DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2018)
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps CXXIX:3-4
Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël. [Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. [Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]
Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël. [Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]
Oratio
Orémus.
Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.
[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses
Phil I: 6-11
“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, etin defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.
OMELIA I
[Mons. G. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XIX– Marietti ed. Torino 1899 – imprim.-]
“Ho fiducia che quegli il quale ha cominciato in voi l’opera buona, la compirà fino al giorno di Gesù Cristo. Siccome è giusto ch’io senta di tutti voi, perché io vi ho nel cuore, voi tutti che siete miei compagni nella grazia, così nelle mie catene come nella mia difesa e per la confermazione del Vangelo. Perché Iddio mi è testimonio con quanto affetto io vi ami tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E di questo vi prego, che la vostra carità abbondi di più in più in conoscenza ed in ogni sentimento: affinché discerniate le cose contrarie e siate schietti e senza inciampo per il giorno di Cristo, ripieni per Gesù Cristo del frutto di giustizia a gloria e lode di Dio „ (Ai Filippesi, capo I, vers. 6-11).
É questa la lezione della Epistola della corrente Domenica, che la Chiesa ha pigliato dal primo capo ai Filippesi. L’apostolo S. Paolo scrisse questa lettera da Roma tra il 60 e il 63 dell’era nostra, allorché vi era sostenuto in carcere la prima volta, sotto l’imperatore Nerone, come apparisce chiaramente dalla lettera stessa. Essa è indirizzata ai fedeli di Filippi, celebre città della Macedonia, oggidì miserabile villaggio. Fu in quella città che S. Paolo fondò la prima Chiesa cristiana (Atti Apost. XVI, 9-40) in Europa; Chiesa fiorentisma, che fu sì larga di conforti e di aiuti all’Apostolo prigioniero a Roma. È una delle lettere più affettuose scritte da S. Paolo, e che ci mostra come in lui si accoppiasse mirabilmente alla tempra adamantina dell’Apostolo la tenerezza d’un padre, e, direi quasi, di una madre. I versetti che vi ho riportati appartengono al proemio della lettera, e contengono i più lieti auguri spirituali. – Ed ora alla spiegazione. L’Apostolo, fatti, come suole in tutte le sue lettere, i più cordiali saluti ai fedeli, ai sacerdoti e diaconi (S. Paolo comincia tutte le sue lettere coi saluti, e spesso sono abbastanza diffusi. Una sola lettera fa eccezione, quella agli Ebrei. Della quale differenza si danno parecchie ragioni, che si leggono presso gli interpreti. S. Paolo qui saluta prima i fedeli, poi i vescovi e infine i diaconi o ministri. A Filippi v’erano forse molti Vescovi? Non pare. Ve ne poteva essere uno, e forse quell’uno, Epafrodito, discepolo dell’Apostolo, era assente. Sembra che a quel tempo il nome di Vescovo si desse anche ai semplici preti, e così intesa la cosa, il senso è piano. È bensì vero che questa interpretazione non è accolta da tutti; ma scioglie ogni difficoltà) che erano a Filippi, e assicuratili che serbava di loro tutti affettuosa memoria, dal primo dì ch’ebbero comune il Vangelo fino a quello in cui scrive, continuando gli auguri e le lodi da essi troppo bene meritate, dice: “Nutro fiducia che quegli il quale ha cominciata in voi l’opera buona, la compia fino al giorno di Gesù Cristo … Dopo le congratulazioni fatte ai Filippesi. che riguardano il passato, S. Paolo getta lo sguardo innanzi e sembra domandare a sè stesso: Come sarà per l’avvenire? Abbiamo cominciato felicemente, sta bene: saremo perseveranti nella fede e nella grazia ricevuta? — Risponde tosto: Ho fiducia che sì! — Ma in chi ripone egli la sua fiducia l’Apostolo? Negli uomini? nelle loro volontà sì mobili?, nelle loro forze sì deboli? nella propria vigilanza? Non mai! L’Apostolo la ripone in Dio, dicendo: “Nutro fiducia che Quegli il quale ha cominciata in voi l’opera buona, cioè la vostra conversione, la compirà fino al giorno di Gesù Cristo. „ Evidentemente quegli che ha cominciato è Dio, e Dio condurrà ogni cosa a termine felice. Voi comprendete, o carissimi, che in questa sentenza S. Paolo parla del principio e della fine della nostra santificazione: Cœpit… Perficiet parla del dono sì prezioso della chiamata alla fede, cœpit, e dell’altro non meno prezioso della perseveranza, perficiet. Su questi due punti capitali che cosa ci insegna la fede e che cosa dobbiamo fermamente tenere? Nessuno ha diritto per sé o può meritare il dono della fede: esso è un dono affatto superiore alla nostra natura ed alle nostre forze, e come l’occhio non può meritare la luce, né l’orecchio l’armonia, così l’uomo non può meritare la fede che è la prima e fondamentale di tutte e grazie. Ma questa grazia prima e fondamentale, Iddio, quanto è da sé, l’offre a tutti? Si, perché, per sua bontà, tutti vuol salvi, e non vuole che alcuno perisca; che se molti non la ricevono, non è da chiamarne in colpa Iddio, ma solamente la volontà degli uomini che non fanno ciò che potrebbero e dovrebbero per riceverla. E quando l’uomo ha ricevuto la fede, la grazia prima, ed è fatto figliuolo adottivo di Dio, per conservare questa grazia e perseverare in essa fino al termine della vita, ha bisogno d’un’altra grazia? Sì: e senza di essa certamente l’uomo non potrebbe perseverare. E questa grazia della perseveranza l’uomo la può rigorosamente meritare? No: ma Iddio, buono com’è, la concede certamente a tutti quelli che corrispondono alla sua grazia, che gliela domandano umilmente e che da sé fanno ciò che possono (Concilio di Trento, Sess. VI c. 13). Dov’è l’uomo che cominci la fabbrica e non la voglia condurre a fine? Dov’è l’uomo che cominci un viaggio e non voglia finirlo? Come dunque Dio, sapientissimo, comincierebbe l’opera della nostra salute e non vorrebbe compirla? Come chiamarci alla fede e alla grazia e poi rifiutarci la perseveranza? No, no; Egli che ha cominciato, compirà l’opera: Qui cœpit in vobis opus bonum, perficiet. – Dilettissimi! Qual conforto! qual consolazione per noi! Iddio pietoso ha chiamato noi, tutti quanti siamo qui raccolti, alla fede: Egli dunque ha cominciato in noi l’opera sua, cioè la nostra santificazione: qual dubbio mai che non voglia altresì compirla? Qui cœpit… perficiet. Ma ricordiamo in pari tempo un’altra verità troppo necessaria, ed è questa: la nostra salvezza eterna dipende principalmente da Dio, dalla sua grazia che comincia, accompagna e compie, e perciò qui S. Paolo parla soltanto di Dio; ma essa dipende anche da noi in secondo luogo, e se noi veniamo meno dalla nostra parte, torna inutile altresì ciò che Dio fa dal lato suo. Dio, ponetevelo bene nell’animo, non fallirà mai, mai dalla parte sua: il suo concorso non farà mai difetto, ne siamo sicurissimi: quello che può far difetto è il concorso nostro, a talché, se noi ci perderemo, la causa, e causa unica, saremo noi. – “Dio compirà l’opera buona, così S. Paolo, fino al giorno di Gesù Cristo. „ Che giorno è questo? Forse quello della nostra morte, nel quale si decide la nostra sorte eterna e si compie il dono della perseveranza? Indubbiamente sarebbe vero il dire che alla nostra morte si compie la perseveranza; ma, secondo il linguaggio dei Libri santi, il giorno di Dio, o di Gesù Cristo, è il giorno finale, il giorno del gran giudizio, nel quale si conferma la sentenza pronunciata il giorno della morte, e nel quale con un premio o con una pena eterna si suggella la sorte irrevocabile d’ogni uomo. Parve ad alcuni che l’Apostolo, col ricordare la perseveranza legata al giorno del giudizio finale, volesse indicare essere vicinissimo quel gran giorno: ma nulla di più erroneo. L’Apostolo qui ricorda il giorno del giudizio, e non lo dice né vicino, né lontano; nella lettera seconda a quei di Tessalonica, li esorta a non smuoversi, né turbarsi, quasi che quel giorno sia prossimo (capo II): che verrà quando lo si crederà meno, ripetendo presso a poco le stesse parole del Vangelo. Passiamo al versetto seguente. – “Siccome è giusto ch’io senta di tutti voi, perché vi ho nel cuore, voi tutti che siete miei compagni nella grazia, così nelle mie catene, come nella mia difesa, e per la confermazione del Vangelo. „ S. Paolo aveva sortito un alto ingegno, aveva avuto una istruzione elevata ai piedi di Gamaliele, quale si poteva avere a quei tempi e in quei luoghi [L’istruzione presso gli Ebrei si riduceva pressoché allo studio della Scrittura santa e in particolare del Pentateuco, che racchiude tutta la legge divina, civile, criminale, penale, ceremoniale, ecc. ecc. – Il popolo ebreo era un popolo eminentemente isolato dagli altri, e tale l’aveva formato Mosè per impedire, che cadesse nella idolatria. Per esso non vi è altra scienza che quella della sua legge e della sua storia nazionale, che si confondeva con la legge o rivelazione divina, che è la stessa cosa. Di ciò che esisteva fuori della nazione ebraica, arti, scienze, storia, lettere, ecc. ecc. l’ebreo non se ne occupava, anzi l’aveva in sospetto e quasi in orrore, come una idolatria. Più tardi, dopo la cattività babilonese e più ancora dopo la diffusione della civiltà greca in Oriente, questo orrore degli Ebrei di tutto ciò che era pagano, venne scemando e ne abbiamo una prova al tempo dei Maccabei e nei libri stessi ispirati di quell’epoca, nei quali si vede un cotal riflesso della scienza greca. Era una conseguenza naturale del movimento politico e scientifico di quel tempo e del contatto forzato che Israele aveva coi popoli vicini e con la civiltà greca e romana. Filone e Giuseppe Ebreo non sarebbero stati possibili due secoli prima. Paolo fu istruito da Gamaliele, e benché la sua istruzione fosse ristretta quasi tutta alla legge mosaica, secondo lo spirito dei farisei, gli intransigenti d’allora, pure ebbe qualche riverbero, qualche sprazzo della scienza e della cultura greca. (Vedi il Cardinal Meignan dove parla dei Maccabei, ecc. ecc.)], ma la sua conoscenza della lingua greca era molto imperfetta, come apparisce dalle lettere e come confessa egli stesso ai Corinti; si sente l’Ebreo che parla greco, e perciò lo stile è rotto, il periodo contorto, la parola e la struttura risentono la lingua ebraica e la difficoltà di rilevarne il senso più volte è grave assai, e ne abbiamo un saggio nel periodo che avete udito. In sostanza l’Apostolo, dopo aver detto che si tiene sicuro della perseveranza dei suoi Filippesi, mercé della grazia di Dio, afferma essere giusto che così pensi e dica, perché li ha in cuore: Eo quod habeam vos in corde. Noi pure spesso diciamo d’una persona che amiamo vivamente: io la tengo in cuore, la porto nel cuore, l’ho in cuore, e somiglianti espressioni. Siccome il cuore è lo strumento e la sede dell’amore,, così per esprimere che amiamo una persona, siamo soliti dire: l’ho in cuore. – “Voi persevererete nel Vangelo, così Paolo, lo spero; e mi è dolce sperarlo, perché vi amo: e come non vi amerei, mentre voi siete compagni della mia grazia, e mi siete larghi di aiuti nella mia carcerazione, nella difesa che sostengo per la professione del Vangelo? „ È da sapere che i buoni Filippesi, udita la prigionia di Paolo in Roma, si erano affrettati a mandargli Epafrodito per confortarlo e per soccorrerlo nei suoi bisogni. Quest’atto di amore e di tenerezza filiale aveva commosso l’Apostolo, ed ecco perché li chiama compagni e partecipi delle sue catene, della difesa e confermazione del Vangelo. L’amore fa sì che tanto le gioie come i dolori siano comuni tra le persone amate, e perciò rende necessario tra loro il soccorso vicendevole, e tutto questo in ragione dell’intensità dell’amore stesso; è questa una verità che non abbisogna di prova. L’amore tra i primi Cristiani era grandissimo, tantoché gli stessi gentili, additando i Cristiani e meravigliando, dicevano: vedete come questi Cristiani si amano! — Ecco perché le Chiese di Grecia, come attesta S. Paolo, mandavano soccorso alle Chiese di Palestina travagliate dalla fame: era il primo esempio di scambievole carità che il mondo pagano stupefatto vedeva. Greci che soccorrevano Giudei, dei quali ignoravano la lingua, i paesi, tutto, fuorché la fede e la carità, nella quale si sentivano fratelli! Ecco come popoli che non si conoscono, che sono divisi da monti, da mari, da interessi, da usi, da leggi, da memorie, in Cristo si stringono tra loro come fratelli e si aiutano scambievolmente! È il carattere del Cristianesimo: tutti i membri della Chiesa Cattolica, sparsi ai quattro angoli della terra, congiungono le loro menti in una sola fede, congiungono i loro cuori in una sola speranza e nella stessa carità verso Dio e verso il prossimo, e creano quella stupenda solidarietà, che è la sua gloria e la sua forza. Paolo geme nel carcere a Roma; con lui gemono i Cristiani di Filippi, di Corinto, di Tessalonica, di Efeso, di Gerusalemme; la Chiesa così forma un solo corpo, un solo cuore, e uno è per tutti e tutti per ciascuno. Questa ammirabile unione e solidarietà, che appariva nella Chiesa ai tempi di Paolo, apparisca anche in oggi: i fedeli stiano congiunti coi loro pastori, i pastori coi loro Vescovi, i Vescovi col Vescovo dei Vescovi : siano un solo corpo, comuni le tribolazioni, comuni i dolori, comuni le vittorie e i trionfi. “Poiché Iddio mi è testimonio con quanto affetto io vi ami tutti nelle viscere di Gesù Cristo. „ Non so dirvi come queste espressioni sì calde d’affetto e che si sentono traboccare dal cuore, mi ricerchino tutte le fibre dell’anima e mi commuovano! Mi raffiguro il santo Apostolo, quell’uomo della tempra d’acciaio, nel fondo del suo carcere, pallido, macilento, disfatto dalle veglie, dai digiuni, dai patimenti, curvo sotto il peso degli anni e dei pensieri, carico di catene, col patibolo sotto gli occhi; eppure, dimentico di sé, egli trova espressioni di affetto paterno e, quasi temesse che i suoi cari Filippesi ne dubitassero, invoca Dio a testimonio di ciò che dice: “Dio mi è testimonio con quanto affetto vi ami rutti — Testis enim mihi est Deus, quomodo cupiam omnes vos. „ Egli non distingue tra ricchi e poveri, tra istruiti e non istruiti: sono tutti suoi figli, tutti li abbraccia con lo stesso affetto, come fa un padre con i suoi figli: Omnes vos. E perchè li ama tutti egualmente? Perché non guarda alle loro doti e qualità personali, ma tutti li considera in Gesù Cristo: In visceribus Christi! Ecco la gran legge della vera carità. – Se voi guardate l’uomo come è in se stesso, non rare volte vi sentirete mossi, non ad amarlo, ma sì a respingerlo. Questi è coperto di cenci schifosi, di piaghe fetenti; quello è grossolano, rozzo, ignorante, non capisce nulla, senza cuore; un terzo è pieno di vizi, dedito all’ubriachezza, ozioso, iracondo, petulante, insolente; se noi seguitiamo la natura, come potremo amare questi infelici, ancorché sappiamo che sono fratelli nostri? Noi sentiamo ripugnanza ad avvicinarli, a parlare con loro, a toccarli. Così è; ma se pensiamo a Dio che li ha creati, a Gesù Cristo che li ha amati fino a morire per loro, e darsi loro in cibo; in una parola, se noi li riguardiamo nelle viscere di Gesù Cristo: In visceribus Jesu Christi, cioè li riguardiamo nell’amore di Gesù Cristo, noi non possiamo non amarli; o rinnegare Gesù Cristo, od amarli con Lui e per Lui. Ecco come si spiega l’eroismo dei santi e delle anime innamorate di Gesù Cristo, che passano i loro giorni negli ospedali, nei lazzaretti, negli orfanotrofi, nelle case del dolore, nelle missioni in remotissime e barbare contrade, consacrandosi al servizio degli infermi, alla istruzione degli ignoranti, senza nemmeno conoscerli, con la certezza di non trovare in essi nemmeno la gratitudine. Amano nelle viscere di Gesù Cristo: In visceribus Jesu Christi. Guardano solo a Gesù Cristo, e da Lui solo attendono la loro mercede. Ed è cosa consolante e che prova lo spirito della Chiesa essere sempre lo stesso, il vedere ai giorni nostri i Cattolici d’Europa che soccorrono le Chiese d’Oriente, le Missioni della Cina, gli orfanotrofi aperti in Africa, le scuole cristiane fondate in mezzo agli infedeli. Nella Chiesa Cattolica spariscono i confini delle nazioni e non apparisce che la grande famiglia dei figli di Dio. “Vi amo in Gesù Cristo, o Filippesi, esclama l’Apostolo, e perché vi amo, vi desidero, vi prego ogni bene. „ E qual bene nell’ardore della tua carità domandi tu, o Paolo, ai tuoi figli? “Che la vostra carità sempre più abbondi in conoscenza e in ogni buon sentimento. „ Quale carità? La carità vera, operata verso Dio e verso i fratelli; la carità che è compimento della legge e la regina di tutte le virtù; la carità che è congiunta alla scienza, in scientia, col conoscimento della verità e con il discernimento, ossia con la prudenza dell’operare. Giovi, poiché qui cade in acconcio, giovi rettificare qualche idea intorno alla carità, affinché non pigliamo abbaglio. Sembra che alcuni, udendo predicare e magnificare la carità, pensino ch’essa si riduca ad amare e beneficare indistintamente le persone tutte; che la carità per poco non badi alla verità, ed operi ad occhi chiusi. S. Paolo in questo luogo condanna siffatto pregiudizio, scrivendo: “La vostra carità cresca sempre più nella conoscenza e in ogni sentimento — In scientia et in omni sensu. ,, Tutti gli atti della nostra vita, anzi, tutti i pensieri, i desideri e le parole tutte, se siamo uomini, devono essere soggetti alla gran legge della ragione; se siamo Cristiani, alla legge della ragione e della fede: in altri termini, alla gran legge della verità. Essa, ed essa sola, è la guida d’ogni pensiero e d’ogni atto, e quello è bene che è conforme a verità, quello è male che alla verità non è conforme. Immaginare una virtù che non sia frutto della verità, è immaginare un bel colore senza luce, un bell’edificio senza ordine, un bel corpo senza la giusta proporzione delle varie membra. La verità è l’unica base della virtù, e per conseguenza anche della regina di tutte le virtù, che è la carità. Questa deve amare e operare secondo verità, e se esce dalla verità, e, peggio poi, se opera contro la verità, non è virtù, ma vizio. Il perché amare il prossimo, beneficare il prossimo perché vizioso, e col nostro amore e con la nostra beneficenza spingerlo maggiormente al vizio, o in esso raffermarlo; amare il prossimo e addormentarlo nell’errore per non recargli dispiacere, non è carità, ma offesa della carità, è un odiarlo; il medico che per amore dell’infermo gli risparmia la medicina amara, e non taglia il membro cancrenoso; il padre che per amore del figlio non lo corregge e non lo punisce, non amano, ma odiano l’infermo e il figlio. Nessuno ha avuto maggior carità di Gesù Cristo per gli uomini, per i quali diede la sua vita stessa; ma Egli non dissimulò i loro errori, non tacque le loro colpe, smascherò le loro passioni, non dubitò, al bisogno, di ferire anche il loro malinteso amor proprio per giovar loro: ecco la vera carità, la carità figlia della verità, congiunta alla scienza e alla prudenza, come S. Paolo la pregava ai suoi Filippesi: “La vostra carità abbondi sempre più nella conoscenza e in ogni sentimento. „ “Io prego Dio, così l’Apostolo, affinché la vostra carità sempre più abbondi insieme con la scienza e con la prudenza: „ e perché? “Perché discerniate le cose contrarie, „ ossia “distinguiate le vere e le buone dalle false e cattive, e quelle abbracciate e queste fuggiate. „ È una espressione che troviamo in un’altra lettera di S. Paolo (I ai Tessal., V, 21), dove scrive: “Mettete ogni cosa alla prova, e tenete ciò che è bene — Omnia probate, et quod bonum est tenete. „ Si accusa la nostra Religione di offendere e quasi distruggere i diritti della ragione; voi qui udite S. Paolo esortare i fedeli ad usare la ragione per distinguere il bene dal male, il meglio dal bene, il vero dal falso, ed a regolarsi col conoscimento e con ogni prudenza: Scientia et omni prudentia. Certo codesta prova la si vuol fare alla luce della fede, ma sempre con la ragione, perché questa, come quella, viene da Dio, e se sono inviolabili i diritti della fede, lo sono pure anche quelli della ragione, e se si offende Dio rigettando la prima, lo si offende anche col non rispettare la seconda. Noi rispetteremo l’una e l’altra, unendo e armonizzando tra loro il lume della fede e quello della ragione, perché entrambi, come vengono da Dio, così conducono a Dio, fonte di ogni verità. – Camminando dietro sì fida scorta, sarete trovati “sinceri o schietti, e senza inciampo per il giorno di Cristo, „ cioè netti, puri nella fede e mondi d’ogni macchia nel giorno del giudizio, nel quale apparirà l’opera di ciascuno. In questi pochi versetti due volte l’Apostolo ci riduce alla mente una delle più terribili verità della fede: il giudizio di Dio, e bene a ragione; perché la certezza che verrà giorno nel quale ogni nostro pensiero ed affetto, ogni nostra parola ed opera saranno disvelate agli occhi di tutto il mondo e giudicate da Dio, infallibile e inesorabile Retributore, ci riempie di un salutare timore e quasi ci costringe a provvedere a noi stessi, a fare noi qui di presente quel giudizio al quale non potremo sfuggire. “Giudicate voi stessi, così l’Apostolo in un altro luogo, e non sarete giudicati. „ Eccoci all’ultimo versetto: e così sarete “ripieni, per Gesù Cristo, del frutto di giustizia, a gloria e lode di Dio. „ Non basta essere mondi d’ogni macchia, ma fa mestieri essere ricchi del frutto di giustizia, che è quanto dire delle opere giuste e sante, senza delle quali la fede è morta. L’Apostolo ha cura di ricordarci un’altra verità, che per lui si ripete sì spesso, ed è che sì la fede come le opere della fede, i frutti di giustizia, si debbono sempre ripetere dalla grazia della quale Gesù Cristo è fonte: Per Jesum Chrìstum. E mentre tutto deriva a noi da Gesù Cristo, tutto poi è anche rivolto a lode e gloria di Dio, termine ultimo di tutte le opere sue e nostre.
Graduale
Ps CXXXII: 1-2
Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum! [Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]
V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron. [È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne.]
Alleluja
Allelúja, allelúja
Ps CXIII: 11
Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja. [Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt XXII:15-21
In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.
OMELIA II
[Mons. G. Bonomelli, ut supra, Om. XX.]
“I farisei, raccoltisi, tennero consiglio come potessero cogliere in parole Gesù; e gli mandarono i loro discepoli insieme con gli Erodiani, dicendo: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace e insegni la via di Dio con verità, e non ti curi di chicchessia, perché non guardi in faccia ad uomini. Dicci adunque ciò che ti pare: è egli lecito o no pagare il censo a Cesare? Ma Gesù, conoscendo la loro malvagità, disse: A che mi tentate, ipocriti? Mostratemi la moneta del Censo. Essi gli porsero un denaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa figura e questa scritta? Gli dissero: di Cesare. Allora Egli disse loro: Rendete adunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio „ (S. Matteo, XXII, 15-21).
Voi ora avete udito il Vangelo della odierna Domenica, che ci presenta un interesse tutto speciale, perché vi è annunciata una dottrina gravissima, e che tocca senza eccezione ogni persona. Il fatto che si narra in questo Vangelo, avvenne in Gerusalemme, nel tempio o piuttosto nell’atrio o sotto i portici del tempio, il martedì o al più tardi, il mercoledì che precedette la morte di Gesù Cristo. La spiegazione di queste poche sentenze del Vangelo ci domanda maggiore tempo del solito, e perciò è buona cosa farne tesoro e por tosto mano al nostro commento. – Gesù aveva recitata la parabola di quei crudeli vignaiuoli, i quali avevano bestialmente ucciso il figlio del padrone mandato ad esigere i frutti della vigna, e chiaramente fatto conoscere che Dio avrebbe rigettato Israele e chiamato al suo luogo un altro popolo. Quella parabola era chiarissima, e la terribile minaccia aveva ferito vivamente gli scribi e i farisei, i quali, come dice il Vangelo, avrebbero messe le mani sopra Gesù, se non avessero avuto timore del popolo che lo circondava e lo acclamava. Quegli scribi e farisei tremavano sempre dinanzi al popolo (capo XXI). Che fecero essi? Udite. “I farisei, raccoltisi, tennero consiglio, come potessero cogliere in parole Gesù. „ È verissimo ciò che scrisse un valente filosofo, ragionando dell’uomo: “Egli, ora ci apparisce come un angelo, ed ora come un demonio. „ Vedete questi scribi e farisei: essi lo seguono da per tutto, studiano i suoi passi, scrutano tutte le sue parole, tutti i suoi atti; non hanno mai trovato in Lui colpa alcuna; una vita santissima, una dottrina ammirabile, dolce, paziente, disinteressato, tutto amore per i sofferenti, tutto zelo per la gloria di Dio, non fa male a nessuno, bene a tutti, segna il suo cammino con i miracoli. Che vogliono essi? Perché non uniscono le loro voci a quelle del popolo, salutandolo almeno uomo di Dio e profeta? No, essi lo odiano, perché la sua vita e la sua dottrina sono la condanna della loro. Essi si raccolgono a consiglio: a che fare? Forse per esaminare la dottrina di Cristo o i suoi miracoli, e per seguirlo se trovati veri? Forse per scrutare le profezie e vedere se si compiono in Cristo? No: si stringono a consiglio per trovar modo di coglierlo in fallo, e strappargli di bocca una parola e farne un capo di accusa contro di Lui: Ut caperent eum in sermone. Oh nequizia! Oh perversità di animo! Tendere il laccio, scavare la fossa al fratello! Ed erano uomini che meditavano sempre i Libri santi, che digiunavano, che si atteggiavano a zelatori della gloria di Dio e della sua legge! Tanto può, o cari, la passione allorché prende signoria nel cuore dell’uomo: non v’è delitto, a cui essa non lo sospinga, e gli esempi di tanta nequizia non mancano anche ai giorni nostri negli eredi dello spirito degli scribi e dei farisei. Ecco il consiglio a cui si appigliarono: “I farisei mandarono i loro discepoli con gli Erodiani a Gesù. „ Giova fermarci su queste parole del Vangelo. Chi fossero i farisei, ve lo dissi altra volta, ma qui è da por mente ad una cosa che mette in maggior rilievo la loro perfidia. I farisei, oltre essere gli uomini della rigida osservanza della legge, rappresentavano anche il partito nazionale giudaico, che odiava fieramente la dominazione romana ed aspettava l’ora della riscossa per rivendicarsi a libertà. Ed era questo loro patriottismo che dava ad essi grande influenza sul popolo. Gli Erodiani per contrario formavano il partito di Erode Antipa, re di Galilea, che a quei giorni era venuto in Gerusalemme per celebrarvi la Pasqua. Erode era il figlio di quell’Erode che uccise i bambini, e quello stesso che aveva messo a morte il Battista, straniero, amico dei Romani, e loro tributario. Naturalmente i partigiani di Erode, religiosamente e politicamente, erano affatto contrari ai farisei (Era naturale che gli Ebrei detestassero Erode il padre, e poi il figlio, Erode Antipa. Erano usurpatori e tiranni, pessimo poi tra i tiranni il primo, detto forse per ironia, il Grande. Ma non v’è tiranno che non abbia un partito, e l’ebbe anche Erode, come sappiamo dal Talmud. A capo del Sinedrio erano due grandi Rabbini, Hillel e Manahem: Manahem, guadagnato dall’oro, dall’ambizione o per altri mezzi, passò al servizio di Erode e fu seguito da ottanta principali splendidamente vestiti. Fu l’origine del partito detto degli Erodiani – Didon, vol. II, p. 189-.); eppure voi li vedete dimenticare il loro partito e le loro opposizioni, darsi la mano e ordire un intrigo contro Gesù. I partigiani risoluti della indipendenza nazionale e gli abbietti vassalli d’un re straniero, scettico, dissoluto e crudele, e tutto ligio agli oppressori della patria, farisei ed Erodiani fanno alleanza tra loro a danno di Gesù. La politica di tutti i secoli è sempre piena di queste colpevoli e vergognose alleanze! I discepoli dei farisei e gli Erodiani, dopo essersi intesi tra loro, si presentano a Gesù, e in atto umile, come di discepoli che ricorrono al maestro, desiderosi di essere illuminati e pronti a seguirlo in ogni cosa, gli propongono un caso di coscienza. Ma prima mandano innanzi una lunga e bugiarda lode per ingannarlo e tirarlo nel laccio, se fosse stato possibile. Sentite le melate parole di quegli ipocriti: “Maestro, noi sappiamo che sei verace. „ Lo chiamano maestro o dottore della legge, titolo onorevolissimo presso i Giudei; lo chiamano maestro, quasi volessero farsi suoi discepoli, mentre lo volevano disonorare e tradire! ” Sappiamo che sei verace; „ gli danno lode di un uomo schietto, sincero. Non basta, e aggiungono: ” Tu insegni la via di Dio con verità, „ cioè tu sei la guida sicura che ci scorgi e conduci a Dio, che ci metti sulla via della verità e del cielo. E non basta ancora: “Tu non ti curi di chicchessia, „ che voleva dire: Tu non temi né Cesare, né Erode, né principi, né popolo. “Tu non guardi in faccia a persona; „ ossia, tu ami la sola verità, non temi che Dio, non cerchi che di ammaestrare chi vuol conoscere la via sicura. Lode più ampia, più magnifica, voi lo vedete, non si poteva dare a Gesù Cristo e, se fosse stata sincera, grande doveva essere la mercede a chi la faceva. Ma sulle labbra di quegli uomini era una turpe menzogna, era un’arte scellerata per ingannare il divino Maestro; lo lodavano per eccitarlo a dire francamente ciò che essi volevano udire dalla sua bocca per aver buono in mano di accusarlo e perderlo, come tosto udrete. Vedendo tanta e sì sfacciata perfidia ed ipocrisia, noi siamo sdegnati e giustamente. Ma permettete che vi domandi: La menzogna, l’adulazione, la perfidia, l’ipocrisia, l’inganno, le arti del tradimento, sono forse sì rare anche presso di noi, che dobbiamo farne le meraviglie? A voi, o cari, la risposta. Abbominate tutte queste arti di sedurre e ingannare i fratelli, degne dei farisei e degli Erodiani. Mandate innanzi tutte queste ipocrite lodi, quei tristi tendono il laccio e dicono a Gesù: “Dicci adunque ciò che ti pare: è egli lecito o no pagare il censo a Cesare? „ Era difficile architettare una insidia più sottile e più pericolosa, e per conoscerne tutta la malizia, ponderate ciò che sono per dirvi. I Romani da cent’anni circa signoreggiavano i Giudei, mettendovi a governarli ora re e tetrarchi, ora proconsoli o governatori, come loro piaceva. I Giudei, e più ancora i Galilei, fremevano sotto questo dominio straniero: l’orgoglio nazionale e il sentimento religioso si sentivano umiliati e feriti da questa signoria pagana: aspettavano ansiosamente il tempo opportuno di spezzare l’odiato giogo, e ponevano le loro speranze nel futuro Messia. Gli scribi e i farisei e i sacerdoti erano l’anima di questo partito patriottico e religioso, che trent’anni appresso divampò in modo tremendo, provocando lo sterminio della nazione. Ogni Giudeo doveva pagare tra le altre una tassa personale annua d’un danaro, ottanta centesimi dei nostri. Era generale persuasione che non era lecito pagare quella tassa, perché ingiusta, trattandosi di stranieri usurpatori, e per giunta stranieri pagani. – Ora si poneva nettamente la questione dinanzi a Gesù Cristo, nell’atrio del tempio e circondato, com’è credibile, da gran folla: “Dicci, è lecito o no pagare il censo a Cesare (Si noti la domanda: È lecito o no pagare il censo a Cesare? Si usa la parola censo, perché essa stessa forestiera e in sommo grado odiosa al popolo.)? „ Gesù doveva rispondere con un sì o con un no reciso. Se rispondeva si, è dovere pagare il censo, in faccia agli Ebrei appariva nemico della indipendenza nazionale, partigiano e fautore degli stranieri, e per poco empio, perché si metteva dal lato dei pagani e perdeva necessariamente il favore del popolo; se rispondeva no, non è lecito pagare il censo a Cesare, lo accusavano presso il governatore romano, che risiedeva in Gerusalemme, e ne provocavano la condanna come di un ribelle all’autorità costituita (Sappiamo dal Vangelo che tra le altre accuse mosse a Gesù, d’innanzi a Pilato c’era pur questa: Egli vieta di pagare il tributo a Cesare. Era una calunnia, ma gli accusatori sapevano troppo bene la forza di questa accusa sull’animo del governatore romano. E dire ch’essi stessi tenevano illecito pagare il tributo e ne facevano accusa a Gesù!); non poteva sfuggire al laccio, così pensavano quei miserabili: Egli deve chiarirsi o nemico della patria, o nemico dei Romani; nell’uno e nell’altro caso è perduto. Dal tutto insieme si fa manifesto che si aspettava da Gesù una risposta favorevole al partito nazionale: egli era galileo, e i Galilei non a torto passavano per ardenti patrioti: egli era l’amico del popolo, dei deboli, dei sofferenti: Egli si atteggiava a Messia, predicava un regno novello; pareva dunque cosa certa che avrebbe condannato il tributo, simbolo del servaggio allo straniero. Ma con poche parole fece cadere la maschera agli ipocriti, sfatò l’insidia, e stabilì per la prima volta la più stupenda dottrina sui rapporti tra le autorità civili e le sacre o religiose. – “Gesù, conoscendo la malvagità di coloro, disse: A che mi tentate, o ipocriti? „ Era un aspro ma troppo meritato rimprovero. Voi, fìngendovi uomini di coscienza delicata, pieni di timore di offendere Dio, di violare le leggi della religione, vorreste strapparmi di bocca tanto d’aver modo di accusarmi: col pretesto della religione voi mi tendete agguato: ipocriti e tentatori! Anzi tutto mostrò di leggere loro in cuore, e questo stesso rimprovero era un richiamarli a miglior consiglio. Poi disse loro: “Mostratemi la moneta del censo: essi gliela porsero. „ – Presso gli Ebrei due sorta di monete avevano corso, le une profane e romane, le altre sacre ed ebraiche. Le prime portavano l’immagine di Cesare o di qualche divinità pagana; le seconde non portavano figura alcuna, perché ciò era severamente proibito dalla legge mosaica (Deuter. IV, 16). Gli Ebrei, specialmente nel pagare il tributo per il tempio, e in tutti gli usi sacri, doveano usare le loro monete: nelle cose profane, e particolarmente nel pagare il tributo all’imperatore, dovevano usare le monete pagane, portanti l’immagine dei Cesari, come dissi, o dei Numi. Ecco perché Gesù disse: “Mostratemi la moneta del censo, „ cioè quella moneta con cui pagate il censo a Cesare. Probabilmente farisei non ne avevano addosso, perché anche il solo portare quelle monete doveva sembrare alle tenere loro coscienze una brutta idolatria; ma ne dovevano portar seco gli Erodiani, che non pativano siffatti scrupoli, o certo la si poté avere lì vicino nel cortile dei Gentili, dove per comodo dei devoti sedevano a banco i cambiavalute per cambiare le monete giudaiche in romane. Fu dunque portata a Gesù la moneta del censo: Egli, avutala in mano, si rivolse a’ suoi interrogatori, e tenendola, com’è naturale, nella palma della mano sinistra, e con l’indice nella destra segnandola, disse: “Di chi è questa immagine e questa scritta (L’immagine doveva essere quella di Cesare Augusto o di Tiberio, e la scritta intorno doveva essere la solita: Divo Tiberio Cæsari, ecc.)? Gli rispondono: Di Cesare. Ebbene, riprese Gesù: Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio. „ Badate che Gesù non disse: “Date a Cesare ciò che è di Cesare. E a Dio ciò che è di Dio, „ ma disse: Rendete, ossia restituite a Cesare ciò che avete ricevuto da Cesare, e a Dio ciò che avete ricevuto da Dio. Questa moneta l’avete da Cesare; è dunque giusto che, in parte almeno, la rendiate a lui stesso per i bisogni comuni e per i servigi che presta. Eccoci a quella famosa sentenza del Salvatore, che non può essere più chiara e più profonda, e che nondimeno fu citata e si cita tuttora in vari sensi dai propugnatori dei diritti della Chiesa e dei diritti dello Stato. Prima di entrare nella spiegazione di questa sentenza non vi sia grave por mente ad una osservazione, che reputo importante al giorno d’oggi. I Romani imperavano nella Giudea; erano stranieri, e il loro diritto era quello dei conquistatori. Il loro potere sovrano era esso legittimo? Era solo di fatto, e per consefuenza illegittimo ed usurpatore? Gesù non entra nella spinosa questione, né mai vi entrò in tutta la sua predicazione; e sì che non gli mancarono le occasioni di parlarne, e con una parola poteva troncare ogni litigio. Egli costantemente, con le parole e con le opere, si restrinse a stabilire ed inculcare il rispetto e l’ubbidienza alle autorità costituite, senza toccare neppure da lungi, la legittimità o illegittimità della loro origine. Grande esempio da imitare, lasciatoci dal divino Maestro, che non dovremmo mai dimenticare, e che, seguito fedelmente, cesserebbe ogni confusione. Per i pagani ed anche, fino ad un certo punto, per gli Erodiani, ogni potere si concentrava in Cesare e nel loro re: Cesare era l’imperatore ed il pontefice: il potere sommo, assoluto, civile, e il poter sommo, assoluto, religioso erano raccolti entrambi nelle sue mani, e non era tenuto renderne conto a chicchessia. Di questo mostruoso concentramento del potere assoluto religioso in chi ha il potere civile, ce ne rimane un’idea nel musulmanismo, dove il sultano è tutto. Gesù Cristo, nella sua risposta, implicitamente ma chiaramente, afferma che non è tutto di Cesare, come non vi è solo il poter di Cesare; che vi è la parte di Dio, come vi è anche il poter di Dio, e che l’uomo deve rendere a Cesare ciò che spetta a Cesare, e a Dio ciò che spetta a Dio. Vi sono adunque due poteri tra loro distinti, sebbene subordinati, che hanno diritti distinti, e verso dei quali abbiamo doveri distinti, e che si vogliono riconoscere e osservare, e ciò per volontà espressa di Gesù Cristo, il potere di Cesare e il potere di Dio. L’uno e l’altro vengono da Dio, come da Dio vengono il corpo e l’anima nostra, ma in modo diverso, e diversa è la loro natura e la loro eccellenza, e diverso il loro fine. Per ragione del corpo, dei suoi bisogni, della sua vita esterna, del suo benessere, della sua sicurezza, l’uomo prima di tutto dipendente da Dio, necessariamente si lega anche al suo paese, al potere di Cesare, all’autorità civile; per ragione dell’anima, della sua coscienza, dei bisogni dello spirito e delle sue aspirazioni, si lega ad un altro paese, al cielo, al potere di Dio, all’autorità della Chiesa, che quaggiù lo rappresenta. Ciascuno di noi, entrando in questo mondo, cade necessariamente sotto questi due poteri, che non si potranno mai confondere tra loro, come non si confondono tra loro l’anima ed il corpo, e nemmeno opporsi tra loro, se non per ignoranza o malizia degli uomini. Qual è il campo, in cui si svolge il potere di Cesare, o l’autorità civile? Suo fine ed ufficio è quello di concorrere a conservare, difendere, sviluppare la vita del corpo: è quello di tutelare i diritti di ciascuno nella famiglia e nella società, i diritti sulle persone e sulle sostanze; di raffrenare e rendere impotenti i tristi, di assicurare i deboli, di far sì che ciascun cittadino si mantenga entro i limiti dei suoi diritti e non invada quelli degli altri: suo fine ed ufficio è quello di concorrere a sviluppare le ricchezze del paese, sia col proteggere e favorire l’agricoltura, prima base d’ogni ricchezza, sia con lo svolgere le forze dell’industria e del commercio, agevolando le vie di terra e di mare; suo fine ed ufficio è quello di difendere il Paese contro i nemici interni ed esterni, mantenendo la pace e la giustizia; in breve, suo fine ed ufficio è quello di procurare a tutti i cittadini la felicità temporale quaggiù possibile, felicità che è inseparabile dal conoscimento della verità, dall’osservanza della giustizia, dalla pratica della virtù e dalla guerra all’errore, all’ingiustizia ed al vizio. Ora, per raggiungere questo fine altissimo e sì svariato, il potere civile ha bisogno di mezzi, che sono la forza pubblica e il danaro necessario, e perciò ha diritto e dovere di aver quella e questo nella giusta misura. Ecco perché Cristo, tenendo in mano la moneta del censo dovuto, disse: “Rendete a Cesare ciò che è dovuto a Cesare, „ cioè, pagate il tributo, senza del quale egli non potrebbe adempire il suo ufficio e mantenere l’ordine pubblico, e la società andrebbe tutta sossopra. Qual è il campo, in cui si svolge il potere sacro e religioso che risiede nella Chiesa e nel suo Capo supremo? Suo fine ed ufficio primario è quello di deporre in ogni anima il germe della vita divina, di conservarlo, difenderlo e svilupparlo nell’individuo, nella famiglia e nella società; il che essa ottiene con la istruzione, che risponde ai bisogni di ciascuno e di tutti; con la amministrazione dei Sacramenti, con l’azione del suo governo e delle sue leggi, che dal Capo supremo si spande nei capi subalterni, i Vescovi, i parroci, i sacerdoti , e giù giù sino ai semplici fedeli. Suo fine ed ufficio è di tener lontani dai suoi figli l’errore ed il vizio, di mantenere i diritti della verità e della virtù, e di condurli alla felicità eterna. Fine poi secondario della Chiesa è di sorvegliare ed impedire che Cesare venga meno, e peggio abusi del potere che ha in ordine al corpo. Ora, per conseguire questo fine nobilissimo e santissimo, il potere sacro e religioso ha bisogno di avere gli strumenti necessari che sono il sacerdozio secolare e regolare, le istituzioni svariatissime per l’istruzione, per il culto pubblico, i templi, mezzi materiali per procurarsi questi strumenti necessari; ha bisogno sopratutto di libertà stabile ed ampia per esplicare tutte le sue forze a santificazione degli uomini. Ecco ciò che Gesù Cristo intese dire nella seconda parte della sua sentenza: “Rendete a Dio ciò che spetta a Dio. „ Due sorta di monete, come dissi, avevano corso presso gli Ebrei, l’una profana, l’altra sacra; l’una simboleggiava il diritto terreno e politico, l’altra rappresentava il diritto celeste e divino; quella, il tributo che si doveva a Cesare, l’altra il tributo che si pagava al tempio, a Dio. Paghiamo fedelmente l’uno e l’altro tributo, ed avremo adempito ogni nostro dovere. Coloro che esercitano questi due poteri, dai quali dipendono la pace, la prosperità, la felicità del tempo e della eternità, devono porre ogni studio in cessare qualunque urto tra loro e nell’armonizzare le loro leggi e la loro azione, per guisa che scambievolmente si aiutino. E poiché il poter sacro e religioso, per ragione del fine e dei mezzi, di gran lunga sovrasta al poter civile, e dall’appoggio di quello il civile riceve grandissimo vantaggio, così è del suo interesse non solo non attraversarne l’opera ma, almeno indirettamente, aiutarla. Il potere civile non ha nulla a temere dal potere sacro e religioso, dal quale non può ricevere che benefizi e guarentigie più sicure di progresso e di tranquillità, intimando questo a tutti in nome di Dio e per dovere di coscienza quelle parole: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare. „ La Chiesa, o cari, non bada a chi regge questo o quello Stato, né alla forma di governo che assume, se il potere sia in mano d’un solo o di molti, se sia dato a vita o a tempo, se sia assoluto o temperato, se sia elettivo od ereditario, se sia monarchico o repubblicano, se appartenga a questa o quella dinastia. La Chiesa non è di questo o quel secolo, non è di questo o quel popolo, di questa o quella nazione; essa è di tutti i secoli, di tutti i popoli, di tutte le nazioni, perché deve durare fino al termine dei tempi, deve raccogliere sotto le sue tende tutte le genti, anche tra loro diversissime di lingua, di usi, di carattere, di tendenze, di cultura. Essa pertanto non può legarsi né a monarchie, né a costituzioni, né a repubbliche, né a re, né ad imperatori come tali; essa tien fisso lo sguardo in alto, in cielo, meta suprema del suo cammino attraverso alle vicende della terra, non respinge nessuna mano che le si offra, accetta il concorso di tutti gli uomini di buona volontà, non impone nessuna forma di governo, non domanda, per sé parlando, a nessun principe, a nessuna repubblica, l’atto autentico di sua origine legittima e rispetta tutti i diritti. Una cosa sovra tutte le altre esige, d’avere libero il cammino, grata a tutti quelli che l’aiutano, quand’anche non avessero la fede ch’essa annuncia e custodisce inviolata a costo del suo sangue. – E se un potere qualunque si leva sul suo cammino, cerca di impedirle il passaggio, la molestia, la insidia? Essa allora, a nome di Dio e delle coscienze offese, protesta, mette in salvo i suoi diritti, aspetta paziente, ed usa dei mezzi che sono in sua mano e che reputa utili e necessari per difendersi, e i suoi figli la seguono, ricordevoli che vi sono casi nei quali bisogna ubbidire a Dio più che agli uomini, e ripongono ogni loro fiducia in quella Provvidenza che veglia amorosa su tutti, e particolarmente sulla Chiesa. Questa non la si vide, né la si vedrà mai gettarsi sulle vie e sulle piazze e agitare le turbe contro i poteri costituiti, ancorché abusanti dei loro diritti; non si udrà mai dalle sue labbra una parola, che accenni a passionata rivolta contro l’autorità. Essa batte la via, sulla quale l’ha preceduta il suo capo e sposo divino Gesù Cristo. Egli, salvi i diritti del suo Eterno Padre, volle sottoporsi alle leggi del suo paese ed a quelle dell’Autorità romana; se i capi religiosi della sua patria lo insidiano e perseguitano, risponde o tace, o si ritira contristato; Egli paga il tributo per sé e per Pietro; Egli non si mischiò mai una sola volta in questioni politiche; se le turbe a forza lo vogliono rapire e proclamar re quando ed in modo che non si doveva, destramente si sottrae e fugge; se è condotto dinanzi a Pilato, riconosce in lui l’autorità che viene dall’alto. Gli Apostoli, proclamando però che si deve ubbidire a Dio più che agli uomini, continuano sulla stessa via, e affermano che ogni potere viene da Dio, che bisogna ubbidire non solo per timore, ma per dovere di coscienza, e che chi resiste al potere, resiste a Dio stesso; che bisogna rendere onore al re, pagare i tributi; anzi, che bisogna pregare per i re, affinché abbiamo quieto e tranquillo vivere, e questi re, per i quali bisogna pregare, sono gli imperatori romani, sono Claudio e Nerone, sotto il ferro del quale cadranno Pietro e Paolo, i principi degli Apostoli. È questa la regia via, sulla quale la Chiesa, dopo Gesù Cristo e gli Apostoli, cammina e camminerà mai sempre nei suoi rapporti con le podestà della terra. Vi domando, o cari, vi può essere dottrina di questa più semplice, più conforme ai principi di onesta libertà, di autorità, di pubblico bene e di ordine sociale? Le podestà della terra, allorché l’avranno debitamente conosciuta, potranno ancora ragionevolmente diffidare della Chiesa, sorvegliarla, crearle impacci e combatterla come nemica? Sarebbe un diffidare della madre comune, un sorvegliare e creare impacci ad una fedele amica, sarebbe un combattere la migliore alleata. Ancora alcune riflessioni sull’ultima parte della sentenza di Cristo: “Rendete a Dio ciò che è di Dio, „ e chiuderemo la nostra omelia. – Debbiamo rendere a Dio ciò che è di Dio; ebbene, che è ciò che è di Dio? Non ho che una risposta da dare, ed è questa: Tutto quel che siamo noi, nell’anima e nel corpo: tutto quel che abbiamo fuori di noi, o possiamo avere, tutto è di Dio. V’è, o cari, una sola cosa sulla terra od in cielo, dentro o fuori di noi, nell’anima o nel corpo, al presente o nell’avvenire, che non sia creata e conservata da Dio? No; tutto è da Lui, grida il grande Apostolo, tutto è per Lui, tutto è in Lui; tutto adunque deve essere reso a Dio, che ne è unico e perfetto padrone, e se noi ci riteniamo un solo atomo come nostro, noi siamo servi infedeli, noi siamo usurpatori e ladri di ciò che spetta a Dio. Ma direte: se tutto è di Dio, e tutto a Lui deve essere fedelmente restituito, come mai Gesù Cristo disse che vi sono cose, che dobbiamo rendere anche a Cesare, ed io aggiungo, che dobbiamo rendere ad ogni autorità, ai genitori, agli amici, ai benefattori, ai figli, ai ricchi, ai poveri, a tutti, a noi stessi ? La risposta è facilissima: Tutto ciò che noi rendiamo a Cesare, ad ogni autorità, ai genitori, agli amici, ai benefattori, ai figli, ai ricchi e ai poveri, a noi stessi, a tutti, se è secondo verità e giustizia, è reso a Dio stesso, che così vuole e comanda. E qui ammirate sapienza e bontà di Dio, il Quale ha per reso a sé, quello che facciamo per gli altri, allorché Egli con le leggi sue di natura o di grazia così dispone: per tal modo tutto si e leva e si nobilita, e l’opera fatta per gli uomini e per le creature, apparisce fatta per Iddio e per il Creatore, principio e fine d’ogni cosa. Tutte le creature, le massime come le minime, sono opere di Dio; sono figlie della sua mente, lavoro della sua mano onnipotente, e perciò tutte e ciascuna, senza eccezione, portano scolpita in se stesse l’immagine di Dio: per non averla o distruggerla esse dovrebbero cessare di esistere, e Dio dovrebbe cessare di crearle e conservarle. Quanto più codeste creature si elevano per natura, più bella risplende in esse l’immagine divina, e perciò nell’uomo e nell’Angelo, essa rifulge senza confronto più splendida e gloriosa che nell’albero, nell’uccello e nell’animale. Nell’uomo poi e nell’Angelo Iddio, oltre l’immagine naturale che ha impresso come Creatore, vi ha aggiunto un’altra immagine incomparabilmente più luminosa, che riflette più viva la bellezza divina, mediante la grazia. Come la moneta del censo mostrava scolpita l’immagine di Cesare, onde Cristo, additandola, disse: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, „ così ogni creatura che ne circonda, e sopra tutto l’anima nostra, creata da Dio, e da Gesù Cristo rifatta ed ineffabilmente abbellita, riverbera l’immagine di Dio, e nel suo linguaggio dice: Sono di Dio, appartengo a Gesù Cristo. — Su dunque, siamo giusti e paghiamo a Dio e a Gesù Cristo il tributo dovutogli, rendiamogli ciò che è suo. Ma badate bene: l’immagine di Dio e di Gesù Cristo non alterata o svisata; fate che sia intatta, affinché Egli la riconosca per sua e ne venga gloria a Lui e a noi. “Rendete, così Tertulliano, rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e ciò che è di Dio, a Dio: cioè rendete a Cesare l’immagine di Cesare, che è effigiata sulla moneta, e l’immagine di Dio a Dio che è nell’uomo, in guisa, che tu renda il danaro a Cesare, a Dio te stesso. „ [De Idololat. C. 15] Sventura a voi, fratelli miei, se alteraste in voi stessi l’immagine di Dio! Sareste rei di lesa Maestà divina!
Credo…
Offertorium
Orémus
Esth XIV:12; 14:13
Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis. [Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]
Secreta
Da, miséricors Deus: ut hæc salutáris oblátio et a própriis nos reátibus indesinénter expédiat, et ab ómnibus tueátur advérsis. [offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia. ]
Communio
Ps XVI:6
Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea. [Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole. ]
Postcommunio
Orémus.
Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium: [Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]