DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXXXV:1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]
Ps LXXXV:4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.
[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’ànima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.
[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; 6: 1-10
Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia V.- Torino 1899]

“Se viviamo in ispirito, facciamo anche di camminare in ispirito. Non sia che siamo vanitosi, provocando od invidiando gli uni gli altri. Fratelli, se alcuno sia soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale in ispirito di mansuetudine, badando a te stesso, che ancor tu non sia tentato. Sopportate a vicenda le molestie, e così adempirete la legge di Cristo. Perché se alcuno stima d’essere alcun che, essendo nulla, inganna se stesso. Ciascuno pertanto metta a prova l’opera sua, e allora avrà il vanto in se stesso e non in altri, perché ciascuno porterà il suo peso. Colui poi che viene istruito con la parola, faccia parte d’ogni suo bene a chi lo istruisce. Non vi ingannate; Dio non si schernisce; perciocché quello che l’uomo avrà seminato, quello ancora mieterà. Onde chi semina nella sua carne, dalla carne altresì mieterà corruzione; chi poi semina nello Spirito, dallo Spirito mieterà vita eterna. Intanto nel fare il bene, non ci venga meno l’animo, che alla sua stagione mieteremo  con sicurezza. Mentre adunque abbiamo tempo, facciamo bene a tutti, ma principalmente a quelli che hanno comune con noi la fede „ (Ai Galati, V, 25, 26; VI, 1-10).

Tutti questi versetti della Epistola si leggono in continuazione di quelli che vi spiegai meglio nella omelia terza della Domenica XIV dopo Pentecoste. Come vi dissi, l’ultima parte di questa lettera ai Galati è tutta morale, dirò meglio, è un vero tesoro di dottrina morale, e le sentenze si succedono l’una all’altra con una copia, con una chiarezza, con una efficacia ammirabile. Devo poi avvertirvi che queste sentenze morali non sono sempre legate tra loro come conseguenza l’una dell’altra, ma parecchie possono stare da sé, a guisa di ricordi. L’Apostolo, in sul chiudere questa lettera, ci presenta l’immagine di un padre tenerissimo, che scrive ai suoi figliuoli lontani, e spinto dall’affetto e dal desiderio ardente del loro bene, fa raccomandazioni sopra raccomandazioni senza badare molto all’ordine delle cose. Ciò che gli sta a cuore è di ricordar loro ciò che maggiormente importa e ciò che crede per loro più utile e necessario. Ripetiamo le singole sentenze del grande Apostolo e facciamone la chiosa, come è nostro uso. – “Se viviamo in spirito, facciamo anche di camminare in spirito. „ È da ricordare, o carissimi, che nei versetti precedenti S. Paolo ha distinto i Cristiani in due grandi classi, quelli che vivono secondo lo spirito e quelli che vivono secondo la carne; i primi sono quelli, che avendo ricevuta la fede e la grazia di Dio, vivono conformemente agli insegnamenti del Vangelo, combattono le ree passioni della carne e praticano le virtù del loro stato; i secondi son quelli che, quantunque rigenerati da Cristo, secondano le passioni della carne e producono quelle male opere della carne, che S. Paolo viene numerando. Continuando il filo del suo discorso, S. Paolo dice: ” Io so bene che voi, o Galati, ammaestrati da me, vivete in ispirito, cioè siete informati ai grandi insegnamenti del Vangelo, volete essere veri discepoli di Gesù: se è così, mostratelo con le opere. Sta bene credere in Gesù Cristo, par che dica l’Apostolo; sta bene l’aver ricevuto il suo Battesimo, ma non basta: bisogna anche camminare, cioè operare secondo la fede. „ E questa una verità che si trova inculcata in cento luoghi delle lettere di S. Paolo. La fede è necessaria, e senza di essa non possiamo piacere a Dio: ma la sola fede non basta: essa deve essere avvivata dalle opere che mostrino la fede, e quasi le diano corpo. Vedete nel vostro campo la vite: essa deve essere viva, e a suo tempo mettere le sue gemme, i suoi germogli e coprirsi di foglie: ma v’appagate voi ch’essa sia viva e lussureggi nel fogliame? No, per fermo; voi volete che sia viva e vi dia il suo frutto: se non vi dà il frutto, tanto vale che sia secca, e voi la tagliate o svellete dal suolo. Similmente Iddio; vuole che abbiamo la fede: Spiritu vivimus, ma ciò non basta: vuole i frutti di questa vita di fede, ossia esige le opere Spiritu et ambulemus. Quanti che hanno la fede, ma non le opere! Quanti battezzati e vivono da pagani! Quanti che professano il simbolo, e non osservano il decalogo! Non siamo di costoro, la vita dei quali è una continua contraddizione! Tien dietro un’altra sentenza dell’Apostolo, che faceva al caso dei Galati, ma non sarà certamente inutile anche a noi. La Chiesa di Galazia era sossopra per opera di certi falsi predicatori, che mettevano in dubbio la dottrina e la missione di S. Paolo, e volevano col Vangelo di Cristo le leggi e le cerimonie mosaiche: erano uomini arroganti, pieni di orgoglio, che volevano avere il vanto di essere maestri dei Galati. L’Apostolo grida: “Non sia che siamo vanitosi, provocando ed invidiando gli uni gli altri.” – Vedete forma delicata e piena di carità, che usa l’Apostolo. Poteva dire: “non siate vanitosi, „ ma dice: “Non sia che siamo vanitosi”, si mette anch’egli nel numero dei colpevoli, e la correzione che fa agli altri, la indirizza anche a se stesso per non offendere troppo vivamente l’amor proprio di quei suoi figliuoli indocili e riottosi. Imitiamo la prudenza e la carità dell’Apostolo, allorché per ufficio talora ci accada di dover correggere i nostri fratelli o figliuoli: più che sia possibile risparmiamo la loro debolezza, raddolciamo il rimprovero, affine di guadagnarli.  – Quali sono generalmente le conseguenze della vanità? Il dispetto, l’ira e l’invidia in quelli che la nostra vanità offende. — Fate che uno s’innalzi in mezzo agli altri o per veri o per falsi meriti, e voglia loro sovrastare e meni pompa dei suoi titoli. Con la sua vanità ed ambizione li disgusta e li ferisce, e di qui tosto il dispetto, il mal animo, l’invidia, i litigi, le discordie e gli sforzi per abbatterlo e rompere quel giogo che si tenta di imporre. A ragione pertanto, S. Paolo vuole che fuggiamo la vanità e l’ambizione per chiudere la porta alle ire ed alle invidie, e serbare la pace. L’Apostolo volendo chiudere la sua lettera, con una serie di gravi ammonimenti pratici, per far sentire quanto gli stavano a cuore e come ne desiderasse ardentemente l’osservanza, manda innanzi una parola piena di affetto, mostrando quasi di dimenticare la sua dignità, e comincia: ” Fratres — Fratelli! „ Come è cara questa parola in bocca all’Apostolo per eccellenza, e che si rivolge ai fedeli della Galazia, la maggior parte dei quali dovevano essere poverelli! Per i pagani era un linguaggio inaudito, incomprensibile, affatto contrario ai loro usi, alle loro leggi ed alle loro credenze: era un lampo di luce che brillava in mezzo alle tenebre, che annunziava un nuovo ordine di cose, che gettava le basi d’una nuova società. Quella parola sì santa, “Fratelli, „ che allora si pronunciava per la prima volta nel mondo pagano (Il paganesimo ignorava al tutto l’idea di fratellanza degli uomini, ignorando la loro origine comune e il fine comune, a cui sono chiamati. Per i pagani la fratellanza umana era un assurdo, un insulto al senso comune: la schiavitù ne era una conseguenza ed una prova. Né è da credere che n’avessero un’idea piena gli Ebrei, che pure possedevano la vera religione. Gli Ebrei estendevano l’idea di fratellanza ai loro connazionali: fuori dell’ebraismo non vedevano che nemici o stranieri, non mai fratelli. È Gesù Cristo colui che annunzia la fratellanza vera ed universale.), a poco a poco faceva il giro del mondo, dissipava gli errori e i pregiudizi, e stabiliva il principio della fratellanza universale, la cui attuazione va lentamente, ma infallibilmente esplicandosi. « Fratelli, grida S. Paolo, se alcuno di voi è soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale; siamo fratelli, e come fratelli dobbiamo amarci: ora che cosa domanda l’amore, l’amore fraterno? L’amore veramente fraterno vuole e deve volere il bene dei fratelli, anzitutto rimovendo da essi ogni male. Vedere il male che affligge il fratello, e poterlo allontanare da lui, e non allontanarlo, in chi ama davvero, non si può concepire, come non si può concepire il fuoco senza calore. Tra i mali che travagliano i fratelli nostri, i maggiori senza dubbio sono i morali, e perciò questi sopratutto son quelli che con ogni studio dobbiamo allontanare da essi. Ecco perché S. Paolo scrive ai Galati: “Se qualcuno è soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale; „ cioè, voi che vivete secondo lo spirito, e camminate secondo il Vangelo, porgete la mano al fratello caduto o in pericolo di cadere, sostenetelo, od aiutatelo ad uscire dalla colpa. Dirai: In qual modo farò questo? Con la preghiera senza dubbio, col buon esempio e particolarmente con la parola di correzione, di consiglio, di esortazione, di incoraggiamento, secondo le condizioni speciali in cui versa il fratello e ti trovi tu stesso. E qual sarà l’accento delle vostre parole al fratello caduto o pericolante? In spiritu lenìtatis. Il vostro accento sia dolce, mite, affettuoso, tutto informato a carità: e perché? “Badando a te stesso, risponde san Paolo, che ancor tu non sii tentato; „ che è quanto dire: Sii benigno, caritatevole, correggendo ed ammonendo il fratello tuo, perché ancor tu puoi cadere ed aver bisogno che altri usi teco quella carità che ora eserciti con esso. Adopra con lui quella misura che vorresti usata con te, e certamente sarai mite e indulgente. La correzione fraterna! Quale argomento, o dilettissimi! Certo è un dovere, e gravissimo, ma non sono poche né lievi le difficoltà nell’eseguirlo. Noi siamo tenuti a correggere il fratello errante, quando non vi siano altri che per ufficio, per età, per carattere, o per altre ragioni sono tenuti prima di noi; quando vi sia speranza di ottenere qualche emenda, quando il farlo non ci esponga a pericoli, o dispiaceri, o danni soverchiamente gravi, che non siamo obbligati a subire. E quando poi sia manifesto il dovere della correzione, è da badare al modo, al tempo, al luogo, alle circostanze di adempirlo fruttuosamente; e qui conviene consultare la prudenza, la quale ci deve tener lontani ugualmente e dalla pusillanimità e dalla temerità. Governarsi saviamente nella pratica è cosa malagevole, e molte sono le regole che si sogliono dare affinché la correzione raggiunga il suo intento. Seguendo S. Agostino, io le riduco ad una sola, ed è questa: “Ama, e di’ come ti piace, e non suonerà giammai come ingiuria ciò che avrà apparenza d’ingiuria, se rammenterai e sentirai, che con la parola di Dio, con la parola della correzione, tu puoi liberare il fratello dai vizi che l’opprimono. „ Ah sì! Quando vuoi ammonire e correggere il fratello, fa’ che il tuo cuore sia pieno di carità verso di lui, carità attinta in Dio stesso, che è tutto e solo rarità, e non dubitare che la tua parola troverà la via del suo cuore, rischiarerà la sua mente e la renderà docile alla tua parola, che sarà parola di Dio. – Passiamo alla sentenza che segue, che si può considerare come un’altra manifestazione della carità: ” Portate le molestie gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. „ Che cosa sono queste molestie, che l’Apostolo ci esorta a portare vicendevolmente? Sono i peccati, che tutti più o meno commettiamo; sono i difetti, che tutti abbiamo; sono le offese, le noie che ci diamo scambievolmente, e spesso senza saperlo nè volerlo. Dov’è l’uomo, anche virtuoso e santo, che non abbia colpe e difetti, o che almeno a noi non paia averne, che poi torna lo stesso? Io che vi parlo ho le mie colpe, i miei difetti, e più assai che non ne vegga e non ne senta, e voi che mi ascoltate, e ciascuno di voi, senza eccezione avete i vostri. Chi di noi oserebbe negarlo od anche solo dubitarne? Che faremo? Ci getteremo in faccia l’uno l’altro le nostre debolezze, i nostri falli? Non faremmo che accrescere i nostri mali e renderci per poco impossibile la quotidiana convivenza. Il miglior partito, non solo secondo il precetto dell’Apostolo, ma secondo la prudenza stessa del mondo, è quello di tollerarci a vicenda: ciascuno soffra le colpe e i difetti degli altri, affinché gli altri tollerino e compatiscano i suoi. Tu sei ardente, impetuoso, facile all’ira, e ti sdegni perché altri è freddo, quasi insensibile; tu non sai soffrire il fratello perché scialacqua e perde il suo in conviti e passatempi, e non vedi che tu pecchi per eccessiva parsimonia e grettezza d’animo; tu biasimi la dissimulazione, il carattere chiuso del fratello, e non badi che tu inciampi nel difetto contrario di non saper tacere a tempo. In mezzo a questo contrasto incessante di difetti, per i quali ciascuno riesce molesto agli altri, che ci resta a fare se vogliamo vivere in questo mondo in pace, od almeno, il men male possibile? Seguire il precetto dell’Apostolo, che è la ripetizione di quello di Cristo: “Portate le molestie gli uni gli altri — Alter alterius onera portate; „ io sopporterò i tuoi difetti, e tu sopporta i miei. Se in tutte le famiglie, se nella società si osservasse questa legge sì semplice e sì pratica, quante contese, quanti dissidi, quante discordie, quanti dispiaceri, quanti mali sarebbero sbanditi dal mondo! Quanta concordia di animi, quanta pace fiorirebbe in mezzo a noi! Osservando questo mutuo compartimento, soggiunge S. Paolo, “voi adempirete la legge di Cristo. „ Qual legge di Cristo? Per fermo l’Apostolo allude alle parole del Salvatore: Questo è il mio precetto, che vi amiate scambievolmente; „ e altrove: “Amerai il prossimo tuo come te stesso. „ Colui che sa compatire i falli altrui e sopportare pazientemente le sue colpe, mostra di avere in  cuor suo l’amore dei fratelli e di adempire la legge proclamata da Gesù Cristo. – Segue un’altra sentenza, che spiega e rafferma ancor meglio quella che abbiamo udito: “ Poiché se alcuno stima d’essere alcunché, essendo nulla, inganna se stesso. „ Tu devi correggere il fratel tuo in spirito di mansuetudine e di carità, come vuole Gesù Cristo; se tu per contrario ti reputi migliore di lui e monti in superbia, quasi suo maestro e sua guida, e lo tratti con durezza, con alterigia e con disprezzo, non ne farai nulla; l’opera tua sarà vana, non guadagnerà che si allontanerà da te, e scioccamente ingannerai te stesso, credendoti da più degli altri e rimanendo vittima del tuo orgoglio. E perché in quest’opera della correzione fraterna non abbia ad errare, S. Paolo mi mette sott’occhio un’altra regola eccellente, che è mestieri considerare con attenzione: “Ciascuno pertanto metta a prova l’opera sua. „ Mentre ammonisco il fratello, devo badare a me stesso, e vedere se per avventura anch’io non sia colpevole e degno di biasimo e bisognoso di correzione al pari di lui: e se trovo d’essere in fallo come il fratel mio, vedrò di emendarmi tostamente, e questo conoscimento mi renderà più benigno ed indulgente verso di lui, avendo, come lui, bisogno di compatimento. Mentre ammonisco il fratello, devo anche esaminare me stesso, e vedere se non forse nella correzione che faccio abbiano parte la vanità, l’invidia, la presunzione, il malumore od il desiderio di umiliarlo: devo scrutare me stesso e studiarmi di adempire il mio dovere col fratello unicamente per amore di lui e per piacere a Dio, non mai per appagare qualsiasi passione che si annidasse nel mio cuore o per un fine non retto e men degno d’un cristiano. E da ciò ne conseguirà che, se troverò in me stesso qualche bene, potrò compiacermene innanzi a Dio, e da Lui a suo tempo ne avrò la mercede e la gloria, e non menerò vanto del bene che poi il fratello da me ridotto sulla retta via potesse fare: Et sic in semetipso tantum gloriata habebit, et non altero. Sono verità chiarissime e pratiche, delle quali tutti possiamo e dobbiamo fare tesoro, direi quasi, ogni giorno. Non dimentichiamo, soggiunge S. Paolo, che ciascuno porterà il proprio peso. „ Che dici, grande Apostolo? La tua è una manifesta contraddizione: or ora ci hai esortato con tanta forza a portare i pesi e le molestie gli uni degli altri: Alter alterius onera portate, e poi ci dici che ciascuno porterà il proprio peso: Unusquisque onus suum portabiti Come ciò? Non vi turbate, o dilettissimi: l’Apostolo non si contraddice punto, né può contraddirsi. Là egli ci inculca nella vita presente a sopportare a vicenda i nostri pesi e le molestie che ci rechiamo gli uni gli altri col mutuo compatimento, figlio della carità; qui ci dice che nella vita futura, dinanzi al tribunale di Cristo giudice, ciascuno dovrà rendere conto di sé e delle opere sue, e porterà il suo peso, ossia dovrà rispondere di tutto ciò che avrà fatto. Sarebbe superfluo il far avvertire che, secondo la fede cristiana, di cui S. Paolo è l’Apostolo per eccellenza, tutte le cose che si pensano, si dicono e si fanno, si debbono considerare alla luce di quella sentenza infallibile ed irrevocabile che Gesù Cristo pronunzierà alla morte di ciascuno, e confermerà alla fine dei secoli. Ma ascoltiamo ancora il nostro gran maestro che, continuando, dice: “Quegli poi che viene istruito con la parola, faccia parte d’ogni suo bene a chi lo istruisce. E questa una raccomandazione che non si lega né con le sentenze che precedono, né con quelle che seguono, ma sta da sé sola. Gesù Cristo, mandando gli Apostoli a predicare, disse loro che l’alimento ed il necessario l’avrebbero avuto da quelli ai quali avrebbero annunziata la divina parola, perché l’operaio è meritevole della sua mercede, e se il ministro di Gesù Cristo dà i beni spirituali, è giusto che riceva in cambio quel tanto di beni temporali, che gli è strettamente necessario. È questa una verità chiaramente stabilita nel Vangelo e richiesta dalla natura stessa delle cose; e qui S. Paolo l’accenna: ” Voi, così egli, che ricevete l’istruzione dai sacri ministri, fate loro parte dei vostri beni in guisa che possano campare onestamente la vita. „ Per sé l’Apostolo non voleva nulla, e con santo orgoglio diceva: “Ai miei bisogni materiali provvedono queste mani; „ egli non volle mai essere di peso a persona, e dichiarava che non avrebbe mai permesso che altri gli togliesse questo vanto. Ma la regola ch’egli s’era imposto, di vivere col guadagno delle sue mani, era affatto volontaria, e non poteva imporla ad altri, e perciò qui, come altrove, rammenta ai fedeli l’obbligo che hanno di fornire del necessario i loro ministri. In quei primi principii della Chiesa, com’era naturale, i sacri ministri vivevano di giorno in giorno delle oblazioni volontarie dei fedeli, che non venivano meno giammai, come anche nel presente, quando si annunzia il Vangelo nei paesi che cominciano a riceverlo. Anzi le oblazioni dei fedeli erano sì copiose, che gli avanzi si mandavano a quelli che ne pativano difetto. Ora, nei nostri paesi, dove la Chiesa da tanti secoli è stabilita, ai bisogni dei ministri è provveduto regolarmente in guisa da non essere d’aggravio a chicchessia, e così è messa al sicuro la dignità e la indipendenza dei ministri stessi, ed i fedeli sono liberati da ogni peso. Ma se al presente i sacri ministri non hanno bisogno delle vostre oblazioni per avere un tetto che li copra ed il necessario per vivere e vestire, la chiesa, che ci raccoglie, che è la casa del Padre nostro e casa nostra, ha pur sempre dei bisogni, e deve essere vostra gloria l’averla bella, kornata, degna di Dio e degna di voi. Che le vostre mani per essa siano larghe e generose! Ascoltiamo ancora il nostro Apostolo, che scrive: ” Non vi ingannate: Dio non si schernisce. Perché ciò che l’uomo avrà seminato, questo raccoglierà: onde chi semina nella sua carne, dalla carne altresì raccoglierà corruzione; chi poi semina nello Spirito, dallo Spirito mieterà vita eterna.„ Queste sentenze, se male non vedo, si collegano con la grande dottrina sopra svolta dall’Apostolo, e che spiegai nella omelia III; là stabilisce che vi sono due grandi principii in ogni uomo: lo Spirito, ossia la grazia di Gesù Cristo, e la concupiscenza della carne, e che da quei due principii tra loro pugnanti derivano opere contrarie, le opere dello Spirito, opere buone e sante, e le opere della carne, opere cattive e malvagie. Richiamando quelle verità, san Paolo, compreso della loro importanza, premette quella forma di dire sì grave: “Badate bene a quel che dico: non ingannatevi, perché Dio non si inganna, Dio non si schernisce, e se tentassimo di farlo, il danno sarebbe tutto nostro e ne porteremmo il peso. „ E su qual cosa non dobbiamo ingannarci? Usa una similitudine comune e sempre bellissima: la nostra vita è una seminagione: seminiamo nel tempo, mieteremo nella eternità. Ora che cosa si miete? Quello che si è seminato. Seminate buon grano? Mieterete buon grano. Seminate cattivo grano? Mieterete cattivo grano. Seminate molto? Molto mieterete. Seminate poco? Poco mieterete. La mietitura risponde alla semina. Ora, o uomo, semini nella carne? cioè, operi seguendo le passioni della carne e aggiungi peccati a peccati? Non ne dubitare; il campo dell’anima tua sarà coperto d’una messe maledetta, e da queste opere di carne raccoglierai la corruzione, la morte eterna. Ora semini nello Spirito? cioè operi secondo lo Spirito, seguendo le voci della grazia, osservando il Vangelo? Il campo dell’anima apparirà coperto d’una messe ottima, e da questa raccoglierai la vita eterna. Voi vedete in sostanza che la dottrina dell’Apostolo si riduce a quell’altra sentenza del medesimo, dove dice: “Iddio darà a ciascuno secondo le opere sue:„ a chi ha vissuto cristianamente, il cielo, la vita eterna; a chi ha vissuto malamente, l’inferno, la morte eterna. – Dunque, ecco la conseguenza naturale che ne deriva, e che l’Apostolo non tace. Dunque nel fare il bene non ci venga meno l’animo. ,, Si raccoglie di quel che si semina: dunque seminiamo il bene, operiamo, non secondo la carne, ma secondo lo Spirito. Troveremo difficoltà molte e gravi; nemici scaltri e potenti ci si attraverseranno sulla via: saremo messi a dura prova, tentati di dar volta e correre sulla via facile della carne e delle passioni. Non sia mai, grida S. Paolo: Non deficiamus; non smarriamoci d’animo, ma camminiamo innanzi animosi sulla via della virtù. Finché ne abbiamo il tempo ed il modo, facciamo il bene, cioè le opere dello Spirito, per noi e per tutti: Dum tempus habemus operemur bonum. Quali opere buone? Tutte quelle che sono volute dal nostro stato e che sono possibili alle nostre forze. E a chi dobbiamo fare il bene? Udite, udite, dilettissimi: ” A tutti — Ad omnes. „ Anche ai Gentili? anche agli Ebrei ostinati? anche ai nemici? anche ai persecutori? ” A tutti, a tutti — Ad omnes, ad omnes. „ S. Paolo non fa eccezione, tutti commende quanti sono gli uomini: Ad omnes». Ecco la carità cristiana. E che veramente si debba fare il bene a tutti gli uomini secondo le nostre forze, è chiaro dalle parole che seguono: ” Massime a quelli che sono congiunti nella fede — Maxime ad domestìcos fidei. „ Se dobbiamo fare il bene a tutti, e specialmente a quelli che hanno comune con noi la fede, è cosa evidente che in quella parola “tutti” sono compresi anche i non credenti. Ho finito, o dilettissimi: ma permettete che, chiudendo la mia omelia, vi lasci con una osservazione semplice, ma utile, ed è questa: le sentenze di S. Paolo, sì concise e sì chiare, racchiudono un vero tesoro di verità morali, e voi non dimenticate mai le due ultime, che insieme abbiamo meditato: “Nel fare il bene non vi venga mai meno l’animo, che a suo tempo mieteremo con sicurezza: e mentre che abbiamo tempo facciamo bene a tutti, particolarmente a quelli che hanno comune con noi la fede. „

Graduale
Ps 91:2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime. [È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemM. V. [È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV:3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja. [Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam

Omelia II

[Mons. Bonomelli, ut supra, omelia VI]

“E avvenne che Gesù andava nella città chiamata Naim, e lo seguivano i suoi discepoli e moltitudine grande. E allorché furono presso alla porta della città, ecco si portava a seppellire un figlio unico della madre sua, e questa era vedova, e gran turba della città la accompagnava. Il Signore, vistala, fu tocco di compassione, e le disse: Non piangere. Ed accostatosi, toccò la bara, e quei che la portavano ristettero, e disse: Giovanetto, io ti dico, levati. Ed il morto si pose a sedere, e prese a parlare, ed Egli lo diede alla madre sua. Intanto tutti furono compresi da timore, e rendevano gloria a Dio, dicendo: Un grande profeta è sorto in mezzo a noi, e Dio ha visitato il suo popolo „ (S. Luca, VII, 11-16).

Gesù, a Cafarnao, aveva risanato il servo del Centurione e fatto il più splendido elogio della fede e della umiltà di questo Gentile, che di gran lunga avanzava quella dei figli d’Israele. Il giorno appresso egli lasciò Cafarnao, e per la gran via che da Damasco mette a Jaffa, attraversando la pianura di Esdrelon, s’incamminò verso una piccola città, detta Naim, o Nain. Essa era ai piedi del piccolo Hermon, distante tre o quattro chilometri dal Tabor, circa quaranta da Cafarnao. – Non dimenticherò mai il giorno 21 di ottobre del 1894. Al mattino io era sulla cima del Tabor, e guardando ad occidente vidi ai piedi d’una collina un gruppo di capanne. Chiesi alla guida che villaggio fosse quello, ed egli prontamente mi rispose: È Naim. Al suono di quella parola tacqui e la mia mente corse al fatto evangelico, che là avvenne diciotto secoli or sono e quasi mi pareva di vedere Gesù che, seguito dai suoi Apostoli e dalle turbe, vi entrava e sulle porte operava il prodigio, che debbo spiegare. La postura della cittadella era amenissima, presso le sorgenti del Kison, e non senza ragione si chiamava Naim o Nain, che in nostra lingua significa bella. Ora non è più che un miserabile villaggio abitato da poche famiglie arabe, che pascono le loro gregge. È questo il luogo scelto da Gesù per operarvi uno dei più strepitosi suoi miracoli. Voi ne avete udita la narrazione in tutta la brevità ed in tutto il candore proprio del Vangelo: brevità e candore, che non hanno confronto in nessun libro del mondo, e sono anche, umanamente parlando, il carattere infallibile della verità e della sincerità. Ora a noi. –  “Avvenne che Gesù andava nella città chiamata Naim, e lo seguivano i suoi discepoli e moltitudine grande. „ Ciò che l’Evangelista nota in questo luogo è quello che avveniva costantemente in tutte le sue peregrinazioni attraverso la Palestina, dal dì che gli Apostoli, vista la prodigiosa pesca fatta nel lago di Genesaret, lo seguitarono definitivamente. Essi lo accompagnavano per ogni dove, e poiché il nome di Gesù era divenuto popolare e famoso, gran moltitudine di gente lo seguiva di borgata in borgata, di città in città, avida di udire la sua parola e più avida ancora di vedere i miracoli che operava. “E come furono giunti presso alla porta della città, ecco si portava a seppellire un figlio unico della madre sua, e questa era vedova, e gran turba della città era con lei. „ Il fatto, come è narrato, parrebbe avvenuto a caso: ma se nulla accade a caso per noi Cristiani, i quali teniamo per fede, ogni cosa essere disposta, ordinata o permessa da Dio, per i suoi fini sapientissimi, fate voi ragione se quell’incontro di Gesù sulle porte di Naim poteva attribuirsi al caso. Quell’incontro fu voluto da Gesù Cristo, e precisamente in quel luogo. Sulle porte della città ordinariamente si raccoglie molta gente per entrare o per uscire, e più per gli Ebrei, che sulle porte tenevano non solo i loro mercati, ma vi alzavano eziandio il tribunale e vi trattavano le cause; ciò che per i Romani erano i fori, erano per gli Ebrei le porte. Gesù dispose che in quel luogo frequentatissimo avvenisse l’incontro del corteggio funebre d’un giovane morto sul fiore degli anni. Il Vangelista ebbe cura di notare che questo giovanetto defunto era unico figlio d’una madre per giunta vedova. – La madre desolata, tutta in lacrime, seguiva il cadavere portato da quattro uomini, ravvolto in un lenzuolo. Gran turba accompagnava il funebre corteggio, sia perché il defunto appartenesse a ricca e distinta famiglia, sia perché il caso pietoso di quella morte precoce e di quella madre sventurata avesse commosso il popolo, e, come suole avvenire, tiratolo dietro a quel mesto e doloroso spettacolo. Non vi sia grave che vi metta sott’occhio alcune osservazioni: mi paiono meritevoli della vostra attenzione. Un funerale è sempre tal cosa, che deve richiamarci a pensieri gravi e solenni: il pensiero della morte, dell’estinto, che si accompagna all’ultima dimora; del dolore, in cui sono immersi i parenti, i congiunti, gli amici; il pensiero sì terribile della vita immortale, che comincia al di là della tomba, per chi è credente; dell’ignoto, del mistero pauroso, indecifrabile, desolante per chi non è credente; questi pensieri, volere o non volere, devono affacciarsi alla mente di chiunque ragiona e sente; devono raccoglierla, forzarla a riflettere, e riempirla d’una mestizia grave e solenne, che necessariamente deve manifestarsi negli atti, nelle parole, nel vestito e nel contegno tutto della persona. Così dovrebbe essere: ed in quella vece assai volte che vediamo noi? Ohimè! lo dico con dolore e vergogna. I funerali, massimamente i più solenni, troppo spesso diventano occasione di spettacoli profani. Non silenzio, non gravità, non preghiera, non capo scoperto, non riverenza al sacro rito, ma confuso rumore, strepito di musicali strumenti, leggerezza d’atti, conversazioni come negli amichevoli convegni, coperto il capo, dissipazione, irriverenze, sfoggio di lusso, smania di vedere e d’essere veduti, e a Dio non piaccia, discorsi irreligiosi al cimitero! Tanta leggerezza e spensierata dissipazione, parrebbe incredibile con lo spettacolo sì lugubre della morte sotto gli occhi! Eppure, che giova dissimularlo! è questo il brutto spettacolo di cui io e voi non poche volte fummo testimoni. Il povero figlio della vedova di Naim era portato fuori delle mura per essere seppellito. Gli Ebrei, come i Romani, avevano l’uso di seppellire i loro morti fuori della città, e ciò saggiamente per molte ragioni, che è superflua cosa ricordare; ma non è superflua cosa il ricordare come l’uso di seppellire i morti, prescritto dalla Chiesa, è antichissimo, e praticato non solo dai Romani, dai Greci, dagli Egiziani e dagli Ebrei; ma pressoché da tutti i popoli conosciuti, come il migliore sotto ogni rispetto. E vero, ai nostri tempi, come sapete, quest’uso di seppellire i corpi, ad alcuni uomini della scienza parve meno conveniente, e tentarono di sostituirvi l’abbruciamento. Per noi Cattolici, figli obbedienti della Chiesa, basta il sapere che essa ha solennemente riprovato quest’uso e interdetto l’onore della sepoltura ecclesiastica a quanti deliberatamente vogliono l’abbruciamento o cremazione. E meritamente la Chiesa vieta ai suoi figli, fuori dei casi di necessità, l’abbruciamento dei cadaveri. La pietà naturale ci impone il massimo rispetto verso i cadaveri: come dunque darli alle fiamme ed incenerirli sotto dei nostri occhi? Perché non affidarli alla terra, che con lavoro lento e naturale li discioglie? La vista dei cadaveri dati in pasto alle fiamme, è cosa che offende il sentimento naturale, che incrudelisce gli uomini, che fa ribrezzo. – Dissero che l’uso di seppellire può essere causa di contagi ed infezioni funeste; se ciò fosse vero sarebbe forse necessario adottare l’abbruciamento; ma quando si osservino le debite cautele, prescritte dalle leggi, il seppellimento è scevro d’ogni pericolo, mentre non lo è l’abbruciamento. Le somme celebrità mediche di Germania, di Francia e d’Inghilterra, si dichiarano a favore del seppellimento. Ah! miei cari! Vi sono ben altre e più gravi cause di infezioni e contagi, che non siano i cimiteri, che si potrebbero e dovrebbero rimuovere, nelle città e nei villaggi, e delle quali i fautori della cremazione non si danno pensiero. Del resto per conoscere lo scopo di quest’uso dell’abbruciamento dei cadaveri, che vorrebbesi introdurre, basta conoscere chi siano coloro che se ne fanno i difensori e propagatori; fatte pochissime eccezioni, sono uomini senza fede, anzi nemici dichiarati della fede, ascritti notoriamente alle sètte [massoniche -ndr-], e col distruggere i cimiteri vorrebbero distruggere quei luoghi dove la fede si alimenta e si tien viva la pietà religiosa. No, noi non ascolteremo codesti maestri, seguiremo l’uso dei nostri padri, ubbidiremo alla Chiesa, nostra madre, e porteremo i nostri cari defunti al cimitero, li affideremo alla terra benedetta, dove aspetteranno la voce di Dio, che li richiamerà alla seconda vita. – Ed ora ritorniamo alla narrazione evangelica. Gesù insieme con gli Apostoli e con la turba che lo seguiva, giungeva sulle porte di Naim in quella che ne usciva il funebre corteo, che accompagnava la bara del giovane. Le due moltitudini si incontravano, e ne dovette seguire, come suole sempre in questi casi, un po’ di confusione, domandandosi da una parte e dall’altra chi fossero e che si facessero. Gli occhi di Gesù naturalmente caddero sul feretro e sulla donna, che, affranta dal dolore, era oggetto della comune commiserazione: la vide e ne fu profondamente commosso: Quam cum vidisset Dominus, misericordia motus super eam; se tutti, che vedevano quella madre sconsolata, si sentivano commossi, fate voi ragione come non doveva sentirsi commosso il cuore tenerissimo di Gesù Cristo! Egli mosse verso di lei: la turba, che lo dovette tosto riconoscere, si ritrasse riverente, ripetendosi gli uni gli altri il suo nome con stupore e con una cotale confusa speranza di vedergli operare un miracolo. Giunto presso la desolata madre, con accento pieno di ineffabile tenerezza, le disse: “Non piangere — Noli flere. „ Forse Gesù a quelle due parole: “Non piangere, „ altre ne aggiunse di conforto; forse le promise senz’altro la risurrezione del figlio, come pensa S. Ambrogio; ma poniamo ch’Egli pronunziasse quelle due sole parole: “Non piangere„ e le pronunziasse come Egli sapeva pronunziarle: erano più che bastevoli a confortare l’afflitta e ad infondere in lei la più viva speranza, appena ebbe conosciuto chi Egli era. Dette quelle parole alla madre, “accostatosi, toccò la bara (e quelli che la portavano ristettero). „ Il momento dovette essere solenne: il silenzio di quella folla in un attimo fu profondo: i lontani si alzavano in punta di piedi e mille occhi erano ansiosamente fissi sopra Gesù e sul feretro immobile. Tutti aspettavano e comprendevano essere per accadere alcunché di nuovo, di grande, di meraviglioso, attesa la fama di taumaturgo inseparabile ormai dal nome di Gesù. Egli, tenendo, credo io, una mano sulla bara: Tetigit loculum, e forse con l’altra scoprendo il viso del morto, disse: ” 0 giovane, io ti dico, levati — Adolescens, tibi dico, surge. — E il morto si pose a sedere, e prese a parlare — Et reseda qui erat mortuus, et cœpit loqui. „ Fermiamoci e consideriamo posatamente ogni parola ed ogni parte del fatto sì laconicamente narrato. – Gesù non è pregato né dalla madre, né da altri di richiamare a vita novella il morto, come leggiamo della maggior parte dei suoi miracoli, fatti a preghiera di chi vi aveva interesse. Lo fa per impulso del suo cuore, mosso a pietà della misera madre che si struggeva in pianto: Misericordia motus super eam. Gesù operando il miracolo, non fa precedere orazione, né altri atti, come quelli di Elia, come padrone assoluto della vita e della morte, comanda al giovane defunto di levarsi: “Levati. „ Nessuna incertezza, non un atto, non una parola, non un segno, ancorché lievissimo, di timore, di dubbio; è la parola dell’impero più assoluto: “O giovane, io ti dico: Levati. „ Quando mai un uomo osò o potrà osare di tenere un tal linguaggio? — Gesù tocca il feretro: e perché? Per mostrare che la risurrezione era opera sua, e che la virtù vivificatrice di quel cadavere emanava da lui, dal suo corpo stesso, come il Vangelo dichiara altrove: Virtus de ilio exibat, et sanabat omnes. A quelle parole onnipotenti: “O giovane, Io ti dico: Levati, „ il morto incontanente si scosse come da profondo sonno, aperse gli occhi e si pose a sedere sul feretro e prese a parlare. Il primo ch’egli vide fu per certo Gesù Cristo, che lo doveva tenere per mano; e pensate voi come lo doveva contemplare stupefatto, come ringraziarlo, benedirlo e mostrargli tutta la sua gratitudine. Gesù, rimirandolo amorosamente, e tenendolo sempre per mano, come una sua carissima conquista, lo diede alla madre sua: Dedit illum matri suæ, aiutandolo a scendere dalla bara. In quest’atto del Salvatore, che di sua mano presenta il risorto alla madre desolata, e quasi lo mette tra le sue braccia, vi è una delicatezza sì amabile e squisita che ci commuove. – Alla vista del risorto quella turba fu presa come d’un brivido, d’un sacro terrore (il miracolo di sua natura fa sentire presente Iddio, e però ci riempie di sacro terrore); essa più non si tenne, e proruppe in un grido di gioia, di meraviglia, di lode a Dio, che si manifestava con tanta evidenza, ed esclamò: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo, „ cioè è venuto in mezzo a noi il Profeta, il gran Profeta promesso ed aspettato, e Dio ci dà una prova magnifica che è con noi. Che ne avvenisse dopo, il Vangelo non lo dice, ma è troppo facile ad immaginarsi. Quella moltitudine, nell’impeto e nell’ebrezza della meraviglia e della gioia, dovette precipitarsi ai suoi piedi, professare di credere in Lui e portarlo in trionfo. Ma lasciamo tutto questo, e, rifacendoci sul fatto, raccogliamo le belle considerazioni che i Padri, a modo di commento dettarono nei loro commenti, e che ancor noi possiam cavare dalla natura stessa del miracolo. Come sapete, vi furono e vi sono uomini che hanno fama di sommi sapienti, e che, onorando pure e venerando Gesù Cristo come un genio incomparabile, come un maestro di morale senza pari, non ammettono i suoi miracoli, e li spiegano, cioè tentano di spiegarli naturalmente, anche i maggiori, e certo tra i maggiori devesi mettere questo della risurrezione del figliuolo della vedova di Naim. Intorno a questo fatto due cose si debbono ricercare: la prima è la certezza del fatto materiale, e la seconda è se questo fatto materiale si possa spiegare con le sole forze della natura, o si debba necessariamente ricorrere alla Onnipotenza divina. È egli possibile dubitare del fatto quale è riferito dal Vangelo? E perché dubitarne? Chi lo narra è uomo (consideriamolo semplicemente come uomo) degnissimo di fede: senza dubbio l’udì narrare da quelli che lo videro coi loro occhi, e non erano pochi; lo scrive e pubblica pochi anni dopo che è avvenuto: nomina la città, il luogo dove accadde, e determina la persona del risorto e la madre di lui, per guisa che ciascuno, volendolo, poteva verificare la cosa, tanto più che dovevano essere ancora viventi i testimoni, almeno il maggior numero. E come e perché inventare un fatto di questa natura? Qual vantaggio se ne poteva promettere lo scrittore? E non doveva temere d’essere scoperto, vituperato e punito? E se non temeva gli uomini, non doveva temere Iddio, tentando di far credere come Messia e operatore di miracoli chi non lo era? E quando avesse voluto ingannare i lettori, spacciando un fatto che non esisteva, la via da esso tenuta era la meno opportuna, perché facilissimo smascherare la bugia. Se si potesse dubitare di questo fatto, si potrebbe dubitare di qualunque altro fatto, e la certezza storica sarebbe distrutta. Ma quel fatto è anche veramente tale, che non si possa spiegare con le forze naturali, e che debba necessariamente ascriversi alla potenza divina? Dio solo può ridonare la vita ad un morto che si porta alla tomba, è quel giovane era indubbiamente morto, e da qualche tempo. Se non fosse stato morto, avrebbe dovuto fingere di esserlo; dovremmo supporre impostore lui, e con lui la madre; ipocrite le sue lacrime; impostori quanti ebbero parte all’indegna e sacrilega commedia: e tutti impostori per servire a chi? Alla causa di Gesù Cristo, che sarebbe stato il più colpevole di tutti. Dovevano precedere accordi tra Lui e i complici della scellerata congiura. E che potevano sperare da Lui, facendosi strumenti dell’inganno? Nulla potevano sperare da Lui, tutto temere da Dio ed anche dagli uomini, potendosi facilmente svelare il bruttissimo intrigo. Che nessuno dei molti complici avesse coscienza? Che tutti tacessero? E sempre e nulla ne trapelasse mai nel pubblico, sotto gli occhi sì acuti degli scribi e farisei, nemici di Cristo, e che avevano in mano il potere? Che il popolo presente fosse ingannato? Ed è ben da credere, che, visto il fatto, si facessero domande e indagini d’ogni maniera per accertarsi del fatto strepitoso, avvenuto sulle porte della città. Ma poteva essere una morte apparente quella del giovane! E Cristo lo poteva Egli sapere che era apparente, Cristo che incontrava il corteo sulla via, e che non aveva visto mai il giovane, come apparisce dal contesto? E ignorando che fosse una morte apparente (caso rarissimo), come poteva accostarsi alla bara, toccarlo e richiamarlo a vita? Come esporsi al disprezzo, o almeno al compatimento pubblico, se la morte era reale? E, posto anche il caso d’una morte apparente, era bastevole  toccarlo e chiamarlo? Il solo tocco, la sola voce potevano non pure destarlo, ma ridonarlo a perfetta salute, là, sotto gli occhi di un popolo intero? E questo sospetto doveva pure spuntare nella mente d’alcuno dei presenti, e indurli a dubitare e verificare la cosa. Ah! quella folla dovette bene essere sicura del miracolo prima di prorompere unanime in quel grido: “Un gran profeta è sorto in mezzo a noi, e Dio ha visitato il suo popolo! „ Ma non occorre spendere parole per mettere in sodo la certezza di sì splendido miracolo, narrato dal Vangelo e creduto da tanti milioni di Cristiani pel corso di oltre a diciotto secoli; i dubbi, sì tardi e sì a torto sollevati dai razionalisti moderni, non meritano d’essere confutati. – Passiamo in quella vece a due altre osservazioni, che mi sembrano utili, e con esse chiudiamo l’omelia. I Vangeli, osservano i Padri, ci narrano di tre morti risuscitati da Cristo, ma in diverse condizioni: la prima è la figlia del capo della Sinagoga, appena morta; essa fu risuscitata da Cristo in casa, pregando, alla presenza dei genitori e dei tre discepoli prediletti ; il secondo è quello che oggi abbiamo letto nel Vangelo, il figlio della vedova di Naim; egli fu risuscitato da Cristo lungo la via dalla casa al sepolcro, alla presenza di gran popolo, senza preghiera, con la parola del comando: “Levati:„ il terzo è Lazzaro, risuscitato quattro dì dopo la morte, dal sepolcro, alla presenza di moltissime persone, e tra queste non pochi dei suoi nemici, con voce alta e imperiosa: “Lazzaro, vieni fuori. „ Perché questi tre modi diversi di risuscitare tre morti con una progressiva solennità? Potrei rispondervi che così è piaciuto a Dio, e a noi non resta che adorare i segreti consigli della sua sapienza e della sua volontà. Ma non è vietato di investigarli con umiltà e con alta riverenza. Io penso che Gesù Cristo in questi tre miracoli, che sono i maggiori di loro natura, dopo quello di sua Risurrezione, volle con sì manifesta gradazione e varietà togliere ogni dubbio e mostrare ch’Egli era il padrone della vita e della morte in tutte le loro fasi, dalla fanciullezza alla gioventù, alla virilità, in casa, sulla pubblica via e fino nel sepolcro. Se la risurrezione di tre morti fosse avvenuta sempre allo stesso modo e nelle stesse condizioni, il miracolo sarebbe stato sempre certissimo, è vero, ma privo di quella varietà che ne accresce lo splendore. Oltrediché, in queste tre risurrezioni sì diverse, i Padri ravvisano adombrato un insegnamento morale nobilissimo. La morte del corpo è figura della morte dell’anima per opera del peccato, e per conseguenza anche la risurrezione del corpo simboleggia la risurrezione dell’anima per mezzo della grazia. La figlia del capo della Sinagoga, risuscitata appena morta, rappresenta quei peccatori che, appena caduti, si rialzano; il figlio della vedova di Naim significa quei peccatori, che vivono a lungo in peccato e poi si scuotono e si convertono; Lazzaro, che già deposto nel sepolcro e già fetente, raffigura quei peccatori inveterati e quasi infradiciati nelle loro sozzure, dei quali sembra disperata la conversione, e che alla voce di Cristo rivivono alla sua grazia. Non vi è peccatore, sia pure invischiato in ogni più laida colpa per anni e lustri, e già sull’orlo dell’inferno, che con la grazia di Dio non possa uscire dal peccato e salvarsi. Ma qual è il modo ordinario, col quale Gesù Cristo risuscita questi morti, salva questi poveri peccatori? Ponetevi ben mente, o carissimi, che la cosa è della più alta importanza. È sempre Gesù Cristo, sempre Lui solo che risuscita i morti del corpo e dell’anima. Ma come e perché si muove Egli a risuscitare i tre morti registrati dal Vangelo? La prima volta si muove per le lacrime dei genitori; la seconda per le lacrime della madre; la terza per le lacrime delle sorelle; sono sempre le lacrime dei parenti, dei congiunti, della madre quelle che quasi lo forzano a strappare quei cadaveri dalle mani della morte; così sono le lacrime dei genitori, dei congiunti, dei fratelli, della madre, e soprattutto della gran Madre, che è la Chiesa, quelle che ottengono la conversione dei peccatori. Fratelli e figliuoli miei! preghiamo sempre Gesù Cristo per questi poveri peccatori, che sono tanti di numero; piangiamo sulla loro morte spirituale, e Gesù, che è la stessa vita, finalmente avrà compassione delle nostre lacrime, e con la sua infinita potenza li richiamerà alla vita della grazia, troppo più preziosa di quella del corpo.

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXXIX:2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro. [Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta
Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus. [I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Communio
Joann VI:52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.
[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio
Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus. [L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

Oratio Leonis XIII

S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae. Amen.
S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae. Amen.
S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae. Amen.

O. Salve Regina, Mater misericordiae, vita, dulcedo, et spes nostra, salve. Ad te clamamus, exsules filii Evae. Ad te suspiramus gementes et flentes in hac lacrymarum valle. Eia ergo, Advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte. Et Jesum, benedictum fructum ventris tui, nobis, post hoc exilium, ostende. O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.
S. Ora pro nobis, sancta Dei Genitrix.
O. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

S. Orémus. Deus, refúgium nostrum et virtus, populum ad te clamantem propitius respice; et intercedente gloriosa, et immaculata Virgine Dei Genitrice Maria, cum beato Joseph, ejus Sponso, ac beatis Apostolis tuis Petro et Paulo, et omnibus Sanctis, quas pro conversione peccatorum, pro libertate et exaltatione sanctae Matris Ecclesiae, preces effundimus, misericors et benignus exaudi. Per eundem Christum Dominum nostrum. Amen.

O. Sancte Michaël Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae Caelestis, satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute in infernum detrude. Amen.

S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.
S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.
S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.

LO SCUDO DELLA FEDE (XXVI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXVI.

LA DIVINA INCARNAZIONE

Come Iddio stabilì di salvare gli uomini. — Se non potevano essere salvati altrimenti  — Perché Dio differì la redenzione di 4000 anni circa? — Come si salvarono gli uomini prima di essa? — Gesù Cristo vero Dio e vero uomo. — Sua intelligenza, sue volontà ed operazioni.— Se come uomo poteva far peccati, e se ebbe ogni scienza, grazia e virtù. — Se con la visione beatifica abbia realmente patito, e se sia veramente morto.

— Ed ora mi piacerebbe conoscere che cosa è avvenuto di tutta l’umanità dopo il peccato di Adamo?

Dio senza dubbio poteva lasciarla irreparabilmente nello stato deplorevole, in cui era caduta. Ma così non volle nella sua infinita misericordia. Epperò stabilì di rialzare gli uomini dal loro stato di colpa e di dare agli stessi la salute, esigendo tuttavia della colpa una adeguata riparazione.

— E che cosa vuol dire un’adeguata riparazione della colpa?

Vuol dire che siccome la colpa per ragione di quel Dio infinito, contro del quale era stata commessa, aveva rivestito il carattere di infinita, perciò a ripararla convenevolmente innanzi a Dio si richiedeva una soddisfazione di valore infinito.

— Come mai gli uomini, che sono finiti in tutto e per tutto, potevano dare questa soddisfazione infinita?

Certamente essi non lo potevano. Ed è perciò che la seconda Persona della Santissima Trinità, come fu stabilito nei divini consigli, discese dal cielo, s’incarnò e si fece uomo, per compiere questa soddisfazione. Come uomo poté meritare, e come Dio, quale restò facendosi uomo, poté comunicare ai suoi meriti un valore infinito ed ottenere che agli uomini fosse restituita la grazia santificante, e volendolo, potessero salvarsi coll’acquisto eterno del cielo.

— Fu adunque obbligata la seconda Persona della Santissima Trinità ad incarnarsi.

Che cosa dici mai? In nessuna maniera e da nessuno il Verbo di Dio ricevette tale obbligo. Ciò egli fece per comprovarci l’immenso amore che ci portava e per cattivarsi nel modo più efficace l’amore nostro, ma liberamente, senza essere in nessun modo costretto o forzato, perché né il Padre celeste poteva obbligare il suo Divin Figlio innocente e giusto a vestirsi di umana carne per morire poscia su di una croce per i peccatori; né gli uomini avevano alcun diritto a che il Divin Figlio facesse ciò.

— Ma Iddio non avrebbe potuto perdonare il peccato senza esigerne un’adeguata riparazione, epperò salvare gli uomini in altro modo senza farsi uomo?

Di potenza assoluta certamente avrebbe potuto perdonare il peccato senza esigerne alcuna soddisfazione, o accettando la soddisfazione che gli fosse stata offerta da qualche santa creatura, per esempio da un Angelo. Ma egli volle, come sopra dicemmo, una condegna soddisfazione della colpa, epperò volle operare la nostra salvezza con la divina Incarnazione. E di ciò noi non dobbiamo cercare a Dio il perché, sebbene possiamo riconoscere che il modo scelto da Dio per la salvezza nostra fu convenientissimo, restando così pienamente soddisfatta la Divina Giustizia e venendo manifestati in un grado incomparabile gli altri divini attributi, come la Clemenza, la Sapienza, l’Onnipotenza, eccetera.

— Ma per lo meno non poteva egli salvarci senza sottostare alla morte? Mi è accaduto più volte di sentir a predicare che a salvarci sarebbe bastata una goccia di sangue, una lacrima, un sospiro di Gesù: perché dunque non si è contentato Egli di questo?

Sì, assolutamente parlando sarebbe bastato a salvarci un sospiro, una lacrima, una goccia del sangue di Gesù Cristo, perché in Lui, vero uomo e vero Dio, ogni più piccola azione ha un merito infinito. Anzi qualora Egli non avesse tatto altro che incarnarsi con l’intenzione di rendere omaggio al suo Padre celeste affine di espiare le nostre colpe, Egli avrebbe già passato la misura del nostro riscatto. Ma Egli volle per di più patire e morire, e della morte di croce, per fare sovrabbondante la sua redenzione, per rendere al suo Divin Padre l’omaggio più eccelso, per dare a noi la prova suprema dell’amore ed accrescere in tal guisa in noi la fiducia della nostra salute.

— E perchè tuttavia Iddio ha voluto aspettare circa 4000 anni a compiere la redenzione?

È certo, rispose S. Tommaso, che Iddio ha definito bene tutte le cose, epperò differì la redenzione a quel tempo, che Egli giudicò sopra ogni altro convenientissimo. Tuttavia non mancano ragioni, che lasciano conoscere anche a noi la convenienza di tale ritardo. Le principali sono: 1° L’aver voluto Iddio che gli uomini conoscessero per loro esperienza il bisogno che avevano di un Salvatore e ne esprimessero un desiderio, come realmente accadde. Giacché durante i 4000 anni, che precedettero la venuta di Gesù Cristo, gli uomini caddero in tale abisso di errori e d’iniquità, da sentirono essi stessi il bisogno di un celeste liberatore e da invocarlo con le più infuocate preghiere. 2° L’aver voluto Iddio che Gesù Cristo comparisse al mondo in guisa da essere facilmente riconosciuto. Ed in vero, come i sovrani, quando stanno per entrare in qualche città, mandano innanzi i loro araldi per far conoscere il loro arrivo, così Gesù Cristo lungo il corso dei secoli, che precedettero la sua venuta, mandò nel mondo gli araldi suoi, che chiaramente lo indicassero. Tali appunto furono i patriarchi, che lo aspettarono con tanto desiderio. profeti che lo annunziarono, i giusti che lo figurarono. – 3°. L’aver voluto Iddio che il mondo per mezzo de’ suoi grandi avvenimenti gradatamente preparasse la via a Gesù Cristo a presentarsi nel tempo più opportuno per compiere l’opera sua. Difatti chi guarda la storia della umanità con occhio superficiale non vedrà nulla di tutto ciò, ma chi invece la considera attentamente, tosto riconosce che tutte le grandi monarchie, che l’una dopo l’altra dominarono il mondo, l’una dopo l’altra senza addarsene, lavorarono a formare nel mondo quella vasta unità politica, che era necessaria non solo a simboleggiare, ma eziando a stabilire la grande unità religiosa, che Gesù Cristo sarebbe venuto a crearvi.

— Ma se Gesù Cristo ha ritardato per 4000 anni ad incarnarsi e farsi uomo per la salute degli uomini, come mai avranno potuto salvarsi quelle migliaia di generazioni, che esistettero prima della sua venuta?

Tutti gli uomini, intendilo bene, anche prima della venuta di Gesù Cristo, potevano benissimo salvarsi, giacche Iddio nella sua bontà infinita applicava loro anticipatamente i meriti di Gesù Cristo istesso, e compartiva loro le grazie necessarie. Non altro ad essi occorreva per salvarsi, se non che conoscessero, amassero e servissero il vero Dio, e avessero la fede e la speranza nel promesso Redentore. Ora non ostante gli errori e i delitti del genere umano, nessuno era incapace di questa fede e di questa speranza, neppure tra i pagani e i gentili, perché quando Iddio non avesse fatto altro, mise d’innanzi a tutti la grandezza e la bellezza del Creato, mediante la quale tutti gli uomini avrebbero potuto conoscere l’esistenza di un Dio Creatore e Signore di tutte le cose, conforme ci insegna il libro della Sapienza (Vedi Capo XIII), e vegliò perché le tradizioni e il desiderio del Redentore fossero dovunque, anche tra i pagani e gentili, conservati. Se pertanto prima della venuta di Gesù Cristo molti uomini andarono alla perdizione, non incolperanno certamente il ritardo della Divina Incarnazione, ma unicamente se stessi, che in mezzo alla luce più sfolgorante chiusero volontariamente gli occhi per non vedere la verità.

— Dunque è proprio certo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio fattosi uomo?

Certissimo, tanto che ad essere veri Cristiani

Cattolici, dobbiamo credere e confessare che Gesù Cisto Verbo di Dio incarnato è vero Dio e vero uomo; Dio consustanziale all’Eterno Padre, da Lui generato avanti a tutti i secoli da tutta l’eternità, e uomo formato con la sostanza della Madre e nato nel tempo; che però in Gesù Cristo vi sono due nature, la natura divina e la natura umana, e una sola Persona, la Persona divina.

— E come mai in Gesù Cristo essendovi due nature non v’è che una Persona?

A questo proposito ascolta la bella spiegazione di S. Agostino; « Come negli altri uomini l’anima in unità di persona si unisce al corpo ed abbiamo un uomo, così in unità di Persona Dio si unisce ad un’anima e ad un corpo, e abbiamo l’unico Gesù Cristo. In tale unione Gesù Cristo conserva quella essenza, quella immortalità, quella impassibilità, quel tutto, che è proprio della natura divina, ed aggiunge l’essere passibile, l’essere mortale, che è alieno da Dio, ma proprio dell’uomo. Prende ciò che è proprio dell’uomo, il potere patire e morire, ma ritiene ciò che è alieno dall’uomo, il potere di propria virtù risorgere e rendersi impassibile ed immortale. Quindi è che il divin Verbo ha comune la divina natura col Padre, e secondo essa Gesù Cristo dice: « Io e il Padre siamo una cosa sola »; per l’umana natura è minore del Padre e secondo essa asserisce: « Il Padre è maggiore di me ». Così il grande dottore spiega come in Gesù Cristo vi siano  due nature ed una sola Persona.

— E in Gesù Cristo fatto uomo vi è anche la ragione naturale, l’intelligenza umana?

Certamente.

— E quante volontà vi sono i n Lui?

Due: la divina e l’umana: la divina è quella che come Dio ha comune col Padre, e l’umana è quella che come uomo ha distinta da quella del Padre.

— E quante operazioni si trovano in Gesù Cristo?

Anche due: le operazioni proprie della natura umana, come il dormire, il mangiare, il bere, il passeggiare e simili; le operazioni proprie della natura divina, come il dare lo Spirito Santo, il rimettere i peccati, il fare miracoli, eccetera. Ma devi avvertire che in Gesù Cristo benché le volontà e le operazioni si distinguano, non si possono tuttavia separare l’una dall’altra, di quella guisa, dice San Anselmo, che un ferro tagliente ed infuocar essendo un ferro solo, ha tuttavia due atti sempre insieme uniti, quello dell’abbruciare e del tagliare.

— E Gesù Cristo come uomo poteva fare dei peccati, avere dei difetti, essere ignorante, eccetera?

No assolutamente, perché fin dall’istante primo della sua mortale esistenza, l’anima di Lui ricevette nell’intelletto la pienezza della scienza e nella volontà la pienezza della grazia santificante e di tutte le virtù.

— Allora egli non era più libero.

Lo era perfettamente. E i cordati di quanto abbiamo già detto parlando delle perfezioni di Dio, che il non poter fare il male non è difetto, ma perfezione.

— Se Gesù Cristo nell’anima sua ricevette subito fin dal primo istante la pienezza della scienza e della grazia, come mai si dice in un Vangelo, « che Egli cresceva in sapienza, in età e in grazia? »

Così si dice nel Vangelo di S. Luca, ma ciò si riferisce solo in quanto all’esercizio e alla manifestazione esteriore, che Egli faceva, della sua sapienza e della sua grazia, col crescere dell’età. Del resto è verissimo quello che già dicemmo, epperò nulla potevasi aggiungere di scienza e di grazia a quanto Gesù Cristo aveva ricevuto sin dal primo istante.

— Dunque in Gesù Cristo vi furono eziandio tutte le virtù?

Senza dubbio, ad eccezione di quelle che suppongono il peccato od altra imperfezione, come sarebbe la virtù della penitenza in quanto è pentimento del male operato, e ad eccezione ancora di quelle altre che non possono ritrovarsi nell’Uomo-Dio, come sarebbero la fede e la speranza, per ragione della visione beatifica, che Egli ebbe.

— E che cos’è questa visione beatifica, che ebbe Gesù Cristo?

È la visione che l’anima di Gesù Cristo aveva chiarissima d i Dio, ossia della Divina Persona, cui era unita, e della Persona del Padre e di quella dello Spirito Santo, visione che la rendeva beata e incapace di patire.

. — Ma allora come mettere insieme questa visione beatifica coi patimenti, che si dicono sofferti da Gesù Cristo dal primo istante di sua esistenza fino alla sua morte in croce?

La nostra corta intelligenza non arriva certamente a farsi un pieno concetto del come ciò sia avvenuto, ma con tutto ciò non lascia di esser vero che Gesù Cristo sofferse realmente patimenti di corpo e di spirito inesprimibili, e insieme godette le delizie della visione beatifica. Senza dubbio ciò doveva accadere per un grande miracolo della Divina Onnipotenza, col quale Gesù Cristo conteneva il gaudio della visione beatifica nella parte, superiore ossia intellettuale dell’anima, perché nella parte inferiore ossia sensitiva di essa e nel corpo potesse patire.

— Dunque Gesù Cristo ha sofferto realmente patimenti di corpo e di spirito?

Sì, ciò è di fede, come è di fede che abbia preso vera carne umana. E siccome quanto più si è delicati, sensibili e perfetti, tanto più al vivo si sentono le pene, perciò avendo Gesù Cristo un corpo il più delicato, un cuore il più sensibile, e un’anima la più perfetta, che Dio stesso potesse creare, nessuna mai tra le creature potrà pienamente conoscere i patimenti suoi.

— Ed è pur certo che Gesù Cristo sia veramente morto?

Anche questo è di fede. E come accade quando muoiono gli uomini, anche in Lui la morte avvenne per la separazione dell’anima dal corpo, benché la Persona divina sia rimasta unita tanto all’anima che al corpo.

— E Gesù Cristo ha sofferto ed è morto come uomo, non è vero?

Verissimo!

— Come dunque si dice: « Dio ha patito ed è morto per noi? »

Siccome in Gesù Cristo, essendovi due nature, la divina e la umana, non vi ha tuttavia che una sola Persona, la Persona divina, perciò riferendosi alla sua Persona si dice « Dio ha patito ed è morto », come si dice ancora: « Il corpo, l’anima del Figliuol di Dio ».

— Che cosa pertanto ha meritato Gesù Cristo con la sua incarnazione, passione e morte?

Oltre all’aver meritato la gloria del suo corpo e l’esaltazione del suo nome, secondo che ci apprende S. Paolo, ha meritato per noi il perdono dei peccati ed ogni grazia necessaria alla salute, e non solo per quelli che vennero dopo la sua incarnazione, ma anche per quelli che vissero prima, di modo che ogni grazia fu da Dio concessa in ogni tempo per riguardo ai meriti di Gesù Cristo.

— Ho inteso abbastanza, e la ringrazio!