CONOSCERE S. PAOLO -7-
[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]
LETTERE AI CORINTI
La chiesa di Corinto. (3)
II. LE VITTIME SACRIFICATE AGLI IDOLI.
– 1. I TRE CASI. — 2. SOLUZIONE.
1 . La religione greco-romana era tutta di riti e di pratiche. Si poteva pensare e dire degli Dei immortali quasi tutto ciò che si voleva, purché si osservassero le usanze religiose della nazione o della città. Ma tali usanze invadevano quasi interamente la vita: lutti e gioie di famiglia, voti e ringraziamenti, solennità rituali, giochi del circo, anniversari, mille altre circostanze davano luogo a sacrifici. Le vittime, quando non venivano consumate sul posto, nelle dipendenze del tempio o nel boschetto sacro, servivano al banchetto familiare, o erano distribuite ai congiunti e anche cedute per poco prezzo ai rivenditori. Questa era, per i pochi neofiti sperduti in mezzo alla popolazione idolatra, una sorgente continua di difficoltà, di scrupoli e di pericoli. Bisogna credere che avessero proposto a Paolo tre casi di coscienza che occorrevano più spesso: 1) Dovevano cessare di servirsi presso i macellai idolatri, sospetti di vendere carni offerte nei tempi o di fare invocazioni superstiziose sopra le bestie che macellavano: 2) Potevano sedere a mensa con i loro parenti o amici pagani, nonostante il timore troppo fondato di trovarvi carni consacrate agli idoli? 3) Era loro permesso, per ragione di ufficio o di convenienza, prendere parte al banchetto sacro che ordinariamente accompagnava il sacrificio? – Prima di affrontare la questione, l’Apostolo stabilisce due principi: dimostra che l’idolotito non contrae nessuna impurità intrinseca, e prova che un’azione indifferente può diventare illecita per le circostanze. Che cosa è un idolotito? Una vittima immolata agli idoli. Ma che cosa è un idolo? È una chimera, un essere fantastico, un nulla. L’idolo passa per una divinità: ora « non vi è che un solo Dio » che non è quello raffigurato dall’idolo; perciò l’idolo è un’immagine senza modello, una rappresentazione senza realtà, un’idea senza oggetto corrispondente; in una parola « l’idolo non è nulla nel mondo ». Il fatto di essere immolato agli idoli, non può macchiare un essere né sottrarlo al dominio di Dio: « Al Signore appartiene la terra con tutto ciò che essa contiene » e gli appartiene per un diritto inalienabile. Senza dubbio, chi mangiasse l’idolotito « in quanto è idolotito », cioè con la persuasione che l’offerta ai falsi dèi lo abbia reso impuro, contrarrebbe la macchia di una coscienza errata: ma sarebbe per mancanza di scienza. Ebbene, di questi spiriti deboli, di questi pusillanimi, un Cristiano illuminato, dotato di scienza, deve tenere conto: « Perché il debole, questo fratello per il quale il Cristo è morto, si perderebbe per la scienza. Perciò, peccando contro i tuoi fratelli, con dare scandalo alla loro coscienza debole, peccheresti contro il Cristo. Se un alimento scandalizza mio fratello, io non mangerò mai più carne per non scandalizzarlo (1 Cor. VIII, 13) ». Ecco il cuore e lo spirito di Paolo! Nella lunga digressione che segue, sembra che perda di vista la questione degli idolotiti; ma in realtà ne prepara la soluzione. – Egli mostra col suo esempio l’applicazione di questa massima: « Se tutto è permesso, non tutto è conveniente; se tutto è permesso, non tutto edifica. Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello del prossimo (X, 23) ». Forse che egli, Paolo, si vale dei suoi diritti? Egli è apostolo per il medesimo titolo dei Dodici; in ogni caso è l’apostolo incontestato dei Corinzi; potrebbe dunque vivere a spese dei fedeli; potrebbe, come gli altri Apostoli, come Pietro, come i fratelli del Signore, farsi accompagnare da una donna cristiana incaricata di servirlo. Ogni lavoratore è mantenuto da colui che lo impiega; Mosè proibisce persino di mettere la musoliera al bue che trebbia il grano. Sotto l’antica, come sotto la nuova Legge, il sacerdote vive dell’altare. Ma perché egli, Paolo, ha rinunziato al suo diritto? Perché vuole che la sua condotta non ostacoli la diffusione del Vangelo; perché ama il suo buon nome e la sua indipendenza; perché aspira al merito di un apostolato assolutamente gratuito e disinteressato; perché vuol essere per i neofiti un modello di distacco ed un esempio vivente di abnegazione; perché facendosi tutto a tutti, Ebreo con gli Ebrei, Gentile con i Gentili, spera di salvarne almeno alcuni; perché finalmente vuol poter dire ai neofiti: “Imitate me, come io imito il Cristo”.
2. Alla luce di questi principi, i due primi casi di coscienza sono già risolti. Il Cristiano può, come tutti gli altri, comprare al mercato le carni che vi trova, senza preoccuparsi della loro provenienza; ancorché siano state offerte agli idoli, questa offerta non fa nulla. Può anche accettare gl’inviti e mangiare senza scrupoli di tutto ciò che gli viene servito; ma se qualcuno fa notare la presenza di un idolotito, bisogna astenersene, perché quell’osservazione dimostra che se ne prende scandalo o lascia supporre che si prenderà scandalo, e la carità ci obbliga ad evitarlo. Si potrebbe credere che il terzo caso sia simile al precedente, invece ne è separato da un abisso. Prendere parte ad un banchetto sacro con gli adoratori dei falsi dèi è un motivo legittimo di scandalo. Che si direbbe di un Cristiano che sta alla mensa degli idoli? Vi è inoltre pericolo prossimo d’idolatria, come lo dimostrano gli Ebrei i quali, dopo di aver attraversato il Mar Rosso e di essere passati sotto la nube luminosa, doppia figura del Battesimo, dopo di aver mangiato la manna e di aver bevuto l’acqua miracolosa dell’Horeb, tipo dell’Eucaristia sotto le due specie, furono invitati al banchetto di Beelphegor e adorarono il dio. Ma, indipendentemente dallo scandalo e dal pericolo prossimo, la partecipazione al banchetto sacro è per se stessa un atto idolatrico. San Paolo lo dimostra con due argomenti di analogia. Gli Ebrei che consumano le vittime offerte nel Tempio, come tutti ammettono, entrano in comunione con l’altare. Nessun Cristiano ignora che bere al calice e rompere il pane consacrato è comunicare col sangue e col corpo del Cristo: « Io non voglio, soggiunge l’Apostolo, che siate i commensali e gli alleati dei demoni. Voi non potete bere il calice del Signore e la coppa dei demoni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni (1 Cor. X, 20-21) ». – Presso tutti i popoli, la mensa forma tra i convitati una specie di vincolo sacro che diventa più intimo e più santo quando il banchetto è la consumazione del sacrifizio. Nel banchetto religioso vi è l’unione ordinaria tra ospite e invitati, l’unione con il sacerdote sacrificatore, perché la consumazione della vittima è il compimento del sacrificio, l’unione vera o supposta con la divinità creduta presente in mezzo ai suoi adoratori, l’unione con la vittima stessa che è il veicolo di benedizioni. È manifesto che queste unioni — almeno le ultime tre — costituiscono un vincolo religioso. Non si tratta dunque più di carità o di edificazione, ma della stessa religione. – Un atto di culto fatto in onore di una falsa divinità, si voglia o non si voglia, è un atto idolatrico. Non già che gli idoli abbiano un’esistenza reale o che l’offerta agli idoli possa macchiare una creatura: San Paolo ha affermato or ora che non vi è nulla, e non si contradice affatto; ma i sacrifici che non sono offerti al vero Dio si credono offerti ai demoni, ed è infatti il demonio quello che ne trae vantaggio. [Questo succede nel mondo odierno un tempo Cattolico, invaso dalla setta modernista del « novus ordo », nel cui rito, denominato “novus ordo missæ” il “Sacrificio” viene offerto al “signore dell’universo”, cioè al baphomet-lucifero, il demone della setta massonica – il nuovo rito infatti venne messo a punto, su commissione del patriarca degli illuminati, l’ebreo G. B. Montini, ai massoni Bugnini e a sei “periti” protestanti – partecipare a questo rito demoniaco è appunto culto idolatrico, come quello che S. Paolo giustamente proibiva come pratica aberrante anticristiana -ndr-]. Qualcuno domanda come Paolo concordi da una parte col decreto apostolico e dall’altra con la tradizione ecclesiastica. Il decreto di Gerusalemme era temporaneo e locale; come semplice provvedimento disciplinare, essenzialmente variabile, proposto da San Giacomo con un fine di conciliazione per smorzare gli urti tra i neofiti Ebrei ed i Gentili nelle chiese miste, esso obbligava direttamente soltanto i fedeli di Antiochia, della Siria e della Cilicia. San Paolo aveva creduto bene di promulgarlo anche nella Galazia e probabilmente anche in Asia dove gli elementi delle comunità cristiane erano i medesimi; ma non aveva nessuna ragione di estenderlo a Corinto dove l’elemento ebreo-cristiano doveva essere minimo. D’altra parte la soluzione liberale data per Corinto, non impegnava affatto l’avvenire. Era naturale che, dopo il trionfo del Cristianesimo, si adottasse una soluzione più rigorosa. Non si poteva più invocare la necessità morale, e non vi era più motivo di dare ai sacrifici pagani quella specie di cooperazione materiale che poteva sembrare un incoraggiamento. Gli idolotiti furono dunque proibiti come i giochi del circo, sia per ragione dello scandalo divenuto inevitabile, sia per ragione del pericolo prossimo. Non bisogna neppure stupire se certi Padri, perdendo di vista l’insegnamento di Paolo, arrivarono a considerare gli idolotiti come macchiati dalla sola offerta agli idoli e proibiti soltanto per questo.
III. L’AGAPE E L’EUCARISTIA.
1. IL VELO DELLE DONNE. — 2. I QUATTRO ABUSI DELLE AGAPI. — 3. L A PROFANAZIONE DELL’EUCARISTIA.
1. Dovunque si trovavano nuclei di fedeli, si stabilirono pubbliche riunioni. Fu scelto di preferenza il primo giorno della settimana, chiamato, fino dai tempi di San Giovanni, il giorno del Signore (Apoc. I, 10). – Vi furono da principio, come si praticava sotto Traiano, due assemblee distinte, una per l’istruzione e l’altra per la frazione del pane! La prima Epistola ai Corinzi lo fa supporre. Infatti i catecumeni e i pagani assistevano alle riunioni in cui profeti e glossolali sfoggiavano i loro carismi (1 Cor. XIV), ma non è probabile che essi fossero ammessi alla celebrazione dei misteri. Paolo non ha il proposito di descriverei quelle assemblee, ma vuole soltanto correggere gli abusi che vi si erano introdotti dopo la sua partenza. I particolari più familiari non si scrivono, e quando si toccano di passaggio, questo si fa appena con qualche allusione. In grazia delle difficoltà dei Corinzi, si solleva un lembo del velo; troppo poco per soddisfare la nostra curiosità, ma abbastanza perché possiamo dare uno sguardo discreto sul funzionamento delle chiese nelle loro origini. Nelle città greche in generale, le donne godevano di una gran libertà, e Corinto non poteva essere per loro una buona scuola di riservatezza e di modestia. Sembra che parecchie assistessero senza velo alle assemblee religiose e che si permettessero anche di prendervi la parola. Paolo condanna questa pratica come sconveniente, come contraria al costume delle altre chiese e come opposta ai suoi stessi insegnamenti (1 Cor. XI, 16). È evidente che nei costumi di quel tempo l’andare a capo scoperto era segno di autorità e di autonomia, mentre il velo era simbolo di timore, di lutto, di soggezione. Ora il Cristianesimo che veniva ad emancipare la donna, a rialzarne la condizione sociale, a restituirle il suo posto d’onore nel focolare domestico, non le assegnava nessun posto nelle funzioni sacre della gerarchia ecclesiastica. Per legge di Dio e per l’ordine naturale, la donna è soggetta al marito, e il suo contegno esteriore deve esprimere questa dipendenza. L’Apostolo glielo ricorda e le fa un dovere di ricordarsene in chiesa: « il capo della donna è l’uomo, il capo dell’uomo è il Cristo, il capo del Cristo è Dio (1 Cor. XI, 3) »; questa è la gerarchia legittima. Il Cristo, capo supremo della Chiesa sotto l’alta sovranità di Dio, ha riservato all’uomo solo la potestà dell’ordine, e per mezzo dell’uomo esercita la sua giurisdizione; la donna è all’ultimo posto, senza autorità propria. L’uomo e la donna, come si vede, sono presi in significato collettivo, e perciò non vi è nulla che si opponga alla loro disuguaglianza individuale né alle loro relazioni reciproche di superiore e d’inferiore. Ma San Paolo vuole che la gerarchia dei sessi sia espressa sensibilmente nelle funzioni liturgiche. L’uomo che prega o che profetizza in chiesa a capo coperto, disonora il suo capo, perché volontariamente rinunzia alla dignità gerarchica di cui il Cristo lo ha onorato; una donna che preghi o che profetizzi a capo scoperto, disonorerebbe il suo capo, perché dimostrerebbe con tale atto un’arroganza e una sfrontatezza poco convenienti al suo sesso e al suo grado inferiore; sarebbe, dice l’Apostolo, come se avesse il capo raso. Nel mondo pagano si radevano le persone vili: in Grecia le schiave, a Poma le ballerine e le cortigiane, come segno distintivo dei loro vergognoso mestiere. – La storia della creazione dà alla donna la stessa lezione di riservatezza. L’uomo è in certo modo il riflesso diretto delia maestà divina, mentre la donna è come l’immagine di un’immagine. Nel formare la donna Dio disse: Facciamo all’uomo un aiuto simile a lui », e l’uomo è preso come modello. Inoltre la donna è tratta dall’uomo, come l’uomo era stato tratto dalla materia inerte. Finalmente « la donna è fatta per l’uomo »; perché « non era bene che l’uomo fosse solo ». Ecco tre motivi di subordinazione che lo Spirito Santo le offre da meditare. Del resto anche la natura è concorde con la rivelazione, per insegnare alla donna la modestia e la decenza. La natura le ha dato una capigliatura a guisa di velo; è per lei un ornamento ed un onore di cui non può essere privata senza subire un affronto. Sarebbe invece vergogna per l’uomo il coltivare la capigliatura, come fanno certi effeminati senza pudore per i quali la voce della natura non conta nulla. L’Apostolo riassume il suo pensiero in questa frase alquanto enigmatica: « Perché la donna deve avere sul capo il segno dell’autorità (dell’uomo) per causa degli angeli (1 Cor. XI, 10) », testimoni della subordinazione originaria dei sessi nel giorno della creazione, e invisibili ma severi custodi del cristiano nei luoghi consacrati alla preghiera e ai riti augusti. Queste considerazioni sono profonde, e i Corinzi erano disposti a trovarle troppo sottili. Paolo prevede l’obbiezione e vi risponde subito, opponendo ai ragionatori la pratica delle altre chiese e il suo insegnamento formale (ivi, XI, 16). La Chiesa dunque, appena nata, aveva già le sue usanze fisse a cui il fedele era tenuto a conformarsi, anche quando non ne avesse compreso o apprezzato le ragioni. – Gli Apostoli poi avevano il diritto riconosciuto di dettare leggi e di farle osservare: la loro autorità troncava ogni questione.
2. Paolo era venuto a conoscere altri abusi, dalla relazione di testimoni che ha la delicatezza di non nominare: “Nel darvi questo comando (riguardo il velo delle donne) non vi lodo che vi raduniate non con profitto, ma con Anzitutto dunque radunandovi voi nella chiesa, sento esservi scissure tra voi, e in parte lo credo. Poiché è necessario che vi siano anche eresie, affinché si palesino quelli che tra voi sono di virtù provata. Quando dunque vi radunate insieme, non è già un mangiare la cena del Signore. Poiché ciascuno prende prima a mangiare la sua cena, e uno patisce la fame, un altro poi è ubriaco. Ma non avete voi case per mangiare e bere? Ovvero disprezzate la Chiesa di Dio e fate arrossire quelli che non hanno nulla? Che vi dirò? Devo lodarvi? In questo non vi lodo (1 Cor. XI, 17-22). – Una delle più commoventi istituzioni del secolo apostolico erano le agapi. Trionfo dell’eguaglianza e della fraternità cristiana, rappresentazione viva dell’ultima cena di Gesù Cristo su la terra, simbolo del banchetto che deve riunire gli eletti intorno al trono di Dio, le agapi erano nel tempo stesso, come dice eloquentemente San Giovanni Crisostomo, « un’occasione di carità, un mezzo di soccorrere la povertà e di nobilitare la ricchezza, un grande spettacolo di edificazione e una scuola di umiltà ». Congiunte con l’Eucaristia che esse talora precedevano, in segno di unione fraterna tra i comunicanti e in ricordo dell’ultima Cena, e che per lo più seguivano, in segno di gioia spirituale e di ringraziamento, le agapi erano un annesso e un compimento dell’Eucaristia. Esse però erano molto esposte a perdere il loro carattere liturgico e a degenerare in un banchetto profano simile a quello delle eterie o di altre associazioni pagane. Fino dal tempo degli Apostoli ne nacquero gravi abusi che San Paolo, San Pietro e San Giuda dovettero reprimere. Ben presto l’Eucaristia fu separata dall’agape; poi a poco a poco questa fu limitata a poche solennità commemorative, o trasformata in un banchetto offerto ai poveri da persone ricche. La difficoltà che incontrò la Chiesa per estirpare quelle antiche usanze, dimostra quanto fossero radicate e vive. La liturgia ne ha conservate alcune tracce nella cerimonia dell’offerta, nella distribuzione del pane benedetto, nel banchetto offerto il giovedì santo a dodici poveri, e forse anche nel bacio della pace. – Nelle agapi dei Corinzi si notavano quattro abusi: i fedeli si dividevano in gruppi distinti di parenti e di amici, il che distruggeva la bellezza apostolica del banchetto fraterno; — invece di mettere tutto in comune, ciascun gruppo consumava le sue provviste con un egoismo ingiurioso e urtante; — i primi arrivati si mettevano a tavola senza darsi pensiero dei ritardatari; — finalmente, e questo era il colmo dello scandalo, alcuni dimenticavano totalmente il rispetto dovuto all’assemblea e si abbandonavano agli eccessi del bere. Il comportarsi in tale maniera davvero non era più celebrare la Cena del Signore, ma era fare un volgare banchetto, ciascuno per conto suo, così poco religioso come gli eranoi dei pagani. Paolo non discute la legittimità delle agapi; egli che insorge con tanta forza contro le donne così ardite da comparire nell’assemblea senza velo o da prendere la parola in pubblico, contro l’usanza delle altre comunità cristiane, con quale tono non condannerebbe l’usanza delle agapi, già guaste dagli abusi, se fossero soltanto particolari e locali! Bisogna dunque conchiuderne che esse erano in vigore nelle chiese fondate da lui, come pure a Gerusalemme: per questo, invece di sopprimerle, si limita a regolarle. Egli ordina di aspettarsi vicendevolmente, di fraternizzare con tutti, di ricordarsi che il banchetto liturgico non ha lo scopo di saziare la fame e la sete — non si va in un luogo sacro, per questo — ma di commemorare la Cena del Cristo, di simboleggiare la carità e l’unione dei fedeli e di preludere così all’Eucaristia.
3. È appunto quest’ultima considerazione quella che predomina, e non bisogna cercare altro nesso tra i due passi relativi all’Eucaristia e alle agapi. Veramente non sembra che gli abusi si fossero introdotti nella celebrazione stessa dell’Eucaristia; almeno San Paolo non ne dice nulla. Ma per ragione della loro intima unione, i disordini delle agapi avevano la loro ripercussione sui santi misteri dei quali non erano più il preludio, ma la profanazione anticipata. “In questo non vi Io infatti ho appreso dal Signore quello che ho anche insegnato a voi, che il Signore Gesù, in quella notte in cui era tradito, prese il pane, e rese le grazie, lo spezzò e disse: questo è il mio corpo il quale sarà dato (a morte) per voi: fate questo in memoria di me. Similmente anche il calice, dopo aver cenato, dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel sangue mio: fate questo, tutte le volte che lo berrete, in memoria di me. Perché ogni volta che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, fino a tanto che Egli venga. Per la qual cosa chiunque mangerà questo pane e berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Provi perciò l’uomo se stesso, e così mangi di quel pane e beva di quel calice. Poiché chi mangia e beve indegnamente, si mangia e beve la condanna, non distinguendo il corpo del Signore. Per questo molti tra voi sono infermi e senza forze, e molti dormono. Che se ci giudicassimo da noi stessi, non saremmo certamente giudicati. Ma quando siamo giudicati, siamo castigati dal Signore, affinché non siamo condannati con questo mondo (1 Cor. XI, 22-32). – Coloro che nei dogmi cristiani vogliono vedere soltanto il termine di una lenta evoluzione e la risultante di lunghi sforzi i quali finiscono con combinarsi, dopo di aver agito per lungo tempo in senso contrario, si devono trovare assai imbarazzati dopo la lettura di questo passo, scritto meno di trent’anni dopo l’istituzione dell’Eucaristia, e di una autenticità indiscussa. Il linguaggio teologico di oggi non descrive con termini più precisi e più espliciti il più consolante e il più ineffabile dei nostri misteri. Paolo ha appreso questa dottrina dal Signore stesso, lo dice espressamente, perciò non si può intendere che parli di una rivelazione fatta per mezzo di un intermediario, la quale non lo distinguerebbe per nulla dal meno favorito dei fedeli. Da molto tempo si è notato che nel racconto dell’Eucaristia, Luca dipende da Paolo, come Matteo e Marco sembrano dipendere l’uno dall’altro, senza che si possa dire con certezza da qual parte sia l a priorità (Matt. XXVI, 26 – Marc. XIV, 22). Tra Paolo e Luca vi sono soltanto tre differenze di minima importanza, nessuna delle quali altera il senso. — Nella consacrazione del pane, l’Evangelista esprime il verbo che San Paolo sottintende. Egli dice: « Questo è il mio corpo che è dato per voi », mentre l’Apostolo, secondo la lezione più accreditata, dice semplicemente: « Questo è il mio corpo il quale (è) per voi » (τὸ ὑπὲρ ὑμῶν – to uper umon); ma è chiaro che questa espressione ellittica vuole una parola che la completi, e noi non possiamo scegliere che tra dato e immolato, secondo che vogliamo vederci o no un’allusione al sacrifizio del Calvario. — Nella consacrazione del calice, la relazione tra i due scrittori è pure strettissima; le parole dell’istituzione sono riferite così: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue (Matt. XXVI, 28 – Marc. XIV, 22) »; ma San Luca aggiunge: « che è versato per voi ». Questa aggiunta era già virtualmente contenuta nella parole « sangue dell’alleanza », perché data l’allusione formale alla conclusione dell’antica alleanza, quel sangue non può essere altro che il sangue del sacrificio, sparso in favore di coloro dei quali esso sigilla il patto della riconciliazione. — Più lieve ancora è l’ultima divergenza. A ciascuna delle due formule Paolo aggiunge il precetto: « Fate questo in memoria di me »; San Luca la tralascia la seconda volta come superflua, essendo inseparabili le due parti del rito sacramentale. Non si può negare che, nell’uno e nell’altro, la consacrazione del carice presenta una certa difficoltà. Nella formula: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue », con o senza l’aggiunta: « che è versato per voi », l’oscurità non dipende affatto dalla metonimia comunissima che prende il calice per il suo contenuto;, deriva invece da una figura del linguaggio meno comune, figura che consiste nel prendere la causa per l’effetto o l’effetto per la causa, cioè l’alleanza conchiusa nel sangue, per il sangue che sigilla l’alleanza. Però se si tiene conto del parallelismo con la prima consacrazione: « Questo è il mio corpo », la quale sembra che chiami la formula corrispondente: « Questo è il mio sangue »; se ci riportiamo alle parole dell’Esodo ricordate nella formula; se finalmente si riflette che, in tutto il contesto, San Paolo adopera indifferentemente le espressioni « bere il calice » e « bere il sangue del Signore » come assolutamente sinonime, non si esiterà a conchiudere che la nuova alleanza nel sangue equivale al sangue della nuova alleanza. In questa espressione complessa, Paolo e Luca mettono in rilievo la causa, cioè il sangue. Dunque non si comprenderebbe come mai San Tommaso giudicasse insufficiente la formola di San Paolo, se — cosa strana — non sostenesse che è insufficiente anche quella dei due primi Sinottici (S. Th. III, q. LXXVIII, ART. 3): dal che seguirebbe che nessuno dei quattro scrittori sacri ci avrebbe trasmesso, neppure nella sostanza, la vera formula della consacrazione, e che le chiese orientali non avrebbero avuto mai vero sacrificio. Le allusioni al sacrificio, nelle diverse formole di consacrazione, si riferiscono al sacrifizio della croce o al sacrifizio dell’altare! Bisognerebbe certamente accettare la prima alternativa, se il futuro tradetur della Volgata traducesse esattamente il testo. Ma questa parola o risponde a un participio presente, o più probabilmente non corrisponde a niente affatto, poiché la lezione migliore sembra che sia: « Questo è il mio corpo il quale (è) per voi ». Questa impressione viene confermata quando si confronta con la formola di San Paolo quella di San Luca: « Questo è il mio corpo che è dato per voi », con un participio presente che indica la simultaneità del dono. Lo stesso è della consacrazione del calice: San Paolo non aggiunge nulla al ricordo del sangue della nuova alleanza, ma l’aggiunta dei tre Sinottici ha il verbo al presente e non al futuro: « che è sparso per voi, che è sparso per molti. per la remissioni dei peccati ». Si può dire, è vero, che essendo cosi vicino il sacrificio del Calvario, si può considerarlo come presente. Tuttavia questa interpretazione ha qualche cosa di stentato e di oscuro. Se questa non si accetta, bisognerà ammettere che le allusioni al sacrificio mirano direttamente al sacrificio dell’altare e non a quello della croce. – Non dobbiamo qui dimostrare che questo passo provi invincibilmente la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, né esaminare se le parole di San Paolo autorizzino l’uso della comunione sotto una sola specie; ma vi è un punto che merita la nostra riflessione. L’Apostolo afferma che « chiunque mangia questo pane e beve il calice del Signore indegnamente, è reo del corpo e del sangue del Signore »; che « colui che mangia e beve indegnamente, beve e mangia la sua condanna, non distinguendo il corpo del Signore ». Ma la comunione indegna ha dei gradi infiniti, dall’irriverenza fino al sacrilegio; e lo stesso è della mancanza di discernimento, più o meno cosciente e più o meno colpevole. Paolo aggiunge che per questo motivo — per questo trattamento indegno e per questa mancanza di discernimento — i Corinzi sono afflitti da malattie numerose e da morti frequenti; che quelli sono avvisi paterni che essi potrebbero evitare giudicando se stessi con maggior rigore. Ora egli ha soltanto biasimato tre o quattro abusi riguardo la celebrazione dell’agape e comanda soltanto di prendere quel pasto liturgico insieme e con decenza; è dunque molto probabile che con la parola « indegnamente » intenda non solo le disposizioni cattive, ma anche le irriverenze e la mancanza di preparazione. I severi castighi inflitti ai Corinzi, potrebbero far credere a disposizioni peggiori; ma si osserverà che San Paolo non li chiama castighi, li chiama soltanto lezioni che hanno per scopo la correzione e la salvezza dei fedeli. Ora se una condotta spensierata e una mancanza di rispetto verso l’Eucaristia sono punite in tal maniera, che supplizio non meriterà la comunione veramente sacrilega!