CONOSCERE S. PAOLO -6-
[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]
LETTERE AI CORINTI
La chiesa di Corinto. (2)
CAPO II
Casi di coscienza.
I . IL MATRIMONIO E IL CELIBATO.
1 . L’IDEALE DI PAOLO. — 2. PIENA LICEITÀ DELL’ATTO CONIUGALE E DEL MATRIMONIO. — 3. LA VERGINITÀ È MIGLIORE. — 4. MATRIMONIO INDISSOLUBILE E PRIVILEGIO PAOLINO.
1. La massima parte della prima Epistola ai Corinzi è dedicata alla soluzione dei dubbi proposti dagli stessi neofiti. Paolo si riferisce spesso alle questioni dei suoi corrispondenti (1 Cor. VII, 1), ma probabile che alla sua risposta egli mescoli pure dei punti dottrinali su cui essi non avevano pensato di consultarlo. Vi sono sei questioni principali: il matrimonio e il celibato (VII), la questione degli idolotiti (VIII- X), le agapi e l’Eucaristia (XI), l’uso e il valore dei carismi (XII- XIV), la risurrezione dei morti (XV) e la gran colletta (XVI). Questo ultimo punto sarà trattato a proposito della Epistola seguente di cui occupa due interi capitoli. Alla celebrazione dell’agape e dell’Eucaristia si connette il contegno delle donne in chiesa. Forse, nel pensiero dell’Apostolo, i carismi appartengono allo stesso argomento; ma non conviene pregiudicare nulla e lasciare ai testi la loro indipendenza. – « È bene per l’uomo evitare il contatto della donna (1 Cor. XVI, 1) ». Questa sentenza sembrerebbe una massima conosciuta, citata forse dai Corinzi per proporre la questione della legittimità del matrimonio. Paolo la ripete e, facendola sua, l’applica successivamente all’estensione delle relazioni coniugali, al celibato e alla vedovanza. Per sé, è bene il rinunziare ai diritti del matrimonio, è bene il conservare la verginità, è bene il non contrarre una nuova unione quando la morte ha troncato la prima; ma se tutto questo è buono, anche il contrario è buono, ma di una bontà minore; non si tratta di un precetto, ma di vocazione divina, di perfezione e di consiglio. Può sembrare strano, che simili scrupoli siano nati a Corinto; ma l’estrema dissolutezza dei costumi provoca alle volte reazioni esagerate. Poiché si dispera di riformare la natura, si arriva al punto di sognare di distruggerla, e accanto all’epicureo che pratica il più vergognoso libertinaggio, si alza lo stoico che vorrebbe quasi condannare il matrimonio. I gnostici ondeggiarono sempre tra questi due eccessi. Paolo rimette le cose a posto, e la sua dottrina si può riassumere in tre frasi: l’uso del diritto coniugale è lecito, ma la continenza è più perfetta; il matrimonio è cosa buona, ma la verginità è migliore; le seconde nozze sono permesse, ma lo stato di vedovanza è preferibile. Se vi è cosa certa, è che l’Apostolo viveva nel celibato, poiché la voce discorde di un Clemente Alessandrino non fa che accentuare di più l’accordo della tradizione cattolica a questo riguardo. Che egli considerasse la verginità come più eccellente del matrimonio, non è possibile dubitarne, e gli sforzi di certi scrittori eterodossi per eludere questa testimonianza importuna, non fece che mostrarla in tutta la sua evidenza. « Io voglio — dice Paolo permettendo agli sposi l’atto coniugale, ma senza imporlo — voglio che tutti gli uomini siano come me, dati alla continenza, « ma ciascuno ha da Dio il suo carisma speciale, chi in un modo, chi in un altro ». E perché non si possa prendere abbaglio sul suo pensiero, soggiunge: « Dico ai celibi e alle vedove, che per loro è bene rimanere come sono io », cioè, evidentemente, sciolti dai vincoli del matrimonio; « ma se non sono continenti, si sposino. È meglio sposarsi che ardere » del fuoco impuro.
2. Su questi princìpi, il caso degli sposi è molto semplice; a loro, come a tutti, si applica la massima generale: « È bene per l’uomo evitare il contatto della donna »; per conseguenza lo stesso è della donna verso l’uomo, essendo uguali le condizioni, come vedremo più innanzi. Ma anche a loro si applica quest’altra sentenza: « Per causa della fornicazion, cioè per causa degli atti d’incontinenza a cui sarebbero esposti, « ciascuno abbia la sua donna, e ciascuna donna abbia il suo marito ». Noi pensiamo che l’Apostolo adoperi a bella posta la formula più comprensiva, per abbracciare insieme tutti i rapporti sessuali legittimi. Egli non parla distintamente né del matrimonio da conchiudere né del diritto coniugale da esercitare, perché mira nel tempo stesso all’uno e all’altro e applica loro la stessa regola: per se stessa l’astensione è migliore, ma l’uso è buono e in certe circostanze può essere raccomandato. Egli naturalmente suppone che nessun impegno antecedente non leghi la volontà: è noto il suo giudizio severo su le vedove che violano la loro fede — voto propriamente detto o semplice promessa — e ricorda agli sposi, che essi non sono più interamente liberi di sodisfare il loro desiderio di perfezione. Poiché l’atto coniugale è per loro un vero debito, nella misura in cui il coniuge vuole valersi del suo diritto; il rifiuto di compiere questo dovere è assimilato ad un rifiuto di giustizia, il quale priva l’altro coniuge di un bene di cui non dev’essere privato. Infatti, siccome il matrimonio fa dei due sposi una sola carne, il corpo della donna appartiene al marito, e il corpo del marito appartiene alla sposa. Certamente è loro permesso il rinunziare insieme al loro diritto, ma Paolo vi mette tre condizioni: il mutuo consenso; un motivo di ordine spirituale, come sarebbe il desiderio di attendere più liberamente alla preghiera; un tempo limitato, passato il quale si devono riprendere le relazioni ordinarie, per evitare il pericolo d’incontinenza e per prevenire le tentazioni di satana. Ma appena dato questo ultimo consiglio che potrebbe sembrare un comando, l’Apostolo si affretta a soggiungere: « Dico questo per indulgenza, non già per farne un obbligo (1 Cor. VII, 6) ». Egli desiderava che tutti fossero continenti come lui, ma non vuole imporre a nessuno la continenza; anzi non potrebbe neppure farlo, poiché per quello ci vuole un dono speciale di Dio. Il permesso che egli dà, prova che l’atto coniugale è perfettamente lecito, anche per il solo fine di evitare le tentazioni del demonio e della carne, ma non per questo lo rende obbligatorio. – Questo insegnamento è così chiaro e preciso, che non sembrerebbe mai poter dare luogo a discussioni o a dubbi. Il caso dei celibi e dei vedovi differisce da quello dei coniugati, in quanto i primi sono liberi da ogni impegno; i celibi perché non ne contrassero nessuno, i vedovi perché ne sono stati sciolti dalla morte del coniuge; esso dunque si risolve con i medesimi princìpi. Il celibe può senza nessuna colpa contrarre matrimonio: « Prendendo moglie tu non pecchi, e se la vergine prende marito non pecca (ivi, VII, 28) ». Così pure: « la donna è legata finché vive suo marito; che se il marito muore, essa è libera di rimaritarsi a chi vuole, purché ciò si faccia nel Signore (ivi, 39) », cioè purché sposi un cristiano. La stessa soluzione è data per il padre o il tutore che abbia la custodia di una fanciulla e la responsabilità della condotta di lei. Se custodendola per troppo tempo dopo l’età nubile, teme per sé o per lei qualche spiacevole conseguenza — senza che sia possibile specificare con precisione quello che teme — farà bene a seguire i consigli della prudenza e darle marito. « Operando così, egli non pecca affatto »; la fanciulla e il suo fidanzato « si sposino » (ivi 36). Ma se, per una parte, non vi sono tali timori, fa bene, anzi fa meglio, per sé, a conservare vergine la sua figliuola. Certi interpreti trovano strano che il padre disponga in tale maniera di sua figlia senza consultarla, e scelga a suo talento per lei la verginità o il matrimonio. Non diremo che sia troppo il considerare la questione dal nostro punto di vista moderno d’individualismo a oltranza; non diremo neppure che, nel dubbio, una fanciulla onesta segue generalmente il parere del suo direttore naturale, ma ci limiteremo ad osservare che il consenso della figlia è implicitamente indicato nella frase: « Si sposino! » e, per il caso contrario, nell’assenza di qualunque obbligo da parte del padre. Del resto non c’è da supporre un padre o un tutore di intenzioni tiranniche, né di un despotismo arbitrario, e Paolo con tutta ragione fa astrazione da questo caso eccezionale (ivi 37-38).
3. La liceità piena e intera del matrimonio e delle seconde nozze è dunque fuori di discussione; ma non è meno certo che lo stato di verginità o di vedovanza è per se stesso migliore, e non è possibile nessun equivoco a questo riguardo. « Dico ai celibi e alle vedove: È bene per loro il rimanere come sono io (ivi, VII, 8) », cioè fuori del matrimonio. Non è soltanto questione di bene, ma di meglio, poiché è un bene che l’Apostolo augura a tutti, che vorrebbe vedere in tutti, ma che dipende da un dono gratuito (χάρισμα = karisma) di Dio. — Dopo un caloroso invito alla verginità, Paolo soggiunge: « Dico questo per il vostro bene; non per tendervi un tranello, ma per incitarvi a quello che è onesto e adatto a attaccarvi al Signore senza distrazione (35) ». L’oggetto delle raccomandazioni dell’Apostolo, l’ideale che egli propone, il mezzo di attaccarsi più strettamente al Signore, è evidentemente qualche cosa di meglio dal punto di vista spirituale. — Il padre che, dopo di aver riflettuto e debitamente pesate tutte le circostanze di tempo e di persone, conserva sua figlia vergine, « fa meglio » (38) che se le desse marito; dunque le procura un bene superiore. Le cose sono perfettamente uguali per i due sessi. Paolo parla in generale delle persone non coniugate; se fa menzione particolare delle vergini e delle vedove, è perché il maschile di questi nomi è poco usato in greco, e forse anche perché la liceità del matrimonio e delle seconde nozze per gli uomini era fuori di questione. Ma egli fa vedere a più riprese, che non stabilisce nessuna differenza tra i due sessi né riguardo a precetti né riguardo a consigli. – È infatti innegabile che egli dà dei consigli: « Riguardo alle vergini, non ho comandi del Signore, ma do un parere (ossia: esprimo un sentimento) in virtù della misericordia che Dio mi ha fatto, di essere fedele (25) ». Che fedele significhi « degno di fede » oppure « fedele banditore del Vangelo », poco importa; in ogni caso l’Apostolo mette avanti l’autorità che egli ha da Dio, per stabilire il suo insegnamento. Sopra un punto relativo alla vita cristiana, egli dà un parere motivato; esprime un sentimento che appoggia su ragioni soprannaturali e che, date le circostanze, non può essere che un consiglio, comunque lo si voglia chiamare. Quando in vita le vedove a non passare a seconde nozze, assicurandole che a suo avviso saranno così più felici, e se ne appella allo Spirito di Dio che egli crede di avere, dà egualmente un consiglio. Per questo solo, che presenta la verginità e la vedovanza come uno stato più perfetto, più vantaggioso, più gradito a Dio, senza essere tuttavia l’oggetto di un comando, egli insegna l’esistenza dei consigli evangelici. La sua preferenza per il celibato sarebbe forse suggerita da considerazioni egoistiche, da mire utilitarie, dal desiderio di evitare gl’impicci del mondo, per condurre una vita senza fastidi e senza noie? Chiunque abbia la pretesa di conoscere l’Apostolo, non si persuaderà mai che egli obbedisca a preoccupazioni così terrene, a sentimenti così bassi; ma egli stesso pensò a confondere gli interpreti indegni del suo pensiero. Egli vuole che la cessazione temporanea dei rapporti coniugali abbia per motivo il desiderio di attendere meglio alla preghiera. Egli sa che l’uomo non ammogliato, se è veramente Cristiano, « pensa a piacere al Signore », e che l’uomo ammogliato, ancorché sia Cristiano, è assorbito da idee mondane e deve « pensare a piacere alla moglie ». Egli sa pure che la vergine o la vedova può avere l’unica cura « di essere santa di corpo e di anima », mentre la donna maritata è distratta dall’obbligo « di occuparsi delle cose del mondo » e dalla sollecitudine « di piacere a suo marito ». Sotto l’aspetto spirituale, la condizione del celibe è migliore, perché può dedicarsi interamente al servizio di Dio. Ora, conchiude l’Apostolo, io voglio darvi il mezzo « di attaccarvi al Signore interamente (ivi, 32-34) ». L’instabilità delle cose umane ci dà la stessa lezione: « Io penso che è bene per l’uomo il restare così (restare vergine), per causa della necessità presente… Voglio dire, o fratelli, che il tempo è breve; dunque coloro che hanno moglie, siano come se non l’avessero, quelli che piangono, come se non piangessero, quelli che si rallegrano, come se non si rallegrassero, quelli che comprano, come se non possedessero, quelli che si servono del mondo, come se non se ne servissero; perché la figura di questo mondo passa (26-31) ». Paolo sarebbe forse assediato dall’idea della prossima parusia? Non bisogna negarlo a priori; su questo argomento, come abbiamo detto, egli non insegna nulla ed ha la coscienza di non saperne nulla; ma in mancanza di una scienza certa, poteva avere un’opinione fondata su probabilità o su congetture e, dal momento che ci avverte della sua ignoranza e protesta di non insegnare nulla, non sì vede l’impossibilità assoluta che egli regoli la sua condotta e i suoi consigli secondo tali probabilità.
4. San Paolo proclama con la stessa forza con cui la proclamano i Sinottici, l’indissolubilità del matrimonio cristiano, perché la legge che egli promulga a questo riguardo ha la stessa origine: « Alle persone coniugate ordino questo, non io ma il Signore: la donna non si separi da suo marito. Se venisse a separarsene, si astenga da una nuova unione, oppure si riconcili con suo marito. E il marito non rimandi sua moglie (ivi, 10-11) ». Paolo deve aver conosciuto per tradizione orale questo precetto del Signore, riferito dai tre Sinottici; egli lo presenta in una forma che si avvicina al testo di Marco, con differenze notevoli. In virtù di questo precetto divino è proibito alla donna separarsi dal marito, ed è proibito al marito rimandare la moglie: differenza di espressione assai delicata, per indicare l’autorità maritale, così dal punto di vista ebraico come da quello romano. — L’Apostolo prevede tuttavia il caso in cui la separazione di persona avverrà di fatto, e lascia capire che essa può essere legittima; ma in nessuna ipotesi il matrimonio non è sciolto. Infatti la donna separata dal marito non ha che questa alternativa: o riconciliarsi con lui, il che dimostra che il vincolo sussiste, oppure astenersi da una nuova unione, il che prova che la prima dura ancora. — Il rinvio della donna da parte del marito è vietato senza restrizione e senza eccezione, perché questo rinvio s’intende, per gli Ebrei come per i Gentili, come un atto che avrebbe l’effetto di annullare legalmente il contratto coniugale. Non dovendo avverarsi mai tale caso, non occorre fare a suo riguardo altre ipotesi. L’indissolubilità del matrimonio cristiano non riceve dunque da San Paolo nessuna limitazione. Come egli volentieri ripete, il matrimonio viene sciolto dalla morte (Rom. VII, 2-3). Una donna sarà sempre chiamata adultera se contrae una nuova unione mentre vive suo marito, e lo stesso sarebbe dell’uomo che si riammogliasse mentre vive sua moglie; poiché questi due termini sono correlativi, e l’Apostolo stabilisce tra gli sposi, dal punto di vista coniugale, una perfetta uguaglianza di diritti e di doveri. – Il matrimonio misto ha minore forza, e Paolo non lo chiama neppure matrimonio, ma riserva questo nome al sacramento che unisce tra loro i fedeli « In quanto agli altri, dico loro, io e non il Signore: Se un fratello ha per sposa una donna infedele, e questa acconsente ad abitare con lui, non la rimandi. E la donna che ha per marito un infedele il quale acconsente a coabitare con lei, non deve mandare via suo marito (1 Cor. VII, 12-13) ». Anche qui le sfumature di pensiero e di espressione sono mirabilmente osservate. Non è più il Signore che parla, ma l’Apostolo, certamente con lo Spirito del Signore. Egli si rivolge agli altri, a quella categoria di fedeli che non può mettere tra i coniugati, perché riserva questa parola per i matrimoni cristiani, né tra i non coniugati, poiché vivono realmente nello stato matrimoniale. Ma egli interpella soltanto il coniuge cristiano, perché la Chiesa non ha il compito di regolare la vita di coloro che non le appartengono. Egli proibisce dunque — la forma proibitiva assoluta della frase ci fa pensare a una vera proibizione piuttosto che ad un consiglio — proibisce allo sposo cristiano di rimandare la coniuge infedele, nel caso in cui questa acconsenta a coabitare con lui. Una ripugnanza istintiva malintesa o scrupoli poco fondati non sono un motivo sufficiente di separazione. « Poiché l’uomo infedele è santificato dalla donna (fedele) e la donna infedele è santificata nel fratello (ivi VII, 14) ». – Essendo i due sposi una medesima carne, ed essendo il coniuge cristiano santificato dal Battesimo, la sua santità si riflette sul coniuge infedele. Non si tratta qui della santità interiore che è incomunicabile, ma di una santità estrinseca la quale deriva dalla relazione con le cose sante, da una separazione dalle persone profane e da una consacrazione iniziale al culto di Dio. I Corinzi ammettevano questo per i loro figli, nati quasi tutti prima della loro conversione, poiché il Battesimo dei primi neofiti datava appena da tre o quattro anni; San Paolo fa loro notare che la stessa ragione milita in favore della santificazione degli sposi pagani da parte del loro coniuge cristiano. – Però « se l’infedele si separa, il cristiano si separi (anch’esso). Il fratello o la sorella non sono legati in tali circostanze, poiché Dio vi ha chiamati (per vivere) in pace. Infatti che ne sai tu, o donna, se salverai tuo marito; e che ne sai tu, o uomo, se salverai tua moglie! (19)». Il permesso è chiaro, e la condizione pure. Il cristiano può separarsi; in tal caso non è più legato; l’Apostolo, in virtù della sua ispirazione, lo dichiara libero. Però, eccetto un pericolo morale per lui, gli è permesso rinunziare al suo privilegio. Paolo permette; al più consiglia, ma non comanda. Ma avverandosi il caso della separazione, egli toglie alla parte cristiana ogni rimpianto e ogni scrupolo, ricordandole che Dio c’invita alla pace, e che la speranza lontana e incerta di convertire un giorno il coniuge rimasto infedele, non le potrebbe imporre il sacrificio della pace, della gioia e della libertà. Bisogna soltanto che il coniuge non cristiano si allontani per il primo, o rifiutando di coabitare o rendendo la coabitazione pericolosa o moralmente impossibile, con bestemmie, con sevizie o con minacce che porterebbero lo scandalo o la guerra nel focolare domestico. Del resto questo privilegio concesso in favore della fede non è che una derogazione alla massima generale: « Ciascuno perseveri nello stato che il Signore gli ha assegnato, nel genere di vita in cui si trovava quando Dio lo ha chiamato ». A torto si volle vedere un’applicazione del privilegio di Paolo nella costituzione di Pio V (Romani Pontificis, 2 agosto 1571), il quale prescrive agli indiani convertiti di conservare, tra le altre mogli, quella che riceverà con essi il Battesimo, e di rimandare le altre; e nel decreto di Gregorio XIII (Populis ac nationibus – 25 gennaio 1585), il quale dispensa i neofiti dell’Angola, dell’Etiopia, del Brasile e di altre regioni indiane, dall’interpellare il coniuge pagano per sapere se vuole coabitare, nel caso in cui tale interpretazione sia impossibile, dichiarando validi i matrimoni contratti in virtù di questa dispensa, qualunque cosa avvenga. Nel privilegio di Paolo l’interpellazione è essenziale, se non si abbia altro mezzo per conoscere la volontà del coniuge. L’allontanamento morale di questo basta, ma è necessaria; l’allontanamento fisico accidentale non I casi di Pio V e di Gregorio XIII sono affatto diversi. Questi due Pontefici, per ragioni di forza maggiore, si servono del potere che hanno di sciogliere un matrimonio cristiano non consumato e, a più forte ragione, un matrimonio contratto nell’infedeltà. Tra i fatti considerati nei due documenti pontifici e il privilegio di Paolo, vi sono tre grandi differenze: per la causa, vi è da una parte la dispensa divina promulgata da San Paolo, e dall’altra la dispensa papale di ordine ecclesiastico; per il tempo, la dispensa del Papa scioglie l’antico matrimonio appena è applicata o notificata, il privilegio di Paolo lo lascia sussistere fino a che si conchiuda un nuovo matrimonio; per le condizioni, il Papa le determina secondo la sua saggezza, mentre Paolo ne mette una sola, il rifiuto formale o equivalente di coabitare.