CONOSCERE SAN PAOLO (22)
LIBRO SESTO
L’Epistola agli Ebrei; (2)
CAPO II
Il Cristo mediatore.
1 . L A PERSONA DEL CRISTO.
1 . IL FIGLIO DI DIO IMMAGINE E IMPRONTA DEL PADRE. — 2. CREATORE DEL MONDO. — 2. FASE DI ABBASSAMENTO E VITA DI GLORIA.
[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte Prima S. E. I. Ed- Torino, 1927 – impr.]
1. Il giudaismo, indipendentemente dal suo sacerdozio, ebbe tre sorta di mediatori: i profeti, gli angeli, Mosè. I profeti erano messaggeri straordinari, delegati nei momenti di maggiore crisi religiosa, per scongiurare le apostasie e per mantenere vive le speranze messianiche. Tutto l’Antico Testamento ci mostra la parte attiva degli Angeli come messi di Dio, ma la loro azione si esercita soprattutto nell’alleanza del Sinai (Ebr. II, 1). Mosè poi, il cui nome già richiama l’idea del mediatore per eccellenza (Gal. III, 19-20), viene ultimo nella serie, dopo i profeti e gli Angeli, come ultimo termine di una graduatoria ascendente. Ma quanto si rimpiccoliscono questi mediatori dinanzi a Gesù! Il confronto serve soltanto a far risaltare maggiormente, col contrasto, la sua incomparabile grandezza, i profeti parlavano in nome di Dio, o meglio era Dio che parlava in loro e per mezzo loro, ma questo avveniva una volta, nelle età remote, ai patriarchi morti da lungo tempo, nell’infanzia dell’umanità; e la loro rivelazione era frammentaria, spezzata nel tempo e nello spazio. Ora invece, alla fine dei tempi, dopo tutte le preparazioni provvidenziali, Dio ha parlato a noi, eredi dei Patriarchi, per mezzo del Figlio e in Lui. È evidente che una rivelazione fatta a poco a poco, a briciole ed a frammenti e in diverse maniere, con figure, simboli ed allegorie, non è né perfetta né definitiva e non può stare alla pari con la rivelazione di Colui che possiede come suoi tutti i tesori di scienza e di sapienza (Ebr. I, 1). Gli Angeli sono gli esecutori delle volontà divine; in ultima analisi non sono altro che ministri di Dio preposti al servizio degli eletti e che si possono paragonare agli agenti atmosferici. Non solo la funzione degli Angeli è di servire, ma il loro servizio è subordinato al bene degli eletti: così la folgore e la tempesta portano gli stessi nomi e, fatte le debite proporzioni, compiono gli stessi uffici: Dio fa dei venti i suoi messaggeri, e dei fuochi accesi i suoi ministri. Il Cristo invece è il Figlio, generato nell’oggi eterno; il suo trono è eterno: i cieli sono opera delle sue mani; Egli li cambia a suo talento, mentre Egli stesso non è suscettibile di mutazione e di decadenza. La sua supremazia sopra gli Angeli appare già dal suo nome: Egli è Figlio di Dio in una maniera incomunicabile; Egli è Dio, e quello che l’Antico Testamento dice di Jehovah, conviene a Lui medesimo, o piuttosto è detto di Lui medesimo. Per conseguenza Egli è creatore, è eterno, è re universale; e gli Angeli devono anch’essi rendergli omaggio. Mosè poi fu l’intendente fedele della casa di Dio; ma egli era tale come servitore, e la casa non era sua. Il Cristo, in qualità di Figlio, governa la casa sua, cioè la Chiesa: poiché è Lui che l’ha fondata. – La dignità sovreminente del Cristo deriva tutta dalla sua filiazione divina. Egli è incomparabilmente superiore ai profeti, perché è Figlio; Egli ecclissa gli Angeli, perché è Figlio; la vince su Mosè, perché è Figlio; è mediatore unico della creazione, come pure della redenzione, perché è Figlio; è erede di tutte le cose, perché è Figlio; è il sacerdote eterno, perché è Figlio. Benché gli si riconoscano dei fratelli che qualche volta prendono il titolo di figli, quando si tratta del Figlio semplicemente, del Figlio per eccellenza, del Figlio di Dio, non vi è più equivoco possibile, e tutti pensano al Figlio per natura, al Figlio Monogenito, nato dal Padre prima di tutti i secoli (IV, 14; VI, 6; VII, 3; X, 29). – La personalità del Figlio rimane immutabile nella sua preistoria divina nel seno del Padre, nella sua apparizione storica come mediatore, salvatore e sacerdote, nella sua vita glorificata di là dalla storia. I diversi attributi che gli convengono per questo triplice modo di esistenza, sono frequentemente riuniti nella stessa frase ed enumerati senza cambiamento di soggetto. Questo fatto che si può constatare nel Prologo di San Giovanni e nei passi cristologici dell’Epistola ai Colossesi e dell’Epistola ai Filippesi, si nota soprattutto nella nostra. Eccone due esempi presi dal principio: “Dio ci ha parlato per mezzo del Figlio, (esistenza storica). Che stabilì erede di tutte le cose, (esistenza glorificata). Per mezzo del quale fece anche i secoli”, (preesistenza divina). Oppure, mantenendo l’ordine cronologico: “Irradiamento della sua gloria, impronta della sua sostanza, che sostiene tutto con la sua potente parola, Dopo di aver compiuto l’espiazione dei peccati, Si è seduto alla destra della Maestà”. – Preesistenza eterna, esistenza storica, sopravvivenza glorificata: questo è il quadro naturale in cui possiamo classificare le principali idee cristologiche dell’Epistola. – Alla loro volta, le idee relative alla preesistenza eterna si suddividono in tre classi: titoli del Cristo preesistente, sua funzione nella creazione, sua natura divina. – Gesù Cristo, da tutta l’eternità, è il Figlio di Dio; è l’irradiamento della gloria del Padre e l’impronta della sua sostanza. Del primo nome abbiamo già parlato. – L’espressione irradiamento della gloria del Padre, è presa dal libro della Sapienza, dove il parallelismo stabilisce con precisione il significato dell’irradiamento e della gloria. La Sapienza increata « è un soffio della potenza di Dio ed un effluvio della gloria pura dell’Onnipotente… perché essa è un irradiamento della luce eterna, uno specchio fedele dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà (Sap. VII, 26) ». L’irradiamento è spiegato dall’effluvio, e la gloria dalla luce. La gloria infatti nella Bibbia non è l’opinione né la riputazione né l’onore; è lo splendore e, per estensione, la bellezza e la maestà. La gloria del Padre è lo splendore e la maestà di Colui che abita una luce inaccessibile, nel quale è la luce, che è egli stesso la luce che non può ecclissarsi né oscurarsi, di cui lo splendore che avvolgeva talora il santuario — la shekinah della teologia ebraica — era il simbolo. Il Figlio non è il suo riflesso — poiché in che cosa potrebbe essere riflesso il Padre? — ma è il suo splendore e, per stringere più da vicino la parola greca ἀπαύγασμα (=apaugasma), il risultato di questo irradiamento. Il Padre è dunque concepito come un sole ardente che dardeggia i suoi raggi; ma mentre nel corpo luminoso da noi conosciuto vi è sempre un nucleo oscuro, alimento o residuo della luce, in Dio, nel quale tutto è luce, l’irradiamento è assoluto e si riverbera in un’immagine uguale a lui. Il Crisostomo ha dunque ragione di vedere nell’irradiamento della gloria del Padre, l’equivalente dell’articolo del Simbolo Lumen de Lumine, e gli altri commentatori greci, seguendo le orme di Origene (In Jerem. Homil.), hanno diritto d’inferire che questo irradiamento, inseparabile dal focolare luminoso da cui emana, è dunque eterno come lui. Però la divinità del Figlio non risulta dallo stesso irradiamento, ma dal fatto che una emanazione di Dio non può essere che sostanziale e infinita. – Il Figlio è anche l’impronta della sostanza del Padre. Occorre appena notare che ὑπόστσις (= upostasis) indica la sostanza e non la persona, poiché questo ultimo significato, estraneo al linguaggio biblico, qui non si potrebbe adattare: come potrebbe infatti il Padre riprodurre nel Figlio, proprio quello che li distingue tra loro? Non bisogna neppure tradurre χαρακτήρ (= karakter) per sigillo, perché il greco non ammette questo significato, e la metafora non si adatterebbe bene all’idea: piuttosto il Padre sarebbe il sigillo che fa di se stesso un’impronta adeguata con tutta l’energia della sua sostanza. Il χαρακτήρ (= karakter) è la linea caratteristica di una persona o di una cosa; si dice particolarmente del ritratto fatto sopra una medaglia, dell’impronta incisa in un conio; Filone gli dà come sinonimi immagine (eikon), copia (mimema), effigie (epeikonisma) – « La natura ragionevole è l’immagine del divino e dell’invisibile, essendo segnata col sigillo di Dio di cui il Logos eterno è l’impronta (De plant. Noe, 5) ». Perciò il Verbo, secondo Filone, non è il sigillo (efraghis) di Dio, ma è l’impronta (caracter) incisa su questo sigillo. – Ma noi oltrepasseremmo il senso del nostro testo, se gli applicassimo il concetto filoniano del Verbo, effigie di Dio, che ci segna a sua immagine e ci rende partecipi della natura divina. L’impronta non è una semplice copia, ma è l’esatta riproduzione del modello, con un’idea di causalità che la parola copia non ci chiama alla mente. Vi è dunque correlazione perfetta tra l’irradiamento e l’impronta: l’uno e l’altra ci offrono l’immagine del Padre e derivano dal Padre. – Figlio, irradiamento, impronta, sono termini quasi sinonimi coi quali si cerca di esprimere con linguaggio umano l’attività intima di Dio. Il Verbo è sempre designato con nomi che esprimono la sua eterna processione e per conseguenza la sua attitudine a rivelarci il Padre che nessuno non vide mai né può vedere se non nel Figlio, sua immagine. Ma sarebbe un grave errore il pensare che, oltre la sua funzione di mediatore e di rivelatore, il Verbo non fosse niente altro: il Figlio sarebbe Figlio, ancorché non avesse da condurci al Padre: la gloria di Dio irradierebbe, ancorché non vi fosse nessuno sguardo estraneo a contemplare il suo irradiamento; altrettanto bisogna dire dell’impronta che il Padre fa della sua sostanza. Questi titoli sono relativi, ma di una relazione intrinseca, necessaria, indipendente dall’esistenza delle creature. Quelli invece di creatore e di conservatore, che ancora dobbiamo esaminare, sono condizionati dall’esistenza degli esseri finiti.
2. Il Figlio è creatore del mondo: « Per mezzo di lui, Dio ha fatto i secoli (Ebr. I, 2) », e non possiamo dubitare che i secoli non siano il complesso delle cose limitate dallo spazio e dal tempo. Nulla prova che il significato gnostico di emanazioni divine, di eoni, fosse già si prende cura di definire i secoli: “Fide intelligimus aptata esse sæcula verbo Dei ut ex invisibilibus visibilio fierent” (XI, 3). I secoli corrispondono ai mondi della teologia ebraica: nel Talmud, Dio è chiamato creatore dei secoli; nella Scrittura, re dei secoli o Dio dei secoli (Tim. I, 17), e s’intendono sempre, per secoli, i mondi. Il Figlio è pure conservatore dell’universo: « Egli sostiene tutto con la sua potente parola (I, 3) ». Se la funzione di creatore sembra subordinata perché viene secondo l’ordine delle processioni divine, quella di conservatore è presentata come indipendente ed assoluta: singolarità apparente, poiché la conservazione delle cose non è che il prolungamento virtuale dell’atto creatore. Forse lo scrittore sacro ci vuol fare intendere che la mediazione del Figlio non implica nessuna dipendenza, e che la sua attività creatrice non è quella di un ministro o di uno strumento. Alcuni Padri videro la divinità e l’attività creatrice del Figlio in un testo che si può tradurre in due maniere: « Colui che ha disposto tutte le cose è Dio », oppure: « è Dio cha ha disposto tutte le cose ». A noi sembra preferibile la seconda traduzione. L’autore ha allora affermato che il Cristo, « apostolo e pontefice della nostra confessione, è stato fedele a Colui che lo ha fatto (apostolo e pontefice), come Mosè in tutta la sua casa », cioè nella casa di Dio. Ma vi sono due differenze: la prima è che Mosè è stato fedele come servo, e il Cristo come Figlio; la seconda è che Mose è una parte della casa di Dio, mentre il Cristo ne è l’ordinatore o il fondatore. Ora è evidente che l’ordinatore di una casa vale di più che la casa stessa o che una parte qualunque di essa, e da ciò risulta la superiorità del Cristo su Mosè. Qui viene il passo discusso: Omnis namque domus fabricatur ab dliquo; qui autem omnia creavit, Deus est, che noi crediamo si debba tradurre così « Poiché ogni casa è disposta da qualcuno; ma è Dio che ha disposto tutte le cose (III, 4) ». Queste parole, non potendo essere la spiegazione dell’ultimo versetto che le precede, perché questo versetto è per sé evidente, si dovranno riferire al penultimo nel quale si dice che il Cristo è stato fedele a Colui che lo ha costituito suo rappresentante, come fu fedele Mosè nella casa di Dio. Benché il Cristo, come pontefice, sia il fondatore e l’ordinatore di questo edificio — perché il suo sacrificio si riverbera sul passato — è Dio che, in fin dei conti, dispone tutte le cose e mette nella sua casa Mosè come servo, e il Cristo come Figlio. – Senza tener conto di questo passo, il Figlio è altrove chiamato Dio. anche con l’articolo determinativo: « Il tuo trono, o Dio, sussiste re nei secoli dei secoli (Ebr. I, 8-9) ». L’autore gli applica senza esitare i testi dell’Antico Testamento il cui soggetto è Jehovah e che esprimono attributi specificamente divini: « Nel principio, Signore, tu hai fondato la terra; e i cieli sono opera delle tue mani; essi periranno, ma tu sussisti in eterno (I, 10-12) ». Che gli Angeli siano tenuti ad adorarlo (I, 6), è la conseguenza prevista e necessaria della sua dignità trascendente. Non si vede che cosa aggiungano il prologo di San Giovanni e le Epistole ai Filippesi e ai Colossesi, a questa affermazione esplicita della divinità del Cristo.
3. Benché sia Dio, Gesù Cristo è pure vero uomo. Già dal seno del Padre, il Figlio domanda che gli sia preparato un corpo (X, 5, 9). Vuole partecipare alla carne e al sangue, come i figli adottivi (II, 14), e diventare simile a loro in tutto, eccetto il peccato (IV, 15; V, 7, 8; VII, 26): così esige il suo compito di sacerdote (II, 17); egli dunque si sottoporrà alla prova e ne uscirà vincitore (II, 18; IV, 13). Possederà in sommo grado tutte le virtù: la confidenza in Dio (II, 13), la fedeltà (II, 17; III, 2), la misericordia (IV, 15), soprattutto l’obbedienza che imparerà alla scuola del dolore (VII, 7, 8). – Eccetto i Vangeli, nessuno scritto ispirato moltiplica di più le allusioni alla vita mortale di Gesù: discendenza dalla tribù di Giuda (VII, 14), progresso in grazia e in sapienza (II, 10; V, 9; VII, 23), segni e prodigi che attestano la sua missione divina (II, 4), tribolazioni e persecuzioni, agonia e preghiera nel giardino degli Ulivi (V, 7), morte volontaria (XII, 2), crocifissione fuori delle porte della città (XIII, 12). Forse il nome di Gesù è scelto a preferenza di Cristo, per inculcare meglio la verità della natura umana. Ma in nessun altro luogo è più perfetta la comunicazione degli idiomi: il Participatio carni et sanguini, con il Corpus aptasti mihi (II, 14), non vale forse, come formola teologica dell’incarnazione, il Verbum caro factum est di San Giovanni o l’In ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corpolariter, di San Paolo? – La vita glorificata del Cristo è rappresentata come il frutto della sua abnegazione e della sua morte. L’ignominia della croce prelude al regno trionfale. Erede del mondo per diritto di nascita, il Figlio diventa erede per un nuovo titolo, per diritto di conquista, e nel tempo stesso acquista il diritto di associare a sé dei coeredi. -Noi riconosciamo qui le idee familiari a Paolo; ma, cosa degna di nota, l’Epistola accenna appena una volta, di passaggio, alla risurrezione (XIII, 20), mentre descrive con compiacenza Gesù, pontefice dell’umanità, che entra nel santuario celeste aperto per sempre, e che siede alla destra del Padre come avvocato e intercessore (IV, 16;VI, 20; VII, 26; IX, 11, 12, 24): — « Avendo compiuto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nel più alto » dei cieli. — « Noi abbiamo un pontefice che si è seduto alla destra del trono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e del tabernacolo vero ». — « Avendo offerto una sola ostia per i peccati, si è seduto per sempre alla destra di Dio ». — « Invece della gioia che gli si offriva, ha sofferto la croce, contando per nulla l’ignominia; e si è seduto alla destra del trono di Dio (I, 3; VIII, 1; X, 12, XII, 2) ». Negli altri scritti del Nuovo Testamento, Gesù prende posto alla destra del Padre come trionfatore, come re, come giudice; nell’Epistola agli Ebrei lo fa soprattutto come sacerdote, e di là continua il suo ufficio di mediatore.