CONOSCERE SAN PAOLO (14)

CONOSCERE SAN PAOLO (14)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

L’Epistola ai Romani (4)

SECONDA SEZIONE (III).

IV. MOTIVI CERTI DELLA NOSTRA SPERANZA.

1. TESTIMONIANZA DELLA CREAZIONE E DELLO SPIRITO SANTO . — 2. TESTIMONIANZA DEL PADRE E DEL FIGLIO. — 3. OPINIONE DIVERGENTE DI SANT’AGOSTINO.

1. La seconda parte dell’Epistola ai Romani si chiude con un canto di trionfo. Paolo non ha mai scritto nulla di più vivo e di più lirico: la commozione ci trasporta con lui, mentre egli svolge le prospettive, belle come sogni, della speranza cristiana. Volgiamo indietro lo sguardo: i nostri tre grandi nemici — quattro, se contiamo la Legge — giacciono impotenti dinanzi alla croce del Salvatore. Il peccato è distrutto « Non vi è più condanna per coloro che sono nel Cristo Gesù (Rom. VIII, 1) ». L a morte è vinta anticipatamente dai germi d’immortalità deposti in noi. La legge che era complice del peccato è abolita. Soltanto la carne lotta ancora contro lo spirito, ma con l’appoggio della grazia, la vittoria è assicurata. Il presente ci garantisce l’avvenire, e la nostra sorte sta nelle nostre mani: « Noi siamo salvi nella speranza », ma la nostra speranza è certa. Per attestare questa connessione stretta, intima e necessaria tra la grazia e la gloria, Paolo si appella a quattro testimoni, la creazione intera, lo Spirito Santo, Dio Padre e Gesù Cristo. Nelle deposizioni di questi quattro testimoni vi è un crescendo di movimento, di luce e di certezza (VIII, 19-39): la creazione materiale, una volta associata, suo malgrado, alla nostra caduta, ha il presentimento e la promessa che sarà un giorno associata alla nostra glorificazione. — Lo Spirito Santo ci dà quaggiù tanti pegni della beatitudine, che ce ne assicura il possesso. — Dio Padre ha stabilito un nesso naturale tra gli effetti della sua misericordia, i quali si chiamano a vicenda, dalla prima scintilla della fede fino alla chiara visione del cielo. — Finalmente l’amore di Gesù Cristo per noi, parla un linguaggio ancora più eloquente, e noi sappiamo che nulla non ci potrà separare da lui, eccetto noi medesimi. Ascoltiamo prima la voce della creazione: “Nella sua attesa ansiosa, la creazione aspira alla manifestazione dei figli di Dio. Poiché la creazione è stata assoggettata alla vanità, non di buon grado ma per causa di colui che ve l’ha sottomessa, con la speranza che essa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per (partecipare a) la libertà gloriosa dei figli di Dio. Poiché noi sappiamo che finora la creazione tutta quanta geme e soffre i dolori del parto” (ivi, 19-22). – « Sottoposta suo malgrado alla vanità », la natura materiale è ora asservita ad un padrone che la profana e la prostituisce. – San Paolo le dà la vita e il sentimento: ci fa udire i suoi lamenti; e la descrive fremente sotto un giogo abborrito, che sospira la liberazione; poiché essa sa che la sua schiavitù avrà fine, e che la sua glorificazione è legata alla nostra: Dio gliene fece formale promessa quando la obbligò a servire un certo tempo ai ribelli. Con una parola di forza intraducibile (ἀποκαραδοκία = apokaradokia) ce la rappresenta a testa alta, con l’occhio ardentemente fisso ai termine ancora lontano della sua speranza. Non cerchiamo però in questa ipotiposi quello che l’Apostolo non ha pensato di mettervi; egli non parla in nessun luogo di un rinnovamento fisico della natura: i nuovi cieli e la nuova terra, comunque si intendano, sono estranei alla sua escatologia. Egli si fa soltanto interprete dei voti della creazione, certo che lo stato violento in cui il peccato l’ha messa, cesserà nel momento fissato per la nostra trasformazione gloriosa. – La testimonianza dello Spirito Santo è più distinta che quella della natura e soprattutto è più intima. Con i desideri che ci suggerisce, con le preghiere che ci mette su le labbra, con la sua stessa presenza, egli attesta la nostra gloria futura. Con la grazia santificante, con i doni inerenti ai sacramenti, senza parlare dei carismi che sono soltanto dei privilegiati, noi possediamo fin di quaggiù le primizie dello Spirito Santo; ora le primizie sono l’annunzio della messe. Ma mentre tra le primizie e il raccolto possono sorgere mille accidenti, tra la gloria e la grazia che ne è il germe, non vi è altro pericolo da temere, che la nostra incostanza. Nell’attesa, l’ospite delle nostre anime non rimane inoperoso: i desideri che c’ispira si manifestano perché hanno per oggetto quello che l’occhio dell’uomo non ha veduto, né il suo orecchio ha udito, né il cuore ha compreso. Né questi desideri, né questi gemiti non saranno vani, perché hanno per autore lo stesso Spirito di verità. Lo stesso è delle preghiere che Egli fa in noi senza di noi, sapendo meglio di noi quello che ci conviene domandare. Quando egli fa salire alle nostre labbra quel none di Padre: Abba, Pater, rende testimonianza per noi della nostra natura adottiva. « Ma se noi siamo figli, siamo eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo; purché noi soffriamo con lui, per essere glorificati con lui ». Una parte della nostra eredità, la principale, è la gloria celeste. Noi non la possediamo ancora, perché siamo soltanto salvi nella speranza; ma vi abbiamo diritto, e nessuno non ci può diseredare senza il nostro consenso. Tale è — come è espressa in questo passo — la triplice testimonianza dello Spirito Santo.

2. Se la creazione intera aspira alla nostra glorificazione futura, se lo Spirito Santo ce ne suggerisce il desiderio e la domanda, è il Padre che ce ne dà l’assicurazione formale. “Noi sappiamo che egli fa tutto concorrere al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo il proponimento. Perché coloro che ha preveduti, li ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine di suo Figlio, affinché questi sia il primogenito tra molti fratelli.

Ma quelli che ha predestinati li ha pure chiamati.

E quelli che ha chiamati li ha pure giustificati.

E quelli che ha giustificati li ha pure glorificati.

Che cosa diremo a tali cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha dato per noi, come non ci darà con lui tutto il resto? Chi accuserà gli eletti di Dio? È Dio che giustifica, chi condannerà?” (Rom. VIII, 30). – Il principio di questo passo ne è pure la chiave; ma esso solleva due controversie: una secondaria, benché non priva d’importanza; l’altra capitale e decisiva per l’intelligenza del testo. Qual è il soggetto della frase? È la parola « tutto » (πάντα = panta) e bisogna tradurre: « Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio »? Oppure è « Dio » che è stato nominato poco prima e che è così facile a sottintendere in una proposizione di questa natura? Allora il senso sarebbe: « A quelli che amano Dio, Egli viene in aiuto in tutto per il bene »; oppure, dando al verbo greco il senso transitivo che può benissimo avere: « Dio fa tutto concorrere al bene di coloro che lo amano (Rom. VIII, 28) ». Tre ragioni principali mi fanno preferire quest’ultima traduzione: anzitutto l’autorità dei Padri greci più sensibili alle leggere sfumature della loro lingua; poi la parola adoperata (συνεργεῖν = sunerghein) che si dice meglio di persone che non di cose, e la cui particella componente sembra indicare un concorso di causalità, un’azione comune; finalmente il contesto che esige un medesimo soggetto per questa frase e per la seguente il cui soggetto è certamente Dio, benché Dio non vi sia nominato. – Del resto, ripeto, questa questione di filologia è secondaria. – Non così è l’altro problema, perché si tratta di sapere se le parole « chiamati secondo il proponimento » spiegano le parole « che amano Dio », con cui si trovano come apposizione, o se invece le restringono; in altri termini, se tutti quelli che amano Dio sono chiamati secondo il proponimento, o se questi ultimi formano come una classe privilegiata tra gli amici di Dio. Nella prima ipotesi, il concorso dell’aiuto di Dio, di cui parla San Paolo, non sarebbe promesso che ad una categoria di Cristiani, a quelli che Dio chiamò secondo il proponimento; nella seconda, è promesso a tutti i giusti. Noi accettiamo senza nessuna esitazione la seconda ipotesi, fondandoci sul linguaggio costante di San Paolo, sul suo presente ragionamento e su la tradizione patristica. Si sa che per l’Apostolo la vocazione (κλῆις = klesis) è sempre la chiamata efficace alla fede; i chiamati (κλητοί = kletoi) sono quelli che di fatto hanno risposto alla chiamata di Dio. È dunque quasi un sinonimo di Cristiani, ma con un’allusione all’azione preveniente di Dio. La distinzione delle due classi di chiamati dei quali gli uni vengono e gli altri no — distinzione che si può giustificare con la parabola degli invitati, in San Matteo — è affatto estranea al modo di pensare di Paolo. Per lui tutti i chiamati sono chiamati necessariamente secondo il proponimento, cioè secondo il disegno benevolo di Dio, perché il proponimento (πρόθεσις = protesis), quale egli lo intende, ha per oggetto il conferimento della grazia santificante e non già, almeno direttamente, della gloria celeste. Ne segue che aggiungendo « coloro che sono chiamati secondo il proponimento », egli non intende nè di lomitare né di restringere la sua asserzione precedente, ma esprime soltanto il motivo della benevolenza divina verso tutti quelli che amano Dio: questo motivo è la chiamata alla fede di cui sono stati favoriti. Sé restasse ancora un’ombra di dubbio, la dissiperebbe l’argomentazione dell’Apostolo. Nella seconda parte dell’Epistola ai Romani, e specialmente al capitolo VIII, enumera le nostre innumerevoli ragioni di sperare; parla a tutti i Cristiani, perché tutti sono tenuti alla speranza. Il suo ragionamento viene a dire che Dio compirà l’opera sua, che la grazia è un germe di gloria, che le tre Persone divine ci sono favorevoli, e che l’ostacolo alla nostra salute non può venire che da noi. Dio Padre « fa tutto concorrere al bene di coloro che lo amano, di quelli che ha chiamati secondo il suo proponimento » benevolo; perché chiamandoli dà loro un pegno prezioso e una garanzia sicura dei suoi futuri benefizi. Se le parole « chiamati secondo il proponimento » restringessero il senso degli « amici di Dio », invece di spiegarlo, l’Apostolo ragionerebbe così: Tutti devono sperare, perché alcuni sono protetti da Dio contro ogni eventualità; la speranza di tutti i Cristiani è certa, perché i predestinati ne otterranno infallibilmente l’effetto. Non si potrebbe argomentare con meno di logica: che meraviglia dunque se i Padri non intesero così il Dottore delle genti? – Quando certi esegeti danno alla chiamata divina secondo il proponimento un senso limitativo, col pretesto che di fatto non tutti concorrono al bene degli amici di Dio, poiché parecchi, cessando di amarlo, cadono in sua disgrazia, essi non riflettono che Paolo parla delle disposizioni di Dio verso i giusti. Queste disposizioni benevole sono universali, benché possano essere contrastate dal libero arbitrio dell’uomo. Tutti devono dire con l’Apostolo: Si Deus prò nobis, quis contra nos? La condizione della nostra cooperazione è sottintesa; il pericolo della nostra fragile volontà anche; perciò, nonostante tutte le assicurazioni, il timore, così spesso inculcato da San Paolo e dai suoi colleghi di apostolato, rimane sempre utile e necessario. Ma la questione non sta qui: come abbiamo detto e come non si ripeterebbe mai abbastanza, la fermezza incrollatale della nostra speranza deriva da Dio e non da noi. Ora l’aiuto divino ci è assicurato, perché la lunga serie dei benefizi di Dio è per noi una prova autentica del suo perseverante amore. Ma, forse si dirà, perché la vocazione alla fede è una garanzia sicura delle disposizioni benevole del Padre verso di noi? Perché  essa non ha in se stessa la sua finalità e risale fino alle profondità dei consigli divini: è una « chiamata secondo il proponimento ». Questo proponimento è il proponimento di Dio, e non il proponimento dell’uomo: la sollecitudine esagerata di salvaguardare il libero arbitrio e il timore eccessivo del fatalismo gnostico, fecero in altri tempi preferire ad alcuni Padri greci la seconda interpretazione; ma non vi è più nessuna ragione di attenuare il pensiero di Paolo, che diventerebbe un enigma indecifrabile, se fondasse la nostra speranza su l’appoggio vacillante delle disposizioni umane. – Gli atti di Dio relativi alla nostra salute s’incatenano l’uno con l’altro e si succedono in quest’ordine:

Prescienza.

Predestinazione o proponimento.

Vocazione o elezione.

Giustificazione.

Glorificazione.

La vocazione o chiamata efficace alla fede è un atto intermedio che precede la giustificazione e la glorificazione, e succede alla prescienza e alla predestinazione. La predestinazione non è la prescienza, e il confondere queste due cose, come fanno Calvino ed Estio, il quale ordinariamente è meglio ispirato, è attribuire a Paolo un’intollerabile tautologia. Molto più saggia è la distinzione di San Tommaso il quale vede nella prescienza un atto dell’intelligenza, e nella predestinazione un atto della volontà. Se conoscere anticipatamente equivalesse ad amare anticipatamente, questo amore non sarebbe illuminato dalla prescienza; ora come si può attribuire a Dio questo amore cieco? La volontà segue l’intelligenza e non la precede. Certamente Dio, vedendo il bene, non può impedirsi di amarlo, come vedendo il male non può impedirsi di odiarlo; ma non ne segue, neppure per Dio, che il prevedere o il conoscere anticipatamente significhi approvare, amare anticipatamente. Si cerchi quanto si vuole, nella Scrittura o altrove, un esempio di questo significato così strano, ma non si troverà. Essendo dunque la prescienza un atto dell’intelligenza, e non avendo lo sguardo divino fissato nell’avvenire, nessun orizzonte che lo imiti, bisognerà dedurre la limitazione dallo stesso contesto, poiché è evidente che in questa espressione: « Quelli che ha preveduti li ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine di suo Figlio (Ro. VIII, 29) », i due verbi hanno la stessa estensione, e questa estensione non può essere universale, poiché di fatto non tutti gli uomini ricevono la filiazione adottiva. La limitazione del pronome relativo si può trovare in quello che precede, « coloro che amano Dio, coloro che sono chiamati secondo il proponimento »; oppure in quello che segue, «predestinati ad essere conformi all’immagine di suo Figlio ». L a prima costruzione è più naturale e molto più semplice, in quanto che la particella causativa (ὅτι = oti), più espressivo che nam, unisce intimamente i due membri e c’invita, se non vogliamo imputare à Paolo un sofisma, a cercare nel secondo l’enumerazione dei benefizi di Dio verso quelli che lo amano e che furono favoriti del dono iniziale della fede. Ma in fondo il senso non cambia, e resta sempre vero che le espressioni « coloro che amano Dio, coloro che ha chiamati secondo il proponimento, coloro che ha conosciuto anticipatamente, coloro che ha predestinati » hanno la medesima estensione e si applicano alle medesime persone. – So benissimo che i commentatori non sono concordi sul significato dell’inciso « essere conformi all’immagine del Figlio ». Mentre la maggior parte e i più autorevoli intendono questa conformità come la somiglianza, ancora imperfetta ma assai reale, che conferisca la grazia santificante, alcuni vedono in essa l’assimilazione consumate che dà la gloria celeste. Sotto l’aspetto teologico, questa diversità di opinioni non ha importanza, poiché la chiamata efficace alla fede e la perseveranza finale si risolvono con gli stessi principi. Ma se vogliamo stare ai testi di San Paolo, hanno ragione i primi. Infatti nel suo linguaggio « predestinare » non ha mai come termine — almeno come termine esclusivo — la gloria del cielo. Dio predestina l’uomo alla grazia o la grazia all’uomo; Egli ci ha predestinati alla filiazione adottiva, e questa libazione è pienamente nostra fino da questa vita. Di modo che, per San Paolo, tutti i giusti sono predestinati nel senso che tutti sono chiamati e tutti eletti, poiché la vocazione e l’elezione sono per lui due parole sinonime, con un’idea di preferenza o di scelta nell’elezione, idea che la vocazione, per sé, non contiene. Se si riflette alla maniera con cui l’Apostolo suole descrivere la nostra conformità con Gesù Cristo, che egli suppone compiuta fin da questa vita, all’universalità, delle sue espressioni le quali abbracciano tutti coloro che amano Dio, cioè tutti i giusti, al vincolo che egli sempre stabilisce tra la vocazione assoluta alla grazia della fede e l’elezione condizionale alla gloria celeste, al suo manifesto disegno di fondare la nostra speranza sopra una base sicura, alla sua cura di presentare la nostra glorificazione come già effettuata in questa vita, almeno in diritto e in potenza se non di fatto e in atto, si troverà certamente che è assai più plausibile l’opinione comune. Per la grazia santificante noi partecipiamo gradatamente alla forma del Figlio; per essa il Cristo diventa il primogenito tra molti fratelli; San Paolo c’invita a trasformarci in tale maniera e ci indica il mezzo di ottenere, fino da questo mondo, tale metamorfosi. – Aggiungiamo soltanto che la conformità all’immagine del Figlio, operata dalla grazia e dalla filiazione adottiva, non si deve considerare come una cosa diversa dalla somiglianza completa conferita al termine della prova. Premesso questo, il testo corre senza difficoltà: « Coloro che ha predestinati (ad essere conformi all’immagine di suo Figlio), li ha pure chiamati; e coloro che ha chiamati, li ha pure giustificati; e coloro che ha giustificati li ha pure glorificati'(Rom. VIII, 30) ». La chiamata efficace alla fede — è sempre quello che intende San Paolo — segue infallibilmente la predestinazione a questa stessa chiamata, come la giustificazione è legata alla vocazione, e la glorificazione al dono della giustizia. Lo stato glorioso di cui parla l’Apostolo, è quello dei giusti della terra, oppure quello degli eletti del cielo! San Tommaso si fa tale questione, ma la lascia indecisa. Invece San Giovanni Crisostomo e gli altri Padri greci stanno risolutamente per il primo significato. Essi vi sono naturalmente indotti dal tempo passato del verbo (εδόξασεν = edoxasen) che altrimenti si dovrebbe prendere o come un passato prolettico o come un aoristo gnomico o di abitudine, significati rarissimi nel Nuovo Testamento. È certo che la gloria concessa da. Dio agli uomini deve qualche volta intendersi, quando lo esige il contesto, della beatitudine celeste; ma essa significa non meno frequentemente la condizione gloriosa inerente alla grazia santificante. Noi pensiamo che San Paolo indichi per modum unius l’una e l’altra; così si evita di fare violenza alla lingua, poiché la glorificazione assicurata da parte di Dio, è già incominciata nel fatto e nel principio; si soddisfa allo scopo presente dell’Apostolo, che è di confermare la nostra speranza con i benefizi ricevuti da Dio; finalmente ci conformiamo alla sua ben nota abitudine di presentare la salute come un favore di cui già godiamo e che tuttavia dobbiamo sperare. Paolo non suole stabilire tra la grazia e la gloria, tra l’elezione iniziale e la salute finale, quella rigorosa linea di divisione che è nelle nostre abitudini mentali; per lui non vi è soluzione di continuità: la grazia si trasforma spontaneamente in gloria. Resta ancora la testimonianza del Figlio, la quale corrobora e spiega la testimonianza del Padre: “È Dio che giustifica; chi (ci) condannerà? Il Cristo Gesù che è morto, o meglio risuscitato, che siede alla destra di Dio, Egli che intercede per noi! Chi potrà separarci dall’amore del Cristo?… Sono certo che né la morte, né la vita; né gli Angeli, né le potestà, né il presente, né il futuro, né le altezze, né l’abisso, né alcun’altra creatura ci potrà separare dall’amore di Dio che è nel Cristo Gesù Nostro Signore (Romani VIII, 33-35). Ecco il trionfo della speranza: essa si estende a tutti i giusti e non è il privilegio di pochi, poiché la carità del Cristo abbraccia tutti coloro che lo amano. Noi abbiamo quattro prove insigni dell’amore che Gesù Cristo ci porta. Egli è morto per giustificarci; è risuscitato per associarci alla sua gloria; siede alla destra del Padre per farci regnare con Lui; continua a intercedere per noi. I due primi pegni sussistono nei loro effetti; i due ultimi ci garantiscono l’efficacia di questo amore. La nostra sicurezza non è una semplice persuasione, ma è una certezza di fede: nulla ci può separare dal Cristo, eccetto noi medesimi. Sotto questo riguardo, la certezza è condizionale, poiché se è impossibile dubitare dell’amore del Cristo per noi, non possiamo dire senza presunzione, che il nostro amore per il Cristo non verrà mai meno. – Terminando, Paolo unisce in una sola testimonianza la promessa del Figlio e del Padre, e ci presenta come supremo motivo di speranza « l’amore di Dio che è nel Cristo Gesù », l’amore che ci porta il Padre in considerazione di Gesù Cristo che ci ha tanto amati.

3. Questa interpretazione, fedele per quanto è possibile, del pensiero di Paolo, è conforme al sentimento comune dei Padri greci e latini. Tutti, eccetto Sant’Agostino della seconda maniera, sono concordi su questi tre punti: La prescienza che è essenzialmente un atto dell’intelligenza, precede la predestinazione e la dirige, non essendo i giusti conosciuti anticipatamente perché sono predestinati, ma essendo predestinati perché sono stati conosciuti anticipatamente. — La predestinazione è un atto della volontà conseguente di Dio; essa si riferisce, nel testo di San Paolo, al dono della grazia efficace e non direttamente al dono della gloria celeste. — In questo medesimo testo le espressioni conosciuti anticipatamente, predestinati, chiamati, giustificati, molto probabilmente anche glorificati, indicano le stesse persone, gli amici di Dio, i Cristiani la cui fede è vivificata dalla carità. – È vero che Sant’Agostino, alla fine della sua carriera, abbandonò la via battuta per entrare in nuove vie fino allora sconosciute ai suoi predecessori? Nel 428, due anni prima della sua morte, il suo discepolo Prospero di Aquitania gli presentava questa questione che egli giudicava molto imbarazzante: « Come mai quasi tutti i nostri predecessori, con unanime accordo, fanno dipendere dalla prescienza il proponimento e la predestinazione di Dio, di modo che Dio costituisce gli uni vasi di onore, e gli altri vasi d’ignominia, perché prevede la fine di ciascuno e sa in precedenza quale sarà la loro volontà e la loro azione col concorso della grazia divina? (Migne XLIV, 953) ». Sant’Agostino non contesta il fatto; egli si limita a dire che, prima della nascita del pelagianesimo, i suoi predecessori non avevano da insistere su la necessità della grazia, che in fondo essi non sono contrari alla sua dottrina, e che egli potrebbe anche valersene per difenderla, Tutto questo è perfettamente esatto; bisognava però che ci fossero tra loro e lui, o nel modo di parlare, o nella maniera di proporre la tesi, o sotto l’aspetto generale, differenze abbastanza considerevoli, perché Prospero ne fosse così impressionato. La storia delle sue variazioni, istruttiva sotto molti aspetti, ci aiuta a capirlo. – Fino al 394, il vescovo d’Ippona collegava la chiamata secondo il proponimento con la prescienza divina e scriveva senza esitare: « Dio predestina soltanto colui il quale prevede che dovrà credere e seguire la chiamata divina »; o anche: « Colui che Dio prevede che dovrà credere, lo ha eletto per dargli lo Spirito Santo ». Egli mantiene così il problema sul suo vero terreno, cioè la chiamata efficace alla fede. Disgraziatamente, come si vede dai suoi scritti e come egli confesserà esplicitamente più tardi, egli intendeva allora in modo sbagliato il potere che noi abbiamo di rispondere alla chiamata divina. Egli pensava non soltanto che noi siamo liberi di credere o di non credere — il che ha sempre ammesso — ma che la fede è cosa nostra, mentre le opere sono di Dio; cosa che non si può affatto ammettere. Questa falsa distinzione che egli un giorno biasimerà con ragione negli eretici, fa davvero stupire in lui, perché è formalmente contraria al testo di San Paolo e non ha nessun fondamento nell’esegesi degli altri Padri. Egli non mancherà di ritrattarla più tardi, per sostituirle la formula ortodossa che ogni atto salutare viene da Dio, così la fede come le opere. – Però la sua esegesi non seguì il progresso della sua teologia. Negli ultimi anni della sua vita, egli si preoccupò soprattutto della perseveranza finale e le applicò il passo in cui Paolo tratta della chiamata efficace alla fede. Il problema dell’Apostolo così veniva spostato e, dalla predestinazione alla grazia, era trasportato dalla predestinazione alla gloria. Per la teologia l’inconveniente non era grave, poiché le due questioni sono connesse e si possono risolvere con i medesimi principi, ma non così era per l’esegesi. Le asserzioni di San Paolo prendevano una direzione ed un’ampiezza che egli non aveva voluto dare loro, e il suo scopo manifesto, di dare a tutti i giusti un motivo di speranza, non veniva riconosciuto. Questa prima deviazione doveva portarne con sé un’altra. Dal momento che egli intendeva la predestinazione come predestinazione alla gloria celeste, Agostino dovette immaginare una doppia chiamata divina, non più, come una volta, una chiamata efficace e una chiamata inefficace, secondo la risposta affermativa o negativa della volontà umana, ma due chiamate efficaci, una delle quali è secondo il proponimento di Dio, poiché dev’essere incoronata dalla perseveranza finale, mentre l’altra non sarebbe secondo il proponimento, poiché nei disegni di Dio non sarebbe destinata a durare sempre. Qui il linguaggio di Sant’Agostino diventava addirittura insolito: nessuno prima di lui, se si eccettua l’Ambrosiastro, aveva concepito una vocazione efficace alla fede, la quale non fosse secondo il proponimento. Questa diversità di linguaggio dimostra che il pensiero di Agostino e quello dei suoi predecessori non si svolgevano nelle stesse sfere; né San Paolo né i suoi interpreti fanno una teoria completa della predestinazione; essi partono da un fatto — lo stato dell’uomo giusto — e dimostrano che questo stato racchiude in se stesso un motivo certo di speranza poiché è una garanzia sicura della benevolenza e della protezione perseverante del Padre celeste. Ma il vescovo d’Ippona vuole scrutare le profondità dei consigli divini e vede chiaramente che deve risalire più alto ancora che la prescienza, altrimenti l’iniziativa della salute apparterrebbe all’uomo. Che cosa è infatti la prescienza, se non la previsione dell’atto umano sotto l’influenza della grazia divina? Il decreto generale di un ordine di grazia e l’offerta individuale della grazia precedono dunque logicamente la prescienza stessa, e questa non sarebbe il primo degli atti divini nell’affare della nostra salute. Questo non negano gli altri Padri, e San Paolo spesso lo insegna quando parla del disegno della redenzione; ma egli ne fa astrazione nei testi di cui qui ci occupiamo. – Ne segue che Sant’Agostino e gli altri Padri sono molto più concordi di quanto potrebbe far credere un semplice sguardo superficiale. Tutti sanno benissimo che il concorso dell’uomo alla chiamata divina suppone la grazia, senza la quale questo concorso non si può neppure concepire; essi differiscono come esegeti e non come teologi. L’esegesi ordinaria, studiando i testi di San Paolo, considera l’uomo dopo l’uso della libertà e assicura abbastanza l’iniziativa di Dio, poiché nell’ordine della salute niente è possibile senza la vocazione che dipende soltanto da Dio. Tuttavia, a prima vista, la differenza tra due uomini chiamati nella stessa maniera, dei quali uno risponde alla chiamata mentre l’altro vi resiste, sembrerebbe che stia nel loro atto libero. Sant’Agostino porta la questione più lontano e più in alto, prima del momento in cui l’uomo fa uso della sua libertà, e stabilisce che lo stesso atto di fede è un dono di Dio. Colui che di fatto risponde alla chiamata divina, può non aver ricevuto più di aiuto, ma certo ha ricevuto un maggiore benefìzio e perciò più di grazia, e anche, in un certo senso, più di aiuto, poiché l’ha ricevuto nel momento opportuno. Una chiamata resa efficace dalla corrispondenza effettiva dell’uomo è un favore più grande che la medesima chiamata non seguita da effetto per la resistenza della libera volontà. Ora la ragione ultima di tale predilezione divina che chiama un uomo nel momento in cui Dio prevede che egli risponderà alla chiamata, non può consistere nell’atto stesso dell’uomo e neppure nella previsione di questo atto: è il mistero della distribuzione delle grazie che Dio, in virtù della sua prescienza, sa che dovranno essere efficaci per uno e inefficaci per un altro; mistero che strappa a San Paolo questa esclamazione: 0 altitudo!

[Continua …]