DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2018)
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps CXVIII:137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam. [Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]
Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini. [Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam. [Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]
Oratio
Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, pópulo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári. [O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6
“Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in saecula sæculórum. Amen.”
Omelia I
[Mons. G. Bonomelli, Omelie, vol. IV, Torino 1899 – Omelia IX].
” Io, prigioniero nel Signore, vi scongiuro a vivere degnamente secondo la vocazione alla quale foste chiamati. Con ogni umiltà e mansuetudine, sopportandovi con longanimità gli uni gli altri in carità. Usando ogni cura in mantenere l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un corpo ed uno spirito, come già voi foste chiamati in una sola speranza della vostra vocazione. Un Signore, una fede, un battesimo, un Dio, e padre di tutti, il quale è sopra tutti e per tutti e in tutti noi. „ (Agli Efesini, capo IV, 1-6).
Là dove si chiudeva il commento dell’omelia settima, comincia precisamente questo dell’odierna Epistola di S. Paolo agli Efesini. I versetti che vi devo spiegare sono pochi di numero, soltanto sei, ma ripieni dei più alti e pratici documenti, talché ciascuno potrebbe fornire argomento ad un discorso. Scopo dell’Apostolo in essi è di esortare caldamente i fedeli a comportarsi da Cristiani, conservando la concordia, ed accenna in poche parole i princîpi e le cause che devono generare ed alimentare questa concordia. L’avervi accennato il soggetto capitale di questo commento è più che bastevole stimolo alla vostra attenzione. “Io, prigioniero nel Signore, vi scongiuro a vivere degnamente secondo la vocazione, alla quale foste chiamati. „ Non posso nascondere a voi, o carissimi, il senso profondo che io provo nel mio cuore al solo leggere le prime parole di questo versetto, quale si trova nella Volgata: “Obsecro vos — Vi scongiuro. „ Chi è colui che esorta, che prega, che scongiura? È Paolo apostolo, che porta sul suo corpo le stimmate di Cristo, che fu chiamato da Lui stesso vaso eletto, che ha lavorato e sofferto più di tutti gli altri Apostoli; è Paolo apostolo, che da Gerusalemme fu condotto a Roma carico di catene, attraverso ad infiniti pericoli e patimenti, e che detta queste righe dal fondo del suo carcere, a pochi metri dal palazzo imperiale, dove Nerone sta preparando lo sterminio dei Cristiani; lo dice egli stesso, l’Apostolo, con un accento di santo orgoglio e come un titolo sopra tutti efficacissimo per ottenere ciò che domanda: “Io, prigioniero nel Signore, cioè, per il Signore, per la causa del suo Vangelo, vi scongiuro. „ E a chi rivolge queste parole sì accese? Ai suoi figli di Efeso, ch’egli ha guadagnato a Cristo con la sua parola, con la sua carità e con i suoi miracoli. Ma come? Paolo apostolo, già vecchio, già martire tante volte per Cristo, già presso alla corona, rivestito di quella eccelsa autorità, ch’egli ricevette da Cristo stesso in modo al tutto straordinario, prega, anzi scongiura i fedeli, i suoi figliuoli? Ma dimentica egli la sua dignità, il potere che tiene? Perché pregare e scongiurare quelli che gli sono di tanto sotto ogni rispetto inferiori? Perché non comandare? No, Paolo non dimentica la propria dignità, il proprio potere, e al bisogno saprà usarne; Paolo, formato alla scuola di Gesù Cristo, al comandare preferisce il pregare: sa d’essere padre e ne tiene il linguaggio pieno di tenerezza: sa che l’autorità è un officio, un ministero, un vero servizio; che il comando può offendere l’amor proprio, mentre la preghiera lo vince e lo guadagna, e perciò non scrive: “Io, prigioniero nei Signore, vi comando, ma sì vi prego, vi scongiuro: Obsecro vos ego vinctus in Domino. „ Questo linguaggio, tutto umiltà ed amore, esprime l’indole, l’intima natura del Vangelo, e ci fa sentire quanta differenza corra tra il potere laico, che usa l’impero e la forza, e l’autorità ecclesiastica, che usa la persuasione e la preghiera: Obsecro vos. Quella parola “prigioniero nel Signore „ è d’una forza e d’una eloquenza meravigliosa, e messa lì con un’arte da sommo oratore. È una sola parola: “Vinctus — prigioniero; „ non si diffonde a descrivere i suoi dolori, le privazioni, le noie e l’orrore del carcere; tutto questo lo lascia immaginare ai suoi figli, e si direbbe che ama nascondere tutto questo per non amareggiarli, e perciò racchiude tutto in una sola parola; “io prigioniero. „ Per ottenere ciò che vuole dagli Efesini, più che della sua autorità, si vale del suo stato di prigioniero per la fede: Obsecro vos ego vinctus in Domino. Quanta delicatezza e quanta forza di dire! Carissimi! Quale esempio per tutti quelli che esercitano un potere qualunque, sia nella società domestica, come i genitori e i padroni, sia nella società civile e politica, sia nella società ecclesiastica! In luogo della parola voglio, comando, impongo, usiamo, se le circostanze particolari lo permettono, usiamo le parole: vi prego, vi supplico, se vi piace, se non vi è grave, e con queste assai volte otterremo ciò che non otterremmo con quelle. Così vuole il sentimento della fratellanza, che abbiamo tra noi, e la eguaglianza dinanzi a Dio: così vuole la prudenza e il rispetto che dobbiamo ai nostri fratelli, che, quantunque inferiori, non cessano mai d’essere fratelli e l’amor proprio dei quali facilmente si offende con un linguaggio altezzoso ed imperioso. Paolo prega e scongiura i suoi fedeli di Efeso: e di che cosa li prega e li scongiura? “A vivere degnamente secondo la vocazione, alla quale foste chiamati, „ che è quanto dire, la vocazione di Cristiani. La vocazione cristiana comprende tutto l’insegnamento teorico e pratico, il simbolo e il decalogo, che il Cristiano deve professare e praticare. Il soldato, che volontariamente segue un capitano e si schiera sotto il suo vessillo, giurando fedeltà in faccia alla sua coscienza ed in faccia agli uomini, è tenuto a mostrarsi degno del suo capitano e del suo vessillo. Ora chi è il Cristiano? È un uomo che ha il dovere di seguire Gesù Cristo e volontariamente si è schierato sotto la sua bandiera: egli, in faccia al cielo ed alla terra, per il Battesimo, per la Cresima, ricevendo la sua Eucaristia, ed in cento altri modi, ha solennemente dichiarato d’avere per legge il Vangelo di Gesù Cristo, per vessillo la sua croce, che la sua professione è quella di Cristiano, n’andasse la vita e l’onore. Egli dunque nella sua fede, nella sua condotta, nelle sue opere, in ogni luogo, in ogni tempo, in qualunque condizione, non deve né dire, né fare, e nemmeno pensare o desiderare cosa che non sia conforme alla sua vocazione di Cristiano. Chiunque lo veda, o l’ascolti, o consideri la sua condotta, deve dire: Ecco un Cristiano che fa onore alla sua vocazione, al nome che porta. Esaminando noi stessi alla luce della verità, troviamo noi di essere sempre vissuti e di vivere al presente in modo degno della nostra vocazione? Ohimè! Quante volte venimmo meno a questa vocazione, e pur professandoci, a parole Cristiani, con le opere facemmo oltraggio al nome glorioso che portiamo! Deh! per l’avvenire viviamo come vuole l’Apostolo: ” Vi scongiuro, io prigioniero nel Signore, a procedere secondo la vocazione, alla quale foste chiamati. „ – Dalle esortazioni in genere S. Paolo discende al particolare, e dice in che devono i Cristiani mostrarsi pari all’alta loro vocazione. Uditelo: “Con ogni umiltà e mansuetudine, sopportandovi gli uni gli altri con longanimità.,, Nell’esercizio principalmente di due virtù, che poi si riducono ad una sola, vuole l’Apostolo che i Cristiani vivano secondo la loro vocazione, e sono l’umiltà e la mansuetudine, le quali due virtù sono fra loro inseparabili. Si dice umile chi sente bassamente di sé, dirò meglio, chi giudica se stesso secondo verità e conosce d’essere nulla, e per tale vuol essere trattato; mansueto è chi si rimette all’altrui giudizio e senza offendersi si lascia piegare e lavorare qual molle cera. – Il perché voi tutti comprendete che la mansuetudine è figlia della umiltà, per guisa che dove è quella, questa pure è forza vi sia. È cosa degna di osservazione, l’Apostolo volendo accennare le virtù principali onde deve onorarsi la vocazione cristiana, mette in primo luogo l’umiltà e la mansuetudine. Né qui s’arresta, ma vuole che codesta mansuetudine tocchi il sommo grado in quella, ch’egli chiama longanimità, che è quella pazienza che non si affanna mai, che è sempre eguale, inalterabile, che non conosce l’ira: mansuetudine e longanimità che naturalmente si esercitano, tollerando i nostri difetti, che è cosa facile, e i difetti dei fratelli, che è cosa assai difficile: Supportantes invicem. E nel sopportare le molestie, i difetti, e sopratutto le offese fatteci, che appariranno la nostra umiltà e la nostra mansuetudine. E stile dell’Apostolo addossare le frasi, e le parole, e i concetti, ma in guisa che l’uno sia o causa o effetto dell’altro. Egli ha nominato due virtù principalissime del Cristiano, l’umiltà e la mansuetudine; poi vuole che questa al bisogno diventi anche longanimità, massime nella convivenza sociale; ma tosto alla sua mente si affaccia la domanda: Ma donde si potrà attingere la forza della longanimità in mezzo alle tante asprezze della vita? – Dalla virtù, madre di tutte le virtù, e perciò soggiunge: ” Sopportandovi gli uni gli altri con longanimità nella carità, „ quasi dicesse: È la carità la sorgente perenne e vivace della mansuetudine e della longanimità. Io immagino la società domestica, la famiglia; la società più in grande, la parrocchia o il comune; la società più in grande ancora, la Nazione, lo Stato, in cui le virtù raccomandate e sì spesso inculcate da S. Paolo, l’umiltà, la mansuetudine, la longanimità, figlie tutte della carità, fossero esattamente osservate, e dico: la terra non sarebbe essa mutata in un paradiso ? Quanti mali rimossi e quanta felicità vi regnerebbe! Ah se la Religione Cristiana informasse davvero la società umana, che potremmo mai desiderare? Ma giova tener dietro all’Apostolo, che prosegue e scrive: “Usando ogni cura in mantenere l’unità dello spirito nel vincolo della pace. „ Le virtù sopra dall’Apostolo accennate, nutrite dalla carità, vi porranno in cuore una cura continua, uno studio amoroso di conservare l’unità dello spirito, che ne sarà uno dei frutti più preziosi. Quanto ai corpi noi siamo separati: lo spazio ed il tempo necessariamente ci dividono: ma attraverso allo spazio ed al tempo, che separano i nostri corpi e ci tolgono di vederci, di parlarci, di udirci, noi possiamo tenderci le mani, parlarci, udirci e stringerci intimamente tra noi in modo da formare una sola famiglia, un solo cuore. E come ciò? Ascoltate. La verità è sempre la stessa ed in ogni luogo; per lei non vi sono né fiumi, né monti, né mari, né continenti: essa è come Dio, di cui è figlia; or bene: se con la mente io tengo salda la verità che viene da Dio, e ad essa si tiene saldo ciascuno di voi, tutti gli uomini, non è egli chiaro, che con la verità saremo tutti uniti con la mente, benché separati di corpo? Quella stessa verità che è in me, che è in voi, che è nei fratelli nostri di fede sparsi da un capo all’altro del mondo, è il filo meraviglioso che tutti ci unisce nello spirito. Separati quanto al corpo da migliaia di chilometri, da decine di secoli: separati per lingua, per usi, per costumi, per mille altre cause, tutti diciamo lo stesso Credo, tutti invochiamo lo stesso Padre, che è nei cieli, tutti professiamo lo stesso decalogo, tutti riceviamo lo stesso Gesù Cristo nella Ss. Eucaristia, tutti aspiriamo allo stesso fine, al possesso della felicità. Ecco, o cari, l’unione dello spirito, che S. Paolo voleva nei suoi figliuoli, unione che nessuna forza né terrena, né infernale può rapire: Solliciti servare unitatem spiritus. E non è tutto: S. Paolo vuole che questa unità dello spirito nella stessa unità si conservi ” nel vincolo della pace — In vinculo pacis. „ Assolutamente parlando, potremmo avere l’unità dello spirito nella professione della stessa fede e dello stesso decalogo, e poi essere inquieti nell’animo nostro, o turbare gli altri e da loro essere turbati, come vediamo accadere ogni giorno intorno a noi; persone che hanno la stessa fede non solo, ma sono virtuose, non sanno vivere in pace sotto lo stesso tetto, e sono moleste le une alle altre. Ebbene: S. Paolo, a nome del Vangelo di Gesù Cristo, esorta tutti a coronare la loro unione nella verità della fede comune col vincolo della pace, che deve essere la dolce catena che lega tra di loro i cuori: In vinculo pacis. Questa verità sì cara dell’unione nella pace con tutti, anche quando alcuni la turbano, l’aveva profondamente scolpita in cuore S. Bernardo, allorché scriveva queste parole ad un personaggio che si mostrava offeso con lui: “Checché facciate, o fratello, io sono fermo in amarvi, anche non amato da voi. Sarò con voi, ancorché voi noi vogliate; sarò con voi, ancorché nol volessi io stesso. Mi son legato a voi con un forte vincolo, con la carità sincera, che non vien meno. Sarò pacifico coi turbolenti, darò luogo all’ira per non darlo al demonio. Vinto nelle ingiurie, vincerò cogli ossequi. Prenderò buoni uffici a chi non li gradisce, sarò largo con gli ingrati, onorerò quelli che mi disprezzano „ (Lettera 252 all’abate Premonstratese). Percorrete tutta la letteratura greca e latina, tutti i fasti della storia non cristiana, e non vi sarà possibile trovare dieci righe come queste, che mostrano a quale altezza di eroismo possa giungere la carità e la pace cristiana. – Ritorniamo al nostro testo: “Un corpo ed uno spirito, come voi già foste chiamati in una sola speranza della vostra vocazione. „ Questa sentenza dell’Apostolo è quasi il riepilogo dei due versetti antecedenti, e vuol dire: “Siate un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza della gloria e della immortalità, alla quale siete chiamati. „ Qui riapparisce quella immagine sì bella e sì famigliare all’Apostolo per adombrare l’unità della Chiesa, che esprime a capello il suo concetto. Vedete l’uomo: esso ha braccia, occhi, orecchi e membra tra loro distinte, anzi diversissime per se stesse e per il fine a cui sono destinate; eppure il corpo è uno solo, e le membra, congiuntissime tra loro, si aiutano a vicenda e, se l’una soffre, le altre tutte soffrono insieme. Perché tanta varietà di membra e tanta unità tra loro? Perché è una sola l’anima, che avviva tutte le membra secondo la loro natura, e tutte le muove e le ordina tra loro. Il somigliante deve essere nel corpo dei fedeli: essi sono distinti e differenti tra loro per natura, per grazia, per uffizi: ma informati tutti dallo spirito di Dio e dalla sua carità, e tutti camminando verso l’unico fine comune, formano un solo corpo, avente una sola anima e un solo cuore, come la Chiesa primitiva. L’Apostolo ha tanto a cuore questa unità dello spirito, quest’armonia delle membra, onde si compone la Chiesa, che sotto altra forma, e più completa, ne ripete il principio generatore, dicendo: “Un Signore, una fede, un battesimo. „ Il corpo dei fedeli, la Chiesa deve essere una sola, perché un solo è il Signore, il padrone assoluto ed universale, da cui ripete l’origine; un solo Gesù Cristo, che col suo sangue l’ha riscattata e a sé disposata. Una sola è la fede, che a Lui ne conduce e ne unisce: Una fides, sempre la stessa ed immutabile, come Lui, che ne è l’oggetto. Un solo il battesimo: Unum baptisma, perché non si riceve che una sola volta, e perché è sempre lo stesso, ed è l’unica porta, per la quale si può entrare nel regno di Cristo, che è la Chiesa. In questa triplice causa della unità della Chiesa, che riducesi ad una sola, Dio, vi è un ordine che non può sfuggirvi. Vi è l’oggetto primo ed assoluto, che è Dio, Dio unico in cielo ed in terra. Come andiamo a Dio, unico nostro Signore, termine ultimo di ogni nostro desiderio ed amore? Per l’unica fede ch’Egli stesso ci ha dato. E come riceviamo questa fede? come si suggella in noi? Con l’unico Battesimo che Dio ci ha dato: Dio, la fede, il Battesimo; un solo Dio, una sola fede, un solo Battesimo: come non formeremo un solo corpo tra noi, avendo tutti un solo Dio, da cui veniamo ed a cui torniamo; una sola fede, che a Lui ci conduce; un solo Battesimo, che stampa in noi la stessa fede e il carattere di figli di Dio? L’Apostolo, dopo aver nominato Dio, Dio che è solo, quasi rapito fuor di sé, e come se fissasse lo sguardo nella sua luce inaccessibile, nell’impeto d’amore, che lo strugge, esclama: “Sì, Dio, un Dio solo, che è Padre di tutte le creature del cielo e della terra, degli Angeli e degli uomini, che sta sopra di tutti per la sua sapienza e bontà: Qui est super omnes, e che con la sua virtù e forza infinita tutto muove, penetra, avviva e feconda: Et per omnia, e che in modo affatto speciale abita in noi con la sua grazia e ci governa. In Dio, da cui tutto viene ciò che è vero, bello e buono; in Dio, che è uno per essenza, e che con la verità e con l’amore ci trae dolcemente e fortemente; in Dio, che è la causa prima e suprema d’ogni unità, siamo un solo corpo ed un solo spirito nel vincolo d’una pace inalterabile, figura e pegno di quella che avremo in cielo. – E qui il pensiero corre mestamente ad un fatto oltre dire doloroso, che ci sta sotto gli occhi. S. Paolo con un linguaggio sublime parla di Dio e dice, che è sopra tutti, per tutti e in tutti noi. E una verità proposta dalla fede e proclamata dalla stessa ragione naturale: Dio è tutto in tutti; viviamo in Lui, ci muoviamo in Lui, siamo in Lui. Eppure che vediamo noi,, o dilettissimi? Oggidì gli uomini della scienza, gli uomini del potere, pressoché tutti o hanno vergogna di nominare Dio per un miserabile rispetto umano, o apertamente lo negano e lo respingono ed osano dire: Noi non abbiamo bisogno di Dio: la scienza può farne senza e cammina senza di Lui: la società può vivere e prosperare senza Dio e l’onestà e l’ordine possono aversi con la scienza, col lavoro, con la forza, con l’industria dell’uomo. – Questo si dice e, se non si dice con la lingua, lo si dice coi fatti, tantoché il nome di Dio più non si pronuncia nella scuola, nelle aule legislative, negli atti solenni dell’autorità, o lo si pronuncia per servire ad un uso, che si vuol cessare. O Dio buono e grande! Voi che siete principio e fine d’ogni cosa: voi che con la vostra provvidenza governate ogni cosa; voi che siete il Padre di tutti, perdonate a questi uomini, che, superbi della loro scienza e della loro potenza, vi disconoscono e bestemmiano: essi non sanno quel che si facciano. Illuminate le loro menti, toccate i loro cuori, fate che conoscano chi Voi siete e ritornino a Voi, che siete la via, la verità, la vita: che siete tutto in tutti!
Graduale
Ps XXXII:12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi. [Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]
Alleluja
Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja [Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]
Ps CI:2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja. [O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XXII:34-46
“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogáre”.
Omelia II
[G. Bonomelli, ut supra, – Omelia X].
“I farisei si accostarono a Gesù, ed uno di loro, un legista, lo interrogò, tentandolo: Maestro, qual è il precetto grande della legge? Gesù gli disse: Ama il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente. Questo è il grande e il primo precetto. Il secondo poi e simile a questo è: Ama il prossimo tuo come te stesso. Da questi due precetti tutta la legge dipende e i profeti. E stando riuniti insieme i farisei, Gesù li interrogò, dicendo: A voi che ne pare di Cristo? Di chi è Egli figlio? Risposero: Di Davide. Disse loro: Come dunque Davide, ispirato, lo chiama Signore, dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finche io metta i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi? Se pertanto Davide lo chiama Signore, com’è suo figlio? E nessuno poteva rispondergli parola, e da quel dì nessuno “più ebbe ardimento di interrogarlo „ (San Matteo, XXII, 34-46).
Il dialogo, che S. Matteo qui narra tra Cristo e i farisei, e finalmente i discorsi precedenti, cominciando dal capo XXI, ebbero luogo in Gerusalemme, e precisamente nel tempio o nell’atrio, o nei portici del tempio, in quella settimana ultima della vita di Gesù Cristo, tra la domenica delle Palme ed il giovedì seguente. Ciò è più che evidente dai quattro Evangeli. Quei quattro giorni, ultimi di sua vita, furono quattro giorni di lotte continue tra Gesù e la setta farisaica, che aveva giurata la sua morte. Il rumore e l’effetto di quelle lotte doveva essere grandissimo, e per ragione del luogo, dove si svolgevano, e per il concorso dei pellegrini, venuti d’ogni parte per celebrare la Pasqua, per i miracoli operati da Gesù, massime il più recente e il più strepitoso, avvenuto sulle porte di Gerusalemme, la risurrezione di Lazzaro, e perché Gesù Cristo nei suoi discorsi si annunziava francamente per il Messia aspettato e per il Figlio di Dio. La città, spettatrice di quelle lotte e di quei fatti meravigliosi, doveva essere tutta sossopra (Nei nostri tempi di fiacche convinzioni e di scetticismo religioso non possiamo farci un’idea dell’interesse, dirò meglio, dell’ardore, con cui il popolo giudaico, popolo eminentemente religioso, doveva occuparsi della persona di Gesù Cristo e della lotta che ferveva intorno a Lui. Anche al giorno d’oggi in Oriente le questioni religiose sono quelle che toccano le fibre del popolo e lo appassionano fino al fanatismo, e se n’hanno esempi recenti.). Il tratto evangelico, che dobbiamo spiegare, si divide in due parti: la prima comprende una domanda insidiosa d’uno scriba, o legista; la seconda una domanda di Cristo ai farisei, che senza persuaderli li ridusse al silenzio. Vogliate seguirmi nella spiegazione dell’una o dell’altra parte con tutta l’attenzione. Nei versetti che precedono quelli che ci sono proposti a spiegare dalla Chiesa, si narra che i sadducei (erano gli epicurei del popolo ebreo, e negavano l’esistenza degli spiriti, e perciò dell’anima, e la risurrezione dei corpi) avevano teso un laccio a Cristo con un certo quesito degno di loro; Gesù li aveva prontamente confutati e svergognati alla presenza dei farisei, mostrando la necessità della vita futura e la risurrezione: i farisei, nemici dei sadducei, n’erano lietissimi. Ma, vedete che razza di gente ch’erano costoro! … e una volta di più conoscete come le passioni accecano anche gli uomini istruiti. I sadducei vivevano tranquilli in mezzo al popolo, e par certo che buon numero di loro sedessero nel gran consiglio della nazione, e alcuni fossero anche membri del sacerdozio; essi non ammettevano vita futura, in buon linguaggio, oggi si direbbero materialisti; voi vedete che i sadducei schiantavano dalle radici ogni religione e ne rendevano perfino impossibile l’esistenza; opperò erano lasciati in pace e rispettati, e fors’anche aiutati dai farisei, sì rigidi in materia di religione, fino a veder violata la legge divina per un miracolo operato in giorno di sabato: e non solo i sadducei erano lasciati in pace e rispettati dai farisei, ma e sadducei e farisei si davano la mano, ed erano amici od alleati allorché si trattava di combattere od opprimere Gesù Cristo. I farisei rinfacciavano a Cristo di profanare il sabato perché guariva un paralitico in giorno di sabato, e non dicono verbo ai sadducei, che negavano la risurrezione! Tant’è vero che i tristi si trovano sempre in lega tra loro pur di levarsi dinanzi agli occhi i virtuosi, che con la sola presenza danno loro noia. Gesù aveva appena, come dice S. Matteo, ridotti al silenzio i sadducei con una di quelle risposte ch’Egli sapeva dare, eccovi farsi innanzi un fariseo, scriba o legista, legis doctor, e “interrogarlo tentandolo — tentans eum. „ Notate quella parola “tentandolo. „ Può essere che la domanda di quel legista avesse lo scopo di mettere alla prova la dottrina di Cristo, e vedere qual fosse il suo conoscimento della legge, che sarebbe stato minor colpa; ma sapendo qual era l’astio e il livore dei farisei contro di Gesù, e sapendo che codesto legista era fariseo e assaliva Gesù subito dopo i sadducei, non è irragionevole il credere che volesse cogliere in fallo il divin Maestro, umiliarlo e accusarlo all’uopo. Checché fosse del suo intendimento vero, il legista gli mosse questa domanda : “Maestro, quale è il precetto più grande (cioè massimo) della legge? „ Ignorava egli il legista, il precetto massimo della legge? Nol credo. Ben è vero che presso i Giudei si questionava intorno al primo e massimo precetto della legge, e alcuni avvisavano il massimo precetto esser quello di offrire i sacrifici stabiliti dalla legge, come l’atto massimo del culto divino. Ma io penso con san Giovanni Grisostomo, che quel legista, sapendo come Cristo si affermava Messia Figlio di Dio e Dio, sperava che avrebbe risposto qualche cosa intorno alla propria persona e alla legge mosaica, tanto da poterlo accusare o almeno screditare presso il popolo. Ma Gesù, non badando punto all’intenzione colpevole, o almeno poco schietta e poco benevola del legista, rispose con ammirabile precisione: “Ama il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. „ Io non vi spiegherò la forza di ciascuna di queste parole, perché penso che sia una forma di dire piena di energia, e si compendiano stupendamente, credo, in quelle altre parole di S. Luca (X, 27): “Ama Dio con tutte le tue forze. „ Amar Dio con tutto il nostro cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, in sostanza non vuol dir altro che amarlo come più e meglio possiamo, volgendo a Lui tutte le attività dell’essere nostro e a Lui facendole servire (Queste parole di nostro Signore si leggono nel Deuteronomio (capo VII, vers. 5), e Gesù Cristo le tolse dal libro di Mosè per chiudere la bocca al Fariseo e mostrare la perfetta armonia tra la sua dottrina e quella di Mosè). Il che importa, come fanno notare gli interpreti, che amiamo Dio sopra tutte le cose create, anteponendolo a tutte, anche insieme considerate e moltiplicate finché si voglia; che a Lui indirizziamo, come a fine ultimo e supremo, tutti i nostri pensieri, affetti e desideri e tutte le opere nostre, e che Lui apprezziamo sopra tutte le cose, e siamo disposti a sacrificare ogni cosa anziché offenderlo in qualsiasi modo. Vuoi tu sapere, domanda S. Bernardo, qual debb’essere la misura del tuo amore verso Dio? Tel dico in una sola parola: Sine triodo, cioè senza misura, quanto alle tue forze è possibile. Voi comprendete che un amore come questo, non consigliato, ma comandato da Dio, domanda necessariamente l’attuazione delle opere e l’osservanza di tutti i precetti della legge divina e di quelli, che la Chiesa a nome e per autorità divina impone, essendo inconcepibile un vero e sommo amore, che si chiuda soltanto nella mente e nel cuore. E non potrebbe Iddio dispensarci da siffatto amore e appagarsi d’un amore qualunque, pari a quello che nutriamo verso creature a noi carissime? No: Dio, che è onnipotente, non potrebbe dispensarci dall’obbligo di un amore sommo e superiore a qualsiasi amore, perché non può negare se stesso. Egli è l’Essere sopra ogni essere, eterno, immutabile, infinito, giustissimo, santissimo, centro e fonte di tutte le perfezioni, e perciò stesso degnissimo d’ogni amore: appagarsi d’un amore inferiore, comune, importerebbe da parte sua un disconoscere le sue perfezioni e l’essere pareggiato, e, peggio ancora, posposto alle sue creature, il che ripugna assolutamente alla verità e all’essere suo. E possiamo noi amarlo sopra ogni cosa? Tanto è vero che lo possiamo, che è un dovere, il sommo dovere e il compendio di tutti i nostri doveri. Non solo possiamo amarlo sopra ogni cosa, ma con la sua grazia, che mai non fa difetto, è cosa facilissima. E non è facilissima cosa amare un Essere che è la stessa bellezza, la stessa giustizia, la stessa bontà, il sommo ed unico vero benefattor nostro e sorgente d’ogni perfezione? La stessa natura ci spinge ad amare le creature, nelle quali si manifesta qualche lampo di queste perfezioni, a talché talora non sappiamo resistere e valichiamo i giusti confini: come dunque non potremo amare Colui nel quale si accolgono tutte in grado sovranamente perfetto? E perché dunque, direte, sì pochi son coloro che l’amano con tutte le loro forze ? Perché poco lo conoscono, e poco lo conoscono perché poco vi pensano, e da fuggevole bellezza delle creature sedotti e fuorviati, non fissano mai, o troppo raramente e leggermente, l’occhio della mente nel loro Creatore; guardando sempre alla luce, che abbellisce i fiori, gli alberi, la terra, non badano mai al sole, che la versa a torrenti. “E questo, continuò Cristo, sempre rivolto al legista, il grande e primo precetto. „ Aveva risposto alla sua domanda : “Qual è il precetto grande o maggiore della legge? „ e qui senza dubbio poteva fermarsi. Ma gli piacque aggiungere un secondo precetto, e dare al fariseo un’altra lezione, ch’egli non aveva chiesta, ma che troppo bene stava a lui e a molti farisei che dovevano essere presenti. “Ti ho detto, così Cristo in sentenza, ti ho detto qual è il massimo e primo precetto della legge: ti dirò anche il secondo, che è simile al primo, e che da esso non si può separare: “Ama il prossimo come te stesso — Dilige» proximum tuum sicut teipsum (Levit. XIC, 18). „ Si potrebbe per avventura domandare: Per qual motivo Gesù Cristo dà al legista una risposta che non era richiesta? Perché al primo e massimo precetto aggiunge il secondo? Forse per dare garbatamente una lezione al legista, secondoché crede il Crisostomo. Vuoi sapere, o fariseo, qual è il primo e il massimo precetto della legge? Ebbene: sappi che è l’amor di Dio sopra ogni cosa; ma v’è anche un altro precetto, ed è l’amore del prossimo: e questo amore ti avrebbe insegnato e obbligato a non tendergli insidie, come tu ora fai meco, che pure sono almeno tuo prossimo e tuo fratello. Forse, ed è sentenza più probabile e naturale, al precetto dell’amore di Dio accoppiò quello del prossimo, perché è simile ad esso, come espressamente dice Gesù Cristo, e perché è una conseguenza o derivazione del medesimo, e ne è inseparabile. Se bene mi ricordo, in altra omelia ebbi a mostrarvi come sia impossibile l’amore di Dio senza l’amore del prossimo, e perciò di questa verità mi passo. E invero: se amiamo veramente Dio sopra ogni cosa, dovremo anche amare tutto ciò ch’Egli ama, e, per quanto è possibile, come Egli ama. Ora Dio ama tutti gli uomini, ed è sì vero che li ama, che li ha creati, li conserva, li ricolma di benefizi, ha patito ed è morto per essi, e li vuole partecipi della sua stessa felicità. Quale amore più vivo ed efficace di questo? Gli uomini portano in sé l’immagine di Dio: anzi Dio stesso si pone in ciascun uomo, e protesta che quello che faremo per essi, l’avrà per fatto a se stesso. Si può concepire vincolo più intimo tra l’amore di Dio e quello del prossimo? Non credo. Fors’anche un’altra ragione indusse Gesù Cristo ad accoppiare l’amore del prossimo all’amore di Dio, quantunque non gliene fosse fatta domanda, ed è questa. A quei tempi una interpretazione tutt’affatto farisaica aveva oscurato, anzi alterato il senso del precetto divino della carità fraterna. Il precetto divino diceva: “Amerai il prossimo tuo come te stesso: „ ora la parola ebraica “recha” significa ad un tempo prossimo e amico, e i farisei, seguendo la durezza del loro spirito, interpretavano il precetto così: “Amerai il prossimo tuo amico ; „ e, facendo un altro passo, dicevano: “Non amerai il prossimo che non ti è amico, anzi odierai il tuo nemico — Et odio habebis inimicum tuum. „ Con questa interpretazione i farisei avevano, più che alterato, distrutto il precetto della carità, restringendola ai nazionali, e, più ancora, agli amici e benevoli. Gesù Cristo richiama il precetto divino alla sua purezza, lo estende a tutti gli uomini senza distinzione, e lo lega al precetto dell’amore di Dio, facendone una appendice (I farisei su molti punti con le loro interpretazioni avevano storpiata malamente la dottrina biblica e tradizionale, e Cristo più volte li rimproverava. Come qui sulla carità verso del prossimo, così altrove sul matrimonio e la sua indissolubilità. E qui mi piace riferire la difficoltà dei sadducei e la risposta di Cristo, che è netta e facilissima se conosciamo la interpretazione erronea introdotta dai farisei. La spiegazione gioverà a molti preti, che trovano sì difficile la sentenza di Cristo sulla indissolubilità del matrimonio (Matt. xix, 9), dove sembra ammettere che l’adulterio possa sciogliere il vincolo coniugale, come tengono i protestanti. È da sapere che Mosè “propter duritiam” degli Ebrei aveva ammesso il ripudio ed il divorzio. Per quali cause? Mosè non le determinò: naturalmente dovevano essere gravi e si dovevano esprimere nel libello del ripudio. Al tempo di Cristo si erano formate due scuole, quella di Hillel e l’altra di Schammai. Hillel, allargando oltre ogni limite le cause del divorzio, diceva che il marito poteva rimandare la moglie per qualunque causa: per es. bastava che donna non avesse fatto bene l’arrosto, che fosse uscita di casa da sola, che diventasse cisposa, e per dir tutto in una parola, che non gli piacesse più. Era in diritto di darle il libellum repudii. Schammai negava e restringeva tanta libertà e la diceva contraria alla legge e allo spirito della legge mosaica. I farisei domandano a Cristo: Si licet homini dimittere uxorem suam QUACUMQUE EX CAUSA? È precisamente la sentenza del Sabbi Hillel. Gesù rigetta l’enorme lassezza di Hillel, contenuta in quella espressione: Quacumque ex causa, e, secondo lo spirito della legge ebraica, la restringe alla fornicazione, cioè all’adulterio. Gesù Cristo adunque in quel luogo, che ha tormentato e tormenta ancora gli interpreti, non parla del matrimonio nella legge nuova, come molti vorrebbero e giova ai protestanti, ma del matrimonio nella legge mosaica, della quale si trattava e intorno alla quale lo interrogavano i farisei. Il testo così inteso, la difficoltà è sciolta e Gesù non fa che richiamare gli Ebrei alla osservanza della legge mosaica contro la interpretazione erronea di molti farisei). – A taluno può far meraviglia che Gresù non parli dell’amore che dobbiamo a noi stessi, ma solo dell’amore che dobbiamo avere per i fratelli nostri; ma Egli tacque del primo, perché lo suppone, ed è tanto naturale e necessario all’uomo, che non occorre ricordarglielo, e perché indirettamente lo accenna, dandocelo come misura dell’amore verso del nostro prossimo: “Amerai il prossimo come te stesso. „ Noi dunque dobbiamo amare noi stessi e poi gli uomini tutti a somiglianza di noi stessi, e amarli più o meno in ragione dei vincoli e dei doveri che a loro ci legano. L’amore è come la luce, che emana dal sole, e si sparge su tutte le creature capaci di riceverla: l’amore ha la sua fonte in Dio, da Lui si riflette sopra ciascuno di noi e poi si spande su tutti gli uomini per ritornare a Dio, perché l’amore vero ha il suo fine e il suo principio in Dio. „ Da questi due precetti, conchiude Cristo, dipende tutta la legge ed i profeti. „ Cioè tutta la legge di Mosè, tutto l’insegnamento dei profeti si riduce a questi due precetti, il primo che riguarda Dio, il secondo che riguarda gli uomini. Datemi un uomo, un Cristiano che ami Dio ed il prossimo, e quest’uomo, questo Cristiano non trasgredirà uno solo dei doveri che ha verso Dio e verso il prossimo, ed adempirà esattamente tutta la legge, tutti i precetti della fede, della speranza, eserciterà tutte le virtù, tutte le opere della misericordia, insomma sarà un perfetto cristiano. Oh! dunque, carissimi, facciamo tesoro di questa carità, e, come scrive S. Paolo, adempiremo tutta la legge. – Qui S. Matteo non dice nulla dell’accoglienza fatta dal legista fariseo alle parole di Cristo; ma S. Marco ei fa sapere che gli rispose: Maestro, bene hai detto secondo verità che vi è un Dio solo, e che fuor di Lui non ve n’è altro, e che amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta l’anima e con tutta la forza, ed amare il suo prossimo come se stesso, è più che tutti gli olocausti ed i sacrifizi. E Gesù, vedendo che aveva risposto sapientemente, gli disse: “Tu non sei lontano dal regno di Dio„ ( S . Marco, XII, 32-34). Dalle quali parole di Cristo è da argomentare, che se il fariseo a principio interrogò Cristo con sinistro intendimento, dalle parole di Lui rimase convinto ed illuminato, e fu ridotto a miglior consiglio, cosa singolare in un fariseo. – Il Salvatore aveva imposto silenzio ai sadducei, e aveva chiusa la bocca al fariseo per guisa che questi l’aveva dovuto approvare. Nessuno degli astanti osava muovergli altre questioni, ancorché ne avessero vivissimo il desiderio. Il fine di tutti i suoi miracoli, e specialmente dei discorsi ch’Egli tenne nell’ultima settimana nel tempio e sotto i portici del tempio, era costantemente quello di stabilire la sua divina missione e provare e persuadere ch’Egli era il Figlio di Dio. E veramente era questo il punto capitale di tutta la sua dottrina, il fondamento dell’opera sua. Ottenuta la fede nella propria divina origine, tutto il resto veniva da sé. Sapeva troppo bene che il dichiararsi Figlio di Dio era un provocare il furore de’ suoi nemici e un segnare la propria sentenza di morte: ma Egli non poteva esitare un istante a confermare con la morte la propria origine e missione. Il perché dalla difensiva Egli passò all’offensiva, e dopo aver risposto agli avversari, che lo tempestavano con domande insidiose, rivolto ai farisei, che lo circondavano in gran numero, e pieni di malanimo per le patite umiliazioni, li interrogò, dicendo: “Che ne pare a voi del Cristo? Di chi è desso figlio? „ Il Messia od il Cristo aspettato, per gli Ebrei era tutto; in Lui si concentravano tutte le speranze della nazione; a Lui erano rivolti tutti i pensieri, tutti i desideri; Lui designavano tutti i riti e i sacrifizi, Lui annunziavano tutti i profeti: la nazione intera non viveva che nell’aspettazione del Messia, ed a quei giorni, dopo la predicazione di S. Giovanni, dopo la predicazione ed i miracoli di Cristo, e il compimento manifesto dei vaticini, non v’era argomento più interessante di quello del Messia. La domanda pertanto di Cristo sul Messia toccava la fibra più viva dei suoi uditori e li obbligava a dichiarare la loro fede intorno all’origine e dignità di Lui. “Di chi è desso figlio il Cristo o Messia? „ La domanda era netta e precisa, ed esigeva una risposta eguale. Essi dovevano rispondere senza esitare: “È figlio di Dio e di Davide, „ ossia Dio e uomo. I libri santi in cento luoghi lo dicevano, e l’aveva detto in termini il sommo dei profeti, Isaia. Ma i farisei, fosse ignoranza, fosse malafede, o altra causa, risposero: “Di Davide. „ Con questa risposta essi indirettamente confessavano che lo riputavano semplice uomo, perché della sua origine divina, che dovevano mettere innanzi alla umana, non ne fanno nemmeno cenno. Per essi il Messia, il Cristo venturo doveva essere un profeta, il sommo dei profeti, la gloria del popolo d’Israele, il suo liberatore più temporale che spirituale, e nient’altro (S. Marco, XII, 35 seg. e S. Luca, XX, 41 seg., narrando questo stesso fatto, lo riferiscono più succintamente. Cristo disse: “Come mai gli scribi dicono che il Cristo è figlio di Davide, s’Egli nei Salmi dice: Disse il Signore al mio Signore? ecc. „). Quanta differenza tra questa risposta degli scribi e quella di S. Pietro data alla stessa domanda! Pietro a Cristo che domandava agli Apostoli: Voi chi dite chi Io mi sia? Francamente rispose: “Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo. „ Il pescatore di Galilea, che poco o nulla sapeva dei libri santi, nella semplicità della sua fede conobbe e confessò la divinità di Gesù Cristo, dovechè gli scribi ed i farisei con la loro scienza superba non videro nel Messia che un uomo grande, un figlio di Davide! Come è vera la sentenza di Cristo: “Padre, lo confesso a te: tu hai nascosto le cose divine agli uomini della sapienza e prudenza mondana, e le hai disvelate ai fanciulli, cioè ai semplici. „ Oh! l’umiltà e la semplicità vedono bene più alto della scienza orgogliosa, e Francesco d’Assisi conosceva Dio più assai dei più acuti filosofi e teologi. Avuta la risposta degli scribi e farisei: “Il Cristo è figlio di Davide, „ Gesù li incalza con un argomento perentorio. “Voi dite che il Cristo è figlio di Davide, solamente di Davide, e perciò puro uomo: se così è, ditemi, come mai Davide ispirato da Dio, scrisse nel Salmo: Il Signore ha detto al Signore: Siedi alla mia destra, finché io metta i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Se pertanto Davide lo chiama Signore, come è suo figlio? „ Prima di spiegare questa risposta del divino Maestro è necessario dire alcune parole su questo Salmo CIX. Esso è brevissimo, era popolare presso gli Ebrei e lo è nella Chiesa, la quale ogni giorno lo fa recitare ai suoi sacerdoti. La stessa Sinagoga lo riferiva al Messia, ed è sì certo che gli scribi ed i farisei stessi non osarono negarlo, e l’avrebbero negato se l’avessero potuto fare. In questo magnifico Salmo si afferma la divinità del Cristo, la sua eguaglianza col Padre, il suo Sacerdozio eterno, il suo trionfo finale dopo le sue umiliazioni (Una delle difficoltà che si incontra nella spiegazione specialmente dei Salmi, è il mutare il soggetto parlante senza nemmeno dirlo: quando si pon mente a questo uso sì comune nei Salmi, molte difficoltà si dileguano. Vedete p. es. il Dixit, Nel 1°, 2°, 3° e 4° versetto è Dio Padre che parla al Figlio, Uomo-Dio, e lo si dice chiaramente. Nel 5° versetto, la prima parte è del profeta, la seconda è ancora in bocca del Padre, e il passaggio non è annunziato. Gli ultimi tre versetti, 6°, 7°, 8°, sono del profeta, che fa quasi le parti di storico, e qui pure si tace il passaggio d’una persona all’altra.). – Il Signore, il Padre, ha detto, cioè è suo volere dalla eternità, che il Signore, il Figlio suo, segga alla sua destra, abbia pieno ed assoluto potere eguale al suo, e che debelli i suoi nemici e ne meni il più splendido trionfo. Ecco il testo citato da Cristo, sul quale Egli così argomenta: Qui Davide dice che Dio ha detto al Cristo, suo Signore: Siedi alla mia destra; Davide chiama il Cristo futuro suo Signore: ma se il Cristo è figlio di Davide, e semplice uomo, Davide, che ne è padre, non poteva chiamarlo suo Signore e dargli lo stesso nome, con cui designa il Padre. Dunque il Cristo è, sì figlio di Davide in un senso, ma è anche suo Signore, è Dio: in altri termini il Cristo è vero uomo e vero Dio; lo insegna chiaramente Davide. E questa l’argomentazione di Cristo. – In sostanza Gesù Cristo con questa citazione sì netta del Salmo, accettando pure la dignità di figlio di Davide, chiaramente fece conoscere ch’Egli era anche Figlio di Dio; figlio di Davide e Signore di Davide. Gli scribi ed i farisei col loro formalismo avevano inaridita la parte pratica della legge e agghiacciata la morale, col loro monoteismo freddo avevano separato l’uomo da Dio, relegandolo nelle profondità del cielo, mentre i profeti tutto avvivavano e mostravano Dio operante in mezzo a gli uomini, illuminante le menti, eccitante le loro volontà: Gesù Cristo squarcia il velo e dice: Questo Dio è in mezzo a voi, vi parla e vi ammaestra: voi non lo ascoltate, lo respingete, ne avete già deliberata la morte, vi dichiarate suoi nemici: ricordatevi che Egli sarà il vostro giudice, che il suo trionfo non può fallire, e sarete posti come sgabello dei suoi piedi. Cristo si dichiara Dio e giudice supremo dei suoi nemici. Che avvenne? Come furono accolte le sue parole? Il Vangelo non lo dice, né lascia credere che alcuni dei suoi uditori fossero scossi dalle parole di Cristo e si dessero vinti, e chiude con questa dolorosa sentenza: “Nessuno poteva rispondergli verbo. „ Si sentivano conquisi dalla evidenza della verità, ma non uno che si arrendesse e si gettasse ai piedi di Cristo e gli dicesse come Pietro: “Signore, voi avete parole di vita, „ vi riconosciamo e vi adoriamo. Amarono meglio, dice S. Agostino, struggersi in un rabbioso e superbo silenzio, che riconoscersi umili discepoli. “Da quel giorno nessuno osò più interrogarlo, „ dice S. Matteo, e per tal modo chiusero da se stessi la mente alla luce della verità. Giudizio pauroso, terribile, frutto naturale di quel malnato germe, che è la superbia! Vedono, sentono d’essere nell’errore: la verità splende vivissima ai loro occhi: l’odono dalla bocca dei sacri ministri, da quella degli amici: la vedono nella condotta della moglie cristiana, delle figlie credenti e pie: la sentono nella coscienza inquieta, agitata: la sentono in una voce arcana, che a quando a quando risuona in fondo all’anima, che è la voce della grazia, la voce di Dio: un brivido scorre loro per le vene, un fremito agita il loro cuore; ma legati tra vecchi pregiudizi, schiavi del rispetto umano, invischiati forse in ree passioni, e sopra tutto vittime del reo orgoglio, chiudono gli occhi alla verità, chiudono la bocca a quelli che ne vorrebbero loro parlare, soffocano i rimorsi, nelle occupazioni e nello strepito del mondo si distraggono, e quasi assordano se stessi, e a poco a poco intorno a loro si fa il silenzio della morte. Gesù tace perché questi sventurati più non lo interrogano, e non lo interrogano perché non vogliono udire la verità, e non vogliono udire la verità perché è loro molesta, perché l’odiano. Mio Dio! Nella vostra misericordia non permettete mai che pur uno di questi che mi ascoltano respinga la verità, o, come gli scribi e i farisei, non interroghi i maestri che avete posti nella vostra Chiesa, per timore ch’essi gliela facciano conoscere.
Credo …
Offertorium
Orémus
Dan IX:17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus. [Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]
Secreta
Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúris. [Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]
Communio
Ps LXXV:12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ. [Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]
Postcommunio
Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant. [O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]