UN’ENCICLICA AL GIONO TOGLIE GLI APOSTATI DI TORNO: DILECTISSIMA NOBIS di SS. PIO XI

La strategia del Kazaro-massonismo nel tempo, è stata sempre la medesima, anche se trasfigurata ed occultata da maschere diverse, in certi casi apparentemente contrastanti: manifestare l’odio verso Dio, il suo Cristo, la sua Santa Chiesa Cattolica Romana, e soprattutto verso il Vicario dell’Uomo-Dio. Oggi “impero”, domani “regno dispotico”, indi “repubblica del terrore”, poi “nazi-fascismo”, o ancora “socialcomunismo”; attualmente: “mondialismo globalizzante pseudo-democratico”, [… i simboli, a ben guardare però, sono comuni], l’elemento chiave è sempre la libertà apparente, la fratellanza, la tolleranza verso tutti tranne che … verso i Cristiani, i Cattolici Romani, sempre oppressi e bersaglio di ogni tipo di vessazioni e persecuzioni, senza giustificazioni apparenti, prive di qualsiasi logica giuridica, anzi, proprio di principio, ingiuste e repressive. Questa volta, siamo nel 1933, la barbarie massonica, la violenza anticlericale, o meglio quella dell’anti-Cristo, coinvolge una delle Nazioni difesa e colonna stabile della Chiesa, la Spagna, patria di Santi di prim’ordine, di Ordini Religiosi che hanno fatto la storia del Culto divino e della stessa intera umanità [pensiamo ad esempio, solo ai Domenicani ed ai Gesuiti]. Il Santo Padre S. S. Pio XI, che già aveva alzato la sua voce in difesa della Chiesa di Cristo per le atrocità messicane, deve ora intervenire con durezza verso le deliranti decisioni dei governanti spagnoli tutti di estrazione massonica, tutti impegnati nella demolizione della colonna spagnola della Cattedrale Cattolica, quella stessa che aveva resistito con successo e piena di trionfi, alla barbarie islamica prima e dei marrani giudeo-kazari dopo. Veementi sono le proteste del Sommo Pontefice, il quale coglie anche con precisione il vero intento dei “mostri” adoratori del lucifero-baphomet, il demone precipitato che pretende di porsi al posto di Dio. In particolare egli denuncia l’attacco all’Autorità Pontificia [chiodo fisso dei templari, dei rosa-croce, dei massoni di ogni obbedienza, degli astrologi maghi alchimisti eliocentristi, autoproclamati scienziati, ma senza mai provare nulla di vero, etc.], « … quasi che l’autorità del Pontefice, conferitagli dal Divino Redentore, possa dirsi estranea a qualsivoglia parte del mondo; quasi che il riconoscimento dell’autorità divina di Gesù Cristo possa impedire o menomare il riconoscimento delle legittime autorità umane, oppure il potere spirituale e soprannaturale sia in contrasto con quello dello Stato. … Nessun contrasto può sussistere, se non per la malizia di coloro, i quali lo desiderano e lo vogliono, perché sanno che senza il Pastore le pecorelle andrebbero smarrite e più facilmente diverrebbero preda dei falsi pastori. » La storia si ripete sempre con dinamiche simili, anche se adattate ai tempi ed ai luoghi (“si colpisce il Pastore per disperdere le pecore” …), ma la parola del Cristo … “non prævalebunt”, in ogni caso trionfa alla fine di ogni attacco: solo gli adoratori del sole-lucifero, gli gnostici, i manichei, i templari, i rosacroce, i massoni, i comunisti, i banchieri usurai globalisti, i liberisti pseudo-democratici, i settari chierico-modernisti, non riescono a convincersene e regolarmente da sempre, finiscono [ … e finiranno] inghiottiti nel baratro dell’eterno lago di fuoco. Fermiamoci però a leggere questa lettera e cerchiamo di trarne gli insegnamenti a noi più utili per affrontare i nostri tempi, tempi in cui il Cattolicesimo subisce attacchi ben più aggressivi di quelli della Spagna, soprattutto spirituali, con danno immenso per la salvezza delle anime, anche perché oggi c’è un Santo Padre in esilio imbavagliato ed impedito, che non può protestare, ed al suo posto c’è il Patriarca degli Illuminati con il suo ridicolo eretico Giullare-clown, due kazaro-marrani che non hanno ancora imparato la lezione: “Non prævalebunt” … ma oramai un’età ce l’hanno e la verità non tarderà molto a manifestarsi … almeno a loro!

LETTERA ENCICLICA

DILECTISSIMA NOBIS

AGLI EMINENTISSIMI PADRI
CARDINALE FRANCESCO VIDAL E BARRAQUER,
ARCIVESCOVO DI TARRAGONA,
CARDINALE EUSTACHIO ILUNDAIN E ESTEBAN,
ARCIVESCOVO DI HISPALIS,
ED AGLI ALTRI REVERENDI PADRI
ARCIVESCOVI E VESCOVI,
E A TUTTO IL CLERO E AL POPOLO DI SPAGNA:
SULL’OPPRESSIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA.
PIO PP. XI
VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

La nobile Nazione Spagnola Ci fu sempre sommamente cara per le sue insigni benemerenze verso la fede cattolica e la civiltà cristiana, per la tradizionale ardentissima devozione a questa Sede Apostolica e per le sue grandi istituzioni ed opere di apostolato, essendo madre feconda di Santi, di Missionari e di Fondatori d’incliti Ordini religiosi, vanto e sostegno della Chiesa di Dio.  – E appunto perché la gloria della Spagna è così intimamente connessa con la Religione Cattolica, Noi ci sentiamo doppiamente afflitti nell’assistere ai deplorevoli tentativi che da tempo si vanno ripetendo per togliere alla diletta Nazione, con la fede tradizionale, i più bei titoli di civile grandezza. Non mancammo — come il Nostro cuore paterno Ci dettava — di far spesse volte presente agli attuali governanti di Spagna quanto era falsa la via che essi seguivano e di ricordar loro come non è col ferire l’anima del popolo nei suoi più profondi e cari sentimenti che si può raggiungere quella concordia di spiriti la quale è indispensabile per la prosperità di una Nazione.  – Ciò facemmo per mezzo del Nostro Rappresentante tutte le volte che si affacciava il pericolo di qualche nuova legge lesiva dei sacrosanti diritti di Dio e delle anime. Né mancammo di far giungere anche pubblicamente la Nostra paterna parola ai diletti figli del clero e del laicato di Spagna perché sapessero che il Nostro cuore era a loro più vicino nei momenti del dolore. Ma ora non possiamo non levare nuovamente la voce contro la legge, testé approvata, « intorno alle confessioni e Congregazioni religiose », costituendo essa una nuova e più grave offesa non solo alla religione e alla Chiesa, ma anche a quegli asseriti princìpi di libertà civile sui quali dichiara basarsi il nuovo Regime Spagnolo. Né si creda che la Nostra parola sia ispirata da sentimenti di avversione alla nuova forma di governo o agli altri cambiamenti prettamente politici avvenuti recentemente in Spagna. È a tutti noto, infatti, che la Chiesa Cattolica, per nulla legata ad una forma di governo piuttosto che ad un’altra, purché restino salvi i diritti di Dio e della coscienza cristiana, non trova difficoltà ad accordarsi con le varie civili istituzioni, siano esse monarchiche o repubblicane, aristocratiche o democratiche. – Ne sono prova manifesta, per non parlare che di fatti recenti, i numerosi « Concordati » e accordi stipulati in questi ultimi anni e le relazioni diplomatiche annodate dalla Sede Apostolica con diversi Stati, nei quali, dopo l’ultima grande guerra, a governi monarchici sono subentrati governi repubblicani.  – Né queste nuove Repubbliche hanno mai avuto a soffrire nelle loro istituzioni e nelle loro giuste aspirazioni verso la grandezza ed il benessere nazionale per effetto dei loro amichevoli rapporti con questa Sede Apostolica od a causa della loro disposizione a concludere, con spirito di reciproca fiducia, sulle materie che interessano la Chiesa e lo Stato, convenzioni corrispondenti alle mutate condizioni dei tempi.  – Anzi, possiamo con sicurezza affermare che da queste fiduciose intese con la Chiesa gli Stati stessi hanno tratto notevoli vantaggi. Infatti, è comunemente risaputo come al dilagare del disordine sociale non si opponga diga più valida della Chiesa, la quale, educatrice massima dei popoli, ha sempre saputo unire in accordo fecondo il principio della legittima libertà con quello dell’autorità, le esigenze della giustizia col bene della pace.  – Tutto ciò non ignorava il Governo della nuova Repubblica di Spagna, il quale, anzi, era a conoscenza delle buone disposizioni Nostre e dell’Episcopato Spagnolo di concorrere a mantenere l’ordine e la tranquillità sociale. – E con Noi e con l’Episcopato fu concorde l’immensa moltitudine, non solamente del clero secolare e regolare, ma altresì del laicato cattolico, ossia della grande maggioranza del popolo spagnolo; il quale, nonostante le personali opinioni, nonostante le provocazioni e le vessazioni degli avversari della Chiesa, si tenne lontano dalle violenze e dalle rappresaglie, nella tranquilla soggezione al potere costituito, senza dar luogo a disordini e molto meno a guerre civili. Né ad altra causa certamente, che a questa disciplina e soggezione, ispirata dall’insegnamento e dallo spirito cattolico, si potrebbe attribuire con maggiore diritto quanto si è potuto mantenere di quella pace e tranquillità pubblica che le turbolenze dei partiti e le passioni dei rivoluzionari lavoravano a sovvertire, sospingendo la Nazione verso l’abisso dell’anarchia. – Ci ha quindi recato somma meraviglia e vivo cordoglio l’apprendere che da taluni, quasi per giustificare gli iniqui procedimenti contro la Chiesa, se ne adducesse pubblicamente la necessità di difendere la nuova Repubblica. Da quanto abbiamo esposto appare così evidente l’insussistenza del motivo addotto, da poterne concludere che la lotta mossa alla Chiesa nella Spagna, più che a incomprensione della Fede Cattolica e delle sue benefiche istituzioni, si debba imputare all’odio che « contro il Signore e il suo Cristo » nutrono sette sovvertitrici di ogni ordine religioso e sociale, come purtroppo vediamo avvenire nel Messico e nella Russia. – Ma, tornando alla deplorevole « legge intorno alle confessioni e congregazioni religiose », abbiamo constatato con vivo rammarico che in essa fin dal principio viene apertamente dichiarato che lo Stato non ha religione ufficiale, riaffermando così quella separazione dello Stato dalla Chiesa che fu purtroppo sancita nella nuova Costituzione Spagnola.  – Non ci indugiamo qui a ripetere quale gravissimo errore sia l’affermare lecita e buona la separazione in se stessa, specialmente in una Nazione che nella quasi totalità è cattolica. La separazione, chi bene addentro la consideri, non è che una funesta conseguenza (come tante volte dichiarammo, specialmente nell’Enciclica Quas primas) del laicismo, ossia dell’apostasia dell’odierna società che pretende estraniarsi da Dio e quindi dalla Chiesa. Ma se per qualsiasi popolo, oltre che empia, è assurda la pretesa di voler escluso dalla vita pubblica Iddio Creatore e provvido Reggitore della stessa società, in modo particolare ripugna una tale esclusione di Dio e della Chiesa dalla vita della Nazione Spagnola, nella quale la Chiesa ebbe sempre e meritamente la parte più importante e più beneficamente attiva nelle leggi, nelle scuole e in tutte le altre private e pubbliche istituzioni.  – Se un tale attentato torna a danno irreparabile della coscienza cristiana del paese (della gioventù specialmente, che si vuole educare senza Religione, e della famiglia profanata nei suoi più sacri princìpi) non minore è il danno che ricade sulla stessa autorità civile, la quale, perduto l’appoggio che la raccomanda e la sostiene presso le coscienze dei popoli, vale a dire, venuta meno la persuasione della sua origine, dipendenza e sanzione divina, viene a perdere insieme la sua più grande forza di obbligazione e il più alto titolo di osservanza e di rispetto.  – Che questi danni conseguano inevitabilmente dal regime di separazione, viene attestato dalle non poche Nazioni che, dopo averlo introdotto nei loro ordinamenti, ben presto compresero la necessità di rimediare all’errore, sia modificando, almeno nella loro interpretazione ed applicazione, le leggi persecutrici della Chiesa, sia procurando, malgrado la separazione, di venire ad una pacifica coesistenza e cooperazione con la Chiesa. – I nuovi legislatori Spagnoli, invece, noncuranti di queste lezioni della storia, vollero una forma di separazione ostile alla fede professata dalla stragrande maggioranza dei cittadini, una separazione tanto più penosa ed ingiusta, in quanto viene deliberata in nome della libertà stessa che si promette e si assicura a tutti indistintamente. Si è voluto così assoggettare la Chiesa e i suoi ministri a misure di eccezione, che tentano di metterla alla mercé del potere civile. -Infatti, in forza della « Costituzione » e delle successive leggi emanate, mentre tutte le opinioni, anche le più erronee, hanno largo campo di manifestarsi, la sola Religione Cattolica, che è quella della quasi totalità dei cittadini, vede odiosamente vigilato l’insegnamento, inceppate le scuole e le altre sue istituzioni tanto benemerite della scienza e della cultura spagnola. Lo stesso esercizio del culto cattolico, anche nelle sue più essenziali e più tradizionali manifestazioni, non va esente da limitazioni, come l’assistenza religiosa negli istituti dipendenti dallo Stato; le stesse processioni religiose, le quali vengono sottoposte a speciali facoltà da concedersi dal Governo e a clausole e restrizioni, e perfino l’amministrazione dei Sacramenti ai moribondi e le esequie ai defunti. – Più manifesta ancora è la contraddizione per quanto riguarda la proprietà. La « Costituzione » riconosce a tutti i cittadini la legittima facoltà di possedere, e, come è proprio di tutte le legislazioni nei paesi civili, garantisce e tutela l’esercizio di così importante diritto derivante dalla stessa natura. Eppure anche su questo punto si è voluta creare una eccezione ai danni della Chiesa Cattolica, spogliandola con palese ingiustizia di tutti i suoi beni. Non si è avuto riguardo alla volontà degli oblatori; non si è tenuto conto del fine spirituale e santo, cui quei beni erano destinati; non si sono voluti in alcun modo rispettare diritti da lungo tempo acquisiti e fondati su indiscutibili titoli giuridici. Tutti gli edifici, vescovadi, case canoniche, seminari, monasteri, non sono più riconosciuti come libera proprietà della Chiesa Cattolica, ma sono dichiarati — con parole che malamente celano la natura dell’usurpazione — proprietà pubblica e nazionale. Anzi, mentre tali edifici — legittima proprietà dei vari enti ecclesiastici — vengono dalla legge lasciati in solo uso alla Chiesa Cattolica ed ai suoi ministri perché siano adibiti secondo il loro fine di culto, si giunge però a stabilire che gli edifici medesimi debbono essere sottomessi ai tributi inerenti all’uso degli immobili, costringendo così la Chiesa Cattolica a pagare tributi su ciò che violentemente le è stato tolto. In tal modo il potere civile ha preparato la via per rendere impossibile alla Chiesa Cattolica anche l’uso precario dei suoi beni; infatti, essa, spogliata di tutto, privata di ogni sussidio, inceppata in tutte le sue attività, come potrà pagare i tributi imposti? – Né si dica che per il futuro la legge lascia alla Chiesa Cattolica una certa facoltà di possedere, almeno a titolo di proprietà privata, perché anche un così ridotto riconoscimento è reso poi quasi nullo dal principio, subito dopo enunziato, che tali beni « potranno soltanto essere conservati nella quantità necessaria per il servizio religioso ». – In tal modo si costringe la Chiesa a sottoporre all’esame del potere civile le sue necessità per il compimento della sua divina missione, e si erige lo Stato a giudice assoluto di quanto occorre per funzioni meramente spirituali. È quindi da temersi che un tal giudizio sarà consono agli intenti laicizzatori della legge e dei suoi autori. – E l’usurpazione non si è arrestata agli immobili. Anche i beni mobili — con particolarissima enumerazione elencati, perché nulla sfuggisse — ossia anche i paramenti, le immagini, i quadri, i vasi, le gioie e simili oggetti destinati espressamente e permanentemente al culto cattolico, al suo splendore e alle necessità che hanno diretta relazione con esso, sono stati dichiarati pubblica proprietà. – E mentre si nega alla Chiesa il diritto di liberamente disporre di ciò che è suo, perché legittimamente acquistato o da pii fedeli ad essa donato, allo Stato e solamente ad esso si attribuisce il potere di disporre per un altro fine, e senza limitazione alcuna, di oggetti sacri, anche di quelli con speciale consacrazione sottratti ad ogni uso profano, escludendo perfino ogni dovere dello Stato di corrispondere, in tale deprecato caso, qualsiasi compenso alla Chiesa. – Né tutto ciò è stato sufficiente ad appagare le mire antireligiose degli attuali legislatori. Neppure i templi sono stati risparmiati; i templi, splendore di arte, monumenti esimi di una storia gloriosa, decoro e vanto della Nazione Spagnola; i templi, casa di Dio e di orazione, su cui sempre aveva goduto il pieno diritto di proprietà la Chiesa Cattolica, la quale — magnifico titolo di particolare benemerenza — li aveva sempre conservati, abbelliti, adornati con cura amorosa. Anche i templi — non pochi dei quali distrusse (e nuovamente lo deploriamo) l’empia mania incendiaria — sono stati dichiarati proprietà della Nazione e sottoposti al controllo delle autorità civili, che oggi guidano, senza alcun rispetto verso il sentimento religioso del popolo di Spagna, le pubbliche sorti. – È dunque ben triste, Venerabili Fratelli e diletti Figli, la condizione creata alla Chiesa Cattolica presso di voi. Il Clero già è stato privato, con gesto totalmente contrario all’indole generosa del cavalleresco popolo spagnolo, dei suoi assegni, violando un impegno preso con un patto concordatario e ledendo la più stretta giustizia, perché lo Stato, che aveva fissato gli assegni, non l’aveva fatto per concessione gratuita ma a titolo di indennità per i beni già sottratti alla Chiesa.- Anche le Congregazioni Religiose sono ora in modo inumano colpite dalla infausta legge. Si è gettato su di esse l’ingiurioso sospetto che possano esercitare un’attività politica pericolosa per la sicurezza dello Stato, stimolando così le passioni ad esse ostili con ogni sorta di denunce e di persecuzioni: aperta e facile via per giungere a più gravi provvedimenti. – Esse sono sottoposte a tali e tante relazioni, registrazioni ed ispezioni, che costituiscono moleste forme di fiscale oppressione. Infine, dopo averle private del diritto di insegnare e di esercitare qualsiasi altra attività da cui trarre onesto sostentamento, sono state sottomesse alle leggi tributarie, pur sapendo che, private di tutto, non potranno soddisfare al pagamento delle imposte: altra coperta maniera di rendere loro impossibile l’esistenza. – Ma con simili disposizioni si viene a colpire, in verità, non i religiosi soltanto, bensì il popolo Spagnolo, rendendo impossibili quelle grandi opere di carità e beneficenza a favore dei poveri, che hanno sempre formato una gloria magnifica delle Congregazioni Religiose e della Spagna Cattolica.- Tuttavia, nelle penose strettezze a cui si trova ridotto nella Spagna il Clero secolare e regolare, Ci conforta il pensiero che il generoso popolo Spagnolo, anche nella presente crisi economica, saprà degnamente riparare a così dolorosa situazione, rendendo meno disagevole ai sacerdoti la povertà vera che li colpisce, affinché possano con rinnovate energie provvedere al culto divino e al ministero pastorale. – Ma se ci addolora questa grave ingiustizia, Noi, e con Noi Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, sentiamo anche più vivamente l’offesa recata alla Divina Maestà. Non fu forse espressione di animo profondamente ostile a Dio e alla Religione Cattolica l’aver sciolto quegli Ordini Religiosi che fanno voto di ubbidienza ad autorità differente da quella legittima dello Stato? – In questo modo si volle togliere di mezzo la Compagnia di Gesù, che può ben gloriarsi di essere uno dei più saldi sostegni della Cattedra di Pietro, con la speranza forse di potere poi, con minore difficoltà, abbattere in un prossimo avvenire la fede e la morale cattolica nel cuore della Nazione Spagnola, che diede alla Chiesa la grande e gloriosa figura di Ignazio di Loyola. Ma con ciò si volle colpire in pieno — come già altra volta pubblicamente dichiarammo — la stessa Autorità Suprema della Chiesa Cattolica. Non si osò, è vero, nominare esplicitamente la persona del Romano Pontefice; di fatto però si definì autorità estranea alla Nazione Spagnola quella del Vicario di Gesù Cristo: quasi che l’autorità del Pontefice, conferitagli dal Divino Redentore, possa dirsi estranea a qualsivoglia parte del mondo; quasi che il riconoscimento dell’autorità divina di Gesù Cristo possa impedire o menomare il riconoscimento delle legittime autorità umane, oppure il potere spirituale e soprannaturale sia in contrasto con quello dello Stato. Nessun contrasto può sussistere, se non per la malizia di coloro, i quali lo desiderano e lo vogliono, perché sanno che senza il Pastore le pecorelle andrebbero smarrite e più facilmente diverrebbero preda dei falsi pastori. – Se l’offesa voluta infliggere all’autorità del Romano Pontefice ferì profondamente il Nostro cuore paterno, nemmeno un istante dubitammo che essa potesse, anche minimamente, scuotere la tradizionale devozione del popolo Spagnolo alla Cattedra di Pietro. Anzi, come hanno sempre insegnato l’esperienza e la storia fino a questi ultimi anni, quanto maggiormente i nemici della Chiesa cercano di allontanare i popoli dal Vicario di Cristo, tanto più affettuosamente questi — per provvidenziale disposizione di Dio, che dal male sa trarre il bene — a lui si stringono, proclamando che da lui solo s’irradia quella luce che illumina la via ottenebrata da tanti perturbamenti, da lui solo, come da Cristo, risuonano le « parole di vita eterna » [1]. – Né si appagarono di aver tanto infierito contro la grande e benemerita Compagnia di Gesù, ma hanno voluto con una recente legge dare un altro gravissimo colpo a tutti gli Ordini e Congregazioni Religiose proibendo ad essi l’insegnamento. Si è compiuta così un’opera di deplorevole ingratitudine e di palese ingiustizia. Perché, infatti, la libertà — che a tutti è accordata — di poter esercitare l’insegnamento vien tolta ad una classe di cittadini, rei soltanto di avere abbracciato una vita di rinuncia e di perfezione? Si vorrà forse dire che l’essere religiosi, cioè l’aver tutto lasciato e sacrificato per dedicarsi proprio all’insegnamento e all’educazione della gioventù come ad una missione di apostolato, costituisca un titolo di incapacità o di inferiorità all’insegnamento medesimo? Eppure l’esperienza sta a dimostrare con quanta cura e con quanta competenza i Religiosi abbiano sempre compiuto il loro dovere, quali magnifici risultati per l’istruzione dell’intelletto, nonché per l’educazione del cuore, abbiano coronato il loro paziente lavoro. Lo comprova luminosamente il numero di persone veramente insigni in tutti i campi delle umane scienze ed insieme esemplarmente cattoliche uscite dalle scuole dei Religiosi; lo dimostra il grande incremento che nella Spagna tali scuole hanno fortunatamente raggiunto, nonché la consolante affluenza degli studenti. Lo conferma infine la fiducia di cui godevano presso i genitori, i quali, avendo da Dio ricevuto il diritto ed il dovere di educare i propri figliuoli, hanno pure la sacrosanta libertà di scegliere coloro che nell’opera educativa debbono efficacemente coadiuvarli.- Ma neppure nei riguardi degli Ordini e delle Congregazioni Religiose è bastato loro questo gravissimo atto. Si sono altresì conculcati indiscutibili diritti di proprietà, si è violata apertamente la libera volontà dei fondatori e dei benefattori per impossessarsi degli edifici al fine di creare scuole laiche, cioè senza Dio, proprio dove i generosi oblatori avevano disposto che fosse impartita una educazione schiettamente cattolica. – Da tutto ciò appare purtroppo chiaro lo scopo che si intende raggiungere con simili disposizioni, quello cioè di educare le nuove generazioni ad uno spirito di indifferenza religiosa, se non di anticlericalismo, strappare dalle anime dei giovani i tradizionali sentimenti cattolici così profondamente radicati nel popolo di Spagna. Si vuol così laicizzare tutto l’insegnamento finora ispirato alla religione ed alla morale cristiana. – Di fronte a una legge tanto lesiva dei diritti e delle libertà ecclesiastiche, diritti che dobbiamo difendere e conservare integri, crediamo preciso dovere del Nostro Apostolico ministero di riprovarla e condannarla. Noi quindi protestiamo solennemente e con tutte le nostre forze contro la legge stessa, dichiarando che essa non potrà essere mai invocata contro i diritti imprescrittibili della Chiesa. – E vogliamo qui riaffermare la Nostra viva fiducia che i Nostri diletti figli della Spagna, compresi della ingiustizia e del danno di tali provvedimenti, si varranno di tutti i mezzi legittimi che per diritto di natura e per disposizione di legge restano in loro potere, in modo da indurre gli stessi legislatori a riformare disposizioni così contrarie ai diritti di ogni cittadino e così ostili alla Chiesa, sostituendole con altre conciliabili con la coscienza cattolica. Intanto però Noi, con tutto l’animo e il cuore di Padre e di Pastore, esortiamo vivamente i Vescovi, i Sacerdoti e tutti coloro che in qualche modo intendono dedicarsi all’educazione della gioventù, a promuovere più intensamente con tutte le forze e con ogni mezzo l’insegnamento religioso e la pratica della vita cristiana. E ciò è tanto più necessario in quanto la nuova legislazione spagnola, con la deleteria introduzione del divorzio, osa profanare il santuario della famiglia, ponendo così — con la tentata dissoluzione della società domestica — i germi delle più dolorose rovine per il civile consorzio. – Dinanzi alla minaccia di così enormi danni raccomandiamo nuovamente e vivamente ai cattolici tutti di Spagna che, messi da parte lamenti e recriminazioni, subordinando anzi al bene comune della patria e della Religione ogni altro ideale, tutti si uniscano disciplinati per la difesa della fede e per allontanare i pericoli che minacciano lo stesso civile consorzio. – In modo speciale invitiamo tutti i fedeli ad unirsi nell’Azione Cattolica tante volte da Noi raccomandata; essa, pur non costituendo un partito, anzi dovendo porsi al di fuori e al di sopra di tutti i partiti politici, servirà a formare la coscienza dei cattolici, illuminandola e corroborandola nella difesa della fede contro ogni insidia. – Ed ora, Venerabili Fratelli e Figli dilettissimi, non sapremmo come meglio concludere questa Nostra lettera, se non ripetendovi che, più che negli aiuti degli uomini, dobbiamo aver fiducia nell’indefettibile assistenza promessa da Dio alla sua Chiesa e nell’immensa bontà del Signore verso coloro che lo amano. Perciò, considerando quanto è avvenuto presso di voi, e addolorati sopra ogni altra cosa per le gravi offese che sono state fatte alla Divina Maestà, con le numerose violazioni dei suoi sacrosanti diritti e con tante trasgressioni delle sue leggi, Noi rivolgiamo al cielo fervide preghiere, domandando a Dio il perdono per le offese a Lui recate. Egli, che tutto può, illumini le menti, raddrizzi le volontà, volga i cuori dei governanti a migliori consigli. A noi arride serena fiducia che la voce supplichevole di tanti buoni figli uniti a Noi nelle preghiera, soprattutto in questo Anno Santo della Redenzione, sarà benignamente accolta dalla clemenza del Padre celeste. – In tale fiducia, anche per propiziare su voi, Venerabili Fratelli e Diletti Figli, e su tutta la Nazione Spagnola, a Noi tanta cara, l’abbondanza dei celesti favori, vi impartiamo con tutta l’effusione dell’animo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 giugno 1933, duodecimo del Nostro Pontificato.

PIUS PP.XI

DOMENICA XI, dopo PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XI dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXVII:6-7; 36
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.
[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII:2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.
[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.]
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ. [Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.
[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV:1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, om. XXIII. – Torino 1899 –imprim.]

“Ora vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato e che voi avete anche accettato, e nel quale state saldi e per il quale anche vi salverete, se lo ritenete nel modo che vi ho predicato, purché non abbiate creduto indarno. Perché prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto; come cioè Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture, e come fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture: e come apparve a Cefa e poscia agli undici: quindi apparve a più di cinquecento fratelli, dei quali molti vivono tuttora e gli altri morirono. Poi apparve a Giacomo, poi agli Apostoli; finalmente all’ultimo di tutti, quasi ad aborto, apparve anche a me, che sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo perché ho perseguitata la Chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di Dio in me non fu sterile: anzi ho lavorato più di essi tutti: non già io, ma la grazia di Dio con me „ (I. Cor. c. XV, vers. 1-10).

Noi siamo siffatti, che sentiamo il bisogno vivissimo di mutare spesso le cose che ci stanno intorno e le impressioni che riceviamo, anche belle e gradite. Un cibo, una bevanda, ancorché squisita, se è sempre quella, ci viene a noia: una armonia, una vista, una scena, ancorché incantevole, dopo un certo tempo, non ci interessa gran fatto. Noi abbiamo bisogno di variare le nostre impressioni per gustarne la bellezza: siamo simili alle api, che vanno di fiore in fiore, succhiando da ciascuno il miele e assaporandone sempre nuove dolcezze. I Libri sacri, massime del nuovo Testamento, sono come un immenso panorama, nel quale le scene variano mirabilmente: sono come un vastissimo prato, coperto d’una infinita varietà di fiori, una splendida mensa imbandita d’ogni sorta di cibi. La Chiesa ci spiega dinanzi questo panorama, ci mostra questo prato, ci introduce a questa mensa, ma pone ogni cura di variare le viste ed i fiori, di mutare i cibi, onde con la novità rendere più gradevoli le nostre impressioni. Perciò ogni Domenica la Chiesa ci mette innanzi qualche tratto nuovo, volete nell’Epistola, volete nel Vangelo: ora è un fiore colto in una delle quattordici lettere di S. Paolo, od in una di quelle di S. Pietro, di S. Giovanni o di S. Giacomo; ora ci dà a gustare una scena narrata in uno dei quattro Evangeli, e ci nutre col cibo sostanzioso delle sentenze di Gesù Cristo, che vi sono largamente disseminate. Così la novità delle cose eccita la nostra curiosità e tien desta la nostra attenzione, e la nostra curiosità eccitata e la nostra attenzione più vivamente destata, trovano più gradito e più sostanzioso l’alimento della verità che ci è offerta. – La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere e meditare i primi dieci versetti del capo XV della prima lettera ai Corinti, e servono di prefazione alla dottrina della risurrezione finale dei nostri corpi che l’Apostolo ampiamente vi svolge. Io vi invito a considerare con me questa breve lezione della Epistola, con cui S. Paolo si apre destramente la via a spiegare il dogma fondamentale della futura nostra risurrezione. – È manifesto da questo capo XV di S. Paolo che a Corinto, nella Chiesa fondata da lui stesso, vi erano alcuni che negavano la risurrezione dei corpi o almeno ne dubitavano (vers. 12, 35) e muovevano difficoltà, che turbavano la fede dei semplici. Forse era il mal seme già sparso dagli eretici Imeneo e Pileto, riprovati da S. Paolo (II. Timot. II, 17, 18), e che si propagava come gangrena, a detta dello stesso Apostolo. Volendo egli pertanto porre in sodo questo articolo capitale della nostra fede, comincia dal ricordare ai Corinti ciò che loro aveva insegnato, cioè che Cristo era veramente risorto dai morti, e ne cita i testimoni, per conchiudere poi a suo luogo, che se Cristo era veramente risorto, Egli il capo dell’umanità, tutti sarebbero risorti. Udiamolo: “Ora io vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato, che voi ancora avete accettato, nel quale vi mantenete saldi. „ Il Vangelo che Paolo qui ricorda ai fedeli di Corinto, non è certamente il libro scritto, ma sì l’insegnamento evangelico, ossia la dottrina di Gesù Cristo: questa dottrina, egli Paolo, l’aveva annunziata, ed essi, i Corinti, l’avevano accolta: Accepìstis, non solo, ma in essa stavano saldi: In quo et statis. Doppio elogio che l’Apostolo fa ai suoi Corinti, quello d’aver ricevuto il Vangelo e di perseverare in esso in mezzo ai pericoli ed alle persecuzioni, che d’ogni parte li circondavano e molestavano. Figliuoli! quel Vangelo che i Corinti avevano ricevuto adulti, noi l’abbiamo ricevuto ancor bambini, prima ancora di conoscerne il tesoro: i Corinti vi si tennero fermi; imitiamoli, conservando gelosamente e a qualunque costo questa santa eredità lasciataci dai nostri avi: In quo et statis. Pur troppo alcuni dei nostri cari fratelli, massime istruiti, colpa dei tempi e della scaltrezza dei nemici e della debolezza umana, hanno perduta la fede succhiata col latte tra le braccia della madre: deh! Che nessuno di voi la perda, ma la serbi intatta e viva, perché ad essa è legata la nostra speranza e la eterna nostra salvezza. – Seguitiamo S. Paolo. “Per questo Vangelo voi sarete salvi; „ ma a qual patto? ” … Se lo tenete nel modo, con cui io ve l’ho predicato, „ risponde l’Apostolo. Non basta, o cari, avere la fede, ma bisogna averla e conservarla quale l’autore e consumatore della fede; ma Egli ce la dà per mezzo della sua Chiesa, che ne è la depositaria ed interprete infallibile. Noi dunque dobbiamo ricevere e conservare questa fede secondo l’insegnamento della Chiesa: aggiungervi o levarne una sola sillaba sarebbe delitto, sarebbe sacrilegio. Nessuno può mutare una parola d’una sentenza pronunciata da un tribunale che giudica secondo il codice e l’applica ai casi particolari e, se la mutasse, sarebbe punito: similmente noi dobbiamo ricevere le sentenze della Chiesa, unica interprete infallibile del Vangelo. Teniamo dunque il Vangelo come ce lo porge la Chiesa, e allora non avremo creduto indarno: Nisì frustra credidistìs, giacché pretendere di piegare la fede, allargarla, restringerla, modificarla secondoché pare alla nostra corta intelligenza, è un sottoporre Dio a noi stessi, è un farci giudici della sua parola, è un distruggere la natura stessa della fede, e questa è inutile: Frustra credidistìs. In tal caso non crederemmo a Dio, ma a noi medesimi, e la fede sarebbe non l’opera di Dio, ma sì l’opera nostra. Che cosa anzi tutto avete voi insegnato, o grande Apostolo, ai vostri Corinti? Qual fu il punto capitale del vostro Evangelo? Eccovelo: “Prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto. „ La verità, sì la naturale, come la sovrannaturale, quella propria della ragione, come quella della fede, non è opera o fattura dell’uomo; se lo fosse, sarebbe in potere dell’uomo annientarla o mutarla: essa viene da Dio, da Dio solo, e l’uomo non può esserne che il mezzo o lo strumento di comunicazione, non mai la sorgente. Bene a ragione pertanto S. Paolo dice: Quelle verità, che io vi ho insegnate, non sono mie, non le traggo da me stesso, ma le ho ricevute anch’io, come voi le ricevete da me: Tradidi vobis in primis quod et accepi. E da chi le ha ricevute S. Paolo? Lo dice e lo ripete altrove; non dagli uomini, né per gli uomini, ma da Gesù Cristo. — E che cosa ricevette da Gesù Cristo? “… Che Gesù Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture. „ Non basta: “Fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture. ,, In queste poche parole, come vedete, si contiene il compendio di tutta la Fede cristiana, la morte di Gesù Cristo per i nostri peccati, la sua sepoltura, la sua risurrezione, in breve, il secondo mistero della fede, che ci insegna il Catechismo. È da notarsi quella espressione ripetuta due volte: “Secondo le Scritture: „ Secundum Scripturas, che la Chiesa volle conservata nel Simbolo che si canta nella Messa. E perché questa espressione è con insistenza speciale inculcata? Le Scritture, delle quali parla in questo luogo l’Apostolo, non possono essere i libri del nuovo Testamento, che allora non esistevano che in minima proporzione, nè v’era ragione di citarli. Resta dunque che si alluda a quelli dell’antico Testamento, e v’era ben ragione di accennarvi. In quasi tutti i libri dell’antico Testamento si parla di Gesù Cristo, della sua venuta, della sua origine, della sua vita, della sua passione, morte e risurrezione, tantoché non è esagerazione il dire che tutta la vita di Cristo, prima che nei Vangeli, è scritta nei Profeti. È questo un vero miracolo, una prova della divinità di Gesù Cristo, e perciò S. Paolo, inteso sempre a raffermare nella fede i suoi neofiti, ricordando la vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, ricorda eziandio che questa vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, era già stata predetta e descritta nei Libri santi, e così delle prove della divinità di Gesù forma un solo fascio, che vince ogni opposizione e schiaccia qualunque mente riottosa. Vedete, sembra dire l’Apostolo, il cumulo di miracoli operati da Cristo che tutti si incentrano nella risurrezione, sono più che bastevoli a mostrare chi Egli sia: eppure vi è un altro cumulo di miracoli, che si legano ai primi, ed è che questi miracoli furono tutti predetti, e se volete persuadervene pigliate in mano i libri del vecchio Testamento e ve li troverete descritti prima che avvenissero: Secundum Scripturas. – Scopo dell’Apostolo, come dicemmo, è di mostrare il dogma della risurrezione universale: per mostrare questo dogma, egli appella alla risurrezione di Cristo, predetta dai Profeti. Ma questa risurrezione di Cristo è avvenuta? È certa? Si può provare? La risurrezione di Gesù Cristo è un miracolo, il sommo dei miracoli operati da Cristo, ed è insieme un fatto; un fatto che si può e si deve provare a punta di ragione. Ora i fatti come si provano? Indubbiamente coi testimoni; non c’è altra via. Come provate voi che Cristoforo Colombo abbia scoperto l’America e che Goffredo di Buglione abbia preso Gerusalemme? Con le testimonianze di quelli che videro od udirono quei fatti. Similmente nel caso nostro: se Cristo è veramente risorto noi lo sapremo da coloro che lo videro ed udirono risorto. Fuori dunque i testimoni degni di fede della risurrezione di Cristo. Paolo li accenna per sommi capi, e le sue parole sono come l’eco ed il sunto delle narrazioni evangeliche. “Gesù Cristo, dice S. Paolo, apparve a Cefa, cioè Pietro: „ Visus est Cephæ? È cosa che non deve passare inosservata: l’Apostolo, enumerando le principali apparizioni di Cristo, mette in primo luogo quella fatta a Pietro, avvenuta certamente il giorno stesso della risurrezione, come apparisce dal Vangelo di S. Luca (XXIV, 34), ancorché l’Evangelista non la descriva particolarmente (Senza dubbio la prima apparizione di Cristo risorto e dai Vangelisti narrata, fu fatta alle donne e alla Maddalena, andata al sepolcro in sul far del giorno, ma l’Apostolo la passa sotto silenzio e si restringe a quelle che ebbero gli Apostoli e discepoli, e la ragione è manifesta). E perché porre in primo luogo l’apparizione di Pietro: Visus est Cephæ? La ragione vuolsi cercare, penso io, nella dignità di Pietro: egli era il capo degli Apostoli, la pietra fondamentale della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo, da Lui stesso ripetutamente designato come tale: la sua testimonianza era la maggiore, e perciò doveva andare innanzi a quella degli Apostoli tutti: è questo un indizio non dubbio del primato di S. Pietro, che l’Apostolo S. Paolo ci dà in questo luogo, e del quale si deve tener conto. Dopo l’apparizione di Pietro viene quella degli Apostoli uniti: Et post hoc undecim. Gesù apparve il giorno della risurrezione, a notte chiusa, ai dieci Apostoli raccolti in Gerusalemme: erano dieci, perché, oltre Giuda, il traditore, mancava Tommaso, come narra S. Luca (XXIV). Otto giorni appresso, ancora secondo il Vangelo di S. Luca, Gesù apparve nuovamente agli Apostoli, ed a questa seconda apparizione di Gesù era presente S. Tommaso, ed a questa indubbiamente accenna S. Paolo, allorché dice: ” E poscia agli undici: „ Et post hoc undecim. Credo poi che l’Apostolo, accennando a questa seconda e più completa apparizione fatta a tutti gli Apostoli, in modo indiretto sì, ma certo, alludesse anche alla prima fatta ai dieci e registrata nello stesso Vangelo di S. Luca che, secondo alcuni, è quello che S. Paolo chiama Vangelo suo: Secundum Evangelium meum. Prosegue S. Paolo la sua enumerazione, e dice: ” Quindi apparve a più di cinquecento fratelli insieme: „ Deinde visus plus quam quingentis fratribus simul. La parola, insieme, usata da S. Paolo, non permette di considerare questi cinquecento e più testimoni come la somma totale di quelli ai quali Gesù risuscitato apparve; qui evidentemente parlasi di una apparizione speciale, a cui erano presenti più di cinquecento persone. Non può essere quella della Ascensione, perché S. Luca (Atti Apost. c. I, vers. 15) afferma che questa avvenne sul monte degli Olivi, presso Gerusalemme e sembra che tutti quelli i quali ne furono testimoni, si raccogliessero poi nel cenacolo, ed erano in numero di circa cento venti. Quale è dunque questa apparizione fatta a più di cinquecento persone insieme, molte delle quali, allorché S. Paolo scriveva la sua lettera, erano morte, ma alcune vivevano ancora? Dai Vangeli non apparisce né quando, né dove, né come avvenisse la grandiosa apparizione, ma secondo ogni verosimiglianza avvenne nella Galilea, dove Gesù Cristo stesso aveva comandato si radunassero e dove si sarebbe loro mostrato. ” Dite ai fratelli miei, che vadano in Galilea; là mi vedranno „ (Matt. XXVI, 10). – Checché sia del luogo e del tempo di questa apparizione, è indubitato che oltre a cinquecento persone ne furono testimoni, che è ciò che più importa. S. Paolo continua la enumerazione: “Dopo apparve a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli .„ – Ignoriamo i particolari della apparizione fatta a Giacomo che si crede sia il Minore e poi Vescovo di Gerusalemme. L’apparizione poi che dicesi fatta agli Apostoli tutti, si può considerare come il compendio o riassunto di tutte le altre narrate o indicate nei Vangeli. – “Finalmente, all’ultimo di tutti, come ad aborto, conchiude S. Paolo, apparve anche a me. „ Io pure, esclama il grande Apostolo, ho veduto Cristo risorto, là sulla via di Damasco; io, ultimo degli Apostoli, io aborto di Apostolo, perché chiamato a tanta dignità dopo gli altri e in modo affatto diverso dagli altri, io pure l’ho veduto Gesù risorto, io pure ne sono testimonio. — Qui la mente dell’Apostolo, com’era naturale, vola sulle memorie e sulle vicende del passato: ricorda ciò che fu e quel che è di presente, raffronta l’alta dignità di Apostolo, della quale è rivestito, e la sua vita e condotta prima della miracolosa sua vocazione, sente la propria indegnità e l’immenso beneficio della grazia ricevuta, e nell’impeto, non so ben dire della sua riconoscenza o del suo dolore, e più probabilmente dell’una e dell’altro, esce in questo grido sublime: “Perché io sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo! „ E perché, o vaso di elezione, vi chiamate minimo degli Apostoli, indegno d’essere Apostolo? Non avete voi lavorato come e più degli altri Apostoli? Non siete voi l’Apostolo dei Gentili? Non siete voi stato chiamato da Cristo stesso, e in un baleno da Lui trasformato meravigliosamente? Non avete portate le vostre catene dinanzi ai tribunali della terra per amore di Cristo, per Lui vergheggiato, per Lui lapidato? Migliaia e migliaia di Gentili guadagnati a Cristo, non formano la corona e la gloria del vostro apostolato? Sì, tutto questo è vero, lo so, risponde l’incomparabile Apostolo; ma io ricordo d’aver perseguitato la Chiesa di Dio: Persecutus sum Ecclesiam Dei; il sangue di Stefano mi sta sempre dinanzi agli occhi: sono Apostolo di Cristo, ma prima fui suo persecutore e feroce persecutore: Persecutus sum supra modum, come scrive altrove: unico tra gli Apostoli fui persecutore della Chiesa prima d’essere Apostolo: ciò mi umilia, mi confonde, mi copre di vergogna, e mi fa sentire d’essere non solo l’ultimo degli Apostoli, ma indegno d’essere Apostolo. Questi due versetti, nella loro semplicità ed inarrivabile eloquenza, ci rivelano tutta la grand’anima dell’Apostolo, ce ne fanno vedere il fondo, e per poco ci strappano le lacrime. Ma torniamo all’argomento che l’Apostolo sta svolgendo. Vuol provare, come dicemmo, la risurrezione futura dei nostri corpi; per provarla appella alla risurrezione gloriosa del corpo di Gesù Cristo, nostro capo e modello: e per provare il fatto della risurrezione di Gesù Cristo appella all’autorità dei testimoni, Pietro, Giacomo, gli undici Apostoli, tutti gli Apostoli, cinquecento persone che lo videro, e infine produce la propria testimonianza. Qual serie, quale schiera di testimoni pel numero, per le qualità morali, per la costanza, per la varietà ed unanimità, per le conseguenze pari a questa! Un fatto qualunque attestato da due, tre, quattro persone oneste ed intelligenti e degne di fede genera in noi la certezza del fatto istesso, per guisa che non ci resta ombra di dubbio, e sulla loro testimonianza i tribunali pronunciano sentenze della più alta importanza, e tutti le trovano ragionevoli e giuste: il fatto della risurrezione di Gesù Cristo è affermato da tutti gli Apostoli e i discepoli: è affermato da oltre cinquecento persone che protestano d’averlo veduto e toccato, d’aver mangiato con Lui e ricevuti i suoi comandi; è affermato dovunque, costantemente, sempre allo stesso modo, ed a costo di esili, di carceri, di supplizi e della morte più atroce: chi mai potrebbe dubitarne? Se fosse possibile dubitare di tale e tanta testimonianza, sulla terra non vi sarebbe più un solo fatto che si potesse dir certo; sarebbe forza dubitare d’ogni cosa. Voi vedete pertanto che il gran fatto della risurrezione di Gesù Cristo, base della nostra fede, riposa sul più incrollabile fondamento che si possa desiderare, agli occhi stessi della ragione umana. Paolo aveva proclamato d’essere il minimo degli Apostoli, d’essere indegno di sì alta prerogativa: era il grido sincero della sua coscienza, era l’omaggio dovuto alla verità; ma l’umiltà è inseparabile dalla verità, anzi essa è verità, null’altro che verità. Io, per me, dice Paolo, non sono stato che un miserabile persecutore della Chiesa, e lo sarei tuttora; “… ma per la grazia di Dio sono quel che sono; „ sono cioè Apostolo di Gesù Cristo: Gratìa Dei sum id quod sum. E perché, o grande Apostolo, per la grazia di Dio siete quel che siete? Perché, risponde, la grazia di Dio in me non fu sterile. ., Non fu come un raggio di sole, che cade sopra un occhio chiuso, come un seme sparso sulla pietra, come un ramo innestato sopra un tronco disseccato. A questa grazia, con la quale Iddio mi chiamò senza alcun mio merito, anzi ad onta dei miei demeriti, io risposi, e risposi perché mi diede la grazia di rispondere e feci ogni suo volere. In altri termini, se sono uscito dalla cecità ebraica ed ho abbracciato il Vangelo di Gesù Cristo, e fattone Apostolo, lo devo anzi tutto alla grazia di Dio; ma non solo alla grazia di Dio, sebbene anche alla mia cooperazione. È questa la dottrina cattolica intorno ai rapporti della grazia divina e del nostro libero arbitrio, esposta da S. Paolo con una chiarezza e precisione, che non lascia nulla da desiderare. Dio previene con la sua grazia, illuminando la mente e movendo la volontà, e l’uomo lasciandosi illuminare e muovere e cooperando alla grazia con l’unire all’azione di questa la propria azione. Che cosa sono le opere buone e sante del Cristiano? Sono il risultato dell’azione divina, mercé della grazia e dell’azione umana, mercé del concorso della volontà nostra, insieme unite ed armonizzanti. – Badiamo, o cari, che la grazia di Dio non fa mai difetto, come nel seme non fa difetto il principio vitale; ma che questo rimane sterile se la terra che lo riceve, non è preparata e non risponde. Che non rimanga giammai sterile questo germe della grazia che Dio ci largisce, onde possiamo dire con S. Paolo: Gratia ejus in me vacua non fuit! L’Apostolo conchiude il suo dire che la grazia di Dio in lui non solo non fu sterile ma fu ricca di opere, a talché, soggiunge: “Ho faticato più di tutti gli Apostoli: „ Abundantius illìs omnibus laboravi. Santa franchezza e mirabile audacia questa del nostro Paolo! Protesta d’essere l’ultimo degli Apostoli, indegno di chiamarsi Apostolo, non Apostolo, ma aborto di Apostolo, e poi non esita a dichiarare di aver fatto più di tutti gli altri Apostoli. Parrebbe una contraddizione manifesta, ed è una lampante verità: egli è veramente l’uno e l’altro, secondochè consideriamo in lui ciò che era da sé prima dell’opera della grazia, e ciò che fu poi dopo l’opera trasformatrice della grazia. E poiché gli parve che l’aver detto: “Ho faticato più degli altri Apostoli, „ potesse sonare millanteria, quasi fosse opera tutta sua, spiega stupendamente l’espressione, soggiungendo: “Non io, ma sì la grazia di Dio con me: „ Non ego autem. sed gratia Dei mecum. Le opere del mio apostolato sono grandi, maggiori di quelle dei miei fratelli, che mi precedettero; voi le vedete e le vede il mondo tutto; ma esse non sono esclusivamente mie; sono mie e della grazia di Dio, che mi prevenne, mi avvalorò e le condusse a termine. È la stessa verità sopra accennata è  qui ribadita con una frase brevissima e insieme chiarissima: “La grazia di Dio con me. „ – Tenete saldi, o dilettissimi, questi due gran capi di dottrina cattolica, qui stabiliti dall’Apostolo, vale a dire, la necessità della grazia di Dio e la cooperazione della libera nostra volontà per fare il bene ed operare la nostra salvezza eterna; questi due elementi, queste due forze insieme unite portano le anime nostre alle altezze dei cieli e le depongono in seno a Dio; separate, le lasciano povere e nude su questa misera terra, anzi le lasciano cadere negli abissi di eterna dannazione. Il far sì che siano o congiunte o separate dipende da noi, onde se bene si guarda, la salute eterna o l’eterna perdizione è nelle nostre mani, perché è sempre in nostro potere usare o non usare della grazia divina a tutti e sempre più che bastevolmente offerta.

Graduale
Ps XXVII:7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.
[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja [A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX:2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum s. Marcum.
R. Gloria tibi, Domine!
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venit per Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in cœlum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre.
Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.

Omelia II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, om. XXIV]

“Gesù, partitosi” di nuovo dai confini di Tiro, venne per Sidone, presso al mare di Galilea, per mezzo i confini della Decapoli. – Gli condussero innanzi un sordo è mutolo, e lo pregavano, perché gli volesse porre la mano sul capo. Ed egli, trattolo in disparte dalla folla, pose le sue dita nelle orecchie di quello, ed avendo sputato, gli toccò la lingua. Poi, levati gli occhi al cielo, trasse un gran sospiro, e dissegli: Effeta, cioè apriti. E incontanente le sue orecchie furono aperte e si sciolse il nodo della lingua e speditamente parlava. E comandò loro che non lo dicessero a persona; ma più Egli lo divietava loro e più quelli lo predicavano. E n’erano sopramodo stupiti, dicendo: Egli ha fatto bene ogni cosa, e fa udire i sordi e parlare i muti „ (S. Marco, VII, 31-87). –

È questa la lezione evangelica, che la Chiesa ci mette innanzi a meditare in questa Domenica undecima dopo la Pentecoste. In essa non troviamo una sola sentenza che si riferisca alle verità di fede da credersi, o a quelle del costume da praticarsi, ma si narra soltanto un miracolo operato da Gesù Cristo nella persona d’un sordo e mutolo. Ma poiché S. Girolamo ci insegna, che nelle S. Scritture non vi è punto, non àpice, che non racchiuda verità preziosa, non è a dubitare che eziandio in questo fatto si contengano documenti d’alta sapienza, utilissimi a conoscersi. La Scrittura santa, scrisse S. Ireneo, “… è simile ad una miniera ricca d’oro; per trovare il prezioso metallo fa d’uopo scavare, penetrare nelle viscere della terra, scrutarne ogni parte e, trovatolo, sceverarlo dalla mondiglia. E ciò che faremo noi pure stamattina, studiando il fatto evangelico, che avete udito. – “Gesù, partitosi di nuovo dai confini di Tiro, per Sidone, venne presso al mare di Galilea, per mezzo i confini della Decapoli. „ Rare volte nei Vangeli troviamo determinati e nominati sì particolarmente i luoghi, che Gesù onorò della sua presenza, come in questo tratto. È dunque da fermarvisi un poco per conoscere il teatro che Gesù Cristo scelse per spiegarvi le opere della sua potenza. La Palestina si stende dai piedi del Libano fin presso ai confini dell’Egitto, chiusa ad oriente dai monti di Moàb, dal Giordano e dai laghi di Genesaret o Tiberiade e mar Morto, e ad occidente dal Mediterraneo. La sua larghezza da Oriente ad Occidente varia da 40 a 70 chilometri, la sua lunghezza da tramontana a mezzogiorno, può toccare i duecento, onde la sua estensione totale è assai minore della nostra Lombardia; sono sedici mila chilometri quadrati! La Galilea, serrata tra il Libano, il suo lago ed il mare, è separata dalla Giudea, perché tramezzo sta la Samaria. Regione incantevole un tempo per i suoi colli, per le sue valli, per i suoi monti, per l’ubertà meravigliosa della sua terra, coperta di messi, di vigne, di olivi, di oleandri, vero sorriso del cielo, ed oggi povera e convertita quasi in deserto. Fu là, su quelle rive ridenti del suo lago, su quei colli amenissimi, che Gesù cominciò a predicare il regno dei cieli ai poverelli, che fece udire le più sublimi verità che siano mai cadute da labbro umano. Dopo aver moltiplicato i cinque pani, voi lo sapete, le turbe nel loro entusiasmo lo volevano far re: Gesù si sottrasse, e sembra che all’intento di quitare ogni tumulto popolare e tagliar corto a qualunque tentativo di questa natura, per qualche tempo si ritraesse da quei luoghi. Egli, come narrano gli Evangelisti, si ridusse presso il mare, nelle vicinanze di Tiro e Sidone, dove guarì la figlia della povera Cananea. Di là, riprese la via che metteva ancora al lago di Galilea, attraversando la Decapoli, ossia le dieci città, dove erano misti Ebrei e Gentili. E fu appunto in questo viaggio, che Gesù operò il miracolo del sordomuto che ci narra il Vangelo, benché taccia il luogo preciso dove avvenne. – Gesù si studiava di evitare la folla, ma il suo nome era sulle bocche di tutti: la curiosità naturale, la brama di vedere miracoli, di udire quella parola ammaliatrice, traevano sui suoi passi le moltitudini: ciechi, zoppi, infermi d’ogni maniera si mettevano dinanzi a Lui affinché li risanasse. Tra gli altri, scrive il nostro Evangelista, “gli menarono innanzi un sordo e muto e lo pregavano, affinché gli ponesse la mano sul capo. „ Questo fatto è narrato dal solo S. Marco. È noto che la mutolezza di origine è conseguenza della sordità, perché chi non ode non può apprendere la favella, e perciò il malanno della sordità trae seco l’altro malanno della mutolezza. Non si dice nel Vangelo se l’infelice era tale dalla nascita o lo divenisse appresso, limitandosi ad affermare, “che era sordo e mutolo; „ ma sembra che fossa diventato sordo appresso, perché la sua mutolezza non era assoluta. E in vero, il testo greco dice che parlava male, a stento, balbettando, e perciò in qualche modo si poteva chiamare muto. Questo sordo e muto fu tratto innanzi a Gesù Cristo da alcune caritatevoli persone, le quali pregarono il divino Maestro a risanarlo. – E qui permettetemi due osservazioni semplicissime, che il fatto mi suggerisce. La prima è questa; senza dubbio Gesù Cristo conosceva la sventura del povero sordomuto e ne voleva la guarigione: perché dunque non la operò senza esserne pregato? Perché la differì sino a che ne fu pregato? Appunto per esserne pregato! Sono pochi, pochissimi i miracoli operati da Cristo, senza esserne pregato e talora istantemente. E perché? Perché vuole che ne riconosciamo il bisogno, che ci umiliamo, confessando la nostra impotenza e la sua onnipotenza, e perché in qualche modo con la nostra preghiera concorriamo ad ottenere il miracolo istesso. Si direbbe che Dio non vuol far nulla senza di noi, dove noi possiamo concorrere. La seconda osservazione è questa: i nostri fratelli protestanti negano che gli Angeli ed i Santi in cielo possano pregare ed intercedere per noi: dicono che noi, rivolgendoci ai Santi, agli Angeli, alla Vergine affinché preghino Iddio per noi, facciamo ingiuria a Dio stesso, quasi ché Egli sia men buono di loro ed abbia bisogno di mediatori. Voi qui vedete alcuni pietosi che menano a Gesù Cristo il sordo e mutolo e lo pregano di guarirlo: Deprecabantur eum; e Gesù non si offese, non respinse come ingiuriosa la loro preghiera, anzi la gradì, e la gradì per modo che fece paghi i loro desideri, e la esaudì con il miracolo. Se qui in terra gli uomini, sì imperfetti e spesso peccatori, possono pregare per i loro fratelli bisognosi, perché i Santi, gli Angeli, la Vergine benedetta, non lo potranno pregare in cielo? Perché Iddio rigetterà in cielo ciò che gli è accettevole in terra? È dunque chiaro che la invocazione dei Santi è lecita, utile e cara a Dio. Quei buoni popolani che condussero a Gesù il sordo e muto, lo pregarono di sanarlo; ma in qual modo? Con gl’imporgli la mano sul capo: Ut imponet illì manum. È cosa singolare l’udire quella buona gente, chiedere un miracolo a Gesù e determinarne per poco il modo, mercé l’imposizione delle mani. Perché l’imposizione delle mani? Era questo un rito in uso presso gli Ebrei e consacrato poi nella Chiesa: esso soleva accompagnare la preghiera che si faceva sopra una persona, quasi simbolo della grazia divina che discende dall’alto. Giacobbe morente benedice i figli di Giuseppe e pone le sue mani tremanti sul loro capo (Gen. XLVIII, 14-17): il capo della sinagoga, Giairo, prega Gesù di salvargli la figlia agonizzante, e Gli dice: “Vieni, metti la tua mano sul suo capo e sarà salva „ (Marco, V, 23). Gesù benedice i fanciulli e pone le sue mani sul loro capo (Marco, X, 16). Che più? Gesù Cristo stabilì che lo Spirito Santo fosse dato nel Sacramento della Conferma zione, e il Sacerdozio conferito nel Sacramento dell’Ordine con la imposizione delle mani. Questo rito dunque è antico e venerando e da Gesù Cristo usato non solo, ma da Lui elevato alla dignità di Sacramento. – Le mani che si posano sul capo, la parte più nobile e più elevata dell’uomo, congiunte alla invocazione divina, ci adombrano il misterioso commercio della terra con il cielo, dell’uomo con Dio, e sembrano stabilire tra l’uno e l’altro l’invisibile corrente della grazia. Ecco perché coloro che menarono a Gesù il sordomuto, lo pregarono che volesse mettere sopra di lui la mano: era un dirgli: “Prega per lui e guariscilo.” Gesù non fu mai pregato indarno. Pigliate in mano il Vangelo, scorretelo pagina per pagina, versetto per versetto, e troverete che Gesù Cristo alcuna volta operò miracoli non pregato, ma non troverete giammai che, pregato, rimandasse inesaudito chicchessia: la bontà del suo cuore non glielo permetteva, quantunque per lo più non si trattasse di beni e favori spirituali, ma di grazie temporali: ed una prova l’abbiamo nel fatto evangelico odierno. Appena Gesù si vide innanzi quel misero ed ebbe udita la preghiera di quelli che glielo presentarono, fu tocco di compassione, e presolo in disparte dalla turba, pose le sue dita nelle orecchie di lui, ed avendo sputato, gli toccò la lingua, e poi levati in alto gli occhi e dato un gran sospiro, gli disse: ” Effeta, cioè apriti. „ . – Non occorre il dirlo, o carissimi! Gesù, il Figlio di Dio, onnipotente, poteva operare qualunque miracolo nei modi e luoghi e tempi che voleva; poteva operare qualunque miracolo con l’atto solo del suo volere, senza lasciarne apparire esternamente nemmeno un segno, un indizio tuttoché minimo; ma è chiaro dal Vangelo ch’Egli accompagnò sempre i suoi miracoli con qualche atto esterno, o con la parola, o con la preghiera, o con l’impero, o con qualche altro segno che varia secondo le circostanze. Caccia i demoni e rabbonaccia il lago con una parola d’assoluto imperio: guarisce infermi, monda lebbrosi, restituisce la vista ai ciechi con queste semplici parole: Sii sano, sii mondato! vedi: risana un paralitico, dicendo: Piglia il tuo letticciuolo e vattene; risuscita Lazzaro con quelle tre parole: ” Lazzaro, vien fuori. „ È cosa evidente che Gesù opera i suoi miracoli, accompagnandoli con alcune parole o con qualche atto o toccamento, non perché di queste cose abbisognasse (che sarebbe cosa ridicola), ma per mostrare nella coincidenza delle sue parole, dei suoi atti e de’ suoi toccamenti, coll’effetto miracoloso, che questo era veramente suo. Se i miracoli suoi non fossero stati congiunti con la manifestazione del suo volere, che solo ne era la causa, chi mai avrebbe potuto dire e credere con sicurezza che erano opera sua? Queste parole e questi atti accompagnanti i miracoli di Gesù Cristo sono vari, ma in generale rispondono alla natura dei miracoli stessi, alle circostanze di tempo, di luogo e di persone, al fine che si proponeva e andate dicendo. Ciò posto, veniamo al modo affatto particolare, che Gesù Cristo tenne nella guarigione del nostro sordomuto. Anzitutto lo piglia in disparte dalla folla : Àpprehendens eum de turba seorum. Non lo trasse in disparte in guisa da essere solo a solo col sordomuto, e nascosto agli occhi della moltitudine, come io penso; ma lo volle separato dalla moltitudine in maniera che la moltitudine lo vedesse meglio e fosse spettatrice sicura del miracolo e del modo con cui operava il miracolo; giacché scopo precipuo dei miracoli di Gesù Cristo, come sapete, era quello di mostrare e confermare la sua divina missione e, per conseguenza, la dottrina che insegnava: ora per raggiungere questo scopo era necessario che i suoi miracoli fossero indubitati, operati alla piena luce del giorno, non nascostamente, a talché potessero convincere i più restii e gli stessi suoi nemici. Poiché Gesù ebbe tratto in disparte il sordomuto e messolo, a così dire, sotto gli occhi di tutti, gli pose le dita nelle orecchie, e umettato della sua saliva o l’indice od il pollice, con esso toccò la lingua di lui. Perché tutto questo? Ve l’ho or ora detto, non già che questi atti fossero necessari ad operare il miracolo, o che in essi si racchiudesse materialmente il segreto e la efficacia della guarigione, ma solo per mostrare ch’era Egli colui che risanava quelle parti o membra inferme, applicando ad esse la sua occulta virtù onnipotente, adombrata da quei due toccamenti misteriosi. Né tutto questo bastò a Gesù: dal profondo del suo petto, dall’intimo dell’anima, trasse un sospiro angoscioso ed in pari tempo levò gli occhi al cielo: Suspìciens in cœlum, ingemuit: due atti distintissimi e compiuti nello stesso momento: con quel sospiro o gemito Gesù mostrò come vedeva e sentiva tutte le miserie dell’umana famiglia, della quale il povero sordomuto era una prova parlante, e che la virtù risanatrice non veniva dalla terra, dagli uomini, ma dal cielo e da Dio stesso. Senza dubbio gli atti esterni sono, per chi bene li considera, parole che manifestano ciò che passa nell’animo, e parole eloquenti; ma se a questi atti si aggiunge la parola esterna che li spiega, il loro significato riceve maggior luce e si toglie ogni dubbiezza; è per questo che Gesù Cristo, istituendo i Sacramenti, che sono riti esterni significanti ciò che internamente operano, volle si aggiungessero le parole, che li spiegano con tutta chiarezza. Così, mentre col versare l’acqua sul capo del bambino si esprime l’interna purificazione e mondezza dell’anima, e con l’ungere la sua fronte col crisma si significa l’interna unzione della grazia, con le parole che accompagnano quei riti sacri, si spiega nettamente ciò che essi operano. Ecco il perché Gesù Cristo, al toccamento delle orecchie e della lingua del sordomuto, al sollevare degli occhi in cielo ed al gremito che trasse affannosamente dal cuore, aggiunse la parola: Effeta, apriti, che tutto comprendeva e spiegava … È troppo facile immaginare qual doveva essere in quell’istante solenne l’atteggiamento e l’aspettazione di quella folla che gli stava intorno. Tutti gli occhi erano fissi in Gesù e nel sordomuto; i lontani si levavano in punta di piedi per vedere; tutte le orecchie erano tese ad udire le parole di Gesù e del sordomuto, se per avventura ne pronunciava: il silenzio era profondo ed assoluto, e il ronzio d’un insetto sarebbesi certamente udito. Appena pronunciata quella parola imperiosa: ” Apriti, „ le orecchie furono aperte, si sciolse il legame della lingua e speditamente parlava (2). La doppia infermità della sordità e della mutolezza era certa, notissima; Gesù non vi adopra intorno alcun rimedio naturale, se rimedio non si vogliono dire il toccare le orecchie e la lingua, il guardare il cielo e il dare un sospiro e il pronunciare quella parola: ” Apriti . „ E fosse pure che vi avesse usato intorno qualche rimedio naturale, questo non poteva certamente produrre immediatamente il suo effetto: la guarigione fu istantanea, testimonio l’intero popolo: essa non può attribuirsi a cause umane, ma al solo comando di Cristo; che è quanto dire, è un miracolo manifesto. Alcune riflessioni non inutili, o carissimi: come sulla terra vi sono uomini, grazie a Dio, non molti, che sono infermi delle orecchie e della lingua del corpo, così vi sono uomini, e pur troppo senza numero, infermi delle orecchie e della lingua dell’animo. Sono coloro, che non ascoltano mai la parola di Dio, o se l’ascoltano talvolta, non ne penetrano il senso; sono coloro che non sciolgono mai la lingua alla preghiera, che non ringraziano mai il buon Dio dei benefici ricevuti, che pronti a parlare di tutto e a difendere lo loro massime, le loro idee, i loro diritti, sono muti allorché si tratta di confessare o difendere la fede, che professano e le ragioni della giustizia e della verità. Ah! questi uomini, questi sordi, questi mutoli hanno bisogno che Gesù Cristo apra loro le orecchie, sciolga la lingua del loro spirito con un gemito del suo cuore e con quella parola potente: “Apriti”. Ben è vero, che nel santo Battesimo, nei riti che lo precedono, a noi pure il sacro ministro toccò le nostre orecchie e con la sua saliva toccò la nostra lingua e pronunciò la mistica parola: “ Effeta, apriti, „ come Cristo fece col sordomuto del Vangelo; ma è pur vero che molti di noi, fatti adulti, volontariamente chiusero quelle orecchie che erano state aperte, legarono quella lingua ch’era stata sciolta, e divennero ancora sordi e muti. Che fare, o dilettissimi? Gesù è pronto a rinnovare in ciascuno di noi quel miracolo che operò nel sordomuto, di cui parla il Vangelo: lasciamo che lo operi, anzi preghiamolo che si degni operarlo in noi con quel suo gemito e con quella sua parola onnipossente: Apriti! Apriamo sempre le orecchie ad udire la parola di verità, e la lingua sia sempre pronta e sciolta a celebrare le lodi di Dio! Operato il miracolo e manifestatosi da sé stesso agli astanti nella favella libera e spedita del poverello già sordo e mutolo, “… Gesù comandò che non lo dicessero ad alcuno: ma più Egli lo vietava loro e più essi lo predicavano. „ – In questo stesso Vangelo di S. Marco (V, 19), si narra come Gesù liberò un infelice dalla signoria del demonio, che lo tiranneggiava e orribilmente malmenava, e poi gli disse: “Va, di’ ai tuoi quel che ti ha fatto il Signore. „ Come si compongono questi due comandi di Gesù Cristo? Con l’uno divieta che si divulghi il miracolo del sordomuto, e con l’altro impone che si manifesti la liberazione miracolosa dell’ossesso? E non era bene che il miracolo del sordomuto fosse conosciuto e così fosse conosciuta la missione divina di Gesù Cristo? Non era questo il fine, per cui operava i miracoli? Nell’interesse della salvezza delle anime e della gloria del Padre suo, Gesù doveva desiderarne la divulgazione massima: perché dichiara di non volerla? – Non fa mestieri il dirlo: in Gesù Cristo non vi fu mai, né poteva esservi ombra di contraddizione: questa diversità di condotta nei due fatti forse si deve spiegare da diverse condizioni di luogo, di tempo, di circostanze nelle quali Gesù si trovò e che noi non conosciamo e il Vangelo non volle dire (Apparisce dal “Vangelo che alcuna volta Gesù Cristo ebbe cura di non irritare maggiormente i suoi nemici, scribi e farisei; forse in quel momento fa prudenza per lui imporre silenzio alle turbe per mostrare ad essi che non cercava le lodi degli uomini e che, se queste gli venivano, erano uno spontaneo tributo di ammirazione e gratitudine); forse anche, come avvertono alcuni interpreti, qui è da ricordare in Gesù la sua doppia natura, divina ed umana: come uomo, Egli diceva: La gloria mia è nulla, ed amava il nascondimento, e perciò vietava o mostrava di desiderare che il miracolo si tenesse occulto; come Figliuol di Dio, voleva e doveva volere che fosse conosciuto e predicato dovunque. Qui parlò come uomo, dandoci esempio di modestia. Ma certo il suo divieto di parlarne non fu un comando esplicito, perché se fosse stato tale, ne avrebbe voluto la osservanza o, violato, ne avrebbe mosso rimprovero o lamento. Del resto, come esigere il silenzio sovra un miracolo ed esigerlo da una moltitudine che non capiva in sé per la meraviglia, e piena di un santo entusiasmo? Come impedire la manifestazione strepitosa della gratitudine? Era questa da parte del popolo e del sordomuto e suoi congiunti ed amici l’adempimento d’un dovere. – Il Vangelo si chiude con queste parole: “E ne erano sopra modo stupiti, e dicevano: Ogni cosa ha fatto bene, e fa udire i sordi e favellare i muti. „ Doveva, essere questo naturalmente il grido di quella moltitudine, grido nel quale si confondevano e compendiavano le voci e gli applausi che salivano al cielo. Carissimi! ogni giorno, ogni istante della nostra vita, riceviamo benefici da Dio e quali e quanti! Possiamo dire che la nostra esistenza è un continuo beneficio di Dio sì nell’ordine naturale come nel soprannaturale: questi benefici sono senza confronto maggiori di quello che ricevette il sordomuto e che le turbe ammirarono. I benefici nostri, per essere continui, passano quasi inosservati e spesso ci dimentichiamo di renderne grazie al benigno Datore: Assiduitate vilescunt. Ah! non sia così, o dilettissimi. Se non ad ogni momento, almeno a quando a quando fra il giorno, al meno all’aprirsi ed al chiudersi del giorno, ci esca dal cuore il grido di lode, di ammirazione, di ringraziamento, di gratitudine, che la guarigione miracolosa del sordomuto strappò a quella folla: Egli, il nostro Dio, il nostro Creatore e Salvatore ha fatto bene ogni cosa: a Lui onore e gloria ora e sempre per tutti i secoli. Amen.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.
[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta
Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

Communio
Prov III:9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.
[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio
Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXII.

L’UOMO.

Il primo uomo e la prima donna. — Se si possa ammettere l’umanità preistorica. — Il trasformismo di Darwin, ossia l’uomo dalla scimmia. —  Le diverse razze e l’unità della specie umana. — Il fine della vita.

— Desidererei ora di apprendere qualche cosa intorno all’uomo.

Ed io ti dirò subito che la Scrittura ci dice chiaro, che l’uomo fu creato da Dio: che « Dio formò il corpo dell’uomo dal fango della terra, e gli alitò in volto il soffio della vita: che poscia, mandato un profondo sonno a questo primo uomo, gli trasse dal fianco una costa e con essa ne formò la prima donna, che diede a lui per aiuto e compagna, e che il primo uomo chiamò Adamo, che vuol dire di terra, oppure rosso, cioè di terra rossa, oppure anche dotato di linguaggio, e la prima donna Eva, che significa madre dei viventi ».

— Ma a dirle il vero tutto ciò mi sembra una storiella da ridere.

Ed io ti compatisco, perché so che più che il tuo sentimento esprimi quello degli increduli. Ma del resto che cosa vi ha di ridicolo in ciò! Vorrei un po’ che tu suggerissi qualche altro modo, che Iddio avrebbe potuto tenere nel creare l’uomo per vedere se alla mia volta non avrei da ridere del tuo suggerimento? D’altronde se Iddio è puro spirito, epperciò non ha le mani come noi, non devi mica credere che quando la Scrittura ci dice che Dio formò  il corpo dell’uomo, abbia preso del fango con le mani e poi dalla bocca gli abbia soffiato sopra materialmente: ma devi capire che l a Scrittura ci vuol in tal guisa significare che Iddio con la sua onnipotenza, valendosi forse anche, come dice S. Basilio, del ministero degli Angeli, formò il corpo di Adamo, e creò l’anima e gliela infuse.

— Ma quella creazione della donna da una costa dell’uomo?

Ti par proprio strana, non è vero? Ma ciò proviene dalla picciolezza della tua intelligenza, per cui misuri Iddio sopra te stesso e a seconda delle tue viste. Ma Dio non è come noi, e quello che a noi può sembrare strano per Lui è sapientissimo. In quante altre cose Dio segue delle vie tutto diverse da quelle che seguiremmo noi! Del resto se Iddio ha fatto così a creare la donna, ne ha avuto certamente le sue ragioni. E S. Tommaso d’Aquino, da quel gran genio, che egli è, ne indica alcune, dicendo che la donna fu tratta dall’uomo, perché fosse conservata la dignità dell’uomo istesso con l’essere egli il principio della sua specie: che non venne creata dalla testa, perché si conosca che essa non deve essere al di sopra dell’uomo, né fu creata dai piedi, perché si sappia che l’uomo non la deve disprezzare, ma che venne tratta dal fianco, vale a dire da vicino al cuore, perché sia manifesto che l’uomo deve riguardarla e stimarla come parte intima di se stesso.

— Ho inteso. Ma sento a dire tante volte che gli scienziati, i geologi hanno trovato le prove incontestabili dell’esistenza di uomini preistorici, di migliaia e migliaia di anni anteriori ad Adamo, la cui comparsa nel mondo, come già mi disse, risale a sei mila anni fa soltanto.

Sì è vero: certi geologi hanno questa pretesa. Secondo loro si sarebbero trovati dei crani che conterebbero nientemeno che 250,000 anni di esistenza! I più discreti asseriscono che almeno 50,000 anni fa già esistevano degli uomini! Ma queste non sono soltanto che ipotesi e congetture, lanciate a pieno vapore nei campi dell’ignoto, coll’unico intento di dare una smentita all’insegnamento della Bibbia; ma sono vere baie di una scienza tutt’altro che seria e profonda, ciarlatanesca e goffa. Figurati che fra le grandi prove, che si addussero in conferma di tali asserzioni, fuvvi la scoperta di uno scheletro, che si disse umano ed antichissimo, di migliaia d’anni anteriore ad Adamo, e che poi si riconobbe essere quello di una smisurata salamandra, e il ritrovamento di oggetti, lavorati dall’uomo, ad una tale profondità da farli supporre anch’essi di epoca remotissima e certamente appartenenti a uomini preistorici, ma che poi si venne a sapere che erano stati seppelliti appositamente per trafficare sulla buona fede dei geologi, di quei geologi, che amano meglio di lasciarsi truffare da qualche furbo matricolato che credere all’insegnamento della parola di Dio!

— Ma pure non si rinvennero negli strati della terra strumenti di pietra, di bronzo, di rame e di ferro, atti a determinare le loro corrispettive età, talune delle quali anteriori ad Adamo?

Sì, è vero che si rinvennero tali strumenti di diversa materia, ma non perciò si può inferirne con sicurezza delle diverse età, ed anteriori ad Adamo. « Supponete, scrive Pozzy nel suo libro La terra e il racconto biblico, che i geologi futuri, scavando i laghi e i fiumi dell’America e dell’Australia, trovino le armi, gli archi, le frecce degl’indigeni, mescolate alle armi da fuoco dei popoli europei, che li hanno cacciati e vinti: sarà logico inferire che ha dovuto scorrere un numero sterminato di secoli fra le due epoche rappresentate da questi avanzi? » L’uso adunque di utensili di legno, di pietra, di bronzo, di ferro, eccetera, può essere stato promiscuo e contemporaneo, come lo è anche presentemente, e la diversità della materia di questi oggetti rinvenuti non dà nessun diritto ad inventare successivamente l’età della silice, del bronzo, del rame, e via via, e ad inventarle anteriori ad Adamo.

— Dunque che vi sia stata sulla terra un’altra umanità prima di Adamo non si può ammettere?

Non si può e non si deve. La Santa Scrittura non solamente non parla di alcuna umanità anteriore ad Adamo, ma chiaramente ci apprende che Adamo è il primo uomo creato da Dio sulla terra, e che da lui proviene tutto il genere umano.

— Eppure io so che vi sono di coloro, i quali, anche peggio, vanno insegnando che l’uomo è provenuto da successive trasformazioni di esseri a lui inferiori.

Così insegnano i materialisti. Ma contro di questa assurdità basta che tu richiami alla tua mente quanto abbiam detto provando l’esistenza di Dio.

— Sì, me ne ricordo. Ma ho pur inteso dire che, non è gran tempo, uno scienziato inglese chiamato Darwin, aveva fatto la scoperta che l’uomo deriva dalla scimmia.

E che scoperta? una scoperta che ci onora assai! Capperi! Non vai in solluchero tu quando pensi che, secondo il Darwin, sei discendente d’un qualche bel scimmione?

— Capisco che lei è in vena di scherzare, ma io vorrei che mi dicesse qualche cosa sul serio a questo riguardo.

Ed io te lo dirò. E prima di tutto devi sapere i n che cosa consista la teoria darwiniana. Egli, il Darwin, si sforza di dimostrare che gli esseri viventi a lungo andare si scostano dal loro tipo primitivo a cagione delle influenze esterne, che operano su di loro; che essendo moltissimi gli esseri esistenti e scarsi gli alimenti per sostenerli, tali esseri lottano fra di loro in una lotta per l’esistenza affine di ridursi a pochi e poter vivere. Riducendosi a pochi e sopravvivendo, ben si capisce, i più forti, questi riproducendosi diventano sempre migliori, e così per mezzo di una lenta selezione naturale un tipo primitivo da imperfettissimo si fa perfetto. Così dovette accadere delle scimmie, fino a che per mezzo del trasforsmismo ne venne fuori il magnifico scimmione, che è l’uomo ».

— Questa teoria è abbastanza ingegnosa; ma come fu provata?

È quello che devesi ancor fare e che non si potrà fare mai. Non è che il Signor Darwin non l’abbia tentato, tuttavia non vi è riuscito, tanto che l’Accademia francese delle Scienze ha detto di lui che « è u n amatore di astrazioni generali, ma che resta straniero all’osservazione rigorosa dei fatti ». E il celebre Virchow, medico e naturalista tedesco, non sospetto certo di tenerezza per l’insegnamento cattolico, perché incredulo e libero pensatore, in un discorso tenuto a Berlino l’anno 1892 disse chiaro: « Tutti i progressi positivi che noi abbiamo fatto nel dominio dell’antropologia preistorica, ci allontanano sempre più da questa parentela (colla scimmia). Esiste un limite preciso, che separa l’uomo dall’animale, e che non si è punto sinora potuto scancellare, e si è la eredità, che trasmette ai neonati le facoltà dei genitori. Non abbiamo mai visto che una scimmia metta al mondo un uomo, o che un uomo produca una scimmia. Se v’ha qualche uomo che abbia un viso scimmioso, ciò non è altro che un effetto morboso ».

— Dunque non è vero che l’uomo rassomigli alla scimmia e la scimmia all’uomo?

No, non è vero affatto. Vi sono delle differenze grandissime. La scimmia è animale rampicante, epperò può afferrare con le mani e con i piedi. Non sta ritta che con fatica e si fa violenza per star in equilibrio. China la sua testa naturalmente verso terra, e non parla. L’uomo per contrario cammina, sta su dritto, ben equilibrato, e ben si comprende al solo vederlo che il suo organismo è ordinato alla postura verticale, e parla. Queste sono già differenze essenziali, ma ve ne sono poi moltissime altre che sarebbe troppo lungo enumerare.

— Ed io mi accontento di quelle che mi ha indicate.

Epperò ritieni quello che ci insegna la Fede Cattolica, che l’uomo fu creato da Dio, e per tal guisa riconoscerai e rispetterai altresì la tua dignità, ed imiterai Napoleone I che, udendo le dottrine dei precursori di Darwin diceva: « Non voglio aver nulla di comune col fango; se costoro vogliono credersi bestie tal sia di loro, ma non cerchino di farmi credere che sono una bestia anch’io ».

— In quanto a questo non dubiti, farò com’ella dice. Tuttavia contro questa creazione divina di un uomo e di una donna, da cui vengono tutti gli altri, non sta il fatto delle razze diverse, che vi sono al mondo?

Così la pensano i così detti Póligenisti, ma così non è assolutamente, perché sebbene gli uomini siano di razze diverse, sono tuttavia di una medesima specie, che presenta in tutti gli stessi caratteri non ostante le loro gradazioni, e sempre si conservano e si moltiplicano, benché si frammischino insieme quelli di una razza con quelli di un’altra, ciò che non potrebbe accadere, come mostra l’esperienza, qualora gli uomini essendo di razze diverse fossero anche di diversa specie.

— Ma, e il diverso colore della pelle? e la diversa forma de’ cranii? e la diversità di lingue!

Son tutte cose accidentali. Non vi sono anche tra di noi dei bruni, dei gialli, degli olivastri e dei rossi? Non vi sono anche tra di noi delle teste bislunghe, depresse, o altramente configurate? Ciò dipende dal clima, dal nutrimento, dal genere di vita e simili. E in quanto alle lingue diverse tutti i dotti ormai si accordano nel dire che non son altro che dialetti di una lingua primitiva spezzata.

— Ho inteso. Ma ora mi dica un po’: Perché mai Dio ha dato e dà tuttora la vita agli uomini?

La cosa è chiara. Dio ha dato e dà tuttora la vita agli uomini per la sua gloria e per la loro vera ed eterna felicità. L’uomo pertanto durante la sua esistenza è in dovere di attendere a glorificare il suo Creatore: perciò deve adoperarsi a conoscerlo, ad amarlo, ad obbedirlo, a rendergli l’onore dovuto, per poi possederlo e goderlo eternamente.

— L’uomo adunque non è creato per godere i beni di questo mondo, i piaceri, le ricchezze, i divertimenti, eccetera?

No, caro mio. L’uomo deve giovarsi dei beni di questo mondo unicamente per conseguire i beni eterni del cielo.

— Ma se la vita è un fumo e dobbiamo già sottostare a tanti dolori, contro nostra voglia, perché non conviene di darci al buon tempo, di divertirci e spassarcela quanto più è possibile?

Se la vita dell’uomo fosse tutta qui come quella dei bruti, se dopo di questa non vi fosse per noi la vita avvenire, avresti ragione. Ma dovendo un dì sloggiare da questo mondo, ed essendo stati creati per l’eterna felicità, è a quella che dobbiamo mirare, sacrificando perciò le nostre cattive passioni e sottostando a quei sacrifici, che il raggiungimento del nostro fine ci impone. Così insegna e vuole la nostra fede.

— Dunque noi dobbiamo menare una vita noiosa, triste, malinconica?

Ecco il pregiudizio ingiusto e funesto, di cui pur troppo restano vittima tanti uomini, e specialmente tanti giovani. No, per corrispondere al proprio fine, ed amare e servire Iddio non c’è affatto da menar vita noiosa, triste e melanconica; non è neppur necessario lasciar del tutto di ridere, di scherzare e di stare allegri; anzi Dio, secondo l’invito della Santa Scrittura, lo si deve servire nell’allegrezza. L’unica cosa che importa di fare è astenersi dalla colpa, la quale, vogliasi o no, è dessa la cagione della tristezza, poiché Dio lo ha detto, ed Egli non si inganna, non è pace, e tanto meno allegrezza a chi fa il male.

— Ciò è giusto, e debbo confessare che me ne persuade la mia stessa esperienza.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (7) modello di mansuetudine.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (7)

[A. Carmignola, IL SACRO CUORE DI GESÙ, S.E.I. Ed. Torino, 1920 – Disc. VII]

Il Sacro Cuore di Gesù modello di mansuetudine.

Il divin Redentore, venuto sulla terra ad operare la nostra salvezza, si fece pure il nostro Maestro. Per quattromila anni il mondo, errando tra le tenebre dell’errore e dell’ignoranza, sospirò che venisse un Dottore celeste, che lo rimettesse sul retto sentiero. Ma giunta quell’epoca, che a Dio parve opportuna, e che S. Paolo chiama « la pienezza dei tempi, » il Maestro sospirato comparve fra gli uomini e levò cattedra di verità. Ma a differenza della sapienza dell’uomo, che non insegna che con le parole, Gesù Cristo, la Sapienza di Dio, ci ha ammaestrati anche con i fatti. No, Egli non si contentò di dare agli uomini delle sublimi lezioni, ma più ancora volle confermarle col suo esempio, cominciando anzitutto a fare, come nota S. Luca, e poi ad insegnare: cœpit Jesus facere ed docere. (Act. I, 1) Cosicché ben a ragione Gesù Cristo dicendo: « Io sono la luce del mondo, » poté soggiungere: « E chi tien dietro a me, seguendo i miei esempi, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce, che guida alla vita eterna; » qui sequitur me non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitæ. (Io. VIII, 12) Sì, o miei cari, Gesù Cristo, nel tempo stesso che ci apprende tutte le più belle virtù, ne è pure il perfettissimo modello, e lo è nel suo Sacratissimo Cuore. E noi per tal guisa siamo in dovere di imitarlo, che qualora non lo imitassimo, indarno ci vanteremmo cristiani, più indarno ancora di voti del suo Sacro Cuore, e falsamente crederemmo di salvarci. Ma sebbene Gesù Cristo sia il modello perfettissimo di ogni virtù, e in tutte dobbiamo studiarci di invitarlo, è certo che ve ne hanno di quelle, che parvero essere state da Lui predilette, e la cui imitazione esige da noi un maggior impegno. Ed in vero, sebbene additandoci il suo Cuore Sacratissimo avrebbe potuto dirci: Imparate da me, che sono caritatevole, che sono paziente, che sono obbediente, che sono casto, che sono adorno di ogni virtù; disse invece: Discite a me, quia mitis sum et humilis corde. (MATTH. XI, 29) Ora, che vuol dir ciò? Senza dubbio Gesù Cristo, essendo la divina Sapienza incarnata, non ha mai né parlato né operato senza infinita sapienza. Epperò essendosi egli compiaciuto di far spiccare nel suo Sacro Cuore le virtù della mansuetudine e dell’umiltà, e avendoci ordinato particolarmente di imitarlo in esse, è segno evidente, che di esse abbiamo un bisogno tutto speciale. Pertanto a raggiungere il terzo fine della divozione al S. Cuore, cioè la sua imitazione, in quel modo che a Lui piace maggiormente, conviene che noi ci facciamo a riconoscere il pregio di queste due virtù, della mansuetudine e della umiltà, e gli esempi ammirabili che di esse ci ha dato il Sacratissimo Cuore. E cominciando oggi dalla prima, vediamo quanto sia importante la mansuetudine e quale modello ne sia il Sacro Cuore.

I. — Quanto sia importante la virtù della mansuetudine non torna difficile il riconoscerlo. A questa virtù, secondo che insegna S. Tommaso, appartiene il comprimere l’ira, che viene provocata dalle cose contrarie e specialmente dagli affronti, e l’impedirne la vendetta, a cui sempre agogna questa fosca passione. Ora chi non sa come l’ira, che pur troppo predomina nella maggior parte degli uomini, sia un gran male ed anzi causa di molti altri gravissimi mali? Vi ha, è vero, una ira santa, eccitata dal giusto zelo, e che ci fa riprendere con forza chi non poté esser vinto dalla nostra mansuetudine: tale è la collera di un padre alla vista dei disordini commessi da un suo figlio, la collera di un maestro alla vista dell’indisciplinatezza ed infingardaggine di un discepolo, la collera di un padrone alla vista dell’inoperosità ed infedeltà di un suo servo, l a collera di un re alla vista delle offese fatte alla sua maestà da un suo suddito. Ed ecco perché il reale salmista ha detto: Adiratevi, ma senza peccato : irascimini et nolite peccare; (Ps. IV, 5) ecco perchè il divin Redentore istesso nel suo Vangelo ci mette innanzi l’esempio di padri di famiglia, di padroni, di sovrani che vanno in collera e puniscono severamente e senza remissione. Ecco perché lo stesso Gesù Cristo fu acceso da questo santo sdegno, quando cacciò dal tempio i profanatori, che ne violavano la santità, e quando vedendo i Farisei a malignare di continuo contro le sue parole e le sue opere e soprattutto ad ingannare con le loro ipocrite apparenze il povero popolo, inveì contro di essi affine di smascherare i loro iniqui intendimenti. Ma ben diversa è l’ira che nasce in noi da cattivo principio, dal nostro egoismo in qualche modo contrariato e ferito. Ancorché si coprisse col manto dello zelo e dell’amore della verità e della giustizia, non è buona giammai, come dice san Giacomo, a far l’uomo giusto: ira enim viri justitiam Dei non operatur, (IAC. I, 20) anzi lo precipita in molti mali. Di fatti per essa viene anzitutto turbato gravemente lo stesso esteriore dell’uomo, che vi si abbandona. Osservate, dicono S. Gregorio e S. Giovanni Crisostomo, osservate un uomo sorpreso dalla collera: gli palpita il cuore nel petto e gli trema il corpo da capo a piè; gli si gonfiano le gote, agita scompostamente le mani, pesta coi piedi, si dimena nella persona, getta fuoco dal volto e scintille dagli occhi: quasi più non vede, e se guarda, non conosce neppure le persone a lui note, la lingua gli si confonde e manda piuttosto clamori da bestia, che parole da uomo: sicché egli stesso non sa più quel che si dica e quel che si faccia, ed è divenuto simile ad un bruto privo della ragione. Ma il peggio si è che per l’ira, nell’uomo che vi si abbandona vien rovinata l’anima per i tanti peccati che essa produce. Ed invero l’uomo che si lascia dominare dall’ira perde ogni pazienza, ogni prudenza, ogni carità ed ogni giustizia; si abbandona alle ingiurie, alle maldicenze ed alle calunnie, manda imprecazioni e bestemmie, giura odio e vendetta, trascorre agli oltraggi, alle violenze, alle battiture, alle ferite e quasi più non v’ha alcunché di crudele e di inumano, che nell’impeto della sua passione egli non osi intraprendere. Guardate quei due uomini, che si allontanano dalla città, e chieggono alla foresta un misterioso e funesto ritiro. Eccoli in mezzo al bosco, hanno in mano uno strumento di morte, si scagliano l’un contro l’altro con implacabile furore. Uno d’essi vacilla, cade, e forse muore sul colpo, nell’atto medesimo del più barbaro e più inesplicabile delitto. E qual è mai l’origine di così frequenti duelli, di tante risse, di tanti ferimenti, di tanti omicidii, se non una qualche ingiuria pronunziata in un momento di collera o di astio, un risentimento dell’amor proprio ferito, uno sfogo d’ira? Ecco adunque i funesti effetti di sì terribile passione! – Ma anche allora che non conduce a tali eccessi, è tuttavia mai sempre di gravissimo danno ad un’anima cristiana, perché le tornerà di impedimento gravissimo ad unirsi a Dio nella preghiera ed a ricevere da Lui gl’influssi della sua grazia. E questa verità la fece intendere il Signore stesso con bella figura al profeta Elia. Perciocché volendo egli parlare a questo profeta, mentre stava in una spelonca del monte Oreb, chiamatolo fuori, mandò innanzi a sé un vento grande da sciorre i monti e spezzar le pietre, e dopo il vento un terremoto, e un fuoco; ma né gli parlò dopo il vento, né dopo il terremoto, né dopo il fuoco: non in commotione Dominus; gli parlò allora soltanto che a tutti quei grandi commovimenti successe lo spirare di un’aura leggera. Per tal guisa adunque, come notano i sacri Dottori, Iddio fece intendere, che anche con gli uomini di pietà Egli non si mette in comunicazione, vale a dire anche ad essi nega gli aiuti salutari della sua grazia, se sono facili ad inquietarsi e ad incollerire, e ciò anzitutto perché chi è facile all’ira, per quanto sia frequente alle chiese ed agli esercizi di pietà, non potrà mai col cuore agitato e sconvolto compiere tali opere se non esteriormente ed ipocritamente, e poscia perché parlando in cuor suo la passione, non lascerà che vi penetri a parlare e ad operare la grazia del Signore. Ora, o miei cari, se è vero che l’ira giunge talvolta ad impedire ed estinguere il lume della ragione, tramutando, l’uomo in un bruto selvaggio ed irragionevole, e che ad ogni modo ci sottrae agl’influssi benefici della grazia di Dio, chi non vede l’importanza suprema, anzi la necessità che tutti abbiamo di acquistare la mansuetudine, a cui spetta di frenare l’ira, di soggiogare in noi qualsiasi risentimento di odio e di vendetta e di farci usar dolcezza? E poiché si tratta di una virtù così importante e necessaria, poteva essere che Gesù Cristo, venuto in sulla terra a farsi il nostro maestro e modello non ce la predicasse e inculcasse con tutto lo zelo? E primieramente ce la predicò e inculcò come maestro. Ciò fece quando egli proclamò beati i miti, beati i pacifici; quando comandò di perdonare, e non sette volte, ma settanta volte sette, vale a dire un numero indefinito di volte; quando ci invitò a presentare la guancia sinistra a chi ci percuotesse la destra; ciò fece quando ne insegnò ad amare persino i nostri nemici, a rendere loro bene per male, a pregare per essi, e a dire al Padre celeste: Perdona a noi le nostre offese, come noi le perdoniamo ai nostri offensori; quando ci disse di non fare agli altri ciò che non vogliamo dagli altri sia fatto a noi; quando ci esortò a prendere norma nella nostra condotta dal suo stesso divin Padre, che fa levare il sole sopra i buoni e sopra i cattivi, e manda la pioggia per i giusti e per gl’iniqui. Ma non pago di ciò, all’insegnamento volle aggiungere il più ammirabile esempio, e l’esempio del suo Cuore Sacratissimo, affine di poter dire: Imparate ad essere miti non solo dalle mie lezioni, ma più ancora dagli esempi, anzi dal carattere istesso del mio Cuore: Discite a ine quia mitis sum corde.

II. Ed oh, chi potrà degnamente rappresentare la mitezza ammirabile che in tutta la vita dimostrò Gesù Cristo dal suo primo entrare nel mondo sino al suo ultimo uscirne per risalire al cielo? Nell’antica legge, Dio, facendo talora qualche manifestazione di sé, adoperava tale maestà e tale sfoggio di potenza, da incutere negli uomini il più grande terrore, sì che veniva chiamato il Dio degli eserciti, il Dio terribile, il Dio delle vendette! Ma nella legge nuova ben diversamente si manifesta il Dio della bontà, della dolcezza, della mansuetudine. L’apostolo S. Paolo volendo fra le virtù di Gesù Cristo nominarne una, che fosse come il carattere distintivo di Lui, non menzionò né la povertà, né la obbedienza, né l’umiltà, né la carità, né lo zelo, né alcun’altra delle tante eccelse virtù, che lo adornano, ma bensì la mansuetudine, e per essa si diede a pregare i Corinti: Obsecro vos per mansuetudinem… Christi. (II Cor. x, 1) Così pure il principe degli apostoli, S. Pietro, invitando i Cristiani a prendere esempio da Gesù Cristo, mette loro dinnanzi quello della sua mansuetudine, come l’esempio dato da Lui in modo sopra ogni altro eccellente: « Gesù Cristo, egli dice, ha patito per noi lasciandoci il suo esempio, perché lo imitiamo, e l’esempio è questo che essendo Egli maledetto, non malediceva; essendo strapazzato non minacciava, ma si rimetteva nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava. » ( I Pet. II, 23) E come re rivestito particolarmente di mansuetudine lo avevano pure annunziato i profeti: « Ecco, essi dissero, che il vostro re sen vien mansueto… egli non contenderà, né leverà la voce; né spezzerà la canna già rotta a mezzo, né spegnerà il lucignolo fumigante. » (MATT. XXII, 5-12, 19- 20) E quando Gesù uscito dal deserto, dava principio alla sua vita pubblica, S. Giovanni, il Precursore, lo additava al mondo siccome agnello per mansuetudine, dicendo: Ecce agnus Dei; (Io. I, 29) ecco l’agnello di Dio! E d oh, quante altissime prove di tale virtù diede il Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo! Egli incomincia a introdursi nel mondo nella forma più mite, più dolce, più soave, più benigna che possa, tanto che l’Apostolo Paolo nel considerare tutto ciò, pieno d’entusiasmo esclama: Apparuit benignitas, et humanitas Salvatoris nostri Dei: è apparsa la benignità e la mitezza del salvatore nostro. (Tit. III, 4) No, non è sotto l’aspetto di un grande conquistatore, di un sovrano potente e fiero, di un duro e terribile dominatore che Ei viene al mondo, ma sotto l’aspetto e nella forma di tenero, di amabile bambino, anzi di bambino sofferente come tutti gli altri bambini, avendo voluto nascere in tutto e per tutto somigliante a noi, fuorché nel peccato; anzi anche più sofferente degli altri, avendo voluto nascere in una stalla, essere involto in poveri panni ed essere posto a giacere su povera paglia. Ma è bensì vero che avendo preso una forma tanto mite ei non lascia di essere Dio, e che però quando il voglia, Egli che ha in suo potere i fulmini del cielo, non possa scagliarli adirato contro chi ardisce insolentire contro di Lui o pensare solo di recargli danno! Or dunque benché ancor tenero bambino, giacente entro la culla di un povero presepio, ai fulmini dia pur mano, perciocché un re geloso e barbaro lo cerca a morte, e scagliandoli terribilmente contro di lui se lo tolga d’impaccio. E non ha Egli come Dio non solo il potere, ma il diritto di farlo? Sì, senza alcun dubbio, ma Gesù Bambino già fin dalla culla vuol darci un grande esempio di mitezza; epperò mentre Erode pieno di collera inferocisce con le daghe dei suoi satelliti sopra i teneri bambini di Betlemme e dei dintorni, spargendo il loro sangue innocente e riempiendo di terrore e di dolore i cuori delle loro desolate madri, Gesù Bambino, mite sino all’estremo, tanto mite da sembrare debole e impotente, fugge in lontano paese e là rimane sempre nell’esercizio della più ammirabile mitezza sino a che il barbaro Erode è morto. Ah! Gesù, Gesù caro, quanto hai ragione dallo stesso primo principio di tua vita di volgerti a noi per dirci: Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore: Discite a me, quia mitis sum corde! Ma se tale è il principio, quale sarà il mezzo e il fine? Eccolo Gesù benedetto, dopo trent’anni passati nella oscurità della bottega di Nazaret, esercitando sempre con Maria e con Giuseppe la massima mitezza che possa avere un figliuolo col suo padre e con la sua madre, esce in pubblico a predicare la sua celeste dottrina; e quale sarà mai la calamita che Egli adopera per guadagnarsi il cuore degli uomini, per trarli a sé, e farsene dei seguaci? La mitezza. Un giorno stando Egli nel tempio ad istruire con tutta bontà i Giudei ed a provare ai medesimi la divinità della sua dottrina, quegli empi ed ingrati interrompendolo gli dissero che era un indemoniato. Ma Gesù a tanto insulto non disse una parola, e quasi gli avessero fatto una lode, seguitò ad istruirli. Un altro giorno due dei suoi discepoli trasportati da zelo indiscreto, perché il paese di Samaria avesse ricusato di riceverlo, lo eccitavano a farvi scendere sopra il fuoco dal cielo. Ed egli allora rimproverandoli rispose: « Voi non sapete a quale spirito apparteniate. Il mio spirito è spirito di mansuetudine, di dolcezza e di amore. Io non sono venuto in terra per perdere gli uomini, ma per salvarli. » Quasi sempre è circondato da gente invidiosa della sua gloria, e chi scredita i suoi miracoli come prestigi infernali, e chi taccia le sue dottrine come arti maliziose per sedurre la plebe incauta, e chi lo calunnia come uomo ambizioso, avido di farsi re, e chi lo perseguita con le pietre alla mano, e chi tenta di precipitarlo dall’erta cima di un monte, e con tutto ciò Gesù Cristo perdona. Quale indulgenza poi ed amorevolezza non usò egli mai con gli Apostoli, così rozzi e difettosi, così materiali e terreni? Più che da maestro egli trattavali da padre, istruendoli con somma pazienza, correggendoli con infinita bontà, sopportandoli con mansuetudine inalterabile. E con gli stessi Farisei, benché sembrasse sdegnarsi contro di loro, tuttavia Egli non fece altro mai che inveire contro i loro vizi, perché il popolo non restasse ingannato dalla loro ipocrisia; ma anche nel fare ciò adoperò sempre una grande mansuetudine e carità, astenendosi dal castigarli come meritavano, e cercando di rialzarli dai loro peccati e trarli a salvamento. Ma dove la mansuetudine del Sacratissimo Onore di Gesù risplende più luminosamente, si è nel tempo della sua passione, tra le contraddizioni, tra le tante accuse e calunnie, tra i tanti improperi e tormenti, di cui fu fatto bersaglio da parte de’ suoi feroci nemici. Un perfido discepolo lo tradisce e lo vende. Gesù sa tutto, il suo Cuore ne geme altamente, tuttavia ammette quell’ingrato alla sua mensa, lo ammonisce con inaudita benignità sino a lavargli i piedi, a ricevere il bacio da traditore e a dargli il dolce nome di amico. Le schiere degli sgherri al segno di Giuda son lì a mettere le mani addosso a Gesù, e Pietro, indignato, trae fuori dal fodero la spada e taglia un orecchio ad un servo del gran sacerdote. Ma il Salvatore riprende Pietro dolcemente, dicendogli : « Riponi la spada al suo luogo, perché chi ferisce di spada, di spada perirà; » e subito guarisce l’orecchio a Malco. Agli insulti di cui lo ricopre la vil plebaglia, non oppone che il silenzio. Quando un servo di Caifa osa dargli uno schiaffò, egli non dice altro: « Se ho parlato male, fammelo conoscere: se ho parlato bene, perché mi percuoti? ». Pietro stesso lo rinnega per ben tre volte, e Gesù lungi dallo sdegnarsene, gli volge uno sguardo di tanta tenerezza, che gli trafigge il cuore, lo fa disciogliere in lagrime e lo converte. Ma eccolo il povero Gesù nelle mani de’ suoi nemici, che acciecati da diabolica rabbia gli si avventano contro a farne il più orrido scempio. Ed Egli, a guisa di innocente agnello, che se ne sta muto e senza aprir bocca sotto il ferro di chi lo tosa, piega le spalle ai flagelli, china la testa alle spine, porge le mani e i piedi ai chiodi, si lascia straziare le carni di dosso senza dare un sospiro di sdegno, senza proferire una parola di lamento, senza rivolgere un rimprovero: Quasi agnus coram tondente se obmutescet, et non aperiet os suum. (Is. LII, 7). Finalmente che cosa fa sulla croce? Oh Cuore pieno di mansuetudine veramente infinita! Quando i protervi suoi nemici, non ancor sazi delle crudeltà usate verso di Lui, si fanno ancora a lanciargli gli ultimi e più velenosi insulti, in quei momenti estremi della sua vita, Egli che pur potrebbe far scendere dal cielo un fulmine ad incenerirli, non fa altro che sollevare lo sguardo al cielo per indirizzare al suo Divin Padre il motto più sublime di mansuetudine, che mai sia stato pronunziato: Padre, perdona a loro, perché non sanno quel che si facciano. Eppure ciò non è ancora tutto, perciocché alle tante freddezze, ai tanti abbandoni, ai tanti insulti, che continua purtroppo a ricevere anche oggidì, massime nel S. S. Sacramento dell’altare, non risponde Egli che con la mansuetudine e con il perdono. Oh si esalti pure fin che si voglia la mansuetudine di uomini illustri sotto le diverse forme, in cui essa si mostra, di clemenza, di compassione e di dolcezza! si ammiri pure la mitezza di Socrate di fronte alle stranezze della sua moglie bisbetica; si lodi la bontà di Filippo il Macedone, che ad un soldato mormorante dietro alla sua tenda non disse altro che di allontanarsi; si celebri la condotta di Alessandro verso il suo medico Filippo, verso la moglie di Dario e verso i mutilati prigionieri di Persepoli; si canti la clemenza di Scipione e di Tito; tutto ciò è meno che nulla appetto alla mansuetudine incomparabile, di cui Gesù Cristo nel suo Sacratissimo Cuore ci ha dato esempio. – Ma questo ammirabile esempio che ci ha dato Gesù Cristo ce lo ha dato propriamente, perché noi lo avessimo ad imitare. Di fatti Egli nel dire: Imparate da me, che sono mite di cuore, non intese soltanto di farci un’esortazione, di darci un consiglio, ma intese di imporcene un assoluto comando. Fu lo stesso che dirci: « Io voglio che anche voi abbiate un cuore di colomba, senza fiele, senza sdegno, senza amarezza, simile al mio; voglio che anche voi contrariati non vi abbiate ad offendere, offesi abbiate tosto a perdonare, e non mai abbiate a nutrire i n cuor vostro sentimenti di odio, pensieri di vendetta; voglio che siate sempre dolci, affabili, amorevoli con tutti, anche con quelli che non vi trattano bene, che vi riescono molesti, che si lasciano andare ad ingiurie, ad insulti, a disprezzi contro di voi, anche con quelli che arrivassero a tale, dopo che voi li avete beneficati in mille guise, da ripagarvi con la più nera ingratitudine, da oltraggiarvi, da vilipendervi, da maltrattarvi. » Or chi sarà che, intendendo di essere vero Cristiano e devoto del S. Cuore di Gesù, non si studi col massimo impegno per adempiere questo suo volere ed imitarlo nella mitezza! Certa gente di questo mondo, ben si capisce, chiama stupidi e buoni a nulla coloro che sono miti e tollerano perciò senza risentimento e vendetta di essere contrariati e offesi; certa gente bolla nientemeno che col titolo di vigliacco chi non si fa a vendicare qualche danno ricevuto; che anzi arriva al punto da credere che sia indispensabile a certe offese rispondere con l’odio feroce e col misfatto! Ma se noi seguissimo le bestemmie e le assurdità del mondo, saremmo ancora di Gesù Cristo? Conviene adunque, o miei cari, per venire alla pratica, che ci andiamo seriamente abituando a dominare i moti dell’ira, a resistere ai suoi primi assalti ed a soffocarli con prontezza. Conviene che, qualora il nostro animo fosse alterato, vegliamo sulle nostre parole, poniamo anzi alla nostra bocca una prudente custodia per impedire, che ne escano fuori espressioni di lamento, di sdegno e di acrimonia. Conviene che ci studiamo di prevedere le occasioni di risentimento, che durante la giornata, ci potrebbero capitare, o per schivarle, se ci è possibile, o per prepararvi l’animo a soffrirle mansuetamente. Conviene infine che, quand’anche ci fossimo risentiti od offesi, non appena ce ne avvediamo, deponiamo tosto ogni astio dal cuore, praticando l’avvertimento di San Paolo: Il sole non tramonti sulla nostra collera : sol non occidat super iracundiam vestram. (Eph. IV, 26). Così appunto si regolò mai sempre quel Santo, che avendo ricopiato in modo singolarissimo la mitezza del Cuore di Gesù, fu chiamato un’immagine viva della bontà di Lui, voglio dire S. Francesco di Sales. Benché da natura egli avesse avuto un carattere focoso, tuttavia divenne il santo della dolcezza, facendo a se stesso una continua violenza. E tale e tanta fu questa violenza, che dopo morte, a cagione di essa gli si trovò il fiele indurito come la pietra. La sua santa vita essendo spina negli ocelli a uomini tristi, vi fu tra di essi, chi sparse contro di lui scritti velenosi per infamarlo, chi entrò nella sua stessa camera a caricarlo di vituperi, chi per molte notti andò a fare strepito sotto alle sue finestre, lanciando sassi contro la sua casa insieme con le più basse ingiurie, chi giunse persino ad insultarlo in chiesa in mezzo alle pompe dei riti solenni, e chi con mano sacrilega sulla pubblica strada gli sparò addosso un’arma da fuoco per dargli la morte. Ma egli, mansueto sempre, non aperse mai la bocca contro i suoi offensori; anzi nel ritrovarli stendeva loro le braccia per stringerli al seno; nel sapere che vi era chi voleva dar querela contro di loro, lo impediva con sollecitudine, e quando ciò non gli era riuscito, intercedeva con tale istanza presso il sovrano in loro pro, che li scampava dal meritato castigo, e finiva per protestare che quand’anche taluno gli avesse cavato un occhio, non avrebbe tralasciato di guardarlo amorosamente con l’altro. Che più? Una scellerata donna con la più nera calunnia lo fece autore di una brutta lettera, la quale, correndo per il pubblico di Annecy, lo fece inorridire. Ma S. Francesco di Sales che fece? Ritraendo sempre in sé la mansuetudine di Gesù che trattato da Erode come pazzo, se ne stette muto, non prese in nessuna guisa a far le sue ragioni per discolparsi, ma per ben tre anni durò sotto il peso di quella terribile imputazione, finché piacque a Dio stesso di far palese la sua innocenza. E a chi gli faceva premura di vendicare il suo onore, perché lo richiedeva il suo grado di Vescovo, rispondeva: « Iddio sa Egli di qual onore abbisogni, ed Egli ne avrà la cura; io dormo sicuro in braccio alla sua Provvidenza. » Ecco sino a qual punto questo gran Santo si fece ad imitare la mansuetudine del Cuore Sacratissimo di Gesù. Ma se noi non ci sentiremo l’animo di arrivare a tanto, dobbiamo nondimeno studiarci ancor noi di imitarla e praticarla quanto più ci è possibile.

III. — E a tal fine, o carissimi, ci gioveranno assai efficacemente questi tre mezzi. Il primo: Combattere la causa principale dei risentimenti della collera, vale a dire l’orgoglio. E non è forse per l’orgoglio, per la falsa stima, che abbiamo di noi, che tanto facilmente alla più piccola contrarietà, alla più leggiera ingiuria altamente ci offendiamo, e montiamo in ira, e fomentiamo odi e rancori? Se adunque vogliamo impedire in noi le vampe della collera, gettiamo acqua sul fuoco della superbia, e quest’acqua salutare sia la considerazione frequente del nostro nulla, anzi il riconoscimento sincero della nostra miseria e della nostra colpevolezza al cospetto di Dio. Così facevano gli stessi Santi, i quali, benché facessero una vita esemplare e così differente dalla nostra, pure si chiamavano e si riconoscevano, non per esagerazione, ma con vero sentimento, miseri peccatori, epperò degni di ogni insulto e cattivo trattamento. E con tali sentimenti nell’animo un S. Francesco di Assisi, un S. Ignazio di Loyola, un S. Francesco Borgia, un S. Pasquale Baylon, un S. Giovanni della Croce, una S. Teresa di Gesù, una S. Maddalena de’ Pazzi, un S. Benedetto Giuseppe Labre, e mille e mille altri, emuli degli Apostoli, che se ne andavano gaudenti dal cospetto del Concilio di Gerusalemme, perché ivi erano stati fatti degni di patire disprezzi per il nome di Gesù, non solo sopportavano in pace gli insulti, che talora venivano fatti loro casualmente, ma con ammirabile eroismo ne andavano ancora essi medesimi in cerca, e secondo l’ammaestramento di Gesù Cristo si stimavano beati, se venivano ad essere maledetti e crudelmente perseguitati. Tant’è: chi si umilia a conoscersi sinceramente misero peccatore non può far a meno di esercitare la mansuetudine. E qua! reo vi è mai, che condannato per i suoi delittti a morire sopra d’un palco infame, non cambierebbe tanta ignominia con l’affronto di una guanciata per mano di un suo nemico! E così qual Cristiano vi sarà mai che considerando di essere per i suoi peccati meritevole di morte eterna, e degno di essere tormentato per sempre dai demoni dell’inferno, non si umili ad accettare una parola offensiva, un fatto oltraggioso, e ben anche una persecuzione maligna? Nessuno, risponde S. Bernardo, perché dalla cognizione delle proprie colpe e dal dispiacere delle medesime ne risulterà una mansuetudine ammirabile, anzi una magnanimità, che non si sbigottirà neppure pel ruggito di fiero leone. – Il secondo mezzo sarà: Ricordare sovente, e quanto più è possibile nel momento stesso, in cui l’animo sta per risentirsi, l’esempio di nostro Signor Gesù Cristo. Diceva S. Giovanni Crisostomo, che per placare un cuore, benché mille volte sdegnato, basterebbe tener innanzi agli occhi gli esempi di mansuetudine, che ci diede il santo re Davide. Ora se, al dire di tanto dottore, l’esempio di mansuetudine di un uomo simile a noi, e che tollerò delle ingiurie, ma non per noi, può bastare a spegnere nel nostro animo la fiamma dello sdegno, quale forza non dovrà avere l’esempio del Re del cielo, che sopportò con indicibile mansuetudine tanti affronti, e li sopportò per nostro amore? E vi sarà un cuore sì aspro e sì crudo che vedendo il Cuore di Gesù Cristo così quieto e sereno tra mille ingiurie, tra mille scherni, tra mille battiture, tra mille vergognosissimi obbrobrii, non si mansuefaccia e non deponga tosto ogni iracondia? Oh! non ha bastato talora il solo suo nome a calmare gli sdegni più accesi, a togliere gli odi più profondi? È il Venerdì Santo, e al di là degli spaldi della vaga Firenze batte la campagna un cavaliere. La fronte corrugata rivela un feroce pensiero, una impresa di sangue. Gli hanno ucciso i l fratello e non gli pare goder pace, fino a che nel sangue dell’uccisore non avrà lavato l’onta patita d alla famiglia. Ma ecco, ad uno svolto di strada, ecco dinanzi il ricercato nemico solo ed inerme. A tale vista la mano del guerriero corre al pomo della spada, gli occhi scintillano come quei della tigre, manda un ruggito di gioia, già levato il ferro deliba tutta la voluttà della vendetta, che farà il misero, che gli sta dinnanzi! È l’ora solenne, che segna la morte di Gesù, di quel Gesù, che moriva perdonando ai suoi nemici. E il misero si butta in ginocchio e a nome di Gesù chiede perdono. Miei cari! Il nome di Gesù Crocifisso opera un magico incanto. La passione dell’odio è cangiata d’un tratto nella passione dell’amore. Il cavaliere con le lagrime agli occhi perdona e stringe al seno il suo nemico: quindi appende all’altare del Crocifisso la spada della vendetta e, vestita la tonaca, Giov. Gualberto si fa santo. Finalmente, o carissimi, perché nel dominare noi stessi si tratta, non lo nego, di cosa assai ardua, a cui non potremmo giungere con le nostre deboli forze, imploriamo sovente con la preghiera l’aiuto dello stesso Sacratissimo Cuore di Gesù. Quando gli Apostoli nel traversare su fragile nave il mare di Galilea, sollevatasi una gran tempesta, correvano pericolo di affogare, ricorsero tosto a Gesù Cristo, gridando: Ah Signore, salvaci, che periamo. E Gesù si levò e comandò al vento di cessare e si fece tranquillità grande. Così farà con noi il Sacratissimo Cuore, se in mezzo alle tempeste della collera, che possono assalire il cuor nostro, ci volgeremo, fidenti a Lui per aiuto. Egli, che altro non desidera se non che il cuor nostro si faccia simile al suo, ci sarà largo della sua grazia, ed a poco a poco riusciremo ancor noi ad avere mai sempre nell’anima nostra una grande tranquillità. – Animo adunque, o miei cari: nella imitazione della mansuetudine del Cuore di Gesù, ricaveremo un triplice vantaggio. Gesù Cristo ha detto: «Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra; » (MATT. V, 4) e così sarà realmente. Nella mansuetudine noi possederemo anzi tutto la terra dei nostri cuori, divenendo veri padroni di noi medesimi, della nostra passione, in quelle stesse circostanze, in cui ciò torna più difficile. In secondo luogo possederemo la terra dei cuori altrui, giacché è con la mansuetudine che con tutta facilità indurremo gli altri alla pratica del bene. Voi, io, noi siamo tali che la durezza, il rigore, la forza ci rompe, ma non ci piega. Ma invece ben presto siamo guadagnati dalla bontà e dalla mansuetudine. Ora quello che accade in noi da parte degli altri, sarà quello che avverrà negli altri da parte nostra. Sì, con la dolcezza, più che non con le prediche, e peggio ancora con le invettive, voi, o mogli guadagnerete al bene i vostri mariti, voi, o genitori, i vostri figli, voi, o superiori, i vostri sudditi, voi, o maestri, i vostri discepoli, voi, o amici, i vostri amici. E finalmente nella mansuetudine possederemo la terra che non è terra, vale a dire la terra di suprema conquista, di eterna promissione, la terra del cielo: Beati mites, quondam ipsi possidebunt terram. Prostrati intanto dinanzi al Cuore di Gesù diciamogli con tutto l’affetto: O Cuore mansuetissimo di Gesù, noi riconosciamo di essere privi pur troppo del vero spirito di mansuetudine. Pei difetti nostri abbiam sempre in pronto le scuse e pretendiamo il compatimento, ma per i difetti altrui non abbiamo che insofferenza e sdegno. Epperò di quanti risentimenti, di quante maldicenze, di quante collere, di quante imprudenze, di quanti atti di superbia, di quanti desideri di vendetta ci sentiamo rei! Deh! Fateci parte della vostra mansuetudine inesauribile, o Cuore divino, affinché reprimiamo e vinciamo noi stessi; calmate mai sempre l’anima nostra, quando la vedete ottenebrata e sconvolta dall’ira; dateci forza di sopportar tutti, di tutti compatire, di tutti amare, anche coloro che ci contraddicono e ci disprezzano, onde con la dolcezza del cuor nostro possiamo meritarci, secondo che voi avete promesso, la vostra grande ed eterna mercede.

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (28): GNOSI E GIANSENISMO (III)

LA GNOSI, TEOLOGIA DI SATANA (28):

GNOSI E GIANSENISMO … e il funesto PASCAL!

(III)

[Elaborato da E. COUVERT: Lecture e tradition, n. 227-228, Gen.-Feb. 1996]

In Filosofia: Platone, Sant’Agostino e Cartesio.

È a Poitiers che nel 1620 Jansenius ha incontrato Cartesio: egli aveva scritto in quell’anno al suo amico Saint-Cyran, che era deciso a “non fare l’asino per tutta la vita”, cioè a rimuginare i manuali dei maestri universitari nel momento stesso in cui Cartesio, in questa stessa città, aveva risvegliato la rivoluzione intellettuale che doveva segnare una rottura definitiva con il passato. In questa guerra accanita che i giansenisti avevano intrapreso contro gli Scolastici, ricevettero l’appoggio costante dei sacerdoti dell’Oratorio. Il Cardinale De Bérulle era uno spirito falso, impregnato di gnosi che diffondeva sotto l’apparenza di un misticismo che si voleva conformare alla fede cristiana, ma caratterizzata, ci dice L. Cognet, nei suoi “Origini della spiritualità francese del XVII secolo”, essenzialmente “ … dal desiderio di mettere l’anima in rapporto con l’essenza divina direttamente e senza intermediari, con una unione non concettuale ed in particolare oltrepassando l’umanità di Cristo per trovare Dio solo Creatore. Generalmente, essa si traduceva più o meno in una mistica di annientamento.” Bérulle impiega delle espressioni perfettamente gnostiche: “… L’uomo è sempre emanante da Dio, e non ha sostanza che in questa emanazione continua e perpetua, senza avere alcuna consistenza fuori da questa emanazione sempre presente”. “… le creature, aggiunge, possiedono una sorta di essere spirituale e divino in cui Dio le conosce da tutta l’eternità e non le ha create che per richiamarle a questo mondo divino di esistenza che hanno avuto nel proprio pensiero, vale a dire nel suo Verbo. Il mistero della nostra divinizzazione si presenta sotto forma di un ritorno a questo essere ideale e divino.” – “ … La natura divina può essere detta la nostra prima natura e come l’essenza della nostra essenza” (“Opuscoli di pietà”, passim). Si riconoscono in tutte queste espressioni platoniche, le formule classiche degli gnostici sull’emanazione, il ritorno all’unità primordiale; la natura divina della nostra essenza, etc. Bérulle era stato amico di Saint-Cyran, che lo venerava come un maestro e che partecipò alla redazione dei “Discorsi delle grandezze di Gesù”. – Questa collaborazione intellettuale e spirituale tra giansenisti e oratoriani proseguì con tenace continuità per due secoli. Saumur e Angers furono in quest’epoca un vero focolaio di agitazione giansenista. Gli Oratoriani avevano due stabili nella città; il “Collegio reale dei Cattolici”, era vicino a N. D. des Ardilliers, loro casa di teologia ove venivano i confratelli dell’Istituzione di Parigi, di fianco si trovava un’accademia protestante, una specie di facoltà di filosofia e di teologia che attirava gli studenti soprattutto dall’Olanda. La Maison des Ardilliers attirava i protestanti di  questa accademia. Il P. Thomassin vi insegnava con gran magnificenza le fonti cristiane, i Padri (… soprattutto Sant’Agostino) e mostrava un disprezzo  molto pronunciato per la Teologia Scolastica con gli incoraggiamenti del Vescovo di Angers, Henri Arnauld, fratello di Antoine, uno dei quattro Vescovi che sostenevano l’opera di Giansenio. – A Saumur, il successore, a partire dal 1670, del P. Thomassin è il P. André Martin, che sostiene sulla grazia, le tesi gianseniste. Una lettera sigillata del Re, nel 1674, gli ordina di interrompere il suo insegnamento e di lasciare la città. Il P. Lamy, che insegna al collegio cattolico deve promettere di non insegnare più Cartesio dal 1673. Nominato al Collegio di Anjou, il P. Lamy è impegnato in una viva lotta a favore del cartesianesimo. L’ordine del Re del 30 settembre 1675 gli proibisce di insegnare “i sentimenti di Cartesio”. – Il P. Lamy fa sempre riferimento a Sant’Agostino: “.. Gli scritti di Sant’Agostino saranno sempre la consolazione di tutti coloro per i quali, la conoscenza della verità, è una meta deliziosa”, scrive nei suoi “Entretiens sur les Sciences”. Queste vive luci che brillano nelle opere di Sant’Agostino, illumineranno sempre la Chiesa e dissiperanno le tenebre che il padre della menzogna tenterà di diffondere negli spiriti degli uomini. Come fece Dio con la sua Provvidenza, quando Mosè e Daniele destinati a condurre il suo popolo, furono istruiti dai più abili filosofi e dai matematici più sapienti della terra; allo stesso modo Egli conduceva Agostino di maniera che, nel tempo in cui non pensava a Dio, studiò il platonismo che lo resero capace di comprendere e gustare le cose spirituali e gli dettero questa elevazione di spirito che gli è peculiare e che lo fece considerare come l’Aquila dei teologi”. – L’espressione “Aquila dei teologi” viene da Bérulle.  – Questo stesso padre Lamy, in “Discorsi sulla filosofia” del 1694, mette in ordine le sue idee sulla filosofia: 1°) Si è convinti al presente che sia necessario essere un buon matematico per essere un buon filosofo. (… al presente, cioè dopo Cartesio). 2°) … Tra i filosofi pagani Platone deve essere messo a parte. Egli si applica alle scienze astratte, come la geometria, ciò che lo ritirerà dalle cose sensibili e lo rese capace di considerare le cose spirituali”. Ecco perché si vedono in lui “le cose che si avvicinano fortemente alla nostra religione”, che riguardano Dio, l’immortalità dell’anima, la sua spiritualità, la morale. 3° ) “… Questi meriti pertanto non appariranno con un tal rilievo se comparati con i restanti pagani, particolarmente Aristotele. I santi Padri hanno considerato Aristotele come molto dannoso per la Religione Cristiana. … essi lo hanno accusato di credere l’anima mortale. Egli non ha conosciuto la creazione del mondo … – … ignorando i rapporti dell’uomo con il suo Creatore, la sua “morale è pericolosa per non dire empia … è spiacevole che una tal filosofia sia insegnata nelle scuole cristiane”. – Si osservi qui la guerra instancabile condotta congiuntamente dagli Oratoriani ed i giansenisti contro la Scolastica che si basa essenzialmente su Aristotele. – Nel 1721, il rettore dell’Università di Angers, M. C. G. Poquet, in un rapporto sulle tesi presentate dai professori oratoriani di Angers, si stupisce di trovarvi esposte assiduamente “… opinioni di Cartesio, di Baio, e di Giansenio, benché le propongano sotto il nome dei Padri della Chiesa e degli antichi filosofi. Essi credevano di abbagliare il popolo con margini pieni di citazioni di Sant’Agostino, cosa che era l’ultima assurdità”. Il nostro buon rettore, con il suo naturale stupore, intravede bene il processo disonesto di questi professori: far passare l’eresia attraverso il canale dell’insegnamento dei Padri della Chiesa e soprattutto di Sant’Agostino. Questo ci riconduce al progetto di Bourg-Fontaine. – Noi sappiamo da Jurieu, nel 1861, che “i teologi di Port-Royal avevano tanto attaccamento sia al cartesianesimo che al Cristianesimo”. Nel 1690, nel “Viaggio del mondo di M. Descartes”, un gesuita, il p. Daniel affermava: “ … Si vedono pochi giansenisti che non siano nel contempo cartesiani”, e Richard Simon affermava nel 1682: “ … Le persone di Port-Royal che sono in ogni cosa agli antipodi dei Gesuiti, ed hanno preso fortemente le parti di Cartesio”, aggiungendo: “ … e in effetti, questa filosofia si accomoda bene meglio con i buoni sentimenti che con quelli della Scuola”. – Jean Laporte scrive: “ … Noi vediamo Arnauld, istruito o piuttosto orientato da Saint-Cyran, dedicarsi nella lettura di Sant’Agostino per diversi anni (1635-1639) prima dell’apparizione dell’Augustinus, e per la maggior parte sulle opinioni riguardanti la corruzione originale, la grazia efficace la predestinazione gratuita, la morale rilassata, l’amministrazione dei Sacramenti e la costituzione della Chiesa, per i quali lotterà in tutta la sua vita, con i Solitari ed i Religiosi. – I giansenisti diffusero ancora la loro nuova filosofia nei circoli mondani dell’Hotel Liancourt, a Parigi. Il duca di Liancourt provocò la querelle del giansenismo all’apparizione del libro “L’Augustinus”. Nel 1655, il curato di San Sulpizio, gli rifiutò l’assoluzione a causa delle sue relazioni con Port-Royal. Il duca molto adirato, si appellò alla Sorbona. Ma i teologi consultati diedero ragione al curato di San Sulpizio. Il duca di de Liancourt, organizzava, nel suo hotel particolare, delle riunioni in cui si dissertava di letteratura, di scienze, di metafisica, di teologia. Naturalmente ci si appassionava alla nuova filosofia, quella di Cartesio. Nicole ed Arnauld vi partecipavano regolarmente.  Il p. Lamy vi veniva spesso. Là, nell’abbandono di una conversazione familiare, essi si esprimevano più liberamente che nei testi scritti. Là, Antoine Arnauld vantava Cartesio, dicendo che le “… bestie non hanno l’anima”, che “… mai da un piccola risorsa si farà nascere coscienza di sé, etc. – L’alleanza del giansenismo con il cartesianesimo si trova ancora al castello di Commercy, ove il cardinale du Retz è condannato a vivere in esilio dopo le sue dimissioni da Arcivescovo di Parigi. Egli vi aveva costituito un corso per persone istruite, agostiniane e cartesiane, che avevano messo in parallelo e confuso i due sistemi. Essi avevano una predilezione per la filosofia di Platone, una volontà di interiorità che consiste nel ridurre la religione ad un contatto dell’uomo solo davanti al dramma del suo destino ed a sopprimere l’edificio ecclesiastico e gerarchico … ugualmente una concezione identica del libero arbitrio, rigettato dagli uni e dagli altri. Tutto è condizionato, dice Cartesio, dal determinismo della ragione, e tutto è condizionato, secondo i giansenisti, dalla determinazione della Grazia. – Infine, occorre ugualmente segnalare la tradizione benedettina rinnovata dalla riforma di Saint-Vanne, in cui la reazione antiscolastica fu molto violenta. Nei suoi “Pensieri cristiani”, dom Laurent Bénerd, nel 1616, raccomanda già di “non prendere delle astrazioni quintessenziate di una scolastica, delle arguzie e sofismi di una dialettica, se non quanto sia necessario per ben intendere i fondamenti e la sostanza di una teologia in filosofia”. Dom Robert Desgabets scriveva: “La nostra congregazione ha sempre un po’ di inclinazione sulle questioni di pura scolastica …”  Rientrato in Lorena nel 1650, egli proseguì il suo insegnamento sempre più nutrito di Cartesio “… che è, diceva, il dottore infallibile che Dio ha riempito dei suoi lumi, per il gran bene del mondo e della Chiesa.” Così portava il suo giansenismo al “metodo geometrico”, e nello stesso tempo alla vera ed antica teologia che si ricava dalla Scrittura e dalla Tradizione e soprattutto dalle opere di Sant’Agostino” (in “Lettera indirizzata ai religiosi della sua congregazione”). – Dom Thierry de Viaixne, monaco di Saint-Vanne, era fuggito ad Amsterdam, con P. Quesnel, oratoriano, dal 1685 ed Antoine Arnauld. Egli scriveva allora al capitolo generale dei benedettini di Saint-Vanne, riuniti a Saint-Michel, in Lorena: “Io lo dico arditamente, ed oso dirlo anche da parte di Dio che, soprattutto dopo la Bolla “Vineam Domini” e “Unigenitus”, è abiurare la Fede cattolica ed abbracciare il molinismo o piuttosto il Pelagianesimo (Si sa che è un tic comune a tutti i nemici della Scolastica tomistica denunciare quest’ultima come un ritorno al Pelagianesimo), firmare il formulario puramente e semplicemente … Se per la più grande sventura del mondo, egli dice, la bolla Unigenitus ed il formulario di Alessandro VII non fossero mai ricevuti o piuttosto non fossero sempre aborriti nella congregazione, questo corpo gangrenato, sarebbe ben presto abbandonato da Dio … i monasteri ridiverrebbero dei laghi corrotti che non darebbero che fango e putridume …”. – Questo odio della Scolastica che i giansenisti hanno diffuso in Francia è la principale ragion d’essere dei loro attacchi accaniti contri i Gesuiti nel loro insegnamento. Questi, in effetti, hanno conservato fedelmente il pensiero del loro fondatore, Sant’Ignazio, che faceva loro dovere il conformare il loro insegnamento alla filosofia di San Tommaso d’Aquino, perché  … egli aveva rinchiuso gli errori dei novatori in formule sì strette e precise, che non lasciavano spazio a sottigliezze né ad alcun mezzo per sfuggire alla cattiva fede. I novatori preferiscono ricorrere alla sola Scrittura che si presta facilmente ad interpretazioni erronee ed ai Padri della Chiesa, soprattutto a Sant’Agostino, a condizione di spiegarli alla loro maniera ed addomesticarli al loro proprio senso.

Il “FUNESTO” PASCAL

L’Università moderna ha privilegiato, nel suo insegnamento, i “Pensieri” di B. Pascal. Quest’uomo occupa da più di due secoli un posto preponderante e quasi esclusivo negli spiriti moderni, dato che lo si ritiene un “soggetto religioso”. Molti dei suoi “Pensieri” sono diventate massime ed adagi che si citano a proposito, e soprattutto a sproposito. I critici letterari si sono ingegnati a darne dei commentari pieni di ammirazione e rispettosi, ma si sono ben guardati dal rilevarne i terribile equivoci e le ambiguità che celano in seno. Alcuni tra loro hanno tuttavia rilevato certe difficoltà di interpretazione; ma anche in questo caso essi non hanno potuto trovare la chiave di interpretazione che avrebbe permesso facilmente di dimostrarne la malafede. Si può dire che questa moda di Pascal è il frutto di un accecamento colpevole da parte delle autorità morali e religiose che avrebbero dovuto energicamente condannare la loro eterodossia (i cani muti di Isaia?). – Un critico dell’ultimo secolo, M. Havet, nei suoi “Studi sui pensieri di Pascal” aveva notato: “Lo spirito di Pascal ha iniziato a produrre le rovine nello spirito del diciottesimo secolo e del nostro a seguire, rovine per eloquenza all’esterno, rovine per la filosofia all’interno. L’azione distruttiva delle sue idee si continua dopo di lui e va ben al di là delle idee stesse …”. Ora, se prendiamo la briga di osservare per bene le principali affermazioni di Pascal sulla religione, noi ci ritroveremo ancora in un “paese di nostra conoscenza”. In effetti non è possibile rigettare la Filosofia Scolastica e specialmente quella di San Tommaso d’Aquino, senza ricadere necessariamente nelle fogne gnostiche. Lo spirito umano non può sfuggire alle trappole della Gnosi se non si è assimilato il realismo della filosofia tomista. “… Umiliati, ragione impotente, taci, natura imbecille, sappi che l’uomo oltrepassa infinitamente l’uomo, che le sue miserie sono le miserie del re spodestato, che si è perso, è caduto dal suo posto, che egli cerca con inquietudine, che non può più ritrovare…” – “… Se l’uomo non fosse stato mai corrotto, non avrebbe alcuna idea della verità, né della beatitudine. Noi siamo incapaci di non desiderare la verità e la felicità e siamo incapaci di certezze, di felicità … questo desiderio ci è lasciato, tanto per punirci e per farci sentire da dove siamo caduti!” … “La natura è tale che demarca un Dio disperso dappertutto, e nell’uomo e fuori dall’uomo ed una natura corrotta.” – “… La nostra anima è gettata nel corpo, ella vi trova numero, tempo, dimensione …” – “… Far comprendere all’uomo che mostro strano egli sia…”. Sono, tutte queste, un ammasso di affermazioni categoriche, false per mancanza di misura, di precisione, e noi ritroviamo, ohibò, i grandi temi della gnosi: l’uomo era un sacerdote divino, poiché oltrepassava infinitamente l’uomo. Egli si era ridotto a perdere il suo carattere divino in seguito alla caduta e ad una corruzione, ma conserva una oscura reminiscenza di un paradiso perduto. … L’anima, gettata in un corpo è come prigioniera di un carapace materiale di cui deve sbarazzarsi.” – È nella reminiscenza platonica e nella preesistenza delle anime che, senza immagine, si può dire che l’uomo è “un dio caduto che si ricorda dei cieli”, secondo la formula conosciuta di Lamartine. … ma tutto ciò è una cascata di sofismi. Noi non abbiamo il ricordo di una passata grandezza perduta, e dunque tutte queste affermazioni di Pascal non sono che vane illusioni. Dare all’uomo queste illusioni di una caduta fuori dal mondo divino, dirgli che è un incapace sia di bene, che di verità, che di felicità, è votarlo alla disperazione ed al suicidio. Tutte queste formule si pretendono profonde e misteriose: sono al contrario perfettamente erronee ed indegne di un filosofo cristiano mentalmente sano. – Charles Maurras si è levato con forza contro questo rimuginio sprezzante della ragione umana: “ … Per il lettore dei “Pensieri” che si è fidato di Pascal, la ragione non è più una facoltà umana, che il peccato originale ha potuto colpire e ferire. Non è neanche una morte, né una cenere. È più che una morte, è un oggetto di scherno …”. La via pascaliana rappresentava per lui “… una sorta di disperazione e come un rassegnare le dimissioni, che lo spodesta sostanzialmente da ciò che egli sente di meglio nella sua ragion di vivere e di essere: l’amore del vero.” – Dopo aver reso “imbecille” la ragione, Pascal voleva sostituirla con l’autorità della testimonianza e Charles Maurras denunciava questa pessima manovra essenziale di questo spirito più passionale che profondo. E “… siccome egli sa, aggiunge, che la testimonianza non può cavarsela senza l’aiuto della ragione, Pascal l’aggiunge così, per quanto può, in grosso ed al dettaglio, alla nostra povera umanità  sprecata.” Così, quando si fa il punto morto sulla ragione umana, non resta più che un fideismo irrazionale ed assurdo: “Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù-Cristo, ma noi non conosciamo bemmeno noi stessi se non per mezzo di Gesù-Cristo”. E Pascal aggiunge: “… fuori da Gesù-Cristo noi non sappiamo né ciò che è la nostra vita, né la nostra morte, né Dio, né noi stessi. Così senza scrittura, che non ha se non Gesù-Cristo per oggetto, noi non conosciamo nulla se non vedendo oscurità e confusione nella natura di Dio e nella propria natura. Io intendo nella nostra natura propria”. Essendo la ragione annichilita, gli uomini privi della rivelazione sono dunque condannati all’infelicità eterna. E Pascal continua, nella perfetta logica del suo assurdo sistema: “… Tutto volge al bene per gli eletti, finanche le oscurità della Scrittura, perché essi la onorano a causa delle illuminazioni divine. E tutto volge al male per gli altri, finanche l’illuminazione, perché essi le blasfemizzano a causa delle oscurità che essi non intendono. Ci sono dunque delle oscurità nella Scrittura ed allora il povero umano, privo di ogni criterio razionale, è condannato a vivere nell’errore o nell’ignoranza se non ha ricevuto una illuminazione divina, e dunque, non si intende nulla delle opere di Dio, se non si prende per principio che … Egli ha voluto accecare gli uni ed illuminare gli altri.” – Conclusione necessaria;: se la rivelazione divina è proposta ad un uomo privo di intelligenza e di libero arbitrio, questi non può conformarvi la sua ragione e la sua volontà. Ecco l’uomo radicalmente inadatto ad ogni relazione intima con Dio. La fede diventa un atto assurdo, senza ragion d’essere, super imposta ad un essere passivo e diventato “un blocco di legno o di pietra”, secondo la formula di Lutero. – A questa ragione impotente, Pascal sostituisce ciò che egli chiama le ragioni del cuore. “… Alle verità della fede, bisogna aprire, ci dice, le porte della volontà, bisogna che esse entrino dal cuore nello spirito e non dallo spirito al cuore”, “ … perché, ancora dice, tutto ciò che l’uomo ha, viene sempre condotto a credere non con la prova, ma con la gradevolezza!” L’apologista dunque deve mostrarci non che queste verità siano vere, ma che siano amabili e crederemo subito: “… perché le cose sono vere o false, secondo l’angolazione dalla quale le si vedono”. La volontà, che spiace ad uno piuttosto che all’altro, allontana lo spirito dal considerare le qualità di quelle che non ama vedere e, camminando all’unisono lo spirito con la volontà, si arresta a guardare l’aspetto che gli piace e ne giudica per quel che ne vede.” Come ripetono tutti i pascalisti: “Non si crede bene, se non ciò che non si ama credere”. – Ma che cumulo di sofismi! Le cose sono vere in se stesse! Allontanare lo spirito dal considerare le qualità delle cose che non si amano, è manifestare esattamente che le si sono viste, queste qualità, e dunque che necessariamente le si conoscono. Fermarsi a guardare una faccia e non l’altra, è riconoscere che si è vista pure l’altra faccia, è un mettersi volontariamente le mani sulla faccia per far sembrare di non riconoscerle. È mentire a se stesso… ma la verità rigettata, perché importuna e fastidiosa, resta sempre là, presente allo spirito. – Il cuore ha forse le sue ragioni, ma la ragione le conosce molto bene. La prova non è dimostrativa, ci si dice, se non si è disposti a riceverla. Eh! No! La nostra intelligenza è, per natura, disposta a ricevere una prova. Se essa brilla, il nostro spirito ne sarà abbagliato. Quando si sarà deciso di non guardare più dal lato della luce, di pensare ad altra cosa, ciò facendo, resta guidato dalla ragione che ha dapprima mostrato ove conduce questa luce. “Perché, spiega il P. Mersenne, alla fine dei conti, se non seguiamo i nostri sensi e la ragione, noi siamo incapaci di religione. Ed egli insiste: “ … Infatti, perché non seguiamo piuttosto la Religione Cristiana che la maomettana, se non perché la giudichiamo più ragionevole e vera? … Occorre dunque usare la ragione per abbracciare una religione: quando la ragione ci detterà che non è più ragionevole seguire la turca, bisogna che l’abbandoniamo anche se la ragione ci dice che non c’è apparenza che Dio voglia che tutti siano salvi: bisogna che noi non seguiamo questa opinione.” Il P. Marsenne risponde così in anticipo ai sofismi di Pascal. In una lettera del 22 novembre 1642, al suo amico Rivet, egli si dichiara d’accordo con il P. Pétau che, nella sua teologia positiva in cui tratta del libero arbitrio, “rifiuto Giansenio e forse anche Sant’Agostino, perché è difficile rifiutare l’uno senza l’altro.”  – Il nostro spirito non si applica alle cose e si sforza di trovare in esse ciò che contengono di stabile, di universale e di permanente per attaccarvisi e restare fermo nella verità. Ciò che Pascal designa con il nome di “cuore” è certamente ciò che il nostro spirito incontra nelle cose, prima di penetrarne il senso profondo, la loro faccia esteriore, sensibile, cangiante, piacevole o sgradevole, dunque fluente ed incerta. Costruire la fede sul “cuore”, secondo la moda di Pascal, non è altro che costruire sulla sabbia. Esso non resisterà mai per lungo tempo alle fluttuazioni della sensibilità ed alle fantasie stravaganti dell’immaginazione. Di tal sorta che la religiosità sentimentale oscilla costantemente tra la superstizione e l’indifferenza. Sarà necessaria sempre una eccitazione esteriore destinata a rianimarne la fiamma vacillante. – Le sette sono là a proporci questo adiuvante necessario ad una religione così debole. – Effettivamente, i giansenisti si sono costituiti, come tutte le sette, come una vegetazione parassitaria della Religione Cattolica. Essi hanno annunciato: Elia sta per tornare … egli ristabilirà ogni cosa, “restituit omnia”. La loro profetessa, dal cimitero di Saint-Médard aveva designato come reincarnazione di Elia, la persona di un sacerdote, M. Vaillant, figlio di un locandiere di Troyes. Il grande oggetto delle predizioni è il ritorno prossimo dei giudei, la venuta di Elia, preceduto da un’eclisse di sole che durerà due ore e cinque minuti. Ci sarà l’apparizione di un arcobaleno, di una grande stella in pieno giorno e la venuta di Angeli intorno al sole e ala luna. Non vi ricorda nulla tutto ciò? L’ultima di tutte le sette, è la New Age, la setta ignobile dell’arcobaleno. Nella misura in cui il pensiero religioso moderno ha seguito i sofismi di Pascal, essa ha preparato generazioni dallo spirito debole ed aperte senza difesa ai guru delle sette.  – Ma il compendio e la sintesi di tutte le sette, è la setta del Novus Ordo, la “Spelunca latronis” insediata nella Sede Apostolica, evento che aveva fatto inorridire, restare muto perdendo i sensi, Papa Leone XIII, in quale, in visione estatica, poté osservare il demonio ed i suoi adepti impossessarsi della Cattedra di Pietro. Il Novus Ordo non è una semplice setta, o l’ultima setta, no! Essa è la “sintesi di tutte le sette”, direttamente guidata da lucifero tramite il suo vicario ed il sub-vicario. Il giansenismo è stato uno degli ultimi anelli di questa lunga catena di eresie e di scismi, con cui fin dall’eden, attraverso la gnosi in tutti i tempi, su tutta la superficie della terra, lucifero con i suoi adepti, ha cercato di avvolgere le anime sante riscattate da Gesù-Cristo, catturarle e condurle con sé alla eterna perdizione.  – A proposito ancora della setta del Novus Ordo, la sintesi di tutte le sette, notiamo come tutte le aberrazioni concepite ai tempi del Giansenismo, e allora faticosamente bloccate dai Gesuiti, dai Papi custodi del Deposito della Fede, e da chierici fedeli alla Chiesa Cattolica Romana, sono tutte confluite nella sacrilega liturgia modernista, che anzi è andata ben al di là delle già allucinate proposte novatrici dei giansenisti e finanche della liturgia gnostica più becera e blasfema. Basti pensare alle formule travisate della transustansazione, all’introduzione delle lingue profane in luogo del latino, al Canone storpiato e recitato a voce alta insieme agli astanti in coro, alla partecipazione delle donne al servizio liturgico, alle Particole dispensate ed afferrate da mani sacrileghe ed indegne, dalle musiche ritmate, dissonanti e dissacranti, e …  il “non plus ultra”, l’offerta del Sacrificio dell’Agnello fatta al falso “signore dell’universo”, il baphomet-lucifero adorato nelle logge massoniche, abominio della desolazione a perdizione delle anime dei battezzati. Ed a proposito degli “eletti manichei, non possiamo dimenticare l’“asso nella manica” per distruggere la Gerarchia Cattolica: la formula sacrilega e blasfema della non-consacrazione dei Vescovi del 18 giugno del 1968 che, come recita la stessa, crea degli “eletti”, nel senso gnostico, ed invalida ogni consacrazione, prima di falsi vescovi, e di conseguenza, di falsi sacerdoti non consacrati dai non-vescovi. – Anche Giansenio, Calvino, Lutero, Soncino, Weishaut e grembiulinati vari,  sarebbero restati perplessi nel constatare i “brillanti” risultati delle loro ribellioni a Dio ed alla Chiesa di Cristo (… dai frutti li riconoscerete, ci dice il divino Maestro).  Ma i loro sforzi saranno serviti solo a rendere più eclatante la potenza di Dio e la vittoria finale del suo Cristo, che si ride da tempo di loro, perché vede arrivare già il loro giorno … Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus … Gladius eorum intret in corda ipsorum, et arcus eorum confringatur! E saranno così ricompensati dal loro padrone in eterno.

SAN PIETRO IN VINCOLI

1 Agosto.

S. PIETRO AI VINCOLI

[RACCOLTA di vita dei SANTI, I ed. veneta vol. 7-8; D. Ferrarin ed. 1778]

Nel cap. 12. degli Atti Apostolici è descritta la prigionia, e la liberazione prodigiosa di S. Pietro. S. Gregorio Magno nell’Epistola a Costanza Augusta, ch’è la 30. del lib. 3 . , parla dè miracoli, che si operavano per mezzo delle catene dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo. Parimenti il medesimo S. Pontefice in più Epistole, e speciamente  nell’Epistola 6. del lib. 5, nell’Epistola 23. del lib. 6. favella delle chiavi, nelle quali si rinchiudeva della limatura delle catene di S. Pietro, e dei miracoli operati per mezzo di esse.

1. Celebra in questo giorno Santa Chiesa la festa delle catene, con le quali fu avvinto il Principe degli Apostoli San Pietro, tanto in Gerusalemme sotto il Re Erode Agrippa, quanto in Roma sotto l’Imperator Nerone: e intende ancora di rendere al Signore le debite grazie, per essersi degnato di liberare il Capo della sua Chiesa dalle mani del sopraddetto Erode, e de’ Giudei nella maniera prodigiosa che narra S. Luca negli Atti Apostolici.

2. Dice adunque S. Luca, che Erode Agrippa circa l’anno 44 della nostra salute, dopo aver fatto decapitare S. Giacomo Apostolo, come si è detto nel giorno 25 dello scorso mese di Luglio, vedendo recava piacere ai Giudei, nemici capitali di Gesù Cristo, e de’ suoi discepoli, fece arrecare e mettere in prigione anche l’Apostolo S. Pietro, con idea di farlo morire dopo la festa di Pasqua, e lo diede in custodia a più soldati, i quali lo tenevano legato con due catene. I Fedeli intanto porgevano ferventi preghiere al Signore, acciocché soccorresse la sua Chiesa, e liberasse il Santo Apostolo dall’imminente pericolo di perdere la vita. Esaudì il Signore le orazioni dei servi suoi; e la notte precedente al giorno in cui doveva S. Pietro essere giustiziato per ordine di Erode, apparve un Angelo nella prigione, la quale fu riempiuta d’un celeste splendore, e svegliando l’Apostolo, che dormiva legato con due catene fra due soldati, gli disse, che si vestisse, si calzasse, e lo seguisse. Si sciolsero immediatamente le sue catene; onde egli così libero e sciolto seguitò l’Angelo, e passata la prima, e la seconda guardia de’ soldati, giunse alla porta di ferro, la quale si aprì da se medesima; ed essendo così S. Pietro in sicuro, l’Angelo sparve. Allora S. Pietro, il quale credeva, che tutto ciò non fosse se non un fogno ed una visione, conobbe che il Signore Io aveva liberato dalle mani di Erode, e dal furore de’ Giudei. Se ne andò alla cala della madre di Giovanni Marco, dove i Fedeli stavano radunati pregando Iddio per lui; e recò loro la lieta novella della sua miracolosa liberazione; per cui ognuno si può immaginare, quali azioni di grazie essi rendessero al Signore, che aveva esaudite le loro orazioni.

3. Ora queste catene, che avvinsero il beato corpo di S. Pietro in Gerusalemme, insieme con quelle, con cui fu legato in Roma sotto Nerone prima del suo martirio, si conservano nella Chiesa, che fino dal quinto secolo fu per ordine dell’Imperatrice Eudossia fabbricata in Roma sul monte Esquilino, e dedicata in onore di S. Pietro, e delle sue catene, e perciò chiamata S. Pietro né Vincoli. Queste catene, assai più preziose dell’oro, e delle gemme, sono sempre state venerate in modo particolare dalla pietà de’ fedeli; e per mezzo di esse ha il Signore operato isigni miracoli, come riferisce S. Gregorio Magno, che governò la Chiesa sul fine del sesto secolo, e nel principio del settimo. Solevano i Pontefici mandare in dono ai Re e ai Principi della limatura di queste catene, rinchiusa dentro piccole chiavi d’oro e d’ argento, che si portavano al collo, come un pegno della protezione del Principe degli Apostoli; ed il medesimo S. Gregorio mandò una di queste chiavi a Childeberto Re di Francia, e gli scrisse queste parole: Vi mandiamo le chiavi dì S. Pietro, ed in esse la limatura delle sue catene, acciocché portandole al collo, vi difendano da tutti i mali. – Veneriamo noi pure le catene del Santo Apostolo, delle quali, come dice S. Giovanni Grisostomo, egli assai più godeva, e si gloriava, che de’ prodigi, e de’ miracoli, che Iddio operava fino con l’ombra sua; perocché per mezzo di esse dimostrava l’amore sincero e ardente, che portava a Gesù Cristo, e rendeva testimonianza alla verità del Vangelo, che predicava. Quella è la nostra gloria , dice egli stesso nella prima sua Epistola (1 Piet. II; 19-21), questa è la vocazione dei veri seguaci del Salvatore, di essere maltrattati, vilipesi, ed oltraggiati, ed anche privati di vita per la verità e per la giustizia. A questo fine, soggiunge, Cristo ha patito per lasciare a noi l’esempio, acciocché seguitiamo le sue vestigie, e dopo brevi patimenti conseguiamo l’eterna felicità, ch’Egli ci ha meritata e promessa. – Alle volte il Signore , anche in questa vita libera i suoi fervi dalle tribolazioni e persecuzioni, come liberò S. Pietro dalle mani di Erode, e dalla prigione di Gerusalemme; e con ciò dimostra la sua potenza, alla quale tutte le cose sono soggette, e dà a conoscere, che niun male può loro accadere senza la sua volontà. – Altre volte permette, che i suoi servi siano oppressi dalle violenze, ed ingiustizie degli uomini perversi, come avvenne allo steso S. Pietro dopo venti anni in Roma sotto Nerone; e allora glorifica il suo nome, concedendo loro la pazienza, per mezzo della quale conseguiscono l’unico e sommo bene di unirli a Lui in eterno nel Cielo. Qualunque sia la condotta, che a Dio piaccia di tenere verso di noi, siamo sempre rassegnati alla sua volontà, con sicurezza, che tutto ridonderà in vantaggio e profitto delle anime nostre, come ce ne assicura Egli medesimo per bocca del suo Apostolo delle Genti (Rom. VIII, 28).

PETRE, Surge velociter. Et ceciderunt catenæ de manibus ejus …  Con questo augurio al nostro Santo Padre in Vincoli, Gregorio XVIII, preghiamo per lui, senza dimenticare la preghiera per i nostri nemici, i cabalisti-talmudisti, nemici di Dio e di tutti gli uomini. Raccomandiamo per questo la recita del Salmo LXXX:

SALMO LXXX (80)

[1] In finem. Pro torcularibus. Psalmus ipsi Asaph.

[2] Exsultate Deo adjutori nostro, jubilate Deo Jacob.

[3] Sumite psalmum, et date tympanum; psalterium jucundum, cum cithara.

[4] Buccinate in neomenia tuba, in insigni die solemnitatis vestrae;

[5] quia præceptum in Israel est, et judicium Deo Jacob.

[6] Testimonium in Joseph posuit illud, cum exiret de terra Aegypti; linguam quam non noverat audivit.

[7] Divertit ab oneribus dorsum ejus; manus ejus in cophino servierunt.

[8] In tribulatione invocasti me, et liberavi te. Exaudivi te in abscondito tempestatis; probavi te apud aquam contradictionis.

[9] Audi, populus meus, et contestabor te. Israel, si audieris me,

[10] non erit in te deus recens, neque adorabis deum alienum.

[11] Ego enim sum Dominus Deus tuus, qui eduxi te de terra Aegypti. Dilata os tuum, et implebo illud.

[12] Et non audivit populus meus vocem meam, et Israel non intendit mihi.

[13] Et dimisi eos secundum desideria cordis eorum; ibunt in adinventionibus suis.

[14] Si populus meus audisset me, Israel si in viis meis ambulasset,

[15] pro nihilo forsitan inimicos eorum humiliassem, et super tribulantes eos misissem manum meam.

[16] Inimici Domini mentiti sunt ei, et erit tempus eorum in sæcula.

[17] Et cibavit eos ex adipe frumenti, et de petra melle saturavit eos.