascun autore va studiato da parte, e non si ha il diritto di supporre a priori che tutti parlino delle medesime cose con gli stessi termini. – In San Paolo, la terminologia ecclesiastica è incerta. Se ἐπίσκοπος (=episcopos) indica sempre un sacro ministro, πρεσβυτέριον (=presbuterion), prende spesso il significato di « vegliardo », e διάκονος (= diakonos) quasi sempre non significa altro che « servo od aiutante ». Invece i capi della Chiesa ricevono talora altri titoli: quelli di Tessalonica, per esempio, sono chiamati presidenti. Il linguaggio è ancora incerto, ma vi è piuttosto da meravigliarsi che le incertezze siano finite così presto. Di comune accordo, per i ministri inferiori del culto si tenne il nome diacono, a preferenza di tutti i sinonimi. Forse “doulos” fu lasciato da parte per il significato troppo servile, “uperetes”, perché ricordava il sacrestano delle sinagoghe ebree, “terapon” perché ricordava il custode di certi santuari idolatrici. Comunque sia, “diaconos” fu tosto scelto ad esclusione di ogni altro titolo, e fa stupire il vedere che San Luca, il quale ci racconta l’elezione dei primi sette diaconi ellenisti, non adoperi questo termine. Per San Paolo, la parola diacono ha già ricevuto la sua impronta gerarchica; l’Apostolo saluta in particolare i diaconoi di Filippi ed enumera le qualità che si devono esigere dal “diaconos” per imporgli le mani. Non è possibile alcun dubbio: si tratta proprio del diaconato e dei diaconi. – Per le funzioni superiori, i termini più generici, spogliati per la loro stessa indeterminatezza da ogni associazione di idee compromettenti, erano anche i più convenienti. Di questo numero è la parola πρεσβυτέρος (=presbuteros). Quasi tutte le società antiche, almeno dove non regnava l’autocrazia pura, erano governate da un consiglio o senato di anziani. In origine era il privilegio dell’età; più tardi divenne un titolo ereditario. In tutte le epoche della storia sacra, sotto Mosè, sotto i Giudici, sotto la monarchia, al ritorno dalla schiavitù, dappertutto constatiamo la presenza di questi anziani. Durante il periodo del giudaismo propriamente detto, essi erano a capo delle sinagoghe, esercitavano nelle città e nei villaggi un’autorità simile a quella dei nostri municipi ed entravano in parte notevole nel gran sinedrio di Gerusalemme; perciò sono continuamente nominati nel Nuovo Testamento insieme con gli scribi e con i principi dei sacerdoti. Per indicare i direttori spirituali delle chiese cristiane, si lasciò da parte la parola ἱερεύς (=iereus); che faceva pensare al sacerdote levitico e al sacerdos o sacrificulus pagano, ma si accettò la parola πρεσβύτερος (=presbuteros), che aveva il vantaggio di essere compresa dagli Ebrei governati dappertutto, civilmente e religiosamente, da un consiglio di anziani, ed era familiare ai Greci ai quali ricordava, fuori delle attribuzioni politiche e municipali, i membri di certi comitati istituiti per la celebrazione delle feste, per il servizio dei tempi e per la sepoltura dei soci. Ma mentre la comunità di Gerusalemme la adoperava ad esclusione di ogni altro nome, le chiese della gentilità la adottarono soltanto gradualmente e insieme con ἐπίσκοπος (=episcopos). – Questo terzo titolo è ancora più indeterminato che gli altri due. Esso significa, nella Scrittura, «custode, sorvegliante, ispettore. commissario ». Ad Atene significava certi delegati speciali, simili agli armosti di Sparta, che la metropoli mandava ad ordinare le nuove colonie o i paesi di conquista. Nella Batanea e nella Decapoli, era il titolo di ufficiali incaricati di amministrare le proprietà di un tempio. Altrove le funzioni erano diverse; ma la brevità dei testi ci permette raramente di precisarle. Perciò non sapremmo dire con certezza perché, nella gerarchia ecclesiastica, l’ἐπίσκοπος (=episcopos) ebbe il più alto grado, sopra il πρεσβύτερος (=presbuteros). Sarebbe forse perché la parola πρεσβύτερος (=presbuteros) richiamava naturalmente l’idea di una pluralità di persone riunite in collegio, per l’esercizio di una medesima carica, mentre la funzione di ἐπίσκοπος (=episcopos) era spesso conferita unicamente ad una persona? Ci affrettiamo però ad aggiungere che, per San Paolo, le due parole sono sinonimi. Nel saluto che egli rivolge al clero di Filippi, distingue soltanto due classi: gli l’ἐπίσκοποι (=episcopoi) e i diaconi (Fil. I, 1). I primi, per la stessa ragione della loro pluralità, non possono essere che gli anziani della chiesa, poiché è cosa inaudita che una sola città avesse più vescovi. Supposto che gli ἐπίσκοποι (=episcopoi) fossero vescovi, non si potrebbe spiegare l’omissione del secondo grado. – La cosa è ancora più chiara nel passo in cui San Paolo ordina a Tito di stabilire dei πρεσβύτεροι (=presbuteroi) in ciascuna città; egli esige che siano di una virtù e di una riputazione senza macchia, perché, soggiunge, bisogna che l’ἐπίσκοπος (=episcopos), sia irreprensibile (Tit. I, 5-7). Il suo ragionamento sarebbe un sofisma, se i due termini non fossero sinonimi. E poi, se si trattava del più alto grado della gerarchia, egli non metteva il plurale, perché ogni città aveva soltanto un Vescovo. – Un’altra prova è questa: avendo egli mandato a Mileto i πρεσβύτεροι (=presbuteroi) di Efeso, cioè i capi di questa chiesa particolare, i quali non erano certamente vescovi, poiché dovrà più tardi lasciare Timoteo a Efeso per esercitarvi le funzioni episcopali, parla a loro in questi termini: « Vigilate su voi stessi e su tutto il gregge in cui lo Spirito Santo vi ha stabiliti ἐπίσκοποι (=episcopoi) (40) ». Non si può dunque dubitare che questi due termini indicassero indifferentemente le stesse persone e si applicassero ai membri del secondo grado della gerarchia, ossia ai sacerdoti.Converrà ricordarlo nel solo testo che dà luogo a discussione: « Chiunque desidera la carica di ἐπίσκοπος (=episcopos), desidera una cosa buona; bisogna dunque che l’ἐπίσκοπος (=episcopos), sia irreprensibile (I Tim. III, 1-2) ». Il parallelismo e la lista delle qualità richieste in questo dignitario, dimostrano a sufficienza che l’ἐπίσκοπος (=episcopos) dell’Epistola a Timoteo è il medesimo dell’Epistola a Tito; ora quest’ultimo, come abbiamo veduto, non è un vescovo, ma un sacerdote.

  1. 2. Non sappiamo quali virtù Paolo avrebbe richiesto dal futuro Vescovo, se l’episcopato monarchico fosse già esistito nelle sue chiese. Possiamo farcene un’idea da quelle doti che egli loda in Tito e in Timoteo, Vescovi missionari, che gli servivano da coadiutori. Sono soprattutto lo zelo, la pietà, la fedeltà, il coraggio nella prova, la fermezza nell’adempimento del dovere, lo spirito di fede e una vita di abnegazione e di sacrificio. Ma la lista delle doti richieste negli anziani, si trova due volte nelle Pastorali, con certe varianti che non sono prive di interesse: “Bisogna che l’ἐπίσκοπος (=episcopos) sia irreprensibile, ammogliato una volta sola, sobrio, prudente, degno (nel suo esteriore), ospitale, capace d’insegnare, non bevitore, né violento, ma dolce, pacifico, disinteressato, che governi bene la casa, che abbia figli sottomessi con ogni onestà — perché se uno non sa guidare la sua casa, come governerà la Chiesa di Dio? — non neofito, per timore che gonfiato di superbia non incorra nel giudizio del diavolo. Bisogna pure che abbia buona testimonianza delle persone estranee, affinché non cada nell’obbrobrio e nei tranelli del diavolo. Ti ho lasciato in Creta… per stabilire in ciascuna città degli anziani, come ti ho ordinato: Se alcuno è irreprensibile, ammogliato una volta sola, con figli fedeli che non siano accusati di cattiva condotta e d’insubordinazione — poiché bisogna che l’ἐπίσκοπος (=episcopos), sia irreprensibile come intendente di Dio — non arrogante, né collerico, né bevitore, né violento, né avaro, ma ospitale, amico del bene, prudente, giusto, pio, continente, attaccato alla vera dottrina quale è stata insegnata, affine di essere capace di esortare secondo la sana dottrina e di confutare i contradittori” (I Tim. III, 3-7). – San Paolo vuole che un candidato giudicato degno del sacerdozio risponda a tre condizioni principali: che sia atto all’insegnamento, che abbia una casa bene regolata e che si sia ammogliato una sola volta. I protestanti facevano una volta sforzi sovrumani per togliere alle parole μιᾶς γυναικὸς ἄνηρ (= mias gunaikos aner) il loro significato naturale. Parecchi, trovandosi in caso disperato, adottarono la spiegazione proposta da Vigilanzio e così vigorosamente combattuta da San Gerolamo: « bisogna che egli sia ammogliato, che abbia una moglie ». Ma è evidente che non è inetto alle funzioni ecclesiastiche chi segue l’esempio e il consiglio dello stesso Apostolo. I più sostengono dunque che San Paolo intende soltanto di escludere il bigamo e il poligamo, colui che avesse ancora o che avesse avuto più di una moglie contemporaneamente. La loro ragione più forte è che San Paolo non chiede ai chierici nulla di più che ai laici e che egli permette formalmente ai laici di passare a seconde nozze. Ora la prima asserzione è una pura petizione di principio; la seconda è giusta, ma allora l’uomo che passa a seconde nozze, rinunzia al chiericato. Non è che gli si rimproveri una colpa, ma egli manca di una delle condizioni richieste, come il neofìto, l’ignorante o l’incapace. L’esegesi razionalista ha questo di buono, che non teme di romperla apertamente con l’ortodossia protestante; essa ritorna dunque risolutamente al senso sostenuto dai Cattolici, e molti protestanti oggi le tengono dietro. Difatti è impossibile spiegare diversamente l’espressione ἑνὸς ἀνδρὸς γυνῆ (= enos andros gune) « maritata una volta sola », che qualifica la vedova ammessa al servizio della Chiesa,. Il desiderio di legittimare una situazione personale e poi lo spirito di setta soltanto, poterono far prevalere una deformazione così manifesta del pensiero di San Paolo.Nel fare della fedeltà al primo vincolo coniugale una condizione assoluta per l’elevazione al sacerdozio, l’Apostolo era certamente guidato da ragioni simboliche, ma è certo che essa era, soprattutto in quel tempo, un pegno di onorabilità. Per lo stesso motivo, San Paolo domanda con insistenza che il candidato al sacerdozio, se è ammogliato, abbia una famiglia esemplare e una casa bene regolata (I Tom. III, 4). La condotta equivoca della moglie o dei figli diminuirebbe la sua influenza e intralcerebbe la sua azione, come l’impotenza di mantenere il buon ordine nella famiglia e negli affari, dimostrerebbe che egli è incapace al governo della Chiesa. Le raccomandazioni riguardo alla buona fama del candidato, così nella comunità cristiana come tra i pagani, sono del medesimo ordine. Come potrebbe il nuovo sacerdote conciliarsi il rispetto e la simpatia degli infedeli, se la sua condotta, dopo il battesimo, fosse stata scandalosa o poco conforme alla severa morale del Vangelo? Il suo apostolato tra loro sarebbe già in precedenza destinato a non riuscire, perché difficilmente si dà ascolto ad un predicatore del quale non si ha Nelle cristianità di recente fondazione, qualche volta si erano dovuti prendere i sacri ministri tra i nuovi convertiti; ma l’esperienza aveva mostrato gl’inconvenienti di tale provvedimento.Perciò Paolo proibisce a Timoteo d’imporre le mani troppo presto al primo venuto e specialmente di ordinare un neofìto (I Tim. V, 22), per timore che, gonfiato di superbia per un’elevazione così rapida, non faccia la fine di lucifero. L’ingiunzione era opportuna per la chiesa di Efeso che già contava dieci o dodici anni di vita; ma non poteva applicarsi altrettanto in quella di Creta che, a quanto pare, era allora appena nata: ecco perché la lettera a Tito non contiene questo divieto.Le disposizioni interne di colui che dev’essere onorato del sacerdozio, sono riassunte in una parola energica: bisogna che sia irreprensibile, per la sua eminente dignità e perché è rappresentante di Dio su la terra. Questa parola dice tutto: richiede l’esenzione di vizi grossolani che rovinerebbero la sua autorità — come l’avarizia, la collera, l’arroganza, la brutalità, l’ubriachezza — e il possesso delle virtù che la mantengono: sobrietà, prudenza, modestia, animo ospitale, giustizia, purezza di costumi. Le qualità richieste nei diaconi sono le stesse, fatta la debita proporzione:

“Anche i diaconi siano onorevoli, esenti da doppiezza, non dediti al vino, non avidi di guadagno, che portino il mistero della fede in una coscienza pura.

E siano messi prima alla prova, affinché esercitino poi senza rimproveri l’ufficio del diaconato.

Le loro mogli siano anch’esse onorevoli, non maldicenti, sobrie, fedeli in tutte le cose.

Essi poi abbiano contratto un solo matrimonio e governino bene i figli e la casa. Poiché quelli che esercitano bene il diaconato si acquistano un buon posto e una grande sicurezza nella fede in Gesù Cristo” (I Tim. VIII, 3). – I diaconi devono essere esenti da tre vizi che li screditerebbero completamente agli occhi del pubblico: la doppiezza, l’intemperanza e l’avarizia. Per le loro molteplici e delicate relazioni con i laici, essi dovevano premunirsi specialmente contro il pericolo della doppiezza. Essi dunque eviteranno di « dire bianco e nero, di parlare ora in un modo ora in un altro », per piacere ai loro uditori o per non dispiacere loro.Le visite frequenti che entravano nelle loro attribuzioni, imponevano a loro più che agli altri il dovere della sobrietà. Gli eccessi di questo genere, o anche una mancanza generale di contegno, sarebbero state dannose al loro ministero e contrarie all’edificazione. Finalmente la cupidigia li avrebbe screditati del tutto. L’Apostolo non allude certamente alle possibili malversazioni nell’amministrazione dei beni temporali di cui erano incaricati i diaconi, ma piuttosto alla tentazione di valersi del loro ministero per il proprio vantaggio personale, accettando, per esempio, dei doni spontaneamente offerti. Questo sfruttamento indiretto del Vangelo sarebbe evidentemente la ricerca di un guadagno sordido.Paolo vuole che il diacono goda anche dell’autorità che deriva dalla gravità delle maniere e dalla dignità dei costumi; finalmente richiede che egli porti « il mistero della fede in una coscienza pura ». Che cosa vuol dire questa ingiunzione disparata? Che cosa significa il mistero della fede e che relazione ha con la coscienza pura? Noi pensiamo che non si tratti della fede soggettiva dei diaconi, ma dei misteri del Vangelo di cui essi sono, in una certa misura, i dispensatori. Qualunque sia il senso preciso di questa locuzione enigmatica, si domanda al diacono una vita esemplare e non soltanto l’assenza dei gravi difetti che lo renderebbero inetto al suo ufficio. Perciò egli dev’essere prima messo alla prova per un certo tempo e non può essere definitivamente promosso se non quando la prova riesce a suo onore ed a soddisfazione comune.

3. Accanto e sotto la gerarchia ecclesiastica, vi erano allora delle vergini e delle diaconesse regolarmente costituite? Nel passo dell’Epistola ai Colossesi, in cui l’Apostolo consiglia ai due sessi la continenza e la verginità, egli appoggia il suo consiglio sulla maggiore libertà che avranno nel servizio di Dio, senza allusimi ad una speciale attitudine per servire la Chiesa. Il voto di verginità è presentato come un atto di perfezione individuale (I Cor. VII, 8-9). Vi sono già delle vergini, ma l’ordine delle vergini non esiste ancora e soprattutto non ha ancora preso posto accanto alla gerarchia.La pia Febe era « serva » (diaconos) della chiesa di Cenere e patronessa » (prostatis) dei Cristiani che avevano affari a Corinto, e dello stesso Paolo (Rom. XVI, 1-2). Questo vuol dire che essa si era volontariamente consacrata al servizio della chiesa e che si valeva della sua influenza a vantaggio dei suoi correligionari. Nella terminologia di San Paolo, essa aveva ricevuto dallo Spirito Santo i carismi della diaconia (διακονία = diaconia) e dei soccorsi (ἀντίληψις = antilepèsis). Febe è chiamata διάκονος (= diakonos), come Epafra, come Tichico, come i predicatori del Vangelo, come tutti quelli che servono la causa della fede; essa non è diaconessa nel senso ecclesiastico della parola. Le mogli dei diaconi, delle quali si fa menzione nella prima a Timoteo e che sono tenute a maggiore modestia, regolarità e pietà, per non compromettere il ministero dei loro mariti, non sono neppur esse diaconesse (I Tim. III, 8-10). Le diaconesse che i costumi dell’Oriente obbligarono a stabilire in certe province asiatiche, vennero soltanto più tardi, e di esse non vi è nessuna traccia in San Paolo. L’istituzione delle vedove invece risale al secolo apostolico. Esse avevano il loro prototipo nelle pie donne che accompagnavano Gesù Cristo da una città all’altra, e forse in quelle dalle quali certi apostoli, come Pietro e i fratelli del Signore, si facevano seguire (I Cor. IX, 5; Luc. XXIII, 40).Paolo riconosce alla vedova la piena libertà di passare a seconde nozze, benché le consigli generalmente di rimanere nello stato di vedovanza (I Cor, VII, 39-40). Questo consiglio alquanto vago può dare luogo a inconvenienti, e l’Apostolo, istruito dall’esperienza, si vede obbligato a precisarlo. Egli fa un dovere alle persone agiate di accogliere le vedove della loro famiglia, le quali vogliano rimanere vedove, affinché non siano di peso alla Chiesa. Paolo ci lascia capire che certe donne generose accettavano spontaneamente di mantenere a loro spese delle vedove, affinché non gravassero sul bilancio comune. Alle vedove giovani poi che restassero prive di mezzi, consiglia di passare a seconde nozze (I Tim. V 3-16). Vi erano certamente stati abusi; certe vedove attratte dalla prospettiva dell’ozio e dell’indipendenza, si erano fatte inscrivere nei ruoli della Chiesa facendo professione di vedovanza; ma ben presto, disgustate del Cristo e sotto l’impulso di desideri sensuali, esse davano triste spettacolo della loro leggerezza e del loro ozio, occupate in nulla, girando da una casa all’altra e scandalizzando tutti con i loro sfacciati pettegolezzi. Esse sono colpevoli di aver violata la fede giurata e di aver dato ai malevoli un pretesto per calunniare il Vangelo. Paolo vuole che d’allora in poi non si inscrivano nei ruoli della Chiesa se non le vedove di almeno sessant’anni, di condotta provata e di vita esemplare, le quali non facciano temere né lo scandalo né l’incostanza. Alle vere vedove che fanno professione di vedovanza sotto la sanzione della Chiesa, si renderanno gli onori che meritano il loro stato, le loro virtù e i servizi che prestano. Erano esse certamente che con le loro lezioni e col loro esempio formavano alla pietà le giovani cristiane; erano forse anch’esse che catechizzavano i catecumeni del loro sesso. Lavorando indirettamente per l’altare, esse avevano diritto di vivere dell’altare. L’Apostolo non dà a loro altre prerogative; egli che proibiva alle donne di prendere la parola in chiesa, non era disposto ad assegnare loro una parte nell’esercizio delle sacre funzioni. riesce a suo onore ed a soddisfazione comune.

CONOSCERE SAN PAOLO (19)

CONOSCERE SAN PAOLO (19)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LIBRO QUINTO

Le pastorali.

CAPO I.

La mano e lo spirito di Paolo.

I . QUESTIONE DI AUTENTICITÀ.

1 . TRADIZIONE E VEROSIMIGLIANZE. — 2. STILE E IDEE.

1. Il nome di Pastorali che serve a indicare le tre lettere di San Paolo ai suoi discepoli Timoteo e Tito, risale soltanto al secolo XVIII e non è un nome dei più indovinati; però siccome ora è consacrato dall’uso e abbrevia il discorso, non ci pare che ci sia nessun inconveniente a conservarlo per indicare con una parola questo gruppo di Epistole che sono molto affini per la data, per lo stile e per l’argomento. – Senza discutere qui minutamente i testi di San Barnaba, di San Clemente di Poma, di Sant’Ignazio, di San Policarpo, di San Giustino, di Egesippo, che già suppongono l’esistenza e l’uso delle Pastorali, si può affermare che la testimonianza della tradizione è in loro favore, altrettanto esplicita ed unanime quanto per le Epistole più certe, poiché nel caso presente le questioni di autenticità e di canonicità si confondono insieme: se queste lettere non sono autentiche, sono opera di un falsario, e i Padri non avrebbero mai ammesso scientemente una falsificazione nel canone dei Libri ispirati. Le due o tre voci discordi, di Marcione, di Basilide e di Taziano, che respingono degli scritti i quali già in precedenza stigmatizzavano i loro errori, non furono tenute in nessun conto, ed Eusebio non esitava a mettere le Pastorali tra i Libri incontestati. Dopo Schleiermacher che nel 1807 dichiarava apocrifa la prima a Timoteo, molti critici estesero a tutte e tre le lettere il verdetto negativo, e la reazione del buon senso, che a poco a poco ha restituito all’Apostolo la maggior parte degli scritti dei quali la scuola di Tubinga gli negava la paternità, non è riuscita ancora a dissipare tutti i dubbi su questo punto. Però molti eruditi contemporanei hanno di nuovo guadagnata metà della distanza che li separava dalla tradizione, con dichiarare che nelle Pastorali vi sono larghi frammenti autentici, amplificati più tardi da un incognito desideroso di mettere sotto il sicuro riparo dell’egida di Paolo le sue idee o la sua polemica. Parecchi si sono ingegnati di fare la scelta; ma i loro sistemi, molto divergenti tra loro, ove si vede subito il giudizio arbitrario, possono appena soddisfare i loro autori. I partigiani della falsificazione pura e semplice, se non erano meglio fondati su la ragione, erano almeno più logici. È cosa strana che le due ragioni che ordinariamente si portano per non attribuire a San Paolo le Pastorali, fatta eccezione dello stile di cui parleremo in seguito, si risolvono in prove positive dell’autenticità: esse sono la natura degli errori combattuti e le condizioni gerarchiche delle chiese. – Qualche volta si argomenta in questo modo: « Le Pastorali, essendo del secondo secolo, devono combattere il gnosticismo, la grande eresia di quel tempo ». Oppure si dice: « Le Pastorali, essendo dirette contro il gnosticismo, non sono anteriori al secondo secolo ». I due argomenti si equivalgono: l’uno e l’altro contiene una chiara petizione di principio, e uniti insieme formano un bell’esempio di circolo vizioso. Il gnosticismo è un Proteo a mille forme: di quali gnostici s’intende di parlare? Baur nominava Marcione; Hilgenfeld, Saturnino, altri Valentino o un precursore del valentinismo. Holtzmann, più prudente, si astiene dal precisare, credendo senza dubbio che tra i sistemi innumerevoli compresi col nome generico di gnosticismo se ne troverà pure qualcuno per verificare le indicazioni delle Pastorali. Tuttavia non se ne fa nulla: le diverse sette gnostiche, nel secondo secolo, sono tutte ostili al giudaismo e, se conservano dei brani del Nuovo Testamento, lo fanno per combattere meglio l’Antico. Ora le persone alle quali si allude nelle Pastorali, hanno tendenze giudaizzanti che non si possono affatto negare. – Oggi noi chiamiamo gnostici tutti quei sognatori, infetti di filosofia greca od orientale, i quali cercavano nel dualismo una soluzione al problema del male; ma nel secolo secondo non era così. Il titolo di gnostico aveva ancora un significato buono, tanto che Clemente di Alessandria voleva prenderlo per indicare il perfetto cristiano. Quel nome era stato rivendicato soltanto da un gruppo di sètte oscure, ofiti o naasseni, setiani, perati e cainiti, tutti adoratori del Serpente infernale o ammiratori del primo omicida, ma che non avevano nulla di comune con i giudaizzanti delle Pastorali. Né Marcione, né Valentino, né Basilide, né la turba di eretici contemporanei — encratiti, ebioniti, doceti ed altri — non erano allora considerati come gnostici. Del resto il nome importa poco; quello invece che è capitale, è questo fatto: le persone alle quali alludono le Pastorali, non sono eretici propriamente detti; a due riprese, alcuni individui sono denunziati come apostati (I Tim. I, 20; II Tim. II, 17-18): altrove si tratta di Ebrei infedeli (Tit. I, 15-16); ma verso costoro Tito e Timoteo non hanno ricevuto nessuna missione: essi non hanno da comandare a loro né da fare assegnamento su la loro obbedienza; devono – soltanto evitarli e farli evitare dai discepoli. Il loro vero mandato riguarda altre persone ed altre dottrine. Quali sono queste dottrine? Questioni strane il cui solo effetto è di riscaldare gli animi e di accendere le discussioni (II Tim. II, 2-3), logomachie (I Tim. IV, 4), discorsi vuoti di senso (I Tom. VI, 20; II Tim. II, 16), fiabe da vecchierella (I Tim. IV, 7), vani pettegolezzi (Tit. III, 9). Gli spacciatori di tali sciocchezze non sono pertanto eretici, non si sono separati dalla legittima autorità, frequentano le assemblee cristiane e sono in continuo contatto con gli altri fedeli. Timoteo rimane appunto a Efeso per imporre a loro di finirla con le loro chiacchere (I Tim. I, 3); Tito poi è incaricato di chiudere loro la bocca (Tit. I, 11). Saranno avvertiti una Volta o due con carità (Tit. III, 10) e soltanto se deporranno la maschera e si rifiuteranno di obbedire, si procederà contro di loro con tutto il rigore. Che differenza tra questo atteggiamento benigno e l’intransigenza ordinaria verso i gnostici di ogni setta e di ogni nome! Che contrasto tra la presente mansuetudine di San Paolo e i fulmini di cui minaccia i giudaizzanti della Galazia, o la severità dimostrata contro i falsi dottori di Colossi! Il motivo è che le condizioni sono affatto diverse: i predicatori di Creta e di Efeso non scalzano le fondamenta del Vangelo e non ne compromettono la solidità; essi non fanno altro che offuscarne lo splendore. Per non averci riflettuto, i critici vanno cercando in tutti i sistemi gnostici dei termini di confronto dei quali essi medesimi riconoscono la poca consistenza. Non era necessario andare tanto lontano: il Libro dei Giubilei, opera di poco anteriore all’èra cristiana, presenta un bellissimo saggio delle scempiaggini che incantavano i novatori di Efeso e di Creta. Non ci manca nulla: né le genealogie senza fine, né le favole giudaiche, né le fiabe da vecchierella, né le dispute senili intorno alla Thorà. Ecco quanto poteva ancora piacere a neofiti i quali erano stati in altri tempi in contatto con i dottori della Sinagoga. La seconda mira del falsario, che si tradirebbe nonostante tutte le precauzioni prese per ingannare, sarebbe la sollecitudine di favorire la trasformazione monarchica dell’episcopato. – Nel secondo secolo, si afferma, si produsse una rivoluzione nel governo della Chiesa. Dal seno dei collegi sacerdotali che presiedevano insieme alle assemblee cristiane, sorse un individuo più autorevole, più ambizioso o più capace, il quale si arrogò il primato sopra gli altri. Da principio, come si può ben immaginare, questo non avvenne senza qualche opposizione dei colleghi spodestati; ma il concentramento del potere nelle mani di un solo offriva tali vantaggi per il bene comune, che non si tenne conto delle proteste individuali, e il nuovo sistema si generalizzò rapidamente. Trovato il principio dell’episcopato monarchico, si trattava di promuoverlo, di farlo accettare dappertutto, di rompere tutte le resistenze: questo, si dice, è lo scopo dell’autore delle Pastorali; per questo egli prende la maschera dell’Apostolo e si arma della sua autorità. Quanti errori e quanti sofismi in così poche righe! Tra le altro ipotesi senza prove e senza fondamento, si suppone che Tito e Timoteo sono vescovi, eccetto il nome, e che hanno l’incarico di stabilire altri vescovi. Niente di più contrario ad una sana esegesi e alla realtà storica. L’essenza dell’episcopato monarchico è di essere sedentario, autonomo e permanente: colui che lo occupa è fisso in una diocesi che egli governa con autorità propria, senz’altro limite di tempo, che quello della sua vita. Ora Tito e Timoteo esercitano soltanto ima specie di sovrintendenza sopra un gruppo di chiese; la esercitano in nome di Paolo, come suoi rappresentanti e delegati, a titolo puramente temporaneo, pronti a lasciare il loro posto e le loro funzioni al primo cenno dell’Apostolo. Essi possono aver ricevuto — e certamente hanno ricevuto — la consacrazione episcopale, ma non sono vescovi nel senso monarchico della parola, perché non hanno nessuna diocesi da governare. Le diocesi primitive coincidevano praticamente con la città greca; comprendevano la città con i sobborghi ed un territorio di mediocre estensione. Ci furono vescovi di Efeso, di Smirne, di Pergamo, di Gortina, di Gnosso e di località molto più piccole; non vi furono mai, almeno in Oriente, vescovi incaricati di province intere. Eppure è proprio l’isola di Creta, senza nessuna localizzazione più speciale, che viene affidata a Tito. Egli vi deve stabilire dei sacerdoti in ciascuna città: prova questa che l’episcopato non vi è ancora stabilito. – La giurisdizione di Timoteo sembra che oltrepassi i confini di Efeso e dei suoi dintorni immediati, perché Paolo nel lasciarvelo per un tempo che suppone debba essere breve, gli dà la missione di ordinare sacerdoti e diaconi: missione questa poco urgente e poco necessaria, se si trattasse soltanto della piccola minoranza cristiana di una sola città. Per altri due punti ancora Tito e Timoteo differiscono dai vescovi residenziali ed autonomi: essi non hanno autorità propria e non l’anno neppure a titolo permanente la loro autorità delegata. Essi sostituiscono Paolo durante la sua assenza, con un mandato ben determinato: dare alle chiese ministri degni, vigilare sul buon ordine e chiudere la bocca ai dottori imprudenti (I Tim. I, 3; Tit. I, 5). Tale mandato è di una durata relativamente breve; Tito non lo conserverà neppure fino al ritorno dell’Apostolo: ha l’ordine formale di raggiungere il suo maestro quando Tichico o Artema verrà a sostituirlo (Tit. III, 12); e infatti l’anno seguente lo vediamo partire per la Dalmazia (II Tim. IV, 10). E questi sono forse vescovi quali si concepivano al principio del secondo secolo, quando Sant’Ignazio scriveva le sue lettere? Allora vi era in ciascuna città un pastore unico, creato a vita, nelle cui mani si concentravano tutti i poteri nella misura in cui egli credeva bene di esercitarli da sé: governo della chiesa, amministrazione di tutti i sacramenti, amministrazione dei beni ecclesiastici e delle istituzioni di carità. Un contemporaneo di Sant’Ignazio, specialmente nell’Asia Minore dove i critici radicali mettono volentieri la fabbricazione delle Pastorali, sarebbe stato affatto incapace di immaginare condizioni simili a quelle che ci sono presentate dalle nostre Epistole. Ma supposto anche che avesse avuto la capacità di compiere simile prodezza archeologica, invece di contribuire all’evoluzione della gerarchia, egli l’avrebbe ricondotta violentemente indietro di un mezzo secolo: l’opera sua non segnerebbe un progresso, ma un regresso. Che le Pastorali e le lettere di Sant’Ignazio siano prodotti dello stesso ambiente sociale, è cosa che oltrepassa tutti i limiti della credibilità. Tra gli altri, lo comprese perfettamente Hesse: « Le lettere di Sant’Ignazio, egli dice, sono senza alcun dubbio posteriori alle Pastorali (Die Entsthehung der Hirtenbriefe, Halle, 1889) ». È  necessario un intervallo di una cinquantina di anni per spiegare i cambiamenti avvenuti nell’organizzazione delle comunità cristiane; ma siccome Hesse, nonostante tutto, si ostina a mettere le Pastorali al principio del secondo secolo, si trova costretto a mandare le lettere di Sant’Ignazio fino al regno di Marco Aurelio (161-180). L’assurdo della conseguenza avrebbe dovuto illuminarlo su la falsità del suo punto di partenza. – Tutto invece diventa semplice e naturale, se nelle Pastorali vediamo l’opera di San Paolo. Le condizioni delle chiese di Efeso e di Creta sono esattamente quelle che constatiamo in tutte le cristianità fondate mentre era ancora in vita l’Apostolo, con questa sola differenza, che la chiesa di Efeso, la quale contava una dozzina di anni di vita, era già arrivata ad una fase alquanto più avanzata del suo sviluppo.

2. Assai più speciosa è la difficoltà dello stile. Per stile, noi qui intendiamo soprattutto il lessico, poiché lo stile propriamente detto, benché meno serrato, meno eloquente, meno vigoroso di quello dei brani polemici delle Epistole maggiori, non differisce sensibilmente da quello delle parti morali. La sintassi, cioè quello che vi è nello stile di più personale e di meno imitabile, è la stessa. Perciò i filologi, i giudici migliori in questa materia, non hanno alcun dubbio intorno all’autenticità: prova evidente che le difficoltà non nascono tanto dallo stile stesso, quanto da una prevenzione al cui appoggio s’invoca troppo tardi l’argomento della lingua. Certamente la proporzione dei termini nuovi è considerevole; non vi si trovano certe locuzioni familiari a Paolo, mancano affatto certe particelle di cui sembra che egli non sappia fare a meno; si trovano invece ad ogni pagina espressioni che non sono della sua lingua, giri di frase che gli sono estranei. Siccome gli argomenti di questo genere provano soltanto con l’accumulazione degli esempi, si è fatta una lista delle parole paoline che non si trovano nelle Pastorali e, come controprova, un’altra lista dei modi di dire frequenti nelle Pastorali e che non si trovano negli altri scritti di Paolo. Ma l’esame attento di queste liste non dà un risultato decisivo. La pietra di paragone dello stile dev’essere maneggiata con molta circospezione. Se ne fece la prova con Platone, con Dante, con Shakespeare, con Bossuet, e si arrivò sempre alle conclusioni meno previste. Il fatto è che il vocabolario degli scrittori si modifica e si trasforma con l’età; si arricchisce o s’impoverisce in modo assai curioso; certe parole preferite vengono poi abbandonate affatto, e altre le sostituiscono per un certo tempo fino a che certi termini i quali parevano dimenticati, ritornano nuovamente in favore. Qui ci sarebbe un interessante problema di psicologia che sarebbe bene studiare a fondo prima di formulare aforismi. – Il problema diventa più complicato quando si tratti di un autore il quale non abbia per il suo linguaggio le attenzioni di un purista. La lingua materna di Paolo era l’ebraica e la greca e, senza tener conto della parte che possono aver avuto i suoi diversi segretari nella redazione delle lettere, il suo vocabolario subì certamente l’influenza dei molti dialetti e idiomi che intese lungo la via. I nuovi argomenti trattati nelle Pastorali esigevano pure una maggiore estensione del lessico. Più della metà dei vocaboli speciali di questo gruppo di Epistole, riguardano i falsi dottori e le false dottrine, oppure la morale che conviene loro opporre, oppure le qualità richieste nei sacerdoti e nei diaconi. La maggior parte degli altri vocaboli è puramente accidentale, e a chi si stupisce di trovare soltanto nelle Pastorali le parole « mantello, pergamena, stomaco, fabbro ferraio, pudore, timore, antenati, favola », bisogna domandare perché mai certe cose tanto rare come l’acqua e il vento, si trovino ricordate soltanto nell’Epistola agli Efesini. Queste ricerche minuziose sono giochi di pazienza, che possono dar luogo ad utili osservazioni filologiche, ma che troppo spesso degenerano in puerilità. Più significativa che la lingua è la dottrina. I critici più ostili all’autenticità, sono costretti ad ammettere che le Pastorali portano lo stampo di uno stesso autore, e che questo autore, chiunque sia, è assai familiare con l’insegnamento di San Paolo. Osservando più da vicino, si vedrà che la maggior parte delle idee particolari di queste Epistole hanno il loro punto di congiunzione con le lettere della prigionia. Queste ultime occupano manifestamente un posto intermedio e sono come il punto di congiunzione tra le Epistole maggiori e le Pastorali. Limitiamoci a due o tre esempi. “Quando apparve la bontà di Dio nostro Salvatore e i l suo amore per gli uomini, allora, non in virtù di opere che non avremmo fatto in uno Stato di giustizia, ma secondo la sua misericordia, egli ci salvò col bagno di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo. Questo Spirito egli lo diffuse m abbondanza per mezzo di Gesù Cristo nostro Salvatore, affinché, giustificati dalla sua grazia, diventiamo nella speranza eredi della vita eterna” (Tit. III, 4-6). – Non vi è quasi nessuna di queste espressioni che non riveli la mano di Paolo. Il « bagno di rigenerazione e di rinnovamento », che è evidentemente il Battesimo, riceve già il nome di bagno nell’Epistola agli Efesini, e questo nome non si trova in nessun altro passo del Nuovo Testamento. L’idea, se non lo stesso nome di « rigenerazione », si trova frequentemente negli scritti canonici, particolarmente in San Paolo. Propriamente parlando, il Battesimo non è la rigenerazione, ma lo strumento della rigenerazione: è il seno materno che ci partorisce e che ci riveste del Cristo, non come di un abito esterno, ma come di una forma vitale la quale cambia le nostre più intime relazioni e fa di noi una nuova creatura. La parola, come pure l’idea di « rinnovamento », è propria di San Paolo, come pure la maniera con cui questo rinnovamento si produce per l’intervento dello Spirito Santo, diffuso nei nostri cuori dal Padre o dal Figlio. Anche il compito della grazia è affatto paolino: l’ipotesi di una giustizia propria è respinta, l’influenza delle opere è negata, è tutto è lasciato alla misericordia. Lo stato di giustizia ci costituisce eredi della vita eterna e, come in San Paolo, noi siamo salvi già in questa vita in effetto e in speranza. È vero che l’antica antitesi « opera e fede » è qui sostituita dall’antitesi « opere e grazia », ma la tendenza a questa sostituzione si nota già nelle Epistole della prigionia, come se Paolo volesse finirla con lo spiacevole equivoco di cui la sua dottrina era stato il pretesto, cioè che le opere sono inutili e che la fede tiene il posto di tutto. Può darsi anche che, di mano in mano che la Chiesa si allontanava dalle origini, l’atto di fede sembrasse meno indissolubilmente legato al Battesimo e alla giustificazione. I bambini delle famiglie cristiane nascevano candidati al Battesimo ed a poco a poco si veniva prendendo l’abitudine di considerare la fede come un abito soprannaturale, anziché un atto subitaneo il quale sconvolgeva tutto l’essere morale. – Altrove Paolo esorta Timoteo ad osare e soffrire tutto per il Vangelo di Dio « che ci ha salvati e chiamati con la sua vocazione santa, non secondo le opere, ma secondo la grazia e il suo beneplacito. Questa grazia che ci fu data nel Cristo prima dei tempi eterni, si è manifestata ora con l’apparizione del nostro Salvatore Gesù Cristo il quale ha infranto il potere della morte ed ha fatto risplendere la vita e l’incorruzione per mezzo del Vangelo (16) ». Non vi è quasi espressione che non sia propria di Paolo: il proponimento o beneplacito di Dio, l’incorruzione, la distruzione della morte, la strana locuzione dei tempi eterni opposta all’oggi evangelico in cui si manifesta la grazia decretata prima dei secoli. Paolo, secondo il suo solito, non considera la gloria celeste come il termine diretto ed esclusivo del proponimento o decreto divino. Il beneplacito di Dio, sommamente libero e indipendente, guidato dalla sua misericordia e non dalla vista delle opere e dei meriti preesistenti, finisce nella vocazione, nella salute iniziale che con essa si confonde. Tuttavia questa decisione graziosa è subordinata alla redenzione del Cristo Gesù, fuori del quale non vi è né grazia né salute. – È cosa che soddisfa il ritrovare queste dottrine del paolinismo più puro, con la loro terminologia precisa e le loro formule consacrate, in un gruppo di Epistole in cui certi teologi eterodossi si lamentano di cercare invano le teorie di Paolo su la grazia e la giustificazione. Queste teorie non avevano più la forma polemica richiesta dalle controversie delle Epistole maggiori; non con queste ultime bisogna confrontare le Pastorali, ma piuttosto con le lettere indirizzate ai Tessalonicesi, o meglio ancora con quelle della prigionia.

II.  QUADRO STORICO.

1. DATA TARDIVA DI QUESTE LETTERE. — 2. PROVA DI AUTENTICITÀ.

1. Bisogna ridurre quanto più è possibile l’intervallo che separa le due Epistole a Timoteo, tra le quali s’intercala la lettera a Tito. Difatti noi vediamo l’Apostolo, in preda alle stesse sollecitudini e agli stessi timori, combattere i medesimi errori e mettere in guardia contro i medesimi pericoli. L’uniformità del suo linguaggio manifesta lo stesso stato d’animo e dimostra che circostanze simili danno la stessa direzione ai suoi pensieri. Se le nostre congetture sono fondate, le Pastorali sarebbero state scritte nell’intervallo di un anno, l’ultimo della vita di Paolo. Nella primavera del 66, l’Apostolo fa un viaggio d’ispezione generale in Oriente. Egli si dirige da sud a nord, lungo la costa asiatica; lascia Timoteo a Efeso per reprimere i falsi dottori, e si spinge fino in Macedonia. Di là, a quanto pare, scrive la prima a Timoteo, nel timore che un ostacolo imprevisto si opponga al suo ritorno in Asia, forse anche per rispondere ai dubbi di un discepolo spaventato dalla sua giovinezza e dalla sua responsabilità. In quel momento andava egli a fondare a Creta quella chiesa che poi affida a Tito, perché ne completi l’ordinamento? Non lo possiamo dire. Dopo questa rapida visita, lo troviamo su la via di Nicopoli dove ha stabilito di passare l’inverno (Tit. III, 12). Là infatti ha ordinato a Tito di venirlo a raggiungere, appena che Tichico oppure Artema sarà sbarcato in Creta per sostituirlo. Più tardi egli ridiscende la costa del mediterraneo; a Troade egli è ospite di Carpo, in casa del quale lascia un mantello e dei libri; a Mileto fa sbarcare Trofimo ammalato; approda a Corinto e vi lascia un altro dei suoi compagni, Erasto (II Tim. IV, 13, 20). Ma non abbiamo nessun mezzo di districare l’episodio oscuro del suo arresto. La seconda a Timoteo ce lo mostra prigioniero a Roma. Un abitante di Efeso ha avuto il tempo di essere informato della sua prigionia e di trovarlo dopo molte ricerche (II Tim. I, 16-17). L’Apostolo sente vivamente il peso della solitudine: Demade lo ha abbandonato vilmente; egli stesso ha dovuto mandare Tito in Dalmazia, Crescente nella Galazia o nella Gallia, Tichico a Efeso. Soltanto Luca è con lui (II Tim. IV, 10-12). Non vi è più speranza per lui su la terra: « Il mio sangue sarà sparso come una libazione, e l’ora della mia partenza arriva. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede; mi resta da ricevere la corona di giustizia con cui il Signore, giusto giudice, mi ricompenserà in quel giorno, e non soltanto me, ma tutti quelli che hanno amato la sua gloriosa venuta (II Tim. IV, 6-8) ». L a lettera è un invito supremo al discepolo prediletto; Paolo vuole rivederlo prima di morire e teme già che sia troppo tardi, tanto gli sembra imminente la fine. – Il fatto che la composizione delle Pastorali cade fuori del quadro storico degli Atti, ben lungi dall’infirmare l’autenticità, le da un nuovo appoggio. Non è possibile uscire da questo dilemma: « O la carriera di Paolo non si fermò al punto in cui si fermano gli Atti, oppure le lettere Pastorali non sono autentiche ». Tutti gli sforzi tentati per distribuirle nella vita conosciuta dell’Apostolo, nonostante veri prodigi d’ingegnosità, sono restati vani. Per spiegare la loro rassomiglianza reciproca e la loro dissomiglianza dalle altre, bisogna farne un ciclo a parte, chiuso in un lasso di tempo assai breve, e metterle al termine della vita di Paolo – Questo periodo è per noi molto oscuro, come sarebbe oscura tutta la storia apostolica senza il racconto degli Atti; ma la difficoltà di conciliare le allusioni delle Pastorali con fatti avverati, è precisamente un indice di più in favore dell’autenticità. Un falsario familiare con lo stile e con gli scritti di Paolo, non disseminerebbe a capriccio le antilogie in una imitazione ingegnosa che egli vuol far passare come lavoro dello stesso suo maestro. Egli collegherebbe la sua finta corrispondenza con circostanze storiche, metterebbe in scena gli stessi personaggi e conserverebbe a loro la loro parte e il loro carattere. L’autore delle Pastorali, se è diverso da Paolo, va contro il buon senso: ci presenta per la prima volta una moltitudine di sconosciuti, Imeneo e Fileto, Figelo ed Ermogene, Loide ed Eunice, Crescente, Carpo, Eubolo, Pudente, Lino, Claudia, Onesiforo, Alessandro, Artema e Zena. I particolari che li riguardano sono brevi e precisi, come conviene al genere epistolare in cui non si ha da istruire il pubblico. La maggior parte dei personaggi devono sostenere una parte alla quale non sembravano preparati: come prevedere la defezione di Demade e perché farlo andare e Tessalonica? Che cosa avevano da fare a Creta Tichico e lo stesso Tito? Erasto, Apollo e Trofimo non sono dove si penserebbe che dovessero trovarsi. Un falsario che stima abbastanza Timoteo per fargli indirizzare due lettere apocrife, ne avrebbe abbellito idealmente il ritratto, o per lo meno non avrebbe per nulla diminuito gli elogi che Paolo, nelle sue lettere pubbliche, fa al suo discepolo prediletto; non lo avrebbe rappresentato timido, irresoluto, diffidente delle sue forze e della sua giovane età. Vi sono cose che non si possono inventare. La raccomandazione fatta a Timoteo, di bere un po’ di vino per causa del suo stomaco debole e di portare all’Apostolo i libri e le pergamene lasciate in casa di Carpo, incantevole come espressione della vita reale ritratta al vivo, sarebbe fredda e puerile sotto la penna di un imitatore.