FESTA DELL’ASSUNTA (2018)

FESTA DELL’ASSUNTA

[P. V. Stocchi: Ragionamenti Sacri; Tip. Befani, ROMA, 1886]

RAGIONAMENTO XXXVI. ASSUNZIONE DI MARIA

“Exaltata est Sancta Dei Genitrix super choros angelorum ad cælestia regna”.

Qualunque alberga in petto una scintilla di amore a Maria, chi non lo alberga di noi che questo amore suggemmo col primo latte? non è possibile che non saluti con peculiare esultanza questo gran giorno, che per la Vergine nazarena può con verità chiamarsi il giorno dei giorni. Questo è il giorno infatti nel quale, venuta al termine del suo viaggio l’incomparabile pellegrina che primogenita di ogni creatura era proceduta dalla bocca dell’Altissimo, udì finalmente la voce dello sposo che la chiamava, e nascosto così per vezzo dietro il riparo della parete domestica, e dalla finestra sguardandola e dalle sbarre dei nativi cancelli, ecco le diceva che “sparve il verno”, ecco che fecero sosta le pioggia, già le nostre spiagge si smaltano di fiori, già l’eco del bosco ripete il gemito amoroso della tortorella, già il potatore dà di mano  alla ronca, levati amica mia, diletta mia, colomba mia e vieni. E Maria, impenna le ali e si leva e, snella come colomba, vola al nido, trascorre velocissima le vie del baleno, e precedendola e corteggiandola gli Angioli penetra in Paradiso, sale fino al trono di Dio e si asside nel preparato soglio, Regina cinta di triplice diadema di figlia, sposa e madre di Dio. Di questa Assunzione esulta in paradiso la Chiesa dei Santi, di questa esulta in terra la Chiesa dei viatori, e ambedue congiunte in un coro glorificano il Signore in questa Creatura che è il portento dei portenti dell’Onnipotente, e la gloria e presidio del genere umano; e nella esultanza esclamano stupefatti: Exaltata est Sancta Dei genitrix super choros angelorum ad cælestia regna. La Santa Genitrice di Dio è stata esaltata sopra i cori degli Angioli ai regni celesti. Ora di questa esultanza a me conviene farmi interprete parlando stamane dell’Assunzione di Maria. Non mi state a dire che arduo è l’assunto, lo so pur troppo e mi atterrisce Bernardo intuonandomi che l’Assunzione di Maria, è un mistero ineffabile quanto l’incarnazione del Verbo. Filii ìncarnationem et Mariæ assumptionem quis enarrabit? Con tutto ciò, poiché conviene parlare, parlerò. Ma dentro quali confini costringerò la orazione, perché non vagoli barchetta sgovernata e raminga in pelago senza sponda? Mi argomenterò di misurare l’immisurabile, verrò cioè indagando e, se così può dirsi, scandagliando e tentando la sublimità della gloria alla quale Maria Assunta in cielo fu sollevata. Il cimento supera le mie forze; ma questa Vergine, Sede di sapienza e Madre della sapienza increata, può cavare anche la sua lode dal labbro di un lattante e di un pargolo.

1. E prima di tutto, o signori, in questo giorno celebriamo quello che si appella il “transito di Maria”. Questa parola di Maria favellandosi si sostituisce alla parola “morte”, la quale rispetto a questa Creatura incomparabile sembra troppo dura ed acerba per non dire ingiuriosa. Che aveva infatti a che fare con Maria la morte? La morte non fu creata da Dio, no! Deus mortem non fecit, (Sap. 1. 13.). Dio non fece la morte, la morte fu introdotta nel mondo dal diavolo; l’uomo sedotto dal diavolo peccò e la carne umana, divenuta carne di peccato, cadde sotto la giurisdizione della morte. Che avevi dunque o morte a che fare con Maria? Dirai che anche la carne di Maria era carne di Adamo. Verissimo! Era carne di Adamo, ma non carne di Adamo peccatore, era carne di “Adamo innocente”. Dio onnipotente, che voleva che la carne di questa donna diventasse un giorno carne sua propria, con privilegio unico, incomparabile, senza simile, senza seguente, sequestrò la carne di Maria dalla massa maledetta e dannata, e la grazia pervenne e sanò la natura nell’istante primo dell’Immacolato Concepimento, onde la giurisdizione del peccato e del diavolo e però neppure della morte non ebbe luogo sopra di Lei. Doveva qual dubbio ci è, la cruda falce di morte stare lontana da Maria che mai non ebbe peccato, e la inesorabile nemica dei vivi, non avrebbe forse osato tagliare lo stame di quella vita santissima. Ciò premesso, ho detto con gran ragione che valutare la gloria di Maria è misurare l’immesensurabile, imperocché chi non lo sa? La prima misura secondo la quale in cielo si dispensa la gloria, è la grazia santificante che veste l’anima, la sublima e l’adorna; bisognerebbe quindi aver mente per estimare il tesoro della grazia onde all’istante del suo passaggio era ricca Maria per misurarne la gloria, ma questa estimazione eccede ogni possanza di intelletto umano ed angelico. E non ne dubiterà chi rammenti che i Santi Padri riconoscono inombrata Maria in quel monte che punta colle radici sopra il vertice degli altri monti, e quando il Salmista cantò che al Signore sono dilette le porte di Sion sopra tutti i tabernacoli di Giacobbe volle, dicono i santi dottori, darci ad intendere, che la prima grazia che nel primo istante che fu concetta fece santa Maria, sopravanzò quella di tutti insieme i comprensori celesti per modo tale che ciò che era termine e compimento pel più fiammante dei serafini, fosse appena principio per la Verginella di Nazaret. Così come fra tutti i fiori di primavera la più bella è la rosa, così fra tutti gli astri del cielo l’astro mattutino è il più bello, così i congiunti splendori delle stelle e della luna in notte serena non pareggiano lo splendor dell’aurora allorché si affaccia a1 balcone di oriente e foriera bellissima apre al sole le porte del cielo e con le rosee dita gli indora la via. Mirabile cosa pertanto: se per Maria fosse stato diviso da un solo istante l’essere creatura e beata, e col primo ornamento di grazia che nella Coniazione la fece santa senza usufruttuarla né accrescerlo con nessuna cooperazione, con nessun traffico, trapassata fosse dall’utero della madre al Paradiso, con questo solo sarebbe stata tra tutti i Santi la prima, e di tal lume sfolgorato avrebbe nel cielo, che a paragone sarebbe stato fioco il fulgore di tutti i cori celesti. Così un’umile forosetta, se dalla compiacenza che in lei ponga il monarca, venga assunta repente dalla capanna e dal prato al regio talamo e al soglio si leva in un attimo sovra ogni altezza più nobile della corte, e splende cinta di diadema quasi luna tra le minori fiammelle. Ma se è così, conviene subito dar vinte le mani. Misurare la gloria che circondò Maria in questo giorno del guiderdone? Impossibile. Imperocché dotata Maria, dicono con gran concordia i Sacri dottori, fino dal primo istante che fu concepita dell’uso spedito e libero di sua ragione, non tenne ozioso un momento l’immenso capitale di grazia, onde il Signore la fece ricca, ma con gli atti intensissimi di fede, di carità e di ogni più eletta virtù, la venne sempre aggrandendo con prodigioso moltiplico. E così il secondo istante del viver suo quel capitale era aggrandito del doppio, il terzo istante del quadruplo, il quarto istante era otto volte maggiore, e di ben sedici volte eccedeva nel quinto istante quel che fu da principio. Procedete, signori con questo moltiplico e raddoppiate il capitale di istante in istante per modo che l’istante che succede, la trovi sempre del doppio più santa di quel che la lasciò il precedente, e ciò pel corso di forse meglio che settant’anni di vita, e poi andate ed estimate i tesori di gloria onde fu oggi guiderdonata Maria. La celebrano i Santi Padri e ne parlano a modo di estatici. Quid grandius Virgine esclama S. Pier Damiani, attende Seraphim et in illius naturæ supervola dignitatem et videbis quidquid maius est, minus Virgine solumque opifìcem opus istud supergredi. Chi è più grande di questa Vergine? Grandi sono i serafini, ma il più grande fra essi è nulla in faccia a Maria, e solo il Creatore eccede questa Creatura. E S. Epifanio a Maria si rivolge, e solo Deo excepto, le dice cunctis superior existis … da Dio infuori, nessun può venire in competenza con te. E ad Epifanio fa tenore l’affetto di Andrea da Creta, che sfogando il suo cuore: O Vergine, esclama, o regina di tutta l’umana natura a Dio sottostai, ma dopo Dio sei la più sublima di tutti. O Virgo, o regina omnis humanæ naturæ excepto Deo es omnibus altior.

2. E questa è, o signori, l’unica conclusione alla quale convien che venga chi misura l’altezza di gloria alla quale ascese in questo giorno Maria; che sia una gloria della quale non possa escogitarsi maggiore dopo quella di Dio. E ce ne capaciterei!, ancor di vantaggio se ci faremo a considerare, come nulla fu in Ella che si opponesse alla grazia. Imperocché era Ella, come noi siamo, figlia di Adamo, ma non figlia di Adamo peccatore, ma di Adamo innocente. Però la carne di Maria non era carne di peccato, né provava questa Vergine dentro di sé la triplice infestazione della concupiscenza, della ignoranza e della malizia che ottenebra, corrompe e debilita noi che siamo, per natura, figliuoli di ira. Era oltre di ciò, per altissimo privilegio confermata in grazia, onde peccato non poteva in esso aver luogo, non dico solo mortifero, ma neppure veniale e lievissimo. Datemi dunque quel capitale di grazia che detto abbiamo, aggiungete il privilegio di non peccare, a questo aggiungete l’altro di non poter neppure essere tentata al peccato, datemela sempre illustrata di limpidissimo lume nell’intelletto, ordinata sempre con dirittura perfettissima nella volontà, col senso sempre alla ragione soggetto, con la ragione sempre soggetta a Dio, non iscossa mai né turbata da urto di passione o da impeto di appetito, ed eccovi che questa avventurata creatura, per tutta quanta la vita, fece acquisto sempre di nuovi meriti e mai non incorse nessun discapito. Si si, fu sempre intatto questo giglio delle convalli, sempre immacolata questa suggellala fontana, sempre odorosa questa rosa di Gerico, fu sempre eretta questa palma di Cades, stampò sempre le orme incontaminate dal fango di questa terra di morte, e i miasmi di questo ergastolo consolò con profumi perenni di balsamo, di cinnamomo, di mirra. Tutti i santi, mentre pellegrinarono in terra, pagarono qualche tributo alla imbecillità della carne che li vestiva, e o per fragilità inciamparono e allentarono per stanchezza. Maria no, Maria avanzò sempre, sempre salì di altezza in altezza, a somiglianza dell’aquila che, fitti gli occhi nel sole, vince coi suoi voli ogni poter di pupilla onde facta est quasi navis institoris de longe portans panem suum. (Prov. XXXI, 14), rendette similitudine di un bene arredato naviglio che, con tutte le vele allargate al vento che spira amico da poppa in tutti i porti che incontra amici o nemici, si carica sempre di nuove merci senza far gettito mai di nessuna.

3. E dico in tutti i porti che incontra amici o nemici, imperocchè quale fu mai il tenore della vita mortale di Maria? In quali opere si svolse la tela mirabile dei suoi giorni? Quali splendori la illustrarono? Di che gloria rifulse? Omnis gloria eius filiæ regis ab intus. Sottratta, interiore, arcana, misteriosa, invisibile ad ogni sguardo, fuorché a quello di Dio, è l’opera e il magisterio onde Maria intrecciò la corona dei meriti che oggi si trasformò in corona di gloria. Noi infatti contemplando Maria, altro non vediamo fuorché un meraviglioso conserto di nobiltà e di abbiezione, di grandezza e di umiltà, di innocenza e di pene, di oscurità e di gloria, ma tutto ordinato e misto per modo che, nobiltà e innocenza e gloria e grandezza, ad altro non riesca fuorchè a dar lume e risalto alla umiltà, alla oscurità, alla abbiezione, alle pene. Discende dalla regia stirpe di David e in Lei fa capo ringiovanito e santificato il sangue dei re di Giuda, ma al cospetto del mondo non dà altra vista che dell’umile sposa del falegname di Nazaret. È santa, è tutta santa, è sempre santa, ma in una nazione nella quale, alla osservanza della legge, sono proposti guiderdoni [doni] terreni larghissimi, a Lei non toccano altro fuorché affanni, tribolazioni e dolori. Diviene madre di Dio? Ma in termine di partorire il Dio fatto carne, non trova casa che la raccolga e le è forza sciorre [sciogliere] il suo grembo dentro una stalla. Col Dio pargoletto fugge raminga in Egitto, raminga col Dio già grandicello dall’Egitto ritorna. Gioisce in cuore per gli imperi ineffabili di un amore che è insieme amore naturale di madre e amore celeste di carità, ma le si rivela che quel caro pegno è riserbato alla croce, ed Ella assisterà presso il patibolo, spettatrice immobile del supplizio e delle agonie del frutto delle sue viscere. Così o Maria da Nazaret a Bettelemme, da Bettelemme al Calvario, dal Calvario al Cielo, trapassi o Maria senza posa di grazia in grazia, di grandezza in grandezza, di gloria in gloria, ma ogni grazia, ogni grandezza, ogni gloria altro frutto non ti rende, fuorché di angosce e di pene; le tue mani distillano mirra, e il Dio tuo figlio o pargoletto ti giocondi coi cari vezzi infantili, o adolescente ti allieti con la amorosa obbedienza, o giovane ti sostenti con le fatiche, o uomo ti contristi collo spettacolo della passione e del sangue è sempre un fascetto di mirra che ti posa sul cuore. Fasciculus myrrhæ dilectus meus mihi inter ubera mea commorabitur. (Cant. I, 14). Or in questo conserto e quasi conflitto perpetuo di umiltà con la gloria, di abbiezione con la grandezza, di innocenza con i dolori e le pene, chi può estimare la eccellenza delle virtù che esercita, e la corona dei meriti che si tesse Maria? Nella quale può dirsi cosa che a pensarla solo sbalordisce per istupore, ed è questa: che Ella sale al primo soglio del Paradiso esaltata sopra tutti i cori degli Angeli, essendosi da sé medesima con le opere sue e coi suoi meriti, guadagnato e quasi espugnato quel soglio. Così è, signori, non è Maria assunta in Cielo sì alto per dono meramente gratuito della compiacenza di Dio, no, la grazia non si merita, la gloria si! Maria ha conquistato quel soglio: operata est Consilio manuum suarum, (Prov. XXX. 13) l’ha conquistato con l’esercizio indefesso e squisito delle opere sante e delle sublimi virtù. Ma se è così, o signori, leviamoci a volo in questo giorno e immaginando di essere presenti all’ingresso trionfale e alla coronazione di Maria, fingiamo che tocchi a noi di domandare la gloria che deve fregiare Maria. Io per me, credo che rivolgendomi al Re della gloria parlerei fidatamente così: Voi o Signore proporzionate la gloria alla grazia che quasi veste preziosa adorna l’anima santa, date dunque il primo soglio di gloria a Maria per la grazia onde la vestiste fino dal primo istante che fu concepita. Ma questa grazia nelle mani di Maria si raddoppia ad ogni istante, dunque dite a Maria ascende superius. Più su, o beata, più su il doppio, sempre più alto di tanti gradi quanti sono gli istanti della tua vita. Gran cosa è questa o Signore ma pure non basta. Ecco qua la schiera celeste delle sante virtù, che compagne indivisibili corteggiarono Maria nel pellegrinaggio mortale, e tutte chiedono una corona da fregiarle la fronte. Ecco la “fede” bianco vestita e coperta gli occhi di un velo, e chiede una corona di bellezza perfetta perché io, dice, fui in Maria perfetta sì che nel credere la feci beata, beata quæ credidisti. (Luc. I. 45) E io, ripiglia la speranza, fui cara a Maria sì che Ella parve mia madre, Mater sanctæ spei e una corona le debbo di bellezza sovrana: ma ambedue le vince vestita di colore vivo di fiamma la “carità”, e per incoronarla prediletta di Dio non si appaga di meno che di tutto il riso che accolgono i gaudii del cielo. E questa è la “fortezza” e vuole mille corone per fregiare Colei che per antonomasia si appella torre di David; e mille ne vuole la “prudenza” per Maria che condottiera sovrana delle vergini prudenti guida la danza, mille ne vuole la “temperanza”, la “giustizia” mille: poi viene la “umiltà” e poi la “verecondia”, e poi la “pietà”, e poi la “mansuetudine”, e tutte in corto dire tutte le virtù in vergine coro traggono innanzi, e tutte tendono le palme, tutte chiedono ghirlande da fare onore a Maria, perché di tutte Maria colse il fiore e la cima. Avete, o gran Re, che camminate fra i gigli una aureola per coloro che guardarono incontaminato il giglio dei vergini? Datela a Maria; ma sia così vaga, che più rifulga del sole, perché nessun candore pareggia il candore di Maria, che agli onori di vergine congiunge i gaudi di madre. Avete un’altra aureola per i martiri che vi resero testimonianza col sangue? Si deve questa aureola a Maria, che sotto la vostra si incoronò Regina dei martiri. Serbate un’altra aureola per quei sapienti che il popolo vostro erudirono alla giustizia, aureola di tanta luce che i fortunati che la conquistano fa splendere come soli nelle perpetue eternità? Sede di sapienza è Maria; la più luminosa di quelle aureole si deve a Lei che alla Chiesa santa insegna ogni verità, conquide ogni errore. Che andare in tante parole? Quanto è, o Signore, nei vostri tesori di premi, di doni, di doti, di gaudi di corone di frutti, tutto si accumuli su questo capo diletto, e non abbia modo la gloria dove non hanno modo i meriti, non ha moda la grazia. Cosi pare a me, che avrei gridato nel giubbilo dell’anima mia se trovato mi fossi presente alla glorificazione di Maria, e gli Angeli stupefatti avrebbero fatto tenore alle mie parole e confessato che questa figlia di Adamo si era, con le sue mani, lavorata una corona della loro più bella. Operata est Consilio manuum

4. Grandi cose sono queste, non può negarsi, e se dovessimo misurare la gloria di ogni altra creatura che non fosse Maria, saremmo al termine, ma di Maria trattandosi siamo appena al principio. Queste corone, onde abbiamo finora veduto inghirlandata a Maria la fronte, sono corone di giustizia, si posero sulla fronte a Maria che le meritò. Ma secondo giustizia si glorificano ancora i sudditi, e Maria è la figlia, la sposa e la Madre del Re del cielo che la glorifica. Esce quindi Maria davanti al Signore dall’ordine consueto delle altre creature, e forma un ordine, un ceto, un grado da sé con nomi, diritti, prerogative, privilegi comunicabili, unici e affatto divini. Ella è Madre di Dio, e stretta per conseguenza con vincoli ineffabili di consanguineità e affinità con le Persone della Trinità sacrosanta: Figlia del Padre e insieme col Padre, quanto all’assunta natura, ma secondo la stessa Persona principio del Figlio. Madre del Figlio, il quale si dice come Figlio a Dio così anche figlio dell’uomo, perché prese la carne che con vera somministrazione materna gli diede Maria: Sposa dello Spirito Santo, perché con lo Spirito Santo costituisce un solo Principio generatore il cui termine è la Persona del Verbo. Si mescola pertanto, si intreccia, si intromette Maria con la Trinità sacrosanta, e ogni creatura deve al suo cospetto umiliarsi e stupire, tutti celebrarla, esaltarla tutti, nessuno attentarsi di determinare a Dio la misura della sua gloria. Imperocché chi sarebbe o sì folle che si stupisse, o sì temerario che muovesse richiamo degli onori, benché smisurati e non pria veduti, che un monarca pur anco di questa terra accumulasse sul capo della sua figlia, della sua madre, della sua sposa? Che coi sudditi si adoperi la giustizia distributiva e la ricompensa, e la gloria si proporzioni col merito, bene sta: ma la misura degli onori di un figlio rispetto alla madre, di un padre rispetto alla figlia, di uno sposo rispetto alla sposa, non è il merito no, non è la giustizia, ma la pietà, e la pietà è virtù cosiffatta alla quale non si pone misura, ma quanto è negli onori più profusa, tanto è più bella. Ascendendo dunque in questo giorno al cielo Maria, ascese piena di grazia e piena di meriti, e Dio rimuneratore giusto e liberale fu nel guiderdone profuso e magnifico. Ma questa creatura che ascese piena di grazia e di meriti era Figlia, Sposa, Madre di Dio. E qui ogni mente vacilla, ogni immaginazione è soperchiata, è impotente ogni lingua a pensare e a ridire che cosa fecero il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo per onorare Maria, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che nell’onorarla non erano limitati da altra misura che dalla pietà e dall’amore. E notate come Dio non volle che della divina maternità cogliesse in terra nessun vantaggio, nessuno onore, mentre visse mortale: quindi, nessuno seppe che il frutto benedetto delle sue viscere era opera dello Spirito Santo, nessuno seppe che senza offesa del suo fiore verginale, Ella fosse madre; il mondo ignorò che Ella fosse Madre di Dio, portò quindi in paradiso, intatto il diritto che l’essere Madre le dava di partecipare alla gloria del Figlio, l’essere Figlia e Sposa di partecipare alla gloria dello Sposo e del Padre. Qual lingua pertanto, umana od angelica, potrà ridire quali feste o quali accoglienze, quali onori, qual trono, quali corone, apprestasse in questo giorno il paradiso a Maria; un Padre onnipotente che vuole onorare da pari suo la figliuola sua primogenita, un Figliuolo onnipotente che vuole mostrare quanto ami la Madre sua che per lui tanto fece e patì, uno Sposo onnipotente che alla diletta sua sposa arreda il talamo e il trono. Mi dica il Damasceno che infinita è la distanza che nella gloria divide la Madre dai servi di Dio, Dei matris et servorum Dei infinitum est discrimem, aggiunga S. Pier Damiani che come il sole con la sua luce sembra spegnere le stelle; così il fulgore di Maria ecclissa quello di tutti i santi, Virginis splendor ut sol astris sanctis spiritibus caliginem offundit: asserisca Sofronio che come niuno è buono al paragone di Dio, ut in comparatione Dei memo bonus; così nessuna eccellenza creata si trova perfetta al paragone della Vergine; ita nulla creatura in comparatione Virginis renitur perfecta; gran cose mi avranno detto, ma non mi avranno detto tanto che io non trovi poco, se penso che Maria tanto dové ricevere di gloria, quanto Dio gliene potette dare, e tanta gliene potette dare, quanto volle, e tanta gliene diede, quanta poté.

5. E non vedete infatti come anche rispetto al suo corpo santissimo non si pone misura nel glorificare Maria? Come si rompono tutte le leggi? Come si fà della risurrezione di Maria una copia fedele della risurrezione del suo Figliuolo? Subì anche Maria il taglio di morte, e lo spirito santissimo si separò dal suo compagno mortale, perché la morte è pena ma non è obbrobrio, né era disdicevole alla Madre passare per quel valico pel quale era passato il Figliuolo; ma se la morte è pena, non è solamente pena, ma ignominia ed obbrobrio di questa carne di peccato, la putredine è la corruzione del sepolcro. Però il verbo di Dio fatto carne subì la morte, ma l’obbrobrio della corruzione non ebbe accesso alla salma dell’uomo di Dio, e la respinse il profumo della divinità inabitante: e al modo medesimo non ebbe accesso al suo frale immacolato o Maria né duopo ebbe a respingerla di unguenti e di aromi o di balsami, e la respinse l’odore del Verbo che nove mesi abitato aveva nell’intemerato abitacolo delle tue viscere, e il profumo dello Spirito Santo che aveva fatto per settanta anni dimora dentro al tuo petto. Ora perché la copia rispondesse all’originale, e la gloria di Maria somigliasse a quella di Gesù, non volle Dio che la salma benedetta aspettasse nel sepolcro la tromba del giorno estremo; volle che l’anima santa con isposalizie novelle si raggiungesse al suo frale e quel fido compagno delle pene e del pellegrinaggio terrestre portasse al consorzio della gloria e del gaudio. E va, disse all’anima gloriosa di Maria la Trinità sacrosanta, va o bellissima delle creature, e sveglia la tua salma dalla polvere del sepolcro e irraggiandola della gloria e sfolgorandola del lume che ti riveste, portala teco quassù al trionfo ed al regno. E scese l’anima beata, e spiccandosi dall’empireo ratta così, che non è più ratta la folgore fu all’avello dove il terreno ve lo posava, e gli Angeli del paradiso a schiere a schiere: per vaghezza e per corteggio le tennero dietro. Sentì, la salma giacente, la presenza e il nume della compagna diletta, e per la virtù del Signore si rilevò, e correndosi incontro l’una con l’altra si riabbracciarono, si compenetrarono, si ricongiunsero, e Maria riprese la via del cielo, e volando sulle ali degli Angeli che ambiziosi si contendevano il carico e il ministero, sali all’empireo e trasvolando ogni altezza creata di uomini e di Angeli, prese possesso del trono più bello dopo quello di Dio. Così, amorosa colomba che si dissetò al ruscelletto argentino della fontana, con l’ali tese e ferme, vola al forame dell’amica torre se desio la punge del dolce nido e dei figli. E qui comincia una gara di tutti padri che tentando il freno all’affetto si piacciono in descrivere la salita trionfale e l’ingresso di Maria nella gloria. E chi descrive le schiere degli Angeli che circondano la benedetta trionfante e cantano canzoni di paradiso sulle cetre celesti; chi rappresenta Maria che affluente di delizie ascende come nuvoletta di incenso appoggiata un cotal poco al braccio del suo diletto, evapora le vie del cielo delle preziose fragranze del balsamo, del cinnamomo e del galbano. Altri inducono le schiere dei comprensori domandare attoniti chi è Colei che dal deserto ascende al cielo, bella come la Gerusalemme celeste; altri si dilettano di illustrare con paragoni la vista che Maria dà di sé al Paradiso e l’assomigliano alla rosa che in primavera si imporpora, all’iride che si colora tra le nubi, all’aurora che si affaccia al balcone di Oriente; dicono che è bella come la luna quando passeggia fra gli astri del Armamento quasi Regina tra le minori fiammelle, la decantano eletta come il sole quando, quasi gigante, esulta nella sua carriera, la celebrano all’inferno terribile come “esercito schierato a battaglia”. O quanto è bello il tuo incesso per le vie del baleno o figlia del principe. O di che orme stampi i sentieri del cielo, con la leggiadria di quei calzamenti che ti vestono le piante, lascia o lascia la dolce stanza del Libano, poni in obblio il tuo popolo e la casa del padre tuo e vieni; vieni e ti inghirlanderemo la fronte di un serto intrecciato sulle pendici dell’Amana e sulle vette del Sanir e dell’Eraion, dove i leoni si accovacciano e vanno in volta i leopardi. Cosi i Santi Padri. I quali se si provano a ridire le accoglienze che ricevette dalla Trinità Sacrosanta, confessano che né mente umana le può comprendere, né lingua umana ridire. Se vogliono descrivere il trono su cui si asside, dicono che ha per sgabello la luna che col disco di argento le soffolce il piede; se il manto che le veste le membra lo celebrano in tessuto dei più bei raggi del sole; se il diadema che le cinge la fronte sono dodici stelle delle più vaghe onde scintillano le azzurre volte dei cieli. Tota conglomeratur angelorum frequentia dice S. Pier Damiani, ut videant reginam sedentem a dextris Dei circumdata varietate. Fanno calca e pendono intorno a Maria gli Angioli e i Santi, né si saziano di animi quella bellezza e di contemplare quella gloria, e di esaltar il Re dei re che la creò e la fece sì grande, sì santa, sì gloriosa, e sì bella.

6. Ma è pur bello che su quest’ultimo, ci conduciamo col Damasceno alla tomba che chiuse il sacrosanto frale di Maria, e dov’è, gli domandiamo, dove è il deposito che si confidò alla tua fede? Dove è quell’oro purissimo che in te nascosero le apostoliche mani? Dove è quella gemma di Paradiso, dove quel tesoro di delizia, dove quell’abisso di santità, dove quell’arca di giustizia, quel fonte di vita? Parla, sepolcro, rispondi: la salma di Maria, dov’è? E ché cercate, risponde il sepolcro, ché cercate nelle viscere della terra Colei che fu rapita ai padiglioni celesti? Perché domandate a me ragione di un deposito che io non potevo ritenere? Sono forse le mie ritorte più valide del braccio di Dio? O è così robusta la mia possanza, che sappia resistere alla virtù dell’Altissimo? Una insolita luce di Paradiso invase i miei recessi; rivisse quel corpo santissimo, si sviluppò dalla sindone che lo avvolgeva, vaporò di fragranza celeste il mio seno, il guiderdone del ricetto che gli porsi fece di me un delubro di santità, mi riempié di fiori colti nei giardini superni, e addio, mi disse, e impennò l’ali e disparve. Così il Damasceno; e a lui sottentra Bernardo, e quasi in atto di cercarla nei cieli poiché involò se stessa alla terra: oh! le dice con le parole dei cantici; dinne, dinne, bellissima, qual regione ti tiene? Per qual plaga del cielo ti aggiri? In quali paradisi stampi il suolo di orme beate? Suoni nostre orecchie la voce tua, un’aura almeno venga quaggiù gli odori che spiri dal vestimento, tratti al profumo di quelle fragranze impenneremo le ali e volando senza allentare verremo a Te, e vagheggeremo la tua sembianza e gioiremo del tuo gaudio e festeggeremo della tua gloria. Ma, interrompe S. Pier Damiano, Ella siede alla destra del Figlio nel Paradiso, e tanto non è dalla terra al cielo, che più non sia dai cori più sublimi dei serafini al soglio di Lei. Come possiamo noi col carico di questa soma mortale adergerci a tanta altezza? Chi ci dà ali di volo si infatigato? O te beato, te quattro volte beato o Stanislao Kostka, gemma ed onore della Compagnia di Gesù, o tocchi a me, tocchi a tutti questi diletti che mi circondano, la sorte che a te toccò in questo giorno. Ardeva l’immacolato giovane di affetto immenso a Maria, la festa dell’Assunzione della Vergine al cielo si avvicinava, ed ei si struggeva di contemplarne il trionfo. Scrisse dunque con filial tenerezza una lettera alla Regina del cielo, e portandola piegata sul petto nel dì sacro al martire S. Lorenzo, ricevendo il corpo di Gesù Cristo, al santo martire la consegnò perché la rendesse a Maria. Era egli vegeto, era robusto, era sano: il fiore della gioventù gli riluceva in volto e gli atteggiava le membra, nulla presagiva la morte e la solennità di Maria era vicina. Quand’ecco a un tratto il giorno innanzi alla festa quel vago fiore languiva, e Stanislao per impeto di amore più che di morbo viaggiava verso il cielo a gran passi. La mezza notte della vigilia che precedeva la festa era passata, l’aurora del gran dì di Maria apriva con le rosee dita al sole la porta, quand’ecco presso la celletta di Stanislao, si ascolta un concento di paradiso, ecco una luce celeste ingombra l’aere all’intorno, ecco tra quelle vergini una Vergine senza misura più augusta e più bella. Era Maria che a Stanislao si rivolse e gli disse, vieni! Vide Stanislao la sua Madre, udì la cara parola, bastò. L’anima si sciolse dal corpo e volò in Paradiso, il corpo rimase in terra abbandonato a somiglianza del giglio che piega sullo stelo lo stanco capo se troppo vivo lo fiede un raggio di sole. O benedetto, che in questo giorno misto ai cori degli Angeli contempli e lodi Maria, piglia tu le nostre parti e parla alla Vergine per noi. Dille che siamo suoi figli, dille che le offriamo questa pompa terrestre, dille che la riguardi con occhio di amore, dille che ci benedica l’anima e il corpo, dille che ci sostenti tra le battaglie di questa terra, dille che ci conceda di contemplare un giorno i suoi trionfi celesti.

GNOSI: SINAGOGA DI sATANA: LA FRAMMASSONERIA

LA FRAMMASSONERIA

SINAGOGA DI SATANA

[L. Meurin: La frammassoneria, sinagoga di satana. Vers. A. Acquarone, Siena, 1895]

« Tutti i nostri secreti massonici sono impenetrabilmente nascosti sotto dei simboli. »

(Insegnamento ufficiale del 33° grado.)

INTRODUZIONE

I. IL NUMERO MASSONICO DI TRENTATRÉ TROVATO NELLE ANTICHE RELIGIONI PAGANE.

I gradi della frammassoneria sono, tutti lo sanno, in numero di trentatré.

Ora, studiando i Veda degli Indiani, abbiamo trovato il testo seguente: « O Dio, che siete in numero di undici in cielo; che siete in numero di undici sulla terra, e che, in numero di undici, abitate con gloria in mezzo all’aere, possa il nostro sacrificio esservi accetto (Big-Véda, Adhyaya, II. Anuvaka, XX. Sukta, IV, V. 11). » – L’Atharva Veda insegna che trentatré spiriti (trayas trinschad devah) sono contenuti nel Prajapati (Brahma) come suoi membri.

Lo Zend-Avesta, libro sacro degli antichi Persiani, contiene la nota seguente: « Che i trentatré Amschaspands (Arcangeli) e Ormazd siano vittoriosi e puri (Kordah-Avesta, III.1) ! »

Noi leggiamo ancora nel Yacna I, v. 33: « Io invito e onoro tutti i signori della purità: i trentatré più prossimi intorno ad Ha vani (l’Oriente), i più puri istruiti da Ahura-Mazda (Ormazd) e annunciati da Zarathustra (Zoroastro). » Questo numero misterioso di trentatré di cui non possiamo in nessun luogo trovare una spiegazione, ci pareva indicare fra i misteri dell’antichità pagana e la frammassoneria una connessione che meritava di essere studiata, e prometteva pure la scoperta dei secreti più nascosti di quella società tenebrosa. Non ci siamo ingannati.

II. IL NUMERO TRENTATRÉ NELLA FRAMMASSONERIA

I primi undici gradi della frammassoneria, lo vedremo più tardi, sono destinati a trasformare il Profano in Uomo vero, nel senso massonico; la seconda serie, dal 12° al 22° grado, deve consacrare l’Uomo Pontefice ebreo; e la terza serie, dal 23° al 33° grado, deve costituire il Pontefice, Re ebreo o Imperatore cabalistico.

I Capi secreti della frammassoneria, gli Ebrei, furono molto circospetti nella rivelazione graduale dell’organizzazione della loro società secreta. – Per darne un esempio, citeremo la Francia, che, nel 1722, non ha conosciuto che i primi tre gradi, nei quali, diciamolo subito, è nondimeno contenuta in germe tutta la dottrina massonica. Nel 1738, si osò duplicare questo numero; nel 1758, esso fu portato à ventidue, più i tre primi gradi della terza serie, cioè, in tutto, a venticinque gradi. Gli ultimi otto gradi che mancavano ancora al sistema perfetto, furono aggiunti solamente nel 1802, dopo che i lavori tenebrosi delle logge avevano portato i frutti su’ quali si era fatto assegnamento, facendo correre a flutti il sangue umano. – Paolo Rosen, un tempo frammassone del 33° ed ultimo grado, dà la descrizione dell’apertura delle sedute del Supremo Consiglio del 33° grado (Satan et C.ie Tournai, 1888, p. 219). Egli dice: « Un Supremo Consiglio deve essere composto di nove Sovrani Grandi Ispettori Generali almeno, e di trentatré al più. Nove, perché  questo numero, essendo l’ultimo dei numeri semplici, indica la fine di tutte le cose; trentatré, perché è a Charleston, al 33° latitudine nord, che il primo Supremo Consiglio si è costituito, il 31 maggio 1801, sotto la presidenza di Isacco Long, fatto Ispettore da Mose Cohen, che teneva il suo grado da Spitzer, Hayes, Franken e Morin. Quest’ultimo lo teneva, dal 27 agosto 1762, dal principe de Rohan e da nove altri massoni del Rito di Perfezione, che lo avevano deputato a stabilire in tutte le parti del mondo la Potente e Sublime Massoneria. » – Le autorità massoniche, come Pindel (Geschichte der Freimaurerei. Leipzig-. 1870, p. 847: Die Ordensliige des schottischen Ritus der 33 grade. Histoire de la franc-maçonnerie: la Menzogna dell’Ordine riguardante il rito scozzese di 33 gradi) e Clavel (Histoire pittoresque de la franc-magonnerie, 3a ed., 1844, p. 400.), dichiarano che l’Ebreo Morin non aveva patente che per lo stabilimento di venticinque gradi, e che la pubblicazione degli ultimi otto gradi non risale oltre il 1801. Questo è detto per distrarre gli spiriti troppo curiosi: il sistema massonico esige assolutamente trenta tre gradi. – Nel Catechismo del Maestro, secondo il Rito francese, leggiamo (Leo Taxil, les Frères Trois-Points, 2 vol. p. 126): « L’Assemblea generale, riunita annualmente in sessione e investita del potere legislativo, determina la legge che ci regge e regola gli interessi comuni dell’istituzione. In sua assenza, una commissione, designata col nome di Consiglio dell’Ordine, composta di trentatré membri eletti dall’Assemblea generale, amministra gli affari correnti.  – I misteri della frammassoneria, sono, la maggior parte, nascosti sotto leggende, emblemi, decorazioni, motti sacri, ecc…. La « Camera nera, » per cui deve passare l’aspirante al grado di Rosa-Croce, è illuminata da trentatré lumi, messi su tre candelieri di undici bracci (Leo Taxil, Les mysières de la franc-maçonnerie, p. 279). – Il Rito di Misrai’m (d’Egitto) conta 33 gradi simbolici, 33 gradi filosofici, 11 gradi mistici e 13 gradi cabalistici. Pel momento, basta verificare, in questo rito, la ripetizione del numero 33, il numero 11, e, ciò che ci conduce più lungi nei misteri, la professione aperta della Cabala ebrea.

III. IL NUMERO UNDICI NELLA CABALA EBREA.

La Cabala essendo stata nominata, nostra intenzione si è portata su quella dottrina filosofica degli Ebrei eterodossi. Là, noi abbiamo ancora ritrovato il numero undici, e con esso la chiave dei misteri massonici. Ci basta per ora di verificare che l’Ensoph-l’(Infinito) è la sorgente da cui, secondo la dottrina della Cabala, deriva, d’eternità in eternità, tutto ciò che è esistito, esiste, ed esisterà. Da lui emanano, in primo luogo, una Triade: la Corona, la Sapienza e l’Intelligenza, detta i Séfiroth (numeri) superiori, e in secondo luogo sette altri Séfiroth che, con i tre superiori, costituiscono l’Uomo primordiale [AdamKadmon). L’Ensoph e i dieci Séfiroth compongono « nel ciclo » il famoso numero undici che si ripete nella sfera degli spiriti, « in mezzo all’aere », come nel mondo materiale, « sulla terra », completando così il numero di trentatré. – I Cabalisti tengono molto ai numeri, soprattutto a quello di undici. Un frammento inserito nel Zohar (Luce), loro libro principale, è intitolato Idra roba, cioè la Grande Assemblea, perché esso contiene i discorsi indirizzati da Simon-ben-Jochaì a tutti i suoi discepoli, riuniti in numero di dieci; il maestro rappresentando così l’Ensoph in mezzo a dieci Séfiroth (Frank, la Kabbale, p. 126, nota).

IV. IL NUMERO UNDICI NELLE DECORAZIONI MASSONICHE.

Per assicurarci che noi eravamo entrati nel vero cammino che guida ai più intimi misteri della frammassoneria, ci è bastato di scoprire nelle decorazioni massoniche l’Ensoph coi dieci Séfiroth e sopra la Corona. Nelle « Grandi Costituzioni » del Rito scozzese, articolo 66, trovasi la descrizione della decorazione a cui hanno diritto i membri della Grande Loggia Centrale. – « Essi portano un cordone in traverso, bianco marezzato, largo da dieci a undici centimetri, ornato con frangia d’ oro di cinque millimetri per ogni parte; a cui è attaccata una rosetta di color rosso vivo. A questo cordone è sospeso un gioiello formato di tre triangoli intrecciati, sormontati da una corona; questo gioiello è in oro o dorato. » – I tre triangoli intrecciati rappresentano i nove Séfiroth che emanano dalla Corona, la quale li sormonta e completa il numero di dieci. – Il cordone bianco largo dieci centimetri rappresenta gli stessi dieci Séfiroth. Si dice: dieci a undici centimetri, per avere di che attaccare l’ orlo. L’orlo in oro, di un mezzo centimetro in ciascuna parte, completa il numero di undici centimetri; esso rappresenta  l’Ensoph (l’Infinito) che abbraccia tutta la creazione, o, per parlare più correttamente, tutta l’emanazione per cui egli si è rivelato. – La rosetta sulla punta del cordone rappresenta il pensiero o piuttosto l’azione feconda dell’Infinito, per cui egli si è rivelato nell’universo. – Il cordone portato dai « Maestri » 3° grado, è azzurro marezzato, largo undici centimetri; quello dei « Maestri secreti », 4.° grado, è pur azzurro, ma orlato di nero, e largo undici centimetri. La differenza dei colori nel 4.° e nel 33.° grado, indica una altra idea: ciò non è che nel 33.° grado che si giunge a ottenere ciò che, nel 4,° si piange ancora come perduto. – Nel 29.° grado, vi sono 7 segni, 3 toccamenti e 1 toccamento generale, che significano i 7 Séfiroth inferiori, i 3 superiori e l’Ensoph. In tutto undici. – La Camera del Supremo Consiglio del 33° grado scozzese è illuminata da undici lumi: un candeliere da cinque bracci all’oriente, un altro da cinque bracci all’occidente, un terzo da un braccio al nord e un quarto da due bracci al mezzogiorno. Oltre il numero mistico di undici, vi si troverà la data dell’anno 5312 (èra ebrea) ossia 1312 (èra cristiana), l’anno dell’abolizione dell’Ordine dei Templari. – La batteria dello stesso 33° grado si fa con undici colpi: prima 5, poi 3, 1 e 2; il che significa le stesse cose che gli undici lumi. In questi due simboli, i lumi e la batteria, noi vediamo riuniti i tre misteri fondamentali della frammassoneria:

1. Il mistero dell’Ordine decaduto dei Templari, che si nasconde dietro i gradi inferiori della società secreta: ecco l’anno 1312 che grida vendetta;

2. Il mistero della Sinagoga decaduta, che si nasconde dietro la società secreta di tutta la frammassoneria: ecco l’èra ebrea;

3. Il mistero dell’Angelo decaduto, che si nasconde dietro i dieci Séfiroth, cioè la Trinità divina e « i sette angeli che sono sempre davanti al trono di Dio (Apocalisse, cap. 1, 4 – Tobia, cap. XIII, 15) »: ecco il numero undici.

Tre odii congiurati contro il Signore e il suo Cristo!

V. LA CABALA EBREA, BASE DOGMATICA DELLA FRAMMASSONERIA.

Le indicazioni citate ci bastano per considerare come giusta la nostra ipotesi che la Cabala ebrea è la base filosofica e la chiave della frammassoneria. – Questa scoperta ci ha ispirato l’idea di questo lavoro. Servirà esso ad aprir gli occhi a quelle migliaia di frammassoni non Ebrei che non vedono la schiavitù alla quale i Farisei, gli Ebrei della Cabala, li hanno ridotti, e nella quale li tengono schiavi per mezzo di misteri che non rivelano ad essi neppure al 33° grado? – Vi si troverà la soggezione dei popoli cristiani e delle loro autorità politiche sotto la dominazione degli Ebrei?

VI. IL PAGANESIMO INCORPORATO NELLA CABALA EBREA.

Non è la sinagoga ortodossa, né la vera dottrina di Mosè, ispirata da Dio medesimo, che i Cabalisti moderni rappresentano; è il paganesimo di cui alcuni Ebrei settarii furono imbevuti, al tempo della schiavitù di Babilonia. Non si ha che a studiare, la dottrina della Cabala ebrea e a paragonarla con le dottrine filosofiche dei più antichi popoli civilizzati, Indiani, Persi, Babilonesi, Assiriani, Egiziani, Greci e altri, per assicurarsi che dappertutto è insegnato lo stesso sistema panteistico di emanazione. Dovunque si trova un certo principio eterno da cui emanano una prima triade, e, dopo questa, tutto l’ universo, non per creazione, ma per emanazione sostanziale. Si è costretti di ammetterlo, tra la filosofia cabalistica e l’antico paganesimo, havvi una connessione intima che è difficile spiegare in un altra maniera che per l’ispirazione di uno stesso autore, cioè del nemico del genere umano, dello Spirito di menzogna.

VII. sATANA NEL PAGANESIMO.

Nel corso di questo lavoro noi faremo risaltare l’abilità con cui questo ispiratore delle antiche dottrine pagane è riuscito a separare, dapprima, l’idea delle tre divine persone, conosciute nell’antichità con più o meno precisione, dall’idea di loro sostanza comune e inseparabile, rappresentandole come emanate, in un tempo più o meno remoto, da quella essenza comune; e in seguito, a introdursi lui stesso nella Trinità, soppiantando, sia la prima, sia la terza Persona, a fine di ottenere, in una maniera o in un altra, da parte degli uomini, l’adorazione divina che cercò ardentemente, dicendo: « Io salirò al cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono; salirò sul monte del testamento al lato di settentrione, sormonterò l’altezza delle nuvole, sarò simile all’Altissimo (Isaia, XVI, 13). – È là che si trova la sorgente avvelenata degli errori e degli odi soprannaturali che riempiono il paganesimo antico e moderno, come l’anima dell’Ebreo della Cabala e dell’addetto della frammassoneria, di una rabbia indescrivibile contro Dio e contro tutti coloro che credono in Dio.

VIII. GLI EBREI NELL’ORDINE DECADUTO DEI TEMPLARI.

Usurpatore degli onori divini, presentandosi come una delle persone della Santissima Trinità, il Principe delle tenebre ha saputo nascondersi negli antichi misteri pagani, fondati sull’errore panteistico. Per essi egli mena l’uomo a disordini inauditi e ad una scelleratezza che non indietreggia davanti al terribile attentato di detronizzare la maestà divina. – Dagli antri pagani questo Spirito del male ha saputo penetrare, con la sua dottrina infame, nello spirito di una certa classe del popolo giudeo tenuto schiavo in Babilonia. Collegato con i suoi nuovi addetti, conosciuti per la tenacità straordinaria della loro razza, ha saputo sconvolgere il mondo, e lo sconvolge ancora. Se i farisei non esitarono a crocifiggere il Cristo, essi non esiteranno nemmeno a perseguitare i Cristiani la cui fede spirituale è in diretta opposizione con le loro speranze temporali. – Passiamo sotto silenzio i tempi dei Gnostici e delle grandi persecuzioni dei primi secoli, in cui gli Ebrei facevano una parte tanto importante quanto odiosa, e fermiamoci nel medio-evo. – I Templari furono corrotti in Palestina. Nelle loro riunioni secrete, essi rinunciavano a Cristo, e — la conseguenza — si abbandonavano al disordine. Noi non abbiamo più a provare qui ciò che i Deschamps, i Pachtler e tanti altri hanno perfettamente stabilito su prove irrefragabili. L’Ordine decaduto dei Templarii dapprima con le sue dottrine e sue pratiche, poi con gli avanzi dei suoi membri dispersi, ha servito di punto di partenza per ciò che chiamasi oggidì la frammassoneria. Il 30° grado, il grado di Cavaliere Templario, è, in unione con il 18° grado, il grado di Rosa Croce, l’essenza stessa della frammassoneria. Gli altri gradi non servono che a prepararli e a celarli agli occhi dei « profani » e dei fratelli inetti e indegni di confidenza.

IX. CONCATENAZIONE DEGLI ODII E DEI MISTERI DELLA FRAMMASSONERIA.

I punti indicati devono servirci d’introduzione a questo breve trattato, per mostrare di primo aspetto al lettore la concatenazione degli odii misteriosi concentrati nella frammassoneria per la continuazione e il compimento dell’opera dell’Anticristo: « perché  il mistero di iniquità già si opera (Tess. c. XI, 7) ». Se noi siamo riusciti a mettere il dito sul verme roditore dell’umanità, uomini più competenti di noi si affretteranno forse a seguirci e completeranno ciò che noi non possiamo che abbozzare. Completata, l’opera nostra diverrà, tutto insieme, un libro di storia universale, un trattato di teologia e di filosofia, e una esposizione della magia nera. – Cerchiamo, e troveremo nella storia, la frammassoneria; nella frammassoneria, l’Ordine decaduto dei Templarii; nell’insieme, la Sinagoga cabalistica; nella frammassoneria. Ordine, Sinagoga, gli antichi misteri pagani, e finalmente, nel tutto, satana medesimo. – L’angelo decaduto ha sedotto gli antichi popoli con le sue dottrine bugiarde ; il paganesimo ha sedotto il Giudeo ipocrita e ostinato, il Giudeo ha sedotto e corrotto l’Ordine religioso dei Templari, e inganna ancora oggigiorno la gran massa credenzona dei frammassoni. Avendo accaparrato i tesori e il potere civile di questo mondo, l’Ebreo fa una guerra accanita, senza pietà e senza tregua, alla Chiesa di Gesù Cristo e a tutti coloro che ricusano di piegare il ginocchio dinanzi a lui e al suo vitello d’oro. – Cingere la fronte dell’Ebreo del diadema reale e mettere sotto i suoi piedi il regno del mondo, ecco il vero scopo della frammassoneria. – Noi ci lusinghiamo nella speranza di ricondurre con questa opera qualche spirito traviato, ma non abbiamo alcuna speranza di persuadere la generazione perversa che si cela sotto le trentatré pieghe dei secreti massonici ed oltre; perché essa non potrebbe essere convinta dalla ragione; essa non ha mai ceduto che alla forza maggiore. Probabilmente essa sarà oppressa da un sollevamento dovuto all’esasperazione popolare, o forse dalla defezione e dal disgusto di quegli stessi ch’essa riuscì a soggiogare e a incatenarsi con giuramenti illeciti, creduti oggidì ancora onesti e validi. – Il potere attuale dei capi della frammassoneria pare essere alla sua fine; ma non finirà senza una tragedia inaudita. « Smascherare la frammassoneria, dice Leone XIII, è vincerla ». Messa a nudo, ogni spirito retto e ogni cuore onesto l’abbandonerà, e per ciò stesso essa cadrà annientata ed esecrata.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: SINGULARI QUIDEM, PIO IX

Questa lettera enciclica, “Singulari quidem” è rivolta all’Episcopato austriaco dell’epoca, ma è rivolta in realtà, come tutta la parola di Dio, trasmessa dal Magistero apostolico, a tutti noi, oggi e sempre. C’è l’invito a tutti noi, in primis i chierici responsabili, con giurisdizione e missione canonica in unione con il Santo Padre, Gregorio XVIII, di vigilare contro due pesti moderniste, oggi più che mai in voga nella nostra corrotta società massonizzata e sdoganate dagli aderenti alla antichiesa dell’uomo, la vera sinagoga di satana del novus ordo, affiliata alle logge del b’nai b’rith: l’indifferentismo religioso ed il razionalismo pseudo-scientifico, gemelli nati da uno gnostico parto distocico. Qui poi è da condividere con orrore il dolore di Papa Mastai, per l’infedeltà del clero e del popolo un tempo cristiano, oggi apostata gaudente, autoassoltosi con il miraggio luciferino della “misericordia” senza pentimento e senza penitenza. Poveri noi, dove siamo finiti per non aver osservato in tempo e fatte nostre le sollecitazioni dei Sommi Pontefici fino a Pio XII. Poveri noi, quando, baldanzosi, andremo dal Giudice divino a raccogliere i frutti che credevamo buoni, anche se prodotti dalla “melma” e dallo “sterco” modernista, e ci sentiremo respingere con le terribili parole nella eterna sentenza: “… andate via da me, voi tutti, operatori di iniquità!”. Cerchiamo, finché siamo in tempo, di raddrizzare il timone della barca che sta precipitando nel lago di fuoco della eterna dannazione, ripariamo, con la dottrina e con la penitenza, alle nostre opere delle tenebre, e ricordiamo, come è ben affermato pure in questo scritto di “vita eterna” che: “all’infuori della Chiesa Cattolica Romana [la Vera Chiesa di Cristo, da non confondere con il satanico “novus ordo” usurpante, né con i fiancheggiatori dei falsi “tradizionalisti”], non si trova né la vera fede né la salute eterna, in quanto non può avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come Madre e assurdamente confida di appartenere alla Chiesa colui che abbandona la Cattedra di Pietro sulla quale è fondata la Chiesa!” Viva Gesù-Cristo, viva la Chiesa Cattolica, viva il Santo Padre GREGORIO XVIII!

S. S. Pio IX
“Singulari quidem”

Abbiamo appreso con gioia particolare dell’animo Nostro, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, che – solleciti nell’assecondare con grande fervore i desideri espressi quasi contemporaneamente a ciascuno di Voi da Noi stessi e dal Nostro carissimo Figlio in Cristo, l’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe – per ispirazione della fede che vi distingue e del vostro zelo pastorale, avete deciso di riunirvi in codesta città imperiale e regia di Vienna per discutere e conferire tra di Voi, in modo che possano essere perfezionate tutte le cose che furono sancite da Noi con lo stesso carissimo in Cristo Figlio Nostro in quella Convenzione che lo stesso preclaro e religiosissimo Principe ha avuto cura di concludere con Noi con somma Nostra consolazione, ad immortale gloria del suo nome, restituendo alla Chiesa i suoi diritti usurpati, recando letizia a tutti gli uomini onesti. Quindi con Voi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, Ci congratuliamo vivamente per il lodevole zelo che mostrate verso la Chiesa convocando codesta assemblea, né possiamo astenerci in questa circostanza dal parlarvi con grande amore, dal mostrarvi i sentimenti intimi del Nostro cuore e farvi così comprendere quanto è grande l’affetto che nutriamo verso di Voi e verso tutti i popoli fedeli di codesto vastissimo Impero affidato alla vostra cura. – Anzitutto, per ciò che concerne l’esecuzione della convenzione predetta, sappiate bene che essa contiene molti articoli che Voi soprattutto dovrete applicare, perciò desideriamo vivamente che circa il modo di dar loro esecuzione, Voi vogliate seguire una stessa sicura via e lo stesso metodo, avendo cura tuttavia di prendere con prudenza e attenzione tutte le precauzioni che potranno richiedere le usanze delle diverse province aggregate al vastissimo Impero d’Austria. Se alcuni articoli danno adito a dubbi, se sorgono difficoltà (cosa che non crediamo), Vi saremo grati se Ce lo riferirete in modo che, confrontati i pareri tra Noi e sua Maestà Cesarea Apostolica, così come è stato previsto dall’articolo trentacinquesimo della stessa Convenzione, possiamo darvi le opportune delucidazioni. – Ora, l’ardente carità che Ci fa abbracciare in un unico sentimento d’amore tutto il gregge del Signore, divinamente affidatoci da Gesù Cristo medesimo, e il gravoso incarico del Nostro Ministero Apostolico per cui dobbiamo provvedere con ogni Nostra forza alla salvezza di tutte le nazioni e di tutti i popoli, Ci sospingono, Nostri Diletti Figli e Venerabili Fratelli, a sollecitare sempre più, con tutta l’energia di cui siamo capaci, la vostra insigne pietà e la vigile virtù episcopale perché continuiate ad adempiere con zelo sempre più ardente e con la più premurosa diligenza tutte le funzioni del vostro ufficio episcopale, senza risparmiare né affanni, né consigli, né fatiche per conservare intatto e inviolabile nelle vostre Diocesi il patrimonio della nostra santissima fede. Vegliate sulla incolumità del vostro gregge, preservatelo da tutte le frodi e le insidie dei nemici. Infatti Voi conoscete bene gli infami artifici, le numerose macchinazioni e le mostruose invenzioni di ogni genere di opinioni con cui astuti architetti di dogmi perversi tentano di deviare dal sentiero della verità e della giustizia e di trascinare nell’errore e nella perdizione gli improvvidi e soprattutto gli sprovveduti. E neppure ignorate, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, che tra i tanti e mai abbastanza deplorati mali che turbano e sconvolgono la società ecclesiastica e civile, ora ne emergono in particolare due, che si possono considerare a buon diritto come l’origine di tutti gli altri. A Voi infatti sono anzitutto noti gli innumerevoli e funestissimi danni che sulla società cristiana e civile si riversano dal fetido errore dell’indifferentismo. Da qui la grave negligenza in tutti i doveri verso Dio in cui viviamo, ci muoviamo e siamo; da qui trascurata la santissima Religione; da qui scosse e quasi sconvolte le fondamenta di ogni diritto, della giustizia e della virtù. Da questa ignobile forma d’indifferentismo non molto si scosta la teoria, eruttata dalle tenebre, dell’indifferenza delle religioni per cui uomini estranei alla verità, avversari del vero credo religioso e immemori della loro salute, docenti di principi contraddittori e sprovvisti di solido convincimento, non ammettono alcuna differenza tra le professioni di fede più divergenti, vivono in pace con tutti, e pretendono che a tutti, a qualunque religione appartengano, sia aperto l’ingresso alla vita eterna. Infatti nulla importa loro, sebbene di diverse tendenze, pur di cospirare alla rovina dell’unica verità . – Voi vedete, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, di quale vigilanza occorre dar prova per impedire che il contagio di una peste tanto funesta infetti e distrugga miseramente le vostre pecore. Pertanto non rinunciate a premunire con zelo da questi esiziali errori i popoli a Voi affidati; a istruirli ogni giorno più intimamente nella dottrina della verità cattolica; a insegnare loro che, come vi è un solo Dio Padre, un solo Cristo Figlio di Lui, un solo Spirito Santo, così vi è una sola verità divinamente rivelata, una sola fede divina, principio d’umana salvezza, fondamento di ogni normativa per la quale il giusto vive, e senza la quale è impossibile piacere a Dio e pervenire alla comunione dei suoi figli (cf. Rm I,16-17; Eb XI,5); ; non vi è che una vera, santa, cattolica, Apostolica, Romana Chiesa e una sola Cattedra fondata dalla voce del Signore su Pietro, e all’infuori di essa non si trova né la vera fede né la salute eterna, in quanto non può avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come madre e assurdamente confida di appartenere alla Chiesa colui che abbandona la Cattedra di Pietro sulla quale è fondata la Chiesa. Infatti non vi può essere maggior delitto e nessuna macchia più ripugnante che essersi posto contro Cristo; aver operato per la distruzione della Chiesa, generata e assicurata dal Suo sangue divino; aver lottato con il furore di ostile discordia contro l’unanime e concorde popolo di Dio, avendo dimenticato l’amore evangelico. Invero, il culto divino si compone di questi due elementi: di pie dottrine e di buone azioni; né la dottrina senza opere buone è gradita a Dio, né Dio accoglie le opere distinte dai dogmi religiosi; non nella sola pratica delle virtù o nella sola osservanza dei precetti, ma anche nel cammino della fede si trova l’angusta e ardua via che conduce alla vita . Quindi non desistete di ammonire e incitare continuamente i vostri popoli fedeli, in modo che non solo persistano irremovibili, ogni giorno di più, nella professione della Religione Cattolica, ma si adoperino anche di rendere salda la loro vocazione e la loro scelta attraverso le buone opere. Mentre poi Vi impegnate ad assicurare la salvezza del vostro gregge, non trascurate di richiamare con tanta bontà, tanta pazienza, tanta dottrina, i poveri erranti all’unico ovile di Cristo e di ricondurli all’unità cattolica soprattutto con queste parole di Agostino: “Venite, Fratelli, se volete essere innestati sulla vite. È doloroso vedervi giacere in terra così recisi; contate soltanto sui sacerdoti provenienti dalla Sede di Pietro e considerate come su quel soglio dei nostri padri l’uno successe all’altro; quella è la pietra che non può esser vinta dalle superbe porte degl’inferi . Chiunque mangerà l’agnello fuori di questa casa, è un empio; se qualcuno non sarà nell’arca di Noè, perirà nel momento del diluvio.- Invero un’altra malattia non meno perniciosa ora infierisce, e ad essa, dalla tracotanza e da un certo orgoglio della ragione, è stato dato il nome di razionalismo. La Chiesa non disapprova certamente gli sforzi di coloro che perseguono la verità poiché Dio stesso attribuì all’uomo una ardente inclinazione alla conquista del vero, né biasima un retto e sano metodo di studi che coltivino la mente, investighino la natura, e portino in piena luce ogni suo più riposto arcano. La Chiesa, madre piissima, sa e ritiene con certezza che fra i doni celesti è soprattutto ragguardevole quello che consiste nella ragione per la quale, innalzandoci al di sopra di ciò che è soggetto ai nostri sensi, rechiamo in noi stessi una certa luminosa immagine di Dio. Essa ben sa che bisogna cercare fin quando troverai, e credere in ciò che hai trovato, in modo che tu ti persuada che non vi è nulla in cui credere, nulla da ricercare, una volta che tu abbia trovato e creduto in ciò che Cristo ha istituito, poiché Cristo ti ordina di cercare soltanto ciò che ha stabilito. – Che cosa dunque la Chiesa non tollera, non permette; che cosa essa biasima e condanna senza remissione, in linea con lo stretto dovere di tutelare il deposito divino? La Chiesa respinge con veemenza, sempre condannò e condanna il comportamento di coloro che, abusando della ragione, non arrossiscono né temono di opporla e di anteporla, con empia stoltezza, all’autorità della parola di Dio e mentre con arroganza si esaltano, accecati dalla propria superba presunzione, perdono il lume della verità, disprezzano con supremo orgoglio la fede in cui sta scritto che chi non crede sarà condannato (Mc 16,16) e confidando in sé stessi , negano di dover credere allo stesso Dio e di dover rispettare ciò ch’Egli di sé offerse alla nostra intelligenza. È a costoro che la Chiesa, con fermezza, obietta che è giusto , avendo cognizione del divino, credere in Dio stesso, a cui appartiene tutto quanto di Lui crediamo, poiché, come è logico, Dio non poteva essere conosciuto dall’uomo se Dio non lo avesse dotato della salvifica cognizione di sé. Sono costoro che la Chiesa cerca di richiamare alla sanità della mente con queste parole: che cosa vi è di più contrario alla ragione che cercare di elevarsi con la ragione al di sopra della ragione? E che cosa vi è di più contrario alla fede che rifiutare di credere in ciò che la ragione non può disvelare? La Chiesa non desiste dall’insegnare ad essi che la fede non è fondata sulla ragione, ma sull’autorità; infatti non conveniva che Dio, parlando all’uomo, confermasse le sue parole con argomenti, come se non avesse fede in lui, ma, come era logico, Dio ha parlato come supremo arbitro di tutte le cose: a Lui non si addice l’argomentare ma l’affermare. Ad essi esplicitamente dichiara che la sola speranza dell’uomo e la sua sola salvezza sono poste nella fede cristiana (che, insegnando la verità, e con la divina sua luce dissipando le tenebre dell’umana ignoranza, opera per amore) e nella Chiesa Cattolica, depositaria del vero culto, stabile dimora della stessa fede e tempio di Dio, fuori del quale, fatta salva la scusa di una invincibile ignoranza, chiunque resta escluso dalla speranza di vita e di salvezza. – Essa li ammonisce severamente e insegna che la scienza umana, se talora affronta i sacri testi, non deve avocare a sé, con arroganza, il diritto d’interpretarli ma, come un’ancella alla padrona, servirli con devoto ossequio, in modo che non erri spingendosi innanzi e, nel seguire i significati superficiali delle parole, non perda il lume della virtù e il retto sentiero della verità . Né si deve pensare che nella Chiesa di Cristo la Religione non abbia fatto alcun progresso; infatti ha progredito assai, purché il vero progresso stia nella fede e non nell’alterarla. Occorre dunque che crescano e progrediscano sensibilmente, nel corso delle età e dei secoli, l’intelligenza, la scienza, la saggezza sia dei singoli che di tutti, dell’uomo singolo e di tutta la Chiesa, in modo che sia compreso chiaramente ciò che prima era creduto oscuramente; in modo che la posterità si compiaccia di capire ciò che gli antichi veneravano senza averne conoscenza; in modo che siano estratte le preziose gemme della divina dottrina, che siano incastonate e adornate con perizia, splendano di luce, di grazia e di bellezza senza tradire tuttavia il dogma, il senso, il pensiero, in modo che siano esposte in modo nuovo ma senza introdurre novità alcuna.- Noi crediamo, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, che nessuno tra Voi si meravigli se, in ragione del Nostro primato e della Nostra autorità in materia di fede, abbiamo insistito su questi esiziali e funesti errori che riguardano la religione e la società, e se abbiamo deliberato di sollecitare la vostra straordinaria vigilanza al fine di sconfiggerli. Poiché il nemico non desiste dal seminare zizzania in mezzo al grano e poiché Noi, per disposto della Divina Provvidenza, presiediamo alla coltivazione del campo del Signore, e come servi fedeli e prudenti siamo stati posti a capo della famiglia del Signore , dobbiamo adempiere quei doveri inseparabili dal Nostro ufficio Apostolico. – Ora Noi chiediamo alla vostra pietà e alla vostra saggezza che in codesto congresso possiate raggiungere tra di Voi quelle provvide e sapienti decisioni che avrete giudicato atte a promuovere la maggior gloria di Dio nelle regioni di codesto vastissimo Impero e l’eterna salute degli uomini. È pur vero che Noi ci allietiamo ardentemente nel Signore quando sappiamo che vi sono molti ecclesiastici, molti laici che, egregiamente animati dallo spirito della fede e della carità cristiana, diffondono il soave profumo di Cristo; tuttavia siamo afflitti da non lieve pena quando veniamo a sapere che in certi luoghi alcuni sacerdoti, dimentichi della dignità del loro magistero, non procedono affatto conformemente a quella vocazione cui sono stati chiamati, e che il popolo cristiano, poco istruito nei santissimi precetti della nostra divina religione ed esposto ai più gravi pericoli, si astiene per sua disgrazia dalle opere di pietà e dalla frequentazione dei Sacramenti e deflette dalla onestà dei costumi, dalle regole di vita cristiana e corre verso la perdizione. Siamo intimamente persuasi che Voi, con la vostra ammirevole premura episcopale, consacrerete ogni cura e pensiero per eliminare del tutto i mali che abbiamo ricordato. E poiché Voi sapete benissimo, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, quanto potere abbiano i Concili Provinciali (sapientemente prescritti dalle regole canoniche e sempre frequentati dai santi Prelati per il supremo bene della Chiesa) al fine di restaurare la disciplina dell’Ordine ecclesiastico, di correggere i costumi dei popoli e di stornare i mali che ne derivano, desideriamo ardentemente che Voi celebriate i Sinodi Provinciali secondo le regole dei sacri canoni, in modo da applicare opportuni ed efficaci rimedi ai mali comuni di ogni provincia ecclesiastica di codesto Impero. E siccome Voi dovrete trattare in codesti Sinodi Provinciali questioni numerose e gravi, facciamo voto che grazie alla Vostra saggezza, in codesta assemblea Viennese, con animi concordi adottiate quelle risoluzioni in cui possiate raggiungere l’unanimità, sia soprattutto sulle questioni principali che nei Sinodi Provinciali dovrete trattare e decidere, sia su quelle che vorrete affrontare con lo stesso impegno unitario, affinché in tutte le province di codesto Impero la divina nostra religione e la sua dottrina salvifica ogni giorno di più si affermino, fioriscano, prevalgano e i popoli fedeli, allontanandosi dal male e operando il bene, procedano come figli della luce nella bontà, nella giustizia e nella verità. – Di tutti i mezzi che possono efficacemente condurre gli altri alla virtù, alla pietà e all’amore di Dio, nessuno è più valido della vita e dell’esempio di coloro che si dedicarono al divino ministero; perciò non tralasciate di adottare tra Voi, con tutto il vostro zelo, quei provvedimenti che restaurino la disciplina del Clero, ove si sia rilassata, e che la promuovano con cura dove sarà necessario. Di conseguenza, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, messi in comune e congiunti i vostri pareri e i vostri impegni, fate in modo, con tutto il vostro zelo, che gli ecclesiastici, sempre memori della dignità del loro ufficio, evitino tutto ciò che è vietato al Clero e che non gli si addice; ornati di tutte le più fulgide virtù, siano di esempio ai fedeli nelle parole, nei rapporti sociali, nella carità, nella fede, nella castità; recitino le ore canoniche quotidiane con l’attenzione che si conviene e con sentimento di devozione; si esercitino nella santa preghiera e insistano nella meditazione sui beni celesti; amino il decoro della casa del Signore; adempiano alle sante funzioni e alle cerimonie secondo il Pontificale e il Rituale Romano e svolgano con impegno, con sapienza e con santità l’incarico del proprio ministero; non interrompano mai lo studio delle sacre discipline e operino assiduamente per l’eterna salvezza degli uomini. – Con uguale cura provvedete che tutti i Metropolitani, i Canonici della Cattedrale e della Chiesa collegiale e gli altri Beneficiari addetti al coro, per severità di costumi, per integrità di vita e per pratica di pietà cerchino di splendere ovunque, come ardenti lucerne di un candelabro posto nel tempio del Signore, e adempiano con zelo a tutti i doveri del loro ministero, osservino l’obbligo di residenza, curino la magnificenza del culto divino, innalzino nelle veglie assidue le divine lodi del Signore con zelo, secondo il rito, con religiosa devozione e non, invece, con animo distratto, con occhi vaganti, con indecoroso atteggiamento della persona; non dimentichino mai che accedono al coro non solo per tributare a Dio un rito di adorazione, ma anche per invocare da Dio ogni bene per sé e per gli altri. Ognuno di Voi sa perfettamente quanto servano a proteggere e ad alimentare lo spirito ecclesiastico, e a preservare una salutare coerenza, gli esercizi spirituali che i Pontefici Romani Nostri Predecessori hanno arricchito di innumerevoli indulgenze. Perciò non cessate di raccomandare e di convincere tutti i vostri ecclesiastici a ritirarsi spesso in qualche luogo opportuno, in certi giorni determinati, dove – deposta ogni mondana cura – riflettano severamente su ogni loro azione, parola, pensiero al cospetto di Dio, abbiano in mente con assidua meditazione gli anni eterni, ricordino i sommi benefici ottenuti da Dio; cerchino di detergere la lordura tratta dalla polvere mondana, di risuscitare la grazia che su di essi è scesa per l’imposizione delle mani; si spoglino del vecchio uomo e delle sue azioni e si vestano del nuovo che è stato creato nella giustizia e nella santità. – Poiché le labbra dei sacerdoti debbono custodire il sapere che li mette in grado di rispondere a coloro che dalla loro bocca vogliono conoscere la legge, e di confutare i contraddittori, ne consegue, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, la necessità di rivolgere ogni vostra cura alla retta e accurata formazione del Clero. Con sommo impegno compite dunque ogni sforzo affinché, soprattutto nei vostri Seminari, s’imponga un ottimo e cattolico ordine di studi per cui i Chierici adolescenti, o fin dalla prima fanciullezza, siano plasmati alla pietà, ad ogni virtù e allo spirito ecclesiastico da apprezzati maestri, e siano educati alla conoscenza della lingua latina, alle lettere umane e alle discipline filosofiche, sottratte tuttavia ad ogni pericolo di errore. In primo luogo vigilate assiduamente affinché apprendano la teologia dogmatica e morale dai libri divini, dalla tradizione dei santi Padri, dall’infallibile autorità della Chiesa, e contemporaneamente acquisiscano una solida preparazione sulla letteratura sacra, sui sacri canoni, sulla storia della Chiesa, sulla liturgia. Dovete soprattutto evitare che nella scelta dei libri, in mezzo a tanta alluvione di perniciosi errori, gli adolescenti seminaristi abbandonino temerariamente la retta via della sana dottrina; in particolare Voi sapete che uomini dotti, ma in disaccordo con Noi in materia di religione e staccati dalla Chiesa, hanno pubblicato sia i libri divini che le opere dei santi Padri in traduzione elegante, ma spesso (e ce ne duole assai) viziata e distorta dalla verità nei commenti arbitrari. Nessuno di Voi ignora quanto la Chiesa abbia bisogno, soprattutto in questi tempi, di ministri capaci, prestigiosi per santità di vita e per fama di salutare dottrina, influenti negli atti e nei discorsi, che siano in grado di difendere strenuamente la causa di Dio e della sua Santa Chiesa, e di edificare una casa fedele al Signore. Nulla dunque si può lasciare d’intentato nell’educare alla santità e alla dottrina i giovani Chierici fin dalla tenera età, dato che non pochi di essi, debitamente istruiti, possono diventare utili ministri della Chiesa. Ora, allo scopo di giungere più facilmente e ogni giorno di più (grazie alla vostra insigne religiosità e alla vostra sollecitudine pastorale) ad un’accurata educazione del Clero, da cui in tanta parte dipendono il bene della Chiesa e la salute dei popoli, non Vi dispiaccia esortare, pregare gli insigni ecclesiastici delle vostre Diocesi, i laici più dotati di ricchezze e ben disposti verso il Cattolicesimo, di seguire il vostro esempio e di offrire di buon cuore una qualche somma di danaro perché possiate costruire nuovi seminari e fornire una congrua dote con la quale educare i Chierici adolescenti o fin dalla prima età. – Né con minore impegno, Diletti Figli e Venerabili Fratelli, cercate di adottare tutte le misure atte ad educare in senso cattolico, ogni giorno di più, la gioventù delle vostre Diocesi, di entrambi i sessi e di qualunque condizione. Perciò tendete l’arco della vostra vigilanza episcopale, così che la gioventù, anzitutto penetrata a fondo dal timore di Dio e nutrita del latte della pietà, sia educata non solo negli articoli di fede, ma anche nella più completa conoscenza della nostra santissima Religione; si conformi alla virtù, all’onestà dei costumi e al concetto di vita cristiana; sia infine tenuta lontano da tutte le seduzioni e dagli scogli della perversione e della corruzione. Con uguale sollecitudine, non desistete mai dal sospingere – nei modi più opportuni – i popoli fedeli a Voi affidati verso la religione e la pietà. Pertanto fate del vostro meglio per ottenere che i popoli fedeli, ogni giorno di più nutriti di salutare e verace dottrina cattolica, amino Dio con tutto il cuore, osservino anzitutto i suoi precetti, frequentino spesso e devotamente il suo Santuario, santifichino le sue feste, assistano con il rispetto e la pietà dovuta alla celebrazione del divino sacrificio, si accostino ai Sacramenti della Penitenza e della Eucarestia, e con particolare devozione seguano e adorino la Santissima Madre di Dio Immacolata Vergine Maria e, perseverando nella preghiera e in uno spirito di reciproca e costante carità, procedano degnamente in Dio, piacendo a Lui sotto ogni aspetto e fruttificando in ogni opera buona. E poiché le sacre Missioni officiate da persone capaci sono quanto mai idonee a risvegliare lo spirito religioso nei popoli e a richiamarli sul sentiero della virtù e della salvezza, vivamente desideriamo che esse siano organizzate spesso nelle vostre Diocesi. E concediamo meritate e somme lodi a tutti coloro che per vostro ordine hanno già introdotto nelle loro Diocesi questa opera, tanto salutare, delle sacre Missioni, dalle quali siamo lieti che siano stati raccolti copiosi frutti, sotto l’influsso della grazia divina. – Occorre che in codesto vostro convegno abbiate davanti agli occhi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, l’impegno comune di risanare i mali comuni. Infatti per riparare i guasti più gravi subiti da ogni vostra Diocesi e per promuovere la loro prosperità, Voi ben capite che non vi è nulla di più efficace delle frequenti visite nelle Diocesi e della celebrazione del Sinodo Diocesano. Nessuno di Voi ignora che il Concilio di Trento ha raccomandato e prescritto queste due pratiche pie. Perciò, data la vostra ammirevole sollecitudine e carità verso il gregge a Voi affidato, non abbiate nulla di più caro che visitare le vostre Diocesi con il più grande zelo, in conformità alle leggi canoniche, e compiere con cura tutto ciò che può conseguire l’esito fruttuoso della visita pastorale. Nell’adempiere tale dovere Vi stia soprattutto a cuore svellere dalle radici, con somma cura e specialmente con paterni consigli, con discorsi convincenti e con altri idonei mezzi, gli errori, la corruzione e i vizi che si annidano nel gregge; porgere a tutti gli insegnamenti della salvezza; vigilare che la disciplina del clero sia conservata integra; aiutare e fortificare i fedeli con tutti i soccorsi spirituali e guadagnarli a Cristo. Dedicate la stessa diligenza nel celebrare i Sinodi Diocesani, fissando quelle regole che nella vostra saggezza riterrete più adatte a conseguire il bene maggiore di ciascuna vostra Diocesi. Perché non accada che tra i sacerdoti (che devono applicarsi allo studio e all’insegnamento e che sono gravati dall’incarico d’istruire il popolo in ciò che tutti debbono sapere per la propria salvezza e di somministrare i Sacramenti) si estinguano o languiscano lo zelo e lo studio delle sacre discipline, è per Noi sommamente desiderabile che, dove è possibile, Voi promuoviate con le opportune regole i congressi in tutte le regioni delle vostre Diocesi, per trattare soprattutto di Teologia morale e dei sacri Riti, con l’auspicata partecipazione di tutti i preti che al congresso dovranno presentare una risposta scritta alle domande da Voi poste e, nel tempo che Voi vorrete determinare, dovranno discutere soprattutto di Teologia morale e sulle regole liturgiche, dopo che uno dei preti avrà pronunciato un discorso sui doveri sacerdotali. E, invero, i Parroci prima di tutti Vi presteranno aiuto e soccorso nella cura del vostro gregge in quanto Voi li avete messi al corrente della vostra sollecitudine e li avrete collaboratori nell’affrontare un’attività tra tutte le più degna; non tralasciate dunque, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, d’infiammare con ogni impegno il loro zelo perché adempiano al loro dovere con diligenza pari alla devozione. Dite loro che non cessino mai di pascere il popolo cristiano loro affidato con la predicazione del verbo divino, con la somministrazione dei Sacramenti e della multiforme grazia di Dio; di istruire con amore e pazienza gli ignoranti e soprattutto i fanciulli nei misteri della fede e nelle testimonianze della nostra religione; di ricondurre gli erranti sul cammino della salvezza; di impegnarsi con ogni sforzo a sradicare odi, rivalità, inimicizie, discordie e scandali; di incoraggiare i pusillanimi; di visitare gli infermi, procurando ad essi soprattutto ogni spirituale soccorso; di consolare i miseri, gli afflitti e i tribolati; di incitare tutti a una sana dottrina; di ammonirli a rendere devotamente a Dio ciò che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare; di insegnare che tutti, non solo per il timore del castigo ma per coscienza, devono essere sudditi e obbedire ai Principi e alle autorità in tutto ciò che non è contrario alle leggi di Dio e della Chiesa. – Inoltre continuate, come fate sempre, con somma lode del vostro nome, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, ad inviare alla Nostra Congregazione del Concilio la relazione sulle vostre Diocesi nei tempi stabiliti, e a tenerci al corrente, con zelo, delle questioni che riguardano le stesse Diocesi, in modo che sia possibile da parte Nostra procurare il maggior vantaggio vostro e delle stesse Diocesi. Siamo poi informati che in talune Diocesi del territorio germanico sono invalse alcune consuetudini, circa la sistemazione delle parrocchie e che alcuni di Voi desiderano che tali consuetudini siano conservate. Noi invero siamo disposti a usare indulgenza al riguardo, ma soltanto dopo aver sottoposto a un attento esame le stesse consuetudini esposte da ciascuno di Voi con particolare diligenza, in modo che da Noi siano autorizzate entro quei limiti che la necessità e le principali caratteristiche delle province avranno suggerito; infatti, per obbligo del Nostro Apostolico ministero dobbiamo fare osservare scrupolosamente le prescrizioni canoniche. – Prima di concludere questa Nostra Lettera, con cui siamo assai lieti di intrattenere Voi tutti, Prelati dell’Impero Austriaco, rivolgiamo il nostro discorso soprattutto a Voi, Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi che dimorate nello stesso nobilissimo Impero e siete solidali con Noi nella vera fede e nella unità cattolica, e aderite a questa Cattedra di Pietro e praticate i riti e le lodevoli consuetudini della Chiesa Orientale, approvate e consentite da questa Santa Sede. Voi avete appreso, voi sapete in quale pregio questa Apostolica Sede abbia sempre tenuto i vostri riti: ne ha inculcato assiduamente il rispetto, come dimostrano splendidamente i decreti e le Costituzioni di tanti Romani Pontefici Nostri Predecessori; fra queste è sufficiente ricordare la Lettera di Benedetto XIV, Predecessore Nostro, del 26 luglio 1755, che comincia con “Allatae” e la Nostra Lettera del 6 gennaio 1848, inviata a tutti gli Orientali, che comincia con “In suprema Petri Apostoli Sede“. Pertanto esortiamo cordialmente anche Voi affinché adempiate al vostro ministero secondo la vostra segnalata religiosità e sollecitudine episcopale; abbiate davanti agli occhi tutte le questioni che abbiamo trattato; dedichiate ogni vostra cura, attività e vigilanza in modo che il vostro Clero, ornato di ogni virtù e specialmente di ottime, sacre discipline, si applichi con tutte le forze a procurare l’eterna salute dei fedeli; in modo che i popoli fedeli seguano la strada che conduce alla vita, che ogni giorno di più si accresca e si estenda l’unità della Religione Cattolica, e che siano amministrati i Sacramenti e celebrate le funzioni divine secondo le vostre regole, tuttavia adottando i libri liturgici che furono approvati dalla Santa Sede. E poiché non vi è nulla per Noi di più desiderabile che venire in aiuto vostro e dei vostri fedeli indigenti, non trascurate di ricorrere a Noi, e a Noi esporre i problemi delle vostre Diocesi e di inviarne relazione ogni quattro anni alla Nostra Congregazione di Propaganda Fide. – Infine, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, Vi supplichiamo di impegnarvi, col massimo zelo e ogni giorno di più, a conservare, favorire e accrescere la pace e la concordia tra tutto il Clero di tutte codeste Diocesi, sia di rito latino, sia di rito greco-cattolico, così che tutti coloro che militano negli accampamenti del Signore, per mutuo sentimento di fraterna carità, si adoperino nel vicendevole rispetto e con unanime ardore siano al servizio della gloria di Dio e della salvezza delle anime. – Ecco a Voi quanto, nel Nostro grande amore per Voi e per i popoli fedeli di codesto vastissimo Impero, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, Noi giudicammo fosse doveroso annunciarvi; abbiamo per certo che Voi, ispirati dalla vostra eminente virtù, dalla religione, dalla pietà, dalla provata fede e dall’ossequio verso di Noi e verso questa Cattedra di Pietro, rispetterete con trasporto questi Nostri paterni desideri. E non dubitiamo affatto che Voi tutti, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, contemplando sempre Cristo Gesù, Principe dei pastori, che si è mostrato umile e mite di cuore e che ha donato la sua anima per le sue pecore, lasciando a noi un esempio che ci invita a seguire le Sue vestigia, vi sforzerete con ogni energia di prenderlo a modello, di obbedire ai Suoi insegnamenti, di vegliare assiduamente sul gregge affidato alle vostre cure, di occuparvi di ogni cosa, di adempiere al vostro ministero, e di cercare non ciò che piace a Voi ma ciò che piace a Gesù Cristo; non vi mostrerete come dominatori tra il Clero, ma come Pastori, anzi come Padri amorosi e, fatti nell’animo a immagine del gregge, non troverete nulla di così penoso, di così difficile, di così arduo che Voi non possiate affrontare e risolvere con pazienza, con mansuetudine, con dolcezza, con prudenza, per la salvezza delle vostre pecore. Noi intanto, in umiltà di cuore, non omettiamo di elevare assidue fervide preghiere al clementissimo Padre di luce e di misericordia, al Dio di ogni consolazione, affinché effonda sempre propizio i copiosi doni della Sua bontà su di Voi e anche sulle dilette pecore a Voi affidate. Come auspicio di questo divino soccorso e come testimonianza della Nostra affettuosa e zelante disposizione d’animo verso di Voi, Noi impartiamo con amore l’Apostolica Benedizione, che viene dal profondo del cuore, a ciascuno di Voi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, e a tutti i Chierici e ai fedeli Laici di codeste Chiese.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 17 marzo 1856, nel decimo anno del Nostro Pontificato.

[Grassetto e colore, sono redazionali]

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
LXIX:2-3
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.
[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]
Ps LXIX:4
Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.
[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam. [O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, de cujus múnere venit, ut tibi a fidélibus tuis digne et laudabíliter serviátur: tríbue, quǽsumus, nobis; ut ad promissiónes tuas sine offensióne currámus.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, poiché dalla tua grazia proviene che i tuoi fedeli Ti servano degnamente e lodevolmente, concedici, Te ne preghiamo, di correre, senza ostacoli, verso i beni da Te promessi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

OMELIA I

 [Mons. Bonomelli: Omelie, Vol. III, Torino 1898; Omelia XXV]

“Tal fiducia noi abbiamo per Cristo presso Dio, non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, come da noi; ma l’attitudine nostra è da Dio, il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non della lettera, ma sì dello spirito; perché la lettera uccide e lo spirito vivifica. Che se il ministero della morte, scolpito in lettere sopra le pietre, fu glorioso, a talché i figli d’Israele non potevano fissare il volto di Mosè per lo splendore passeggero del suo volto, quanto non sarà egli più glorioso il ministero dello spirito? E veramente se il ministero della condanna fu glorioso, quanto più sarà ricco di gloria il ministero della giustificazione? „ (II Corinti, III: 4-9). –

Questi sei versetti noi leggiamo nella Epistola della Messa odierna, e sono tolti dal capo terzo della seconda di S. Paolo ai Corinti. Questa seconda lettera di S. Paolo ai fedeli della Chiesa di Corinto si può considerare come una appendice ed una continuazione della prima, ed una parte non piccola di essa va in difesa personale della sua condotta e del suo apostolato, alternando destramente le lodi ed i rimproveri, i consigli ed i comandi. Dopo aver condonata la pena inflitta allo scandaloso da lui scomunicato nella prima lettera ed esortato i fedeli ad accoglierlo benignamente ed accennati gli incrementi della fede, S. Paolo parla di se stesso, afferma la propria fedeltà nel ministero apostolico, protestando di non lodare se stesso, perché i Corinti stessi con la loro fede erano la sua più bella giustificazione, la lettera più eloquente, che tutti potevano leggere a sua difesa. Qui comincia il brano sopra riportato, che dobbiamo meditare insieme e che non è privo di interesse. Vi piaccia seguirmi con la vostra solita attenzione. – Ve lo dissi più volte, commentando le lettere di S, Paolo, ch’egli dal dì della sua conversione fino alla sua morte, fu sempre fatto segno di feroci persecuzioni: queste gli venivano dai pagani e più ancora dagli Ebrei ostinati, che lo consideravano come un apostata e un traditore. E non era tutto: contro di lui erano pieni di diffidenza, di mal animo e peggio, non pochi Cristiani, passati dalla legge di Mosè a quella del Vangelo: essi dubitavano della purezza della sua dottrina, lo mettevano in mala voce, come un nemico di Mosè, un novatore, un falso apostolo, in opposizione con gli altri Apostoli, e ponevano grave inciampo alla sua predicazione. Questi sospetti ingiuriosissimi, queste accuse e calunnie, questa incessante guerra di coloro, ch’egli chiama falsi fratelli, affliggevano profondamente la sua grand’anima, e più volte amaramente se ne lagna, come in questa lettera. È un prezioso ammaestramento e conforto per quegli uomini, e non pochi, che dai tempi dell’Apostolo furono e sono nella Chiesa, hanno la coscienza di essere suoi figli e suoi ministri fedeli, e non possono cessare le male lingue dei malevoli e degli ignoranti, che li designano come erranti, come prevaricatori o di dubbia fede. Non sarebbe facile trovare un santo solo, massime dei più illustri e posti in alto per l’ufficio, o per l’ingegno, o per le opere, che non abbia sofferto contraddizioni ed anche vessazioni da Cristiani cattolici buoni e talvolta santi. Chi ignora ciò che Origene, S. Giovanni Grisostomo, S. Cirillo di Gerusalemme, S. Cesario, S. Ignazio di Lojola, S. Giuseppe di Calasanzio, S. Francesco di Sales, S. Alfonso de’ Liguori, patirono da persone pie e da Uomini santi! È Dio che lo permette per purificare i suoi servi, per tenerli nella umiltà, e certo non vi è dolore più acuto del sentirsi combattuti dai buoni e tenuti in conto di erranti. Quelli che si trovano in questo caso nella vita, dall’Apostolo Paolo, hanno un conforto ed un modello sicuro da imitare. Ora veniamo al commento della nostra Epistola.

“Noi, così S. Paolo, non alteriamo la parola di Dio, come fanno molti, ma con schiettezza parliamo, in Cristo, come mandati da Dio ed alla sua presenza „ (C. II, 17)… ” e tale fiducia abbiamo per Cristo presso Dio, „ cioè abbiamo ferma ed intima convinzione e persuasione, per la grazia di Gesù Cristo, d’essere sinceri e fedeli annunziatori della divina parola, checché altri possa pensare e dire. E questa attitudine e fedeltà nell’esercizio dell’apostolico ministero, della quale la Chiesa fondata in Corinto è una prova, a chi si deve ascrivere? Di chi ne è il merito? È forse opera tua, frutto delle tue forze naturali, o grande Apostolo? No, no, risponde subito il Dottore delle genti, e con una frase ammirabile riconferma la dottrina cattolica intorno alla gratuità della grazia. Uditela: “Non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, ma la nostra attitudine è da Dio. „ È dottrina di fede, o cari, che senza l’aiuto della grazia divina noi non possiamo fare nulla che meriti la vita eterna: svolgiamo alquanto più largamente questa verità. – Dio Creatore ci ha dato il corpo coi suoi sensi e l’anima con la sua intelligenza e volontà libera, e tutte le cose esterne necessarie od utili a conservare la vita e perfezionare l’essere nostra: tutti questi beni si dicono naturali e costituiscono quello che chiamiamo ordine naturale. Ora avevamo noi qualche diritto, qualche merito, perché Iddio ci creasse e ci elargisse i doni della natura? Nessun diritto, nessun merito, benché minimo: basti dire che non esistevamo nemmeno e perciò nulla potevamo fare. É con i doni della natura, con l’uso della nostra intelligenza, volontà e libertà, con le opere proprie delle sole nostre forze possiamo noi, o cari, meritare la grazia divina, anche nella minima misura? No, mai. La natura con le sue opere non può meritare se non ciò che è naturale, non mai ciò che è sovrannaturale. Ditemi: l’albero selvatico potrà esso mai produrre altri frutti che selvatici? No, per fermo. Volete che produca frutti domestici, copiosi, dolci a gustarsi? Innestatelo e li avrete. Il somigliante accade della nostra natura: abbandonata a sé non dà che frutti selvatici, agresti, acerbi: fate che abbia la grazia divina, che la illumina, la eleva, la trasforma: eccovi i frutti di vita eterna. Come senza la natura non potevamo fare cosa alcuna nell’ordine naturale, non pensare, non volere, non operare; cosi senza la grazia non possiamo né pensare, né volere, né operare in ordine alla vita eterna. L’occhio senza la luce può esso vedere cosa alcuna? Il campo senza il seme può produrre una sola spiga? Così noi senza la luce della grazia, senza il germe della grazia, siamo al tutto impotenti a conoscere, amare e possedere Iddio come si deve. Questa è necessaria a principio, è necessaria a mezzo, è necessaria in fine, necessaria sempre. Prima di fare una cosa bisogna conoscerla, bisogna pensarla; senza conoscerla, senza pensarla è impossibile il farla, voi lo comprendete: dunque prima di amare e servire Iddio e praticare la virtù, è necessario conoscere e pensare a Dio, conoscere e pensare la virtù, come è necessario il fondamento per fabbricare. Ebbene S. Paolo ci fa sapere che da noi, con le sole nostre forze non siamo capaci nemmeno d’un primo buon pensiero: Non quod sufficientes simus cogitare aliquid a nobis quasi a nobis; se lo siamo, lo siamo perché Dio con la sua grazia ce lo concede: Sed sufficientia nostra ex Deo est. Questa verità dovrebbe fiaccare il nostro orgoglio, farci sentire il nostro nulla e costringerci a gettarci nelle braccia della divina misericordia, unica nostra speranza. Vedo io in me alcun bene, qualche virtù? Devo dire: Non è cosa mia, è dono, tutto e puro dono di Dio. S’Egli ritira il suo dono, la sua grazia, tutto si dilegua, ed io cado nell’abisso, come il sasso che la mano dell’uomo lascia cadere nel precipizio. – Seguitiamo l’Apostolo. Tutto ciò che ho, la dignità di Apostolo e l’attitudine ad adempirne le parti tutte, non è cosa mia: è dono di Dio. scrive S. Paolo: dono di Dio, “il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non secondo la lettera, ma sì secondo lo spirito. „ Non vi è religione, né vera, né falsa, che non abbia il suo sacerdozio e i suoi ministri, come non vi è Stato, sia monarchico, sia repubblicano, che non abbia i suoi magistrati. Abbiamo il vecchio Testamento o il Mosaismo, e con esso abbiamo il suo sacerdozio e i suoi ministri: abbiamo il nuovo Testamento o il Cristianesimo, e con esso il nuovo sacerdozio e i nuovi ministri. È chiaro che il sacerdozio e i ministri della legge mosaica dovevano informarsi allo spirito di quella legge, come il sacerdozio ed i ministri della legge evangelica devono informarsi allo spirito di questa, precisamente come i magistrati civili si devono informare allo spirito della legge, della quale sono interpreti. S. Paolo dichiara, che Dio ha fatto di lui e dei suoi colleghi altrettanti ministri idonei del nuovo Testamento. – E qual è lo spirito del nuovo Testamento e per conseguenza dei suoi ministri? In che sta la differenza tra l’antico ed il nuovo Testamento, tra i ministri di quello e di questo? Eccovela scolpita in due parole con lo stile sì incisivo dell’Apostolo: “Non secondo la lettera, ma secondo lo spirito: „ Non littera, sed spiritu. L’antica legge mosaica è la lettera, la nuova cristiana è lo spirito. Non era possibile ritrarre più al vivo l’indole dei due Testamenti. – Spieghiamola alquanto. La legge antica o mosaica rimaneva al di fuori dell’uomo, riguardava più il corpo che lo spirito; purificazioni continue del corpo, dei vasi sacri, offerte materiali, continui ed innumerevoli sacrifici, oblazioni, riti senza fine e minutissimi e sotto pene gravissime, e andate dicendo: erano tutti atti esterni, era tutto culto e tutta religione esterna principalmente, che dell’interno quel popolo ben poco si curava, anche perché ben poco ne capiva. La legge, nuova o cristiana, va direttamente all’interno, riguarda principalmente lo spirito, esige la purezza del cuore, e senza rigettare, anzi imponendo anche il culto esterno, lo fa servire all’interno, vuole l’ossequio della mente e del cuore, inculca la rinnovazione dell’uomo interiore; insomma proclama, che Dio è spirito e che perciò Dio vuole adoratori in ispirito e verità. Ecco la differenza essenziale tra la legge mosaica e la cristiana. – Ma l’Apostolo chiarisce ancor meglio il suo pensiero con un’altra sentenza, soggiungendo: “Poiché la lettera uccide e lo spirito per contrario vivifica: „ Littera enim occidit, spiritus autem vivificat. Come mai si può dire che la lettera, cioè l’antica legge uccide, e lo spiritò, cioè la legge evangelica vivifica? Lo spiegano i Padri, e tra questi S. Agostino e S. Ambrogio. La legge antica o mosaica si contiene nei cinque libri di Mosè, e più particolarmente nel libro del Levitico, che determina le leggi e le cerimonie sacre. Pigliatelo in mano, percorretelo, e voi troverete che ogni trasgressione, ha la sua pena e grave, e assai volte la pena di morte. Chi bestemmia, sia messo a morte: a chi lavora in sabato, la morte: a chi dice ingiuria ai genitori, la morte: a chi commette adulterio, la morte: al falso profeta, la morte, e via via di questo tenore: era, possiamo dirlo, una legge scritta col sangue, e necessaria per raffrenare quel popolo riottoso e di dura cervice. – Pigliate in mano il Vangelo: esso intima ai peccatori ostinati le pene della vita futura, anche eterne, ma neppure una sola volta la pena di morte nella vita presente. Il Vangelo vuole la conversione del peccatore e non la morte, si impone con la persuasione, non con la forza, a dir breve, è legge d’amore e non di timore, di figli, non di schiavi. – In queste due sentenze dell’Apostolo, noi abbiamo messa in tutta la loro luce la natura della legge mosaica e della evangelica. Permettetemi una domanda, o dilettissimi. Certo la legge mosaica è cessata, è abrogata, ed a quella Gesù Cristo ha sostituita la sua, la evangelica: ma benché la legge mosaica, la legge della lettera, sia cessata ed abrogata, ditemi, è dessa cessata al tutto nella pratica tra i Cristiani? Duole il dirlo, ma bisogna confessarlo; essa è ancor viva in molti senzaché se ne accorgano. Tali sono coloro, che recitano molte e lunghe orazioni con le labbra, e non si curano di accompagnarle con la mente e col cuore: tali sono coloro che osservano le astinenze dalle carni nei giorni stabiliti, che ascoltano la S. Messa la festa, che digiunano anche, ed hanno il cuore e la mente pieni di immondezze, opprimono i poveri, bestemmiano, rubano a man salva, odiano i fratelli, ne lacerano la fama e si reputano buoni Cristiani: tali sono coloro che vanno ai Sacramenti, anche frequentemente, e non fanno sforzo alcuno per reprimere le passioni e praticare la virtù, e credono d’aver fatto ogni loro dovere: quelli che abbondano in pratiche religiose, tridui, ottave, novene, benedizioni, prediche, pellegrinaggi e andate discorrendo, e si rifiutano al più lieve sacrificio per vincere se stessi, per combattere l’amor proprio, per esercitare la carità, regina di tutte le virtù. La religione di costoro è la religione degli Ebrei, degli scribi, dei farisei, tante volte e con frasi sì roventi folgorata da Cristo: è religione tutta esterna, religione del corpo, non dello spirito, che riempie di superbia chi la pratica, tutte foglie e frasche inutili. Carissimi! guardiamoci da siffatta religione, e studiamoci di unire alle pratiche esterne, che sono la lettera, la fede, la speranza, la carità, che sono lo spirito, e allora vivremo. – Ripigliamo il nostro commento. In questi versetti S. Paolo istituisce un parallelo o confronto tra l’antica legge mosaica e la nuova legge cristiana, fra il sacerdozio di quella e il sacerdozio di questa, affine di mostrare la eccellenza del secondo sul primo, e prosegue: “se il ministero della morte, cioè la legge mosaica, sì terribile contro i suoi trasgressori, che spesso colpiva di morte; legge scritta materialmente sopra tavole di pietra, fu gloriosa, massime nel suo promulgatore Mosè , il quale scendendo dal Sinai ne riportò raggiante il volto, sicché il popolo d’Israele non poteva sostenerne la vista, legge ch’era pure destinata a scomparire: se quella legge, se quel ministero, dico, fu glorioso, quanto più gloriosa sarà la legge nuova, il nuovo ministero, che è tutto spirituale e che deve durare fino al termine dei secoli? E non è ancor pago l’Apostolo d’avere magnificato il ministero evangelico sopra il mosaico con sì gagliarde espressioni: egli, nel versetto che segue ed ultimo della nostra lezione, ritorna sulla stessa verità, e con altre parole la ribadisce, scrivendo: E veramente, se il ministero della condanna, cioè se la legge mosaica sì facile alla condanna, alle pene corporee, alla stessa morte, fu nondimeno grande e glorioso, quanto sarà più glorioso il ministero della nuova legge, che cancella i peccati, che giustifica i peccatori, che rigenera le anime e trasforma i figli degli uomini in figli di Dio ed eredi della sua gloria? In altri termini: il ministero dell’antica legge ebbe gran gloria, specialmente nella persona di Mosè, che vide Dio, udì la sua parola e ne riportò sfolgorante il volto: ebbe gran gloria, benché fosse sì severo contro i trasgressori, dovesse finire ed avesse in mira più che la purificazione delle anime, quella dei corpi: sé tale fu quel ministero, quanto più glorioso deve essere questo della nuova legge, istituito da Gesù Cristo stesso, che non infligge pene materiali ai trasgressori, sì benigno, sì paterno, che durerà fino al termine dei secoli, e che è ordinato a santificare direttamente le anime? Ebbene: questo è il ministero mio, il ministero, che ho ricevuto, non dagli uomini, ma da Gesù Cristo stesso, e che io ho esercitato in mezzo a voi e continuerò ad esercitare finché abbia filo di vita, come implicitamente, ma chiaramente, innanzi S. Paolo protesta. In sostanza, in queste sentenze e nelle seguenti, S. Paolo è tutto inteso a mettere in rilievo la sua dignità e il suo ufficio di apostolo della nuova legge sulla dignità ed ufficio dei ministri della legge antica. – A noi forse può sembrare alquanto strana questa condotta dell’Apostolo, e non ne comprendiamo tutta l’importanza e la necessità. Ma se ci trasportiamo ai suoi tempi; se consideriamo le lotte ch’egli doveva sostenere coi cristiani giudaizzanti, che volevano legare la legge evangelica alla mosaica e restringere il benefìcio della redenzione operata da Cristo ai soli figli d’Israele e chiudere le porte ai Gentili, noi comprenderemo la ragione di queste sì frequenti e sì gagliarde difese, che l’Apostolo fa del suo ministero. Si trattava non della sua persona, ma della verità, dell’avvenire della Chiesa, che si voleva sottomessa alla Sinagoga, e l’Apostolo, che vedeva tutto il pericolo, leva la sua voce, non risparmia questi apostoli, che, ignoranti o perversi, col nome di Mosè in bocca, ponevano inciampo gravissimo alla fede e turbavano e confondevano le menti dei deboli. – Miei cari, una riflessione opportuna ai nostri tempi, ed ho finito. La Chiesa di Gesù Cristo, dai tempi di san Paolo a noi, ebbe sempre le sue prove e le sue lotte, e le avrà finché sarà sulla terra. Queste lotte variano secondo i tempi, i luoghi, le persone e le circostanze: ora sono intense e feroci, ora più lievi e più blande, ma non cessano mai, ed è nella natura delle cose che durano, e Gesù Cristo apertamente le predisse. L’ombra segue sempre il corpo, e le infermità più o meno sono compagne dei sani e robusti; così l’errore cammina sempre a fianco della verità, la insidia e la combatte, e gli apostoli di quello non danno mai tregua agli apostoli di questa. Vogliamo o non vogliamo, noi tutti siamo trascinati in questa lotta, che sì fieramente si combatte tra i seguaci dell’errore e quelli della verità, tra gli apostoli del mondo e quelli di Gesù Cristo. Che fare, o dilettissimi? Noi, per uscirne vincitori, dobbiamo tener sempre fisso l’occhio sulle guide sicure che ci dà la Chiesa, porgere l’orecchio docile alla loro parola e chiuderlo alla parola di quelli che si vantano maestri, sì, ma non ci sono dati dalla Chiesa. – I fedeli, al tempo di S. Paolo, come rimasero fedeli alla verità ed al Vangelo di Gesù Cristo? Ascoltando e seguendo il grande Apostolo, che aveva ricevuto direttamente da Cristo la sua missione, e volgendo le spalle a quelli che pur venivano da Gerusalemme e si gloriavano d’essere maestri di verità. Forse saranno stati dotti e valenti, più dotti e più valenti, se volete, di S. Paolo, nelle lettere e nelle scienze umane, la cui parola, egli stesso lo confessa, era incolta e spregevole; ma non dimentichiamolo mai, o carissimi, perché il bisogno è grande anche al giorno d’oggi, la verità della fede non è congiunta per volere di Cristo alla scienza, all’ingegno, ai doni naturali, ma è affidata a quelli che tengono la missione da Cristo stesso, ai Vescovi in comunione col Vescovo dei vescovi, il Romano Pontefice. Se volete conservare con sicurezza il tesoro della fede in mezzo a questo turbine di opinioni e di dottrine che mutano sì spesso, non ascoltate quelli che dicono: “Noi siamo con Paolo, e noi con Apollo, e noi con Pietro, e noi con Cristo, come si diceva ai tempi di Paolo stesso; ma ascoltate veramente Paolo e Apollo e Pietro, quelli cioè che nella Chiesa hanno l’ufficio di ammaestrarvi e guidarvi, e questi vi condurranno a Cristo, che è la verità stessa. Forse non mai, come al presente, fu sì necessaria l’ubbidienza ai pastori della Chiesa, che stanno uniti col Pastore supremo, perché forse non mai come al presente, si cercò di sostituire alla sacra gerarchia l’opinione pubblica, all’autorità che viene da Dio, l’ingegno e l’autorità umana, all’insegnamento dei pastori legittimi quello dei dottori privati! [Volentieri avrei aggiunto alla parola dei vescovi quella dei giornalisti, divenuti oggimai i maestri e le guide del popolo. Il giornalismo è una necessità nelle condizioni attuali: ma è un pericolo, e parlo del giornalismo che si dice cattolico. Talvolta senza che altri se ne avvedano il giornalismo cattolico (cioè quei preti o laici, che lo dirigono) si sostituisce al Vescovo ed esercita una influenza pericolosa, sconvolgendo il principio gerarchico.]

Graduale
Ps XXXIII:2-3.
Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.
[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]
V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.
[La mia ànima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps LXXXVII:2
Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.
[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

.Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc X:23-37
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo?
At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

OMELIA II

[Mons. Bonomelli, ut supra, om. XXVI]

“Gesù disse ai suoi Apostoli: Beati, gli occhi, che vedono le cose che voi vedete. Perché vi dico che molti profeti e re desiderarono di vedere le cose che voi vedete, e non le videro, ed udire le cose che voi udite, e non le udirono. Allora sorse un cotal dottore della legge e tentandolo, disse: Maestro, qual cosa farò io per avere la vita eterna? Ed Egli disse: Che sta scritto nella legge? come vi leggi? E quegli rispondendo disse: Amerai il Signore, Iddio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze, con tutta la tua ménte, e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: “Bene hai risposto; fa questo e vivrai”. Ma quel tale, volendosi giustificare, disse a Gesù: “E chi è mai il mio prossimo?” Allora Gesù, replicando, disse: Un certo uomo discendeva da Gerusalemme in Gerico, diede nei ladri, che lo spogliarono ed anche feritolo, se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Ora avvenne per caso, che un certo sacerdote scendesse per quella via, e vedutolo, passò oltre. Similmente fece un levita; venuto presso a quel luogo, e vedutolo, anch’esso passò oltre. Ma un Samaritano, viaggiando, venne presso di quello, e vedutolo, n’ebbe pietà; ed accostatosi, fasciò le sue ferite, versandovi dell’olio e del vino e messolo sul suo giumento, lo menò all’albergo e si prese cura di lui. E il dì appresso, sborsati due denari, li diede all’oste e gli disse: Abbi cura di lui, e quanto avrai speso di più, ritornando, te lo darò. Di questi tre, chi ti pare essere stato prossimo a colui che cadde nei ladri? E quegli disse: Colui che gli usò misericordia. E Gesù a lui: Va, e tu pure fa allo stesso modo „ (S. Luca, X, 23-37).

Tra le parabole, che si leggono nel Vangelo, questa senza fallo è una delle più belle e più care, fu e rimarrà sempre come un modello inarrivabile per la naturalezza ed efficacia e per l’altissima dottrina, che vi si racchiude. Prima di chiosarla è mestieri vedere il nesso cogli antecedenti per comprendere il perché della domanda fatta a Gesù dal dottore della legge; domanda che provocò la parabola del Samaritano. – Gesù aveva mandato i settantadue discepoli a predicare a coppie nelle città e nei villaggi dov’Egli era per andare. Compiuta la loro missione, essi ritornarono esultanti a Gesù, narrando ciò che avevano fatto. Gesù pure ne fece gran festa, ne ringraziò con grande ardore il Padre, e disse ai discepoli, che dovevano godere più assai perché i loro nomi erano scritti in cielo, vale a dire erano sicuri, corrispondendo d’avere la vita eterna. Poi, rivoltosi ancora ad essi, pronunciò le parole, con le quali comincia l’odierna lezione e che sono per ispiegarvi. – Gesù, rivolto ai suoi discepoli, disse: Beati gli occhi, che vedono le cose che voi vedete. Perché vi dico, che molti profeti e re desiderarono di vedere le cose che voi vedete, e non le videro, ed udire le cose che voi udite, e non le udirono. „ – Tutto l’antico Testamento era una preparazione al nuovo; tutti i riti, tutti i sacrifici, tutti i simboli, tutti i vaticini dell’antico Testamento, come raggi nel centro, si appuntavano nel nuovo, e più propriamente in Gesù Cristo, che ne è l’autore e consumatore. Il Messia, cioè Gesù Cristo, è il fine della legge antica, scrive S. Paolo: Finis legis Christus. Egli è il termine fisso dell’eterno consiglio, Egli è il punto, nel quale tutto si incentra, Egli il sospiro, l’aspettazione, il desiderio dei secoli. Chi può dire con quali affocate brame i patriarchi, i profeti, i santi dell’antico Patto sospirarono la sua venuta! Abramo, Giacobbe, Mose, Davide, Elia, Isaia, Geremia, Daniele e tutti i santi e profeti lo invocarono e desiderarono di vederlo, e intravedendolo attraverso i secoli, lo salutarono da lungi, dice S. Paolo: Salutantes a longe. Àbramo, dice Cristo, vide la mia venuta, e ne gioì: Abraham exultavit, ut videret diem meum; vidit, et gavisus est. Ebbene, esclama Cristo, stendendo le braccia ai suoi cari Apostoli e mirandoli con occhi pieni d’amore; ciò che quei grandi desiderarono di vedere e non videro, di udire e non udirono, voi lo vedete, voi l’udite. Qual grazia, qual gloria è la vostra, e perciò come grande è il dovere della vostra gratitudine! Dilettissimi! Se grande, ineffabile fu la grazia concessa agli Apostoli di vedere e di udire il Piglio di Dio nell’assunta natura, non è minore la nostra, che viviamo tanti secoli dopo di loro. Noi pure, come gli Apostoli, udiamo lo stesso Gesù, leggendo nei Vangeli le sue parole e la sua dottrina; noi possediamo lo stesso Gesù, lo tocchiamo, lo riceviamo dentro di noi stessi nel mistero d’amore, la S. Eucaristia. Tra noi e loro non vi è differenza alcuna sostanziale, perché noi pure al pari di essi possediamo Gesù; essi nella sua forma umana visibile, noi sotto le ombre eucaristiche, sotto le specie del Sacramento; se v’è differenza è quella del modo, non della sostanza, ondechè a noi pure sono rivolte quelle parole di Gesù Cristo: “Beati gli occhi che vedono le cose che voi vedete. Perché vi dico che molti profeti e molti re desiderarono di vedere le cose che voi vedete, e non le videro, di udire le cose che voi udite, e non le udirono. „ Queste parole Gesù disse agli Apostoli, ma insieme con essi, v’era molta gente, e in mezzo ad essa, come quasi sempre, scribi e farisei. Costoro lo seguivano, come sappiamo dal Vangelo, non per udire la parola di vita e di verità che usciva dalle sue labbra, ma per coglierlo in fallo, accusarlo e perderlo. Vedete cecità e malignità di quella gente, che istruita nella legge e nei profeti, doveva essere la prima a riconoscere la sua divina missione, e invece non pure non lo seguiva, ma faceva ogni opera affine di allontanare da Lui il povero popolo. A tanta cecità di mente, a tanto pervertimento di volontà può trascinare la superbia! Che avvenne? In mezzo a quella folla era un dottore della legge, o scriba; costui, argomentandosi di poter pure trarre di bocca a Gesù qualche risposta meno misurata e che gli fornisse appiglio a qualche accusa, gli mosse una domanda. Aveva poco prima udito da Cristo, che i suoi discepoli dovevano essere lieti, perché i loro nomi erano scritti in cielo, sui libri della vita eterna; afferrata questa idea della vita eterna, il legista disse a Gesù: “Maestro, che farò io per avere la vita eterna, della quale or ora hai parlato? „ Per fermo il legista lo sapeva bene: Osserva i comandamenti della legge divina; ma nella sua malizia sperava che Gesù avrebbe aggiunta qualche altra cosa ed avrebbe porto occasione ad accuse. Pensate quanto Gesù doveva soffrire, vedendosi costantemente circondato da questa gente che l’odiava, che gli tendeva lacci e ordiva sempre nuove insidie a suo danno! Eppure Egli taceva, lo soffriva e si studiava di far penetrare la luce della verità in quelle menti ed in quei cuori pervertiti. Gesù prontamente rispose: “Tu sei dottore della legge e la devi ben conoscere, dimmi dunque: “Che cosa sta scritto nella legge? Come vi leggi? „ E il legista: ”    Amerai il Signore Iddio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso. La risposta non poteva essere più netta e precisa: essa è il succo di tutto l’insegnamento divino. Gesù rispose al legista: “Bene hai risposto: fa’ questo e vivrai, „ cioè anche il nome tuo sarà scritto nella vita eterna. – Non è d’uopo ripetere qui ciò che dissi più volte altrove, cioè che l’amore di Dio, quando sia vero amore, porta necessariamente al perfetto adempimento di tutta la legge, della volontà divina, ond’è verissimo, che chi ama, ha osservata tutta la legge ed è sicuro della propria salvezza. Questa risposta di Gesù troncava ogni questione e poneva il legista nella impossibilità di proseguire le sue domande suggestive ed insidiose, e lo svergognava dinanzi alle turbe. Ma egli non si diede per vinto, e volendo coprire il suo mal animo e la sua disfatta, s’appigliò a quell’ultima parola: “Ama il tuo prossimo come te stesso; „ atteggiandosi a discepolo, che ha bisogno d’essere chiarito dal maestro sopra qualche punto più difficile, disse: “Chi è poi il mio prossimo?„ Il legista doveva conoscere almeno in confuso l’insegnamento di Cristo per ciò che spettava l’amore del prossimo, e come la sua Dottrina, su questo punto del prossimo, fosse diversa dalle grettezze giudaiche (Si sa che i Giudei insegnavano che il prossimo erano gli stessi Giudei: quanto agli altri popoli, agli stranieri, le loro idee non erano bene determinate; in sostanza essi consideravano tutti gli stranieri come nemici, e pare che reputassero lecito odiarli. ” Odio habebis inimicum tuum. „) ed abbracciasse tutti gli uomini e perciò non gli parve fuori di proposito il tentarlo su questo argomento, dicendogli: ” Chi è poi il prossimo mio? „ Cristo risponde con la parabola,, onde la risposta alla domanda è lasciata al legista stesso ed alla moltitudine, e non poteva essere dubbia, tanta è la evidenza della verità. ” Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e diede nei ladri, i quali lo spogliarono, e per di più, feritolo, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. „ Gerusalemme è posta sopra una catena di colline di più che discreta altezza, a 700 metri circa sul livello del mare. Di là scendeva una gran via verso la valle del Giordano che passava per la città di Gerico e metteva ai paesi oltre il Giordano stesso: il tratto di via fra Gerusalemme e Gerico, di 20 kilometri circa, era infestato da ladroni, e v’era un luogo, tra gli altri famoso per latrocini ed assassinii, chiamato Adommim, che vuol dire: Luogo di sangue, come attesta S. Girolamo. È noto che la Giudea è un paese assai montuoso, quasi tutto a colli, oggidì pressoché nudi e rocciosi. Vi sono frequentissime le spaccature e le caverne, e in esse trovavano facile nascondiglio, i ladroni e gli assassini. Gesù dunque immagina che un uomo parta da Gerusalemme e percorra la via di Gerico. Badate che scopo di Gesù è di mostrare, rispondendo al legista, che qualunque uomo sia Giudeo, sia Gentile, ci è prossimo; e per questo Egli non dice: Un Giudeo, ma un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Che avvenne? Giunto ad un certo luogo, una banda di ladroni sbucò dai suoi nascondigli, si gettò sul mal capitato viandante, lo spogliò d’ogni cosa: non furono paghi quegli scellerati ladroni: lo crivellarono di ferite, e così com’era, coperto di sangue e mezzo morto, lo lasciarono in mezzo alla via e sparvero. Il misero giaceva sulla via, impotente a muoversi, a chiedere soccorso, aspettando la morte inevitabile. Poco appresso si ode un rumore di passi che lentamente si avvicinano. Chi è? È un sacerdote che, avvolto nella sua ampia e maestosa veste, s’avanza. Egli si avvicina, china l’occhio sul misero, disteso sulla via, lo guarda e poi senza fermare il passo, freddo ed imperturbabile, prosegue il suo cammino. Non una parola, non uno sguardo di pietà per quello sventurato. Era da poco passato il sacerdote, ed ecco per la stessa via, giungere un altro viandante: egli è un levita (Il sacerdote compiva i riti sacri per ufficio suo; il levita èra il suo aiutante, presso a poco quello che sono oggidì i diaconi, i suddiaconi e gli altri ordini minori, che servono ai sacerdoti): anch’egli, come il sacerdote a passo grave e lento s’appressa, volge lo sguardo al giacente, ma non si china a sollevarlo, non si ferma, non gli muove una domanda, e con aria non curante, continua il suo viaggio. Chi non sente ribollire il sangue e fremere indignata l’anima al vedere l’indifferenza, dirò meglio, la crudeltà, di questo sacerdote e di questo levita? Evidentemente Gesù volle proporre in questi due, il tipo della indifferenza e della durezza di cuore, per due ragioni principalmente: in primo luogo, il ministero sacro imponeva al sacerdote ed al lievita, un obbligo maggiore di esercitare la carità, e quella indifferenza crudele diventa più detestabile; in secondo luogo, Gesù volle mettere a nudo la falsa religione dei sacerdoti e leviti d’allora: tutti intenti alle pratiche materiali della religione, alle cerimonie, alle abluzioni, ai sacrifici, alle lunghe orazioni, dimenticavano il fondo della religione vera, che è la carità. Gesù qui con la parabola rafferma quella dottrina che tante volte ha inculcato, vale a dire, che bisogna badare all’interno, al cuore, alle opere, e non alle apparenze. La parte che in questa parabola rappresentano il sacerdote ed il levita, fa ribrezzo ed essi non ricevettero mai rampogna più sanguinosa di questa e più meritata, e si comprende come il ceto sacerdotale giudaico e i farisei, ch’erano pressoché tutti dello stesso taglio, dovessero sentirsi trafitti, ne fremessero ed in cuor loro giurassero di farne aspra vendetta. E si comprende anche come gli ebbero a gettare in faccia l’accusa di Samaritano, dicendogli: “Non diciamo noi bene che tu sei Samaritano, cioè scismatico eretico, nemico della legge mosaica? Il povero spogliato e ferito era ancor là sulla strada immerso nel suo sangue e invano chiedente aiuto. Ed ecco sopravvenire un terzo viandante, laico; esso cavalcava un giumento: era un Samaritano. Voi lo sapete, i Samaritani vivevano nell’errore, e lo disse Cristo in termini alla Samaritana (Capo IV di S. Giov.). Per schiatta, per lingua e per religione differenti dai Giudei, erano in odio a questi più che gli stessi Gentili, ed una delle maggiori ingiurie, che i Giudei potessero gettare in faccia ad un uomo, era il dirgli: Tu sei Samaritano. I Samaritani per i Giudei erano eretici, scismatici e tutto quel peggio che si possa immaginare. Il Samaritano, dice Cristo, giunse sul luogo, vide quel meschinello, che ingombrava la via e gemeva pietosamente; fermò tosto il suo giumento e gettategli le briglie sul collo, scese di sella e corse sopra il misero: lo sollevò da terra, scoperse le ferite sanguinolenti, le lavò, vi sparse sopra vino ed olio, le fasciò, e poi, levatolo di peso, lo pose sul proprio giumento, e camminando esso a piedi e conducendo l’umile sua cavalcatura, giunse al primo albergo, prese cura di lui e lo fece adagiare in letto. Il giorno dopo, messi fuori due denari, circa cinque lire delle nostre, le diede all’oste, e gli disse: ” Abbi cura di lui, e quanto di più avrai speso, ritornando, te lo darò. „ Molte cose sono qui da osservarsi, che il Vangelo lascia intendere e che noi dobbiamo accuratamente considerare. Gesù volle raffigurare nel Samaritano la carità per svergognare maggiormente i sacerdoti e leviti ebrei, che non ne avevano; mettendo loro innanzi l’esempio d’un eretico e d’un laico e umiliando così il loro orgoglio. Il Samaritano non guarda, né cerca se il ferito sia Samaritano, o Giudeo, o Gentile, se sia buono o cattivo, ricco o povero, se gli sarà grato o ingrato; vede un uomo che soffre, che muore; non bada ad altro, lo aiuta come meglio può, e per lui non risparmia nulla e mette mano alla borsa. La nostra carità, osservando pur sempre l’ordine voluto dalla natura e dai vincoli del sangue e dell’amicizia, non deve escludere alcuno, ma tutti abbracciare, perché tutti sono creati da Dio ed immagini sue. Il Samaritano era nell’errore, era fuori della vera religione. Gesù Cristo, facendone un modello di carità, volle forse sancire l’errore? Volle forse stabilire l’indifferenza in materia di religione e quasi riconoscere quella massima assurda ed empia, che oggi si professa da taluni, cioè che tutte le religioni son buone: che non importa tener questa più che quella, purché siamo onesti e facciamo carità, amandoci scambievolmente? Sarebbe orribile bestemmia pure il pensarlo! Se tutte le religioni sono egualmente buone, perché mai Gesù Cristo venne sulla terra ad insegnarci la sua? Perché mai mandò gli Apostoli a predicare dovunque il Vangelo? Perché non lasciò ciascun popolo nella sua religione, i Giudei nel giudaismo, i pagani nel paganesimo? Perché mai proclamò altamente che chi non avesse creduto alla sua dottrina, sarebbe condannato? Gesù Cristo dunque con la parabola del Samaritano non intese, né poté intendere di insegnare che tutte le religioni sono eguali e ch’Egli considera come suoi seguaci e suoi figli tutti quelli che esercitano la carità, quale che sia la religione che professano. Lodò la carità del Samaritano, la propose come esempio. in quel senso stesso in cui lodò il fattore ladro ed eccitò ad imitare la prudenza dei figli delle tenebre. Lodò l’opera del Samaritano e volle darcelo come modello da imitare, non nella dottrina che teneva, ma nella carità, che adempiva: di quella tacque, questa encomiò; e di quella tacque, perché i suoi uditori la tenevano per falsa e non v’era bisogno di istruirli, e di questa fece l’elogio, perché o la ignoravano, o, conoscendola, malamente la osservavano. Questa parabola di Gesù non solo ci insegna che la vera carità è quella che si mostra nelle opere, ma stabilisce eziandio ch’essa, pur serbando sempre l’ordine voluto dalla natura e dalla fede, considera come fratelli tutti gli uomini, anche d’altre nazioni e d’altra religione. L’uomo, sia turco, sia tartaro, sia civile, sia barbaro, sia credente, sia miscredente, è sempre uomo, è sempre creatura di Dio e fratello nostro, e per esso ancora è morto nostro Signore. È dunque nostro dovere amarlo ed aiutarlo secondo le nostre forze. –  Un giorno ad un Vescovo si presentava un povero, chiedendogli la elemosina: il Vescovo gli pose in mano cinque lire. Il povero, tenendo sulla palma della mano le cinque lire e fissando gli occhi in volto al Vescovo, gli disse: “Monsignore, sappia ch’io sono israelita. E che perciò, rispose il Vescovo. – Eccovi altre cinque lire, „ e le lasciò cadere sulla palma della mano, che l’israelita teneva aperta —. Ecco un Vescovo che conosceva il Vangelo di Gesù Cristo. – Direte: E pur sempre vero da questa parabola, che le persone che possedevano la vera religione e più degli altri la dovevano osservare, come erano i sacerdoti ed i leviti, non la osservavano; e il Samaritano, che era un eretico e scismatico, notoriamente in una falsa religione, ne osservava e perfettamente il precetto fondamentale, che è la carità. Come dunque si spiega questa contraddizione manifesta di avere da una parte la vera Religione senza le opere della vera Religione, e dall’altra la falsa religione e con essa le opere proprie della vera Religione? A che serve dunque avere una religione, sia vera, sia falsa? Non neghiamo che molti vivono nella vera Religione e la professano con le parole e la rinnegano con le opere, come già diceva san Paolo: Fide fatentur se nosse Deum, factis autem negant. E che perciò? Un architetto conosce benissimo l’architettura, e costruisce assai male una casa: diremo noi che è inutile l’architettura e la rigetteremo ? Un avvocato conosce profondamente la legge, ma ne usa a danno altrui ed a proprio disonore: diremo noi che la scienza della legge è inutile, anzi cattiva? Non mai. Conoscere la verità, conoscere i doveri verso Dio, verso gli altri, verso se stesso è cosa buona e necessaria, giacché se non li conosciamo è impossibile osservarli: la Religione ce li fa conoscere prontamente e con sicurezza; è dunque buona, santa e necessaria cosa. Se molti non osservano la Religione, ciò prova soltanto che l’uomo può abusare della sua libertà, e conoscendo il dovere, lo può calpestare; prova che la volontà può andare a ritroso della intelligenza, che si può vedere la via retta e mettersi per la via che mena al precipizio. Se valesse l’argomento di coloro che dicono: Molti professano la Religione e fanno opere cattive, come se non la professassero, si potrebbe con egual diritto rispondere: Tutti hanno la ragione, che insegna ad adempire i doveri naturali, e molti non si curano di osservarli: molti sono forniti d’alta scienza e sono cattivi, corrotti e corrompitori, mentre altri che ignorano l’alfabeto, sono eccellenti cittadini e uomini virtuosi: dunque, via la ragione, abbasso la scienza! Voi vedete che questo sarebbe un fare oltraggio alla ragione ed allo stesso comune buon senso. Dunque concludiamo: è vero, molti che professano la vera Religione, operano male; e ciò forma la loro condanna: operano male, perché non la osservano: essa è sempre buona e santa, ed essi sono malvagi. Il sole cessa forse d’essere un immenso beneficio per tutti, perché alcuni sotto la piena sua luce si gettano sbadatamente o volontariamente in un precipizio? Ma intanto sta il fatto, che alcuni, i quali vivono nell’eresia, nello scisma e forse anche nella miscredenza, praticano la virtù come e meglio dei Cattolici, come insegna Cristo stesso nella parabola odierna. E noi siamo lungi dal negarlo, anzi lo riconosciamo volentieri. E ciò che prova? Prova ciò che la Chiesa ha sempre insegnato ed insegna, cioè che l’uomo con le sole forze della natura può fare alcune opere buone naturali e meritare una ricompensa naturale. L’uomo, anche senza la fede cristiana e fuori della Religione Cattolica, può conoscere molte verità, che perfettamente si insegnano dalla Chiesa Cattolica: conoscendole, può metterle in pratica, ed eccovi alcune opere buone, eccovi le virtù degli eretici, degli scismatici, degli increduli. Il perché tutte quelle virtù che esercitano coloro che sono fuori della Chiesa Cattolica, intanto le esercitano in quanto che senza volerlo e quasi senza porvi mente, hanno comune con la Chiesa Cattolica il conoscimento di quelle virtù stesse, ossia in quanto che intorno a quelle, senza saperlo, sono Cattolici. Piaccia a Dio, che costoro, amando i frutti, amino altresì la pianta, cioè praticando alcune virtù, entrino in quella Chiesa che ne è la madre. Gesù, recitata la parabola, volto al legista: “Or dimmi: quale di questi tre, il sacerdote, il levita ed il Samaritano, si è mostrato prossimo al capitato tra i ladri? „ La risposta non poteva essere dubbia; ma Gesù la voleva strappare di bocca a quel medesimo che l’aveva tentato. Il legista rispose: “Colui che gli usò misericordia. „ Non pronunciò la parola Samaritano, perché quella parola forse lo confondeva, lo umiliava e quasi gli bruciava la lingua; ma in sostanza lo confessò, e non poteva non confessarlo. Ebbene, soggiunse Gesù: “Va, e fa’ tu pure il somigliante. „ Tu, figlio d’Israele, maestro della legge, imita questo povero Samaritano che, ignorando la legge scritta da Mosè, conobbe ed osservò quella che Dio scrisse nel cuore dell’uomo.

CREDO…

Offertorium
Orémus
Exod XXXII:11;13;14
Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel.
Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo. [Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta
Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Communio
Ps CIII:13; CIII:14-15
De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.
[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.
[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXIII.

L’ANIMA UMANA.

L’anima umana esiste. — Il pensiero non è una funzione del cervello. Ciascun’anima è creata da Dio. — Differenza dell’anima umana da quella delle bestie. — Immortalità dell’anima e vita avvenire. — Morti noi, morto tutto?

— È proprio vero che Iddio abbia dato all’uomo anche l’anima?

Non se ne può dubitare; è verità di fede. L’uomo è composto di un corpo mortale e di un’anima immortale; è così ha voluto Iddio che fosse mettendo l’uomo al mondo. Di modo che come il solo corpo non forma l’uomo, così neppure l’anima separata dal corpo basta a costituire l’uomo perfetto, ma perciò ci vuole l’unione dell’anima col suo corpo.

— Ma se l’anima non si vede!

Tu fai come i materialisti, i quali, perché anatomizzando il corpo non riescono a ferire l’anima coi loro bisturini, negano senza più la sua esistenza. Ma, caro mio, se noi la vedessimo non sarebbe più anima, vale a dire spirito. Del resto se non possiamo vederla cogli occhi materiali, forse che non dobbiamo vederla con quelli della ragione?

— Come dunque la ragione prova l’esistenza dell’anima umana?

Con moltissime prove che potrai apprendere facendo studi filosofici; io mi accontento di recartene due sole. Sta ben attento. – 1a Prova: È dimostrato nella scienza fisiologica che nel corpo umano nello spazio di sette anni incirca tutto si muti e si trasformi. Eppure per quanto si muti la carne, si muti il sangue, si mutino le ossa, ciascuno di noi sa certissimamente di essere sempre lo stesso individuo che sente, che pensa e vuole. Dunque in mezzo al continuo mutamento e rimutamento della materia bisogna ammettere nell’uomo qualche principio, che non si muta mai nella sua sostanza, e che perciò è al tutto differentissimo dal corpo umano; e questo principio è per l’appunto l’anima. – 2a Prova: Noi facciamo dei pensieri. Ma i pensieri nostri non sono materiali, non si possono né vedere, né misurare, né pesare né scomporre, eccetera. Dunque il pensiero essendo immateriale non è prodotto in noi dal corpo materiale. Bisogna perciò che sia prodotto da un’altra sostanza totalmente diversa, la quale è l’anima.

— Anche senza essere filosofo ho inteso queste prove. Ma com’è che in certe scuole si insegna che il pensiero è una funzione del cervello ?

Se così fosse, ne verrebbe che l’uomo con un cervello più o meno grosso farebbe dei pensieri più o meno grossi, che i pensieri avrebbero estensione, forma, peso, eccetera; che perdendo una parte di cervello perderebbe anche in proporzione la facoltà di pensare. E invece, come più volte fu dimostrato dall’esperienza, anche perdendosi una parte notabile di cervello, sono rimaste intatte le facoltà mentali.

— Eppure non si dice che chi non è più capace di pensare bene e ragionare ha perduto il cervello, o ha il cervello ammalato?

Così si dice per modo di dire e perché davvero l’anima si risente di ciò che avviene nel corpo, come l’occhio si risente dello indebolirsi o scomparir della luce; ma di quella guisa istessa che l’occhio non è la luce, così l’anima non è il corpo, e il pensiero non è il cervello o il prodotto di qualsiasi altro elemento del corpo.

— Anche questo l’ho inteso. Ma presentemente in ciascun uomo di qual maniera è prodotta l’anima? Sono forse i genitori, che la generano come il corpo?

No, certamente, il dire ciò, come osserva S. Tommaso, sarebbe un’eresia. La dottrina comune, chiara e più certa, dalla quale non dobbiamo allontanarci è quella, che insegna Dio creare immediatamente ciascun’anima, e in quel modo e tempo, che Egli solo sa, infonderla nel corpo.

— Va benissimo. Mi sembra però che si faccia troppo gran conto dell’anima. Alla fin fine non l’hanno altresì gli animali?

E tu vuoi mettere l’anima degli animali a pari con quella dell’uomo? Non sai che tra l’anima umana e quella degli animali v’è una differenza enorme? L’anima nostra è ragionevole, intelligente, ha coscienza di sé, è capace del bene e del male, è libera, quindi è responsabile dei propri atti e deve riceverne il premio od il castigo; l’anima delle bestie al contrario non è nulla di tutto ciò.

— Ma alle volte certi animali non sembrano dal loro modo di agire che abbiano la ragione?

Potrà sembrare, ma non è. Ohi ha la ragione può passare dal noto all’ignoto e progredire scientificamente e civilmente. M a l’esperienza dimostra chiaro che nessuna bestia può fare ciò, perché nessuna mai l’ha fatto.

— E allora da che cosa procede l’addomesticamento di certi animali e l’imparare che essi fanno certe azioni di saltare, di cantare, di giuocare e simili?

Ciò proviene dall’istinto ossia da una forza interna, per cui l’animale mosso dallo stimolo di una sensazione grata o molesta, sensazione che per la memoria si riproduce, è indotto a fare certe cose senza precedente cognizione di motivo o di fine.

— Questo l’ho inteso; ma ciò che non so e non capisco ancora si è se tanto l’anima dell’uomo come quella della bestia siano immortali.

Senti: riguardo all’anima della bestia pare certo ch’essa non sia immortale. Siccome però di che natura propriamente essa sia non si sa dire con precisione, e vi hanno in proposito varie opinioni, così a seconda di queste opinioni si spiega pure diversamente come essa non sia immortale. Taluno dice che forse Dio stesso la distrugge; altri dicono che non potendo sussistere di per se stessa se non in unione col corpo della bestia, si dilegua da se stessa quando per la morte si discioglie il corpo dell’animale. E non mancano neppure di coloro che pensano che anche l’anima degli animali per la loro morte non cessi neppure essa di vivere, benché riconoscano la impossibilità di stabilire in che modo essa viva. Insomma qui si è di fronte ad uno di quei tanti misteri di natura, per spiegare i quali si fanno supposizioni e supposizioni senza che però si possa su di essi pronunciare una parola definitiva.

— Ed in quanto all’immortalità dell’anima umana si tratterebbe anche solo di supposizioni?

No, affatto. Prima di tutto si tratta qui di una verità di fede, anzi di una verità fondamentale della fede cattolica. Le Sante Scritture ce ne parlano ripetutamente e ci dicono chiaro che « Dio ha creato l’uomo immortale ». Oltre a ciò ragione ci dimostra apertamente che l’anima umana è veramente immortale; e te ne addurrò alcune prove, le quali serviranno nel tempo stesso a dimostrarti l’esistenza di una vita futura.

— Ed io le ascolterò attentamente.

L’anima umana è semplice e spirituale, il che vuol dire che non è composta di parti, perché si sente tutta intera in tutto il corpo e in ciascuna delle sue parti; ma ciò che non è composto di parti non si può sciogliere, cioè non si può distruggere. – L’anima umana sente una tendenza irrefrenabile alla felicità, e questa tendenza è certamente Dio che l’ha posta nell’anima dell’uomo. Ma qui, durante questa mortal vita, la vera e completa felicità non si trova. Bisogna dunque che ci sia un’altra vita dopo questa, dove questa tendenza possa essere pienamente soddisfatta; del resto Iddio sarebbe stato ingiusto e crudele nel mettere in noi una fame ed una sete, che non potessero mai essere soddisfatte. L’anima umana è fatta per l a verità; la verità è il suo cibo; ma la verità è indistruttibile ed immortale, epperciò deve essere anche tale l’anima che se ne ciba. Se l’anima umana non fosse immortale, se non ci fosse per essa un’altra vita dopo questa, in cui la virtù sia premiata ed il vizio sia punito, Iddio apparirebbe Egli ancora giusto com’è, dal momento che vi sono in questa vita certi viziosi che fino all’ultimo trionfano nel loro male, e in quella vece dei buoni che fino all’ultimo giacciono oppressi? Se l’anima umana non fosse immortale, non sarebbe tolto ogni freno al vizio? e la virtù non resterebbe priva di qualsiasi stimolo? Che anzi questi stessi nomi di virtù e di vizio non sarebbero nomi vani? Se l’anima umana non fosse immortale si spiegherebbe ancora quella brama, che vi ha in noi di vivere sempre, e quel rispetto che vi è presso tutti i popoli per i trapassati, precisamente perché tutti i popoli hanno sempre creduto che con la morte nostra non tutto muoia?

— Basta, basta. Da queste belle prove sono più che convinto dell’immortalità dell’anima e di una vita avvenire. Dunque la sbagliano di grosso coloro che van dicendo : « Morti noi, morto tutto? » .

Costoro, parlando così, rigettano la loro natura e la loro dignità, si fanno pari alle bestie, ai cani, ai gatti, agli asini e forse inferiori alle medesime. Costoro contraddicono all’unanime consentimento di tutti gli uomini, agli Egiziani, ai Persiani, ai Siri, ai Caldei, ai Greci, ai Romani, ai Galli, ai Brettoni, agli stessi selvaggi dell’Ottentozia e della Patagonia. Costoro vengono ad assegnare la stessa sorte ad un S. Pietro e ad un Nerone, a una S. Teresa e ad una scellerata Elisabetta regina d’Inghilterra, a un S. Vincenzo de’ Paoli e ad un Voltaire. Costoro insomma rovesciano la ragione, deridono tutto il genere umano, manomettono il buon senso e opprimono la voce della coscienza. — Ed io non li seguirò giammai nei loro traviamenti.

CATECHISMO E CATECHIZZAZIONE

Catechismo e Catechizzazione.

[G. Perardi: Nuovo Manuale del catechista, 9a ed. L.I.C.E. Ed. Torino, 1929]

« Non basta far una cosa; è necessario farla bene »„ – Questa importantissima massima che bisogna applicare in tutte le opere e specialmente nelle religiose, è assai trascurata nell’insegnamento del catechismo. Molti lamentano lo scarso frutto che si ricava dall’insegnamento del catechismo. E veramente chi considera lo stato della nostra società, la quale pur si dice cristiana, mentre si può dire che ne ha quasi solo il nome, chiede a se stesso, se agli uomini che la costituiscono, sia stato impartito un insegnamento religioso. – Non è certamente esagerato dire, che la causa principale per cui si è ricavato così scarso frutto, sta nel fatto che generalmente il catechismo non è stato insegnato bene; e non è stato insegnato bene perché coloro a cui era affidato sì nobile e difficile compito, non erano stati preparati in nessun modo, alla loro nobile e delicata missione. Generalmente agli incaricati dell’insegnamento del catechismo si è consegnato un « testo » del piccolo libro, indi si sono mandati in classe a « fare il catechismo ». Alcuni (ma relativamente pochi), furono provveduti d’un libro di spiegazione. Tutto si limitò qui. Ci sia permessa un’osservazione grave. Al contadino s’insegna il modo d’usare la zappa e gli altri strumenti, pur così semplici, del suo mestiere. E si pretenderà che il Catechista. – un giovanetto, una giovanotta generalmente senza cultura speciale – pel fatto solo che gli si è messo in mano un testo, o al più, » in casi rarissimi, una « spiegazione », sia senz’altro in grado di compiere fruttuosamente l’opera più delicata e difficile, qual è quella di insegnare la scienza più sublime a menti tenere e non ancora aperte, come sono quelle de’ fanciulli? e di insegnarla in modo che sia istruzione alla mente, educazione al cuore, onde li formi buoni Cristiani? – Osserviamo quanto fa lo Stato per la formazione dei maestri elementari, che debbono spezzare agii stessi fanciulli il primo pane dell’umano sapere! Qual lezione per noi!  Che cos’è il catechismo? Che cosa significa insegnare il catechismo?

Il Catechismo.

Diciamo catechismo il libriccino che, in forma semplice, contiene in compendio le verità della Dottrina Cristiana; esso è il compendio di tutte quelle cose che Cristo nostro Signore, ci ha insegnato per mostrarci la via della salute. Il catechismo, di cui ogni espressione, anzi ogni parola è stata rigorosamente ponderata, è il riassunto di tutta la teologia, di tutto il tutte le verità religiose, di tutta la morale cristiana. Esso, con formule brevi, semplici e precise, rende accessibile anche alle menti più tenere, le più gravi verità; esso, secondo un pensiero dell’Apostolo S. Paolo, è ad un tempo latte per i deboli e pane pei forti. È un ristretto semplice e, nel medesimo tempo, dottissimo della più alta filosofia, di tutte le scienze divine e umane – Da ciò appare quanto sia necessario lo studio del catechismo. L’uomo cerca la verità; la sua mente non riposa che nel possesso della verità. Il catechismo risponde a questo primo bisogno dell’uomo, perché non è la teoria di una filosofia o di una scuola, nemmeno il monumento della saggezza di un’epoca o di una società; è la dottrina del Figliuolo di Dio, venuto dal cielo ad evangelizzarci. È perciò che l’uomo, solamente nel catechismo, trova una risposta sicura, chiara e semplice alle più gravi questioni che lo interessano; è perciò che il catechismo si rivela divino a chiunque lo studia con spirito retto e desideroso della verità. – L’uomo vive secondo che crede. L’uomo che conosce e crede fermamente quello che il catechismo insegna, non può vivere che rettamente; al contrario l’uomo che ignora le verità religiose, ignorando la sua origine e il suo destino, la sua nobiltà, i vincoli che lo uniscono a Dio Creatore, non potrà mai praticare nella sua integrità il bene, non avrà mai quello stimolo potente che lo deve incitare e sostenere a superare costantemente le difficoltà che incontra nella pratica del bene. Gesù Cristo ha equiparato alla necessità del Battesimo la necessità dell’insegnamento religioso. Difatti inviando gli Apostoli a predicare il Vangelo disse loro : «Andate dunque a istruir tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservar tutto quanto v’ho comandato».

Insegnare il catechismo …

… vuol dire, in primo luogo, far conoscere, far imparare la dottrina che esso contiene. Abbiamo detto in primo luogo, perché l’insegnamento del catechismo differisce totalmente dagli altri insegnamenti. Ogni insegnamento profano, s’indirizza essenzialmente alla ragione, cioè alla mente dell’uomo, per farle apprendere qualche cosa che prima non conosceva, o per fargliela conoscere meglio. È perfetto quell’insegnamento che fa apprendere alla mente una cognizione, in modo perfetto. Invece non è così nell’insegnamento del catechismo, poiché questo non s’indirizza solo alla mente, ma ugualmente alla volontà e al cuore; poiché fine dell’insegnamento religioso (o del catechismo) non è solo fare apprendere le verità religiose, dogmatiche e morali, ma indirizzare la volontà ad amare il Signore e a praticare, per amor suo, il bene da Lui voluto, ed evitare ogni specie di male. – L’insegnamento del catechismo incominciò con la Chiesa. Coloro che volevano convertirsi al Cristianesimo, prima di venire ammessi al Battesimo, erano istruiti (cioè catechizzati) sulla Dottrina della Chiesa. Questa istruzione non aveva solo per fine d’insegnare la Dottrina Cristiana, ma di formare, d’indirizzare l’anima dei convertiti alla vita cristiana. – Il Catecumeno (così si chiamava colui che era ammesso all’istruzione cristiana in preparazione al Battesimo) dice il Fleury citato dal Mons. Dupanloup, assisteva alle prediche pubbliche, a cui erano ammessi anche gli infedeli; ma di più v’erano Catechisti che vegliavano sulla condotta dei Catecumeni, e li ammaestravano in particolare sugli elementi della fede. Venivano principalmente istruiti intorno alle regole della morale, perché sapessero come dovevano vivere dopo il Battesimo. – « Non si badava soltanto se il Catecumeno” imparava la dottrina, ma se correggeva i suoi costumi, e si lasciava nella condizione di Catecumeno, cioè senza Battesimo, finché non fosse interamente convertito », cioè finché non avesse riformato la sua vita in conformità de’ doveri cristiani. Onde il catechismo, come insegnamento, è stato giustamente definito: « Un’azione ecclesiastica per cui quelli che ignorano la religione cristiana vengono metodicamente istruiti negli elementi di essa, ed educati a vita cristiana ». – In sostanza l’insegnamento del catechismo non è solo istruzione religiosa, ma è educazione cristiana. Opportunamente il Rev.mo D’Isengard, l’instancabile Apostolo del catechismo, osserva (come già Mons. Dupanloup faceva insistentemente notare) che ridurre il catechismo a pura e semplice istruzione, è concetto monco, poiché abbraccia uno degli elementi (ed elemento fondamentale) dell’opera catechistica, ma trascura l’altro, essendo il catechismo, quale fu inteso fino dalla più remota antichità cristiana, ad un tempo istruzione ed educazione, ossia formazione del cristiano. Egli insiste sulle differenze, riconosciute concordemente da tutti i pedagogisti, tra istruzione ed educazione. « L’educazione è il fine che si deve raggiungere; l’istruzione è soltanto uno dei mezzi. L’istruzione arricchisce la mente di cognizioni; l’educazione coltiva tutta l’anima. L’istruzione si rivolge soltanto all’intelligenza; l’educazione lavora ad un tempo a formare intelligenza, cuore, carattere e coscienza. Non può esservi certo educazione religiosa senza istruzione religiosa; ma è essenziale intender bene che una non è l’altra. Dare alla mente l’istruzione religiosa e trascurare di lavorare contemporaneamente all’educazione del cuore, del carattere, della coscienza, sarebbe restar molto indietro dal fine che si vuol raggiungere, molto al di sotto di ciò ch’è veramente l’opera catechistica ». – Questo concetto compiuto del catechismo, l’illustre Vescovo vede espresso nel linguaggio volgare, che dice fare il catechismo, e non soltanto insegnare, accennando così che non si tratta solamente di condurre i catechizzati alla conoscenza, ma insieme all’amore e alla fedele attuazione della dottrina di Gesù Cristo; sicché essa non entri soltanto nella mente, ma più nel cuore e nella pratica della vita. Così pure si dice l’opera del catechismo, per significare ch’esso non è soltanto insegnamento e studio, ma azione su tutta l’anima del fanciullo, efficacemente esercitata e docilmente ricevuta. Ecco il concetto vero e compiuto del catechismo: un’azione esercitata dalla Chiesa, per mezzo dei Catechisti, sulle anime dei fanciulli, per farle cristiane. I risultati meschini di molte scuole di catechismo, furono conseguenza del non avere inteso od attuato questo concetto fondamentale, pieno e totale del Catechismo.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (31) – ERRORI IN ROSMINI (3).

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA:

Errori in ROSMINI (3)

[Dom P. Benoît: Revue du monde catholique, 1° Apr. 1889]

XI

ERRORE SULLA CADUTA ORIGINALE

54. Rosmini professa sulla caduta originale una teoria così bizzarra e lontana dal dogma cattolico. Secondo lui, satana era padrone, per un vero possesso, del frutto proibito; mangiato dall’uomo, questo frutto si cambiò nel suo corpo: da ciò, il demone possessore del frutto, divenne padrone dell’uomo. I demoni, dice Rosmini, essendo in possesso del frutto, pensarono di introdursi nell’uomo se questi ne mangiasse, perché essendo assimilato il nutrimento dal corpo animato dell’uomo, essi potessero entrare liberamente nell’animalità, cioè nella vita soggettiva di quest’essere e così disporre di lui secondo le loro intenzioni [(Cum dæmones fructum possederint, putarunt se ingressuros in hominem si de illo ederet; converso enim cibo in corpus hominis animatum, ipsi poterant libère ingredi animalitatem, id est in vitam subjectivam hujus cutis, atque ita de eo disponere sicut proposuerant, (Prop. XXXIII)]. » Rosmini fa consistere il peccato originale in una sorta di possessione demoniaca. Il primo uomo è caduto perché si è messo sotto la potenza del demonio, perché ha mangiato e convertito nella sua sostanza una mela posseduta dal demonio, di modo che il demonio ha esteso il suo dominio della mela ad Adamo. Poi siccome la semenza di tutti gli uomini è in Adamo, si è costituito padrone di tutti gli uomini: i discendenti del primo uomo nascono così nel peccato originale, perché sono formati da una semenza che il demonio possiede ed essi stessi sono l’oggetto di una possessione diabolica.

55. L’insegnamento della Chiesa è molto differente. I Dottori della Chiesa fanno consistere il peccato originale nella privazione della grazia: l’uomo, dopo la caduta, è peccatore, perché non ha la grazia che dovrebbe avere secondo il disegno di Dio nella sua creazione. Il primo uomo ha perso la grazia perché ha trasgredito il precetto del Signore con una disobbedienza volontaria, perché egli ha commesso un peccato mortale, incompatibile per sua natura con il dono soprannaturale della carità. I suoi discendenti ne sono privati, perché Dio aveva stabilito una unione morale tra padre e figlio, che la fedeltà o l’infedeltà del capo era la fedeltà o l’infedeltà nella perseveranza stessa o la perdita di questa. Tutti gli uomini nascono privi della grazia, perché Adamo l’ha persa non solo per lui, ma pure per loro. Questa privazione originale della grazia, ecco il peccato originale. Senza dubbio l’uomo decaduto è nella potenza del demonio, perché il “vinto, dive S. Paolo, è soggetto al vinvitore”. Ma la dominazione di satana sulla natura umana è l’effetto del peccato, non ne è l’essenza. – in seguito, questo dominio, almeno in generale, non dovrebbe essere chiamatouna “possessione del corpo”. Il demonio ha il potere di agire sull’immaginazione con dei fantasmi; egli possiede certe otenze sull’aria e gli altri elementi di questo mondo, sul corpo stesso dell’uomo; ma questo impero generale e molto imperfetto sull’universo deve essere scrupolosamente distinto da questa dominazione particolare e stretta che si chiama la possessione diabolica.

XII

ERRORE SULL’IMMACOLATA CONCEZIONE DI MARIA

56. Rosmini insegna sull’Immacolata Concezione della Santa Vergine un errore che deriva dalla sua falsa teoria concernente il peccato originale, secondo lui, lo vedremo appunto, il demonio ha esteso il suo dominio dal frutto all’uomo, dal corpo del primo uomo, alla semenza di tutti i suoi discendenti racchiusi nel corpo del padre: come è caduto il primo uomo, così sono caduti in lui tutti gli uomini. « Tuttavia, egli aggiunge, una particella estremamente tenue della semenza racchiusa in Adamo è stata negletta da satana; questa particella è stata trasmessa da generazione in generazione ed è arrivata, libera dal possesso demoniaco, negli ancestri immediati di Maria; lù, Dio ne ha formato il corpo della futura Madre di suo Figlio. Così Maria si è trovata esente dal peccato originale. Per preservare la Beata Vergine Maria dalla macchia del peccato originale, era sufficiente che la minima parte di semenza restasse incorruttibile nell’uomo (il primo uomo), semenza forse negletta dal demonio stesso, affinché, da questa parte intatta, trasmessa da generazione in generazione, nascesse, a suo tempo, la Beata Vergine Maria [(Ad perseservandam Beatam Virginem Mariam a labe originis, satis erat ut incorruptum maneret minimum semen in homine, neglectum forte ab ipso dæmone; e quo incorrupto semine, de generatione in generationem transfuso, suo tempore oriretur Virgo Maria. (Prop. XXXIV)].

57. Non è certamente così che la Chiesa intende l’Immacolata Concezione di Maria. Dionon ha sottratto al possesso del demonio una particella del corpo di Adamo, per formarne più tardi la Madre di suo Figlio; Egi l’ha, in vista dei meriti del Salvatore futuro, riscattata dal peccato con una giustificazione preventiva, che non ha lasciato ai flutti dell’iniquità il tempo di sommergere questa Creatura privilegiata, ma rivestendo la sua anima, nella sua stessa creazione, della pienezza della grazia. Dal lato della sua origine Maria era soggetta al peccato; ma con una operazione straordinaria della misericordia divina, Ella ne è stata liberata prima di esserne coinvolta: Ella aveva il debito del peccato, ma è stata preservata dal peccato stesso: habuit debitum peccati, non actum.

XIII

ERRORE SULLA GIUSTIFICAZIONE

58. Lutero pretendeva che l’uomo caduto in peccato sia incapace di ridiventare giusto per una giustizia propria ed intrinseca. Il peccatore, secondo lui, è sostanzialmente malvagio; il libero arbitrio è distrutto in lui; egli non è capace di un buon desiderio; più si sforza di agire bene, più pecca: perché da un albero cattivo, cosa può uscire se non un frutto cattivo? Ecco perché, secondo Lutero, la giustificazione non consiste in ciò che i peccati siano rimessi o cancellati, ma che siano coperti, e non siano più imputati. Il mantello dei meriti di Gesù-Cristo viene gettato sul peccatore e ricopre le immondizie della sua anima; ma queste immondizie sussistono in lui dopo la giustificazione, come prima.

59. La Chiesa ha condannato questa dottrina al Concilio di Trento. Ora Rosmini la rinnova in parte. A sentirlo ci sono dei peccati che sono solo coperti, mentre altri sono propriamente rimessi; ce ne sono alcuni che cessano dall’essere imputati, senza essere cancellati, altri sono effettivamente cancellati. « Più si esamina l’ordine della giustificazione nell’uomo, egli dice, più ci appare conveniente il modo di parlare delle Scritture, dicendo che Dio nasconde certi peccati o non li imputa più. Il Salmista pone una differenza tra le iniquità che sono rimesse ed i peccati che sono nascosti: i primi, come sembra, sono le colpe attuali e libere; i secondi sono i peccati non liberi di coloro che appartengono al popolo di Dio, e ai quali, solo per questo, non causano alcun danno (Quo magis attenditur ordo justifîcationis in homine, eo apitor apparet modus dicendi peripturalis quod Deus peccata quædam. tegit aut non imputat. — Juxta Psalmistam discrimen est inter iniquitates quæ remittuntur et peccata quæ teguntur: illæ ut videtur, sunt culpæ actuales et libéræ, hæc veto sunt peccata non libéra eorum qui pertinent ad populum Dei, quibus propterea nullum afteruut nocumentum. (Prop. XXXV)]. »

60. Quali sono questi “peccati non liberi”? Innanzitutto e senza dubbio, il peccato originale, poiché questo non è stato commesso dalla volontà personale, ma è stato trasmesso con la natura dlle leggi stesse della generazione. Bisogna dunque ammettere, secondo Rosmini, che il peccato originale non è rimesso, ma solo nascosto; che non è cancellato, ma cessa di nuocere. Ecco qualche conseguenza. La grazia non viene data al Battesimo, perché la grazia è incompatibile con l’esistenza del peccato originale; la giustificazione non apporta alcun cambiamento intrinseco nelle profondità dell’anima, poiché la macchia del peccato non è tolta. Noi non vediamo come Rosmini possa sfuggire a queste consiguenze. Ma ecco degli errori ancor èiù gravi: essi sono il ribaltamento di tutta l’economia soprannaturale.

XIV

ERRORI SULL’ORDINE SOPRANNATURALE

61. « Il consenso unanime della Chiesa Cattolica, dice il Concilio Vaticano, ha sempre ritenuto, e ritiene, che vi sono due ordini di conoscenza, distinte non solo dal loro principio, ma ancora dal loro oggetto; dapprima per il loro principio, perché noi conosciamo nell’uno con la luce naturale della nostra ragione, e nell’altro per la fede divina; per il loro oggetto poi, perché oltre alle cose he la ragione naturale può comprendere, vi sono proposti alla nostra credenza dei misteri nascosti in Dio, che noi non possiamo conoscere se Dio non li rivela. – Ecco perché l’Apostolo, che attesta che Dio è stato conosciuto dai gentili per le sue opere, quando disserta della grazia e della verità che ci ha portato Gesù-Cristo, esclama: « Noi predichiamo la Sapienza di Dio in mistero che è rimasto nascosto, che Dio ha predestinato, preparato prima di tutti i secoli a nostra gloria, che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuto, ma che Dio ci ha rivelato con il suo Spirito-Santo: perché lo Spirito penetra tutto, anche le profondità di Dio. Ed il Figlio unico di Dio rende al Padre suo questa testimonianza, che ha nascosto questi misteri ai saggi ed ai prudenti, e li ha rivelati ai piccoli ( De fide cath., cap. IV), ». Secondo questo insegnamento, l’ordine naturale consiste essenzialmente nela conoscenza mediata ed indiretta di Dio, vale a dire nella conoscena di Dio per mezzo delle sue creature. L’ordine soprannaturale consiste essenzialmente nella conoscenza immediata e diretta di Dio, cioè nella conoscena di Dio in se stesso, ossia quaggiù nella conoscenza oscura ed imperfetta di Dio attraverso le ombre della fede, sia in cielo nela conoscenza chiara ed intuitiva di Dio nello splendore della sua luce. – Rosmini, che confonde l’essere generale con l’essere divino, fa consistere l’ordine soprannaturale nella piena manifestazione dell’essere nella pienezza della sua forma reale [(Ordo supernaturalis constituitur manifestatione esse in plenitudine suæ formæ realis. [Prop. XXXIV)]. »

62. Ma se noi diventiamo soprannaturalmente beati con una piena manifestazione dell’essere, come siamo naturalmente intelligenti con una prima manifestazione di questo stesso essere, bisognerà dire che la conoscenza soprannaturale e la conoscenza naturale non differiscono quanto all’oggetto, come intende il Concilio Vaticano, ma solo per il grado, attraverso il quale l’una e l’altra raggiungono lo stesso obiettivo, ma inegualmente. Che potrebbe rispondere Rosmini?

63. Ma se l’oggetto delle due conoscenze è sostanzialmente lo stesso, può il principio differirne? «L’effetto di queste manifestazioni o comunicazioni » dell’essere nella pienezza della sua forma reale, dice Rosmini, « è un sentimento deiforme che, cominciato in questa vita, costituisce la luce della fede e della grazia e, completata nell’altra vita, costituisce la luce della gloria [(Cujus communicatumis seu manifestationis effectua est sensus (sentimento) deiformis, qui iochoatus in bac vita constituat lumen fidei et gratiæ, complétas in altéra vita construit lumen gloriæ, (Ibid.)].» La luce della fede e della grazia è la virtù naturale con la quale l’anima conosce Dio quaggiù; la luce di gloria è la virtù soprannaturale con la quale conosce Dio nella vita futura: « Ora, dice Rosmini, questo principio della conoscenza naturale o “deiforme” che produce nell’anima la manifestazione dell’essere nella pienezza della sua forma reale. » Ma l’essere, secondo Rosmini, era già conosciuto in se stesso dalla ragione naturale. Siccome la conoscenza soprannaturale non eleva che ad una conoscenza più perfetta di uno stesso oggetto, sarà sufficiente per questa nuova conoscenza di una perfezione nuova, data allo stesso principio, non avrà bisogno di un nuovo principio. In altri termini, la facoltà o il principio è proporzionato all’oggetto; poiché l’oggetto della conoscenza soprannaturale è sostanzialmente lo stesso di quello della conoscenza naturale, cioè l’intuizione dell’essere, perché ci vorrebbero per i due rdini di conoscenza, dei principi differenti? Il principio non dovrebbe essere lo stesso nella dottrina cattolica, poiché l’anima, per conoscenza naturale, conosce Dio solo nello spettacolo delle creature, mentre la conoscenza soprannaturale lo conosce in se stesso. Ma per Rosmini, che considera l’intuizione dell’essere divino come oggetto della conoscenza naturale tanto di quella soprannaturale, è impossibile la differenza tra il principio dell’una e dell’altra. Rosmini può designare con dei nomi nuovi il principio della conoscena naturale; egli può chiamarlo, come in effetti fa, luce di grazie e luce di gloria; ma poiché l’oggetto è sempre l’intuizione dell’essere divino, è sempre, anche se con nomi nuovi, uno stesso principio (L’arte di ogni gnostico di ogni epoca, è stata sempre questa: cambiare il nome alle cose, ai concetti, confondere ed intorbidire le acque del pensiero, per trarre in inganno e spacciare le insanie gnostiche come verità! – N.d.r.].

64. Tuttavia la dottrina della Chiesa sulla differenza tra gli oggetti dei due ordini di conoscenza è troppo manifesta, perché Rosmini non cerchi di distinguere l’uno dall’altro. « La prima luce che rende l’anima intelligente è l’essere ideale; l’altra prima luce è anche l’essere, non più tuttavia puramente ideale, ma sussistente e vivente: questa, velando la sua personalità, non mostra che la sua obiettività; ma chi vede l’altra, che è il Verbo, vede Dio, benché in uno specchio per riflessione ed enigma [(Primum lumen veddens animam intelligentem est esse idéale; alterum primum lumen est etiam esse, non tamen mere idéale sed subsistens ac vivens: illud abscondens suam personalitatem ostendit solum suam objectivitatem: at qui videt alterum (quod est Verbum), etiamsi per spéculum et in enigmate, videt Deum. (Prop. XXXVII)]. » Così, secondo Rosmini, la ragione natural conosce l’essere semplicemente ideale, la luce della fede e della Gloria conoscono l’essere ideale sussistente e vivente: l’essere semplicemente ideale differisce dall’essere ideale sussistente: dunque, l’oggetto della conoscenza soprannaturale differisce dall’oggetto della conoscenza naturale.

65. Ma come l’essere divino potrebbe essere visto nella sua idealità e non essere visto nella sua sussistenza? Appartiene all’essere divino, nota San Tommaso, essere subsistant prima di essere ideale, vale a dire essere una forma assoluta, prima di essere una forma rappresentativa. « Si conosce un oggetto in se stesso, dice il santo Dottore, prima di conoscerlo nelle sue relazioni con ciò che non è Lui; non si può conoscere Dio come idea, senza conoscerlo nella sua essenza assoluta [(Non est antera possibile quod aliquis videat rationes creaturarum in ipsa divina essentia, ita quod eam non videat: tum quia ipsa divina essentia est ratio omnium eorum quæ fiunt; ratio autem realis non addit supra divinam essentiam nisi respectum ad creaturam; tum quia prius est aliquid cognoscere in se, quod est cognoscere Deum ut est objectum beatitudinis, quam cognosepre illud per comparationem ad alierum, quod est cognoscere Deum secundum rationes rerum in ipso existentes. (Sum. Theol. IIa IIæ, q. CLXXIII, a. 1)]. Se dunque Dio è conosciuto dalla ragione natural nella sua oggettività o sua intellegibilità, è necessariamente conosciuto nella sua sussistenza. Ed allora sparisce questa pretesa differenza tra l’oggettività e la sussistenza dell’essere ideale, ogni intuizione dell’essere divino deve essere proclamata soprannaturale. Secondo la dottrina cattolica, in effetti, la conoscenza soprannaturale di Dio, consiste in una conoscenza diretta ed immediata dell’essere divino. Se dunque lo spirito umano percepisce l’essere divino in se stesso, con una intuizione diretta, quand’anche, per assurdo, non ne percepisce la sua sussistenza, ne ha una conoscena soprannaturale. Rosmini dice: « La prima luce che rende l’anima intelligente è l’essere ideale. » Noi gli chiediamo: « Questo essere ideale è realmente l’essere divino? » Si, risponde Rosmini. Dunque, concludiamo noi, questa conoscenza essendo immediata, è soprannaturale. Rosmini attribuisce alla natura ciò che è al di sopra delle forze della natura. Egli dice bene: « Questo essere divino vela la sua sussistenzae non mostra la sua oggettività. » Ma ancora una volta, questo essere, nascondendo la sua personalità, si scopre in se stesso? Sì, poiché mostra la sua oggettività, che è una forma dell’essere divino, che è qualcosa di Dio, che è Dio. Dunque, ancora, voi pretendete, o filosofo, che la ragione conosca immediatamente l’Essere divino: voi attribuite alla natura ciò che è della grazia! – Bisogna forse aggiungere che tutta questa teoria sia stata misconosciuta ai Padri ed ai Teologi? Qual Dottore cattolico ha dato alla ragione naturale, fin dalla vita presente, l’intuizione dell’Essere divino? Qual maestro di dottrina ha posto differenza tra la conoscenza naturale e sonoscenza soprannaturale nella percezione dell’idealità del’Essere divino nell’una e la sussistenza nell’altro? Rosmini si separa da tutti i Padri e da tutti i Teologi; dunque tutti i Padri e tutti i Teologi lo condannano.

66. Ma non abbiamo finito con gli errori di Rosmini sull’ordine naturale. Abbiamo appena visto vederlo dare al filosofo l’intuizione dell’Essere divino in se stesso. D’altro canto egli nega che l’eletto trovi la sua beatitudine nella sola visione di Dio. « Dio, egli dice, è l’oggetto della visione beatifica, come autore delle opere “ad extra” (prodorre all’esterno) [(Deus est objectum visionis beatificæ, in quantum est auctor operum ad extra. (Prop. XXXVIII.) » – « Le vestigie della saggezza e della bontà che brillano nelle creature sono necessarie ai beati, perchè queste vestigie, runite nell’esemplare eterno, ne sono la parte che può essere vista dai beati ed è loro accessibile; essi sono inoltre il motivo delle lodi che i beati cantano eternamente in onore di Dio [(Vestigia sapientiæ ac bonitatis quæ in creaturis relucent, sunt comprehensoribus necessaria; ipsa enim in æterno exemplari collecta sunt ea Ipsius pars quæ ab illis videri possit (che è loro accessibile) ipsaque argumentum eræbent laudibus, quas in æternum Deo Beati concinunt. (Prop. XXXIX.)]. Tutti I Dottori Cattolici insegnano che la beatitudine dell’eletto consiste nella visione di Dio in se stesso; Rosmini dice al contrario, che « le vestigie delle perfezioni divine, tali come brillano nelle creature, sono necessarie ai beati ». Tutti i Dottori professano che gli eletti contemplano e cantano per sempre la bellezza increata vista in se stessa; Rosmini pretende che le influenze degli attributi divini in seno all’universo siano l’oggetto proprio la cui contemplazione li rende felici e che essi celebrano con i loro inni. Tutti i Cattolici credono che la visione di Dio sazi tutti i desideri dell’uomo. Senza dubbio gli eletti vedono in Dio tutto l’insieme dell’universo; ma la loro beatitudine è essenzialmente l’effetto della visione di Dio, talmente che se, per assurdo, essi cessassero dal conoscere tutte le creature, la felicità resterebbe perfetta: « Felice, dice S. Agostino, colui che vi conosce, o Dio mio, quand’anche ignorasse tutto il resto! [(Beatus est qui te scit, etïam si illas, id est creaturas, nesciat. (Conf., lib. V, c. IV) ». – Rosmini al contrario crede che l’eletto non abbia la beatitudine se non per effetto della conoscenza delle creature.

67. Ancor più, egli giunge fino a pensare che Dio non possa farsi vedere all’eletto, faccia a faccia, nella sua essenza, al di fuori delle sue relazioni con le creature. Conoscere Dio nella sua essenza, percepita indipendentemente dai suoi rapporti con gli esseri finiti è, secondo lui, al di sopra delle forze, anche soprannaturali, di una natura creata. L’intelligenza finita, a credergli, non può donoscere Dio che nelle sue manifestazioni esteriori. « Siccome Dio non può, anche con la luce della gloria, comunicarsi totalmente agli esseri finiti, non ha potuto rivelare e comunicare la sua essenza ai beati che secondo un modo adattato alle intelligenze finite, e questo modo è il seguente: Dio si manifesta ad essi intanto che è in relazione con essi, come loro creatore, loro provvidenza, loro redentore e loro santificatore   [(Cum Deus non possit, nec per lumen glorie, totaliter se communicare entibus flnitis, non potuit essentiam suam comprehensoribus revelare et communicare nisi eo modo qui finitîs intelligentes sit accomodatus: scilicut Deus se illis manifestat quatenus cum ipsis revelationem habet ut eorum creator, provisor, redempior, sanctificator. (Prop. XL)] ». Così Rosmini, che attribuisce all’intelligenza naturale il potere di conoscere l’essere stesso del Verbo, nega all’intelligenza elevata dai doni soprannaturali, la facoltà di vedere Dio in se stesso nella sua essenza assoluta. Secondo lui, l’ordine della conoscenza naturale va fino all’Essere divino, racchiuso, è vero, nei limiti delle creature; al contrario, l’ordine della conoscenza soprannaturale non può elevarsi fino all’Essere divino preso assolutamente. Dopo aver esaltato la natura fino ad attribuirle gli effetti della grazia, egli abbassa la grazia fino a rinchiuderla nei confini della natura. Ancora uno stesso principio si nasconde sotto questi errori diversi. Rosmini resta l’entusiasta ammiratore dell’essere, di questo essere in generale che confonde con l’Essere divino. È questo essere, ai suoi occhi così grande e così universale, che è l’oggetto di ogni conoscenza, della conoscenza soprannaturale così come della conoscena naturale: il bambino che si desta alla ragione la conosce già; l’eletto arrivato alla consumazione della gloria, non conosce che se stesso.

XV

ULTIME OSSERVAZIONI

68. Tali sono i principali errori di Rosmini. Altri errori meno importanti sono conseguenza di questi citati. La Santa Sede li menziona e li riprova in generale, senza segnalarli nei particolari; essa vieta ai Cattolici però di interpretare il suo silenzio al riguardo come prova di una qualsivoglia approvazione [(Propositions quæ sequuntur in proprio Auctoris sensu reprobandas, damnandas ac proscribendas esse indicavit, prout hoc generali decreto reprobàt, damnât, proscribit; quin exinde cuiquam deducere liceat ceteras ejusdem Auctoris doctrinas quæ per hoc decretum non damnantur ullo modo adprobari. [Decretum S. Cong. )]. Non vi sono, in effetti, questioni filosofiche, e non poche questioni teologiche che il Rosmini non abbia cercato di risolvere e nelle quali non si sia ingannato in soluzioni contrarie alle dottrine della Scuola.

69. In fondo a tutti gli errori teologici di Rosmini, in fondo a tutti gli errori filosofici, si riconosce sempre uno stesso errore: la confusione tra l’essere generale e l’essere divino. Questa confusione è il fondamento del panteismo di Fichte, di Shelling e soprattutto di Hegel; la stessa confusione è il fondamento del sistema rosminiano. Rosmini, come Hegel, si persuade che le cose siano in se stesse, il modo stesso di essere che nell’intelligenza. Siccome l’essere è conosciuto sotto una forma astratta, questi due dotti realizzano nell’ordine ontologico un essere realmente esistente con i caratteri di astrazione che ha nello spirito. Rosmini, non più di Hegel, non conosce questa verità elementare della filosofia cristiana, e cioè che l’essere non è univoco, che l’Essere divino e l’essere non hanno una medesima ragione, ma sono solamente analoghi l’uno all’altro. Rosmini, come Hegel, ha confuso i trascendentali di cui parlano i filosofi con i generi supremi. Egli ha fatto del primo dei trascendentali, l’essere in generale, un genere supremo di cui la ragione conviene allo stesso modo alla sostanza divina che alla sostanza creata. Se Rosmini non professa apertamente il panteismo, anche se è guidato dagli stessi principi  nel suo sistema, è solo perché ne è allontanato dalla sua fede. Come Cristiano, egli cerca di sfuggire a conseguenze alle quali le conduce la sua filosofia: egli lotta contro di esse, lotta contro i suoi principi. Ma in questa lotta, respinge le affermazioni più grossolane del panteismo, prendendone le formule essenziali. Il suo linguaggio è molte volte smile a quello dei panteisti, e sebbene si protestasse altamente di essere figlio sottomesso della Chiesa Cattolica, poteva essere ben considerato come un filosofo rivoltato contro di essa.

70. E terminiamo con un’ultima riflessione. La diffusione presente degli errori rosminiani come, da qualche anno, quello degli errori di Lamennais, attesta uno strano indebolimento del senso filosofico, un’incredibile diminuzione delle verità filosofiche. Così non è senza una grande intelligenza delle necessità attuali della Chiesa, che il grande Papa Leone XIII, applica tutti i suoi sforzi nel resuscitare nel mondo la filosofia cristiana, ad invitare la generazione presente alle lezioni della Scuola, particolarmente di colui che ne è il Dottore principale. Possano tutti i maestri di Italia, docili alle direttive del Capo della Chiesa, abbandonare Rosmini ed attaccarsi all’Angelo della Scuola!

[Questo augurio purtroppo non si è realizzato, perchè le bislacche tesi rosminiane, … apparentemente bislacche, in realtà guidate da una precisa volontà destabilizzante, di matrice gnostico-cabalistica, sono state riesumate, come cadavere fetido, nella falsa chiesa dell’uomo, dalla setta del “novus ordo” ed addirittura esaltate dagli gnostici marrani usurpanti il Trono di S. Pietro. Per noi Cattolici Romani, è importante aver cognizioni delle tesi gnostiche rosminiane, benchè ripugnanti e fastidiose, per poterle decodificare e “scansare” accuratamente nel modernismo satanico attuale che, come tutti gli inganni gnostici da sempre perpetrati, si presenta con la maschera bonaria del lupo travestito, pronto ad azzannare e condurre al fuoco eterno, chiunque, volutamente o inconsapevolmente, si avvicini ad esso, sia pure solo sfiorandolo. Attenti quindi a questo altro lupo che, sotto l’aspetto di un sacerdote pio ed umile, come angelo vestito di (falsa) luce, spaccia veleno gnostico mortale. Che Dio ce ne guardi, e la Vergine Maria, che da sola distrugge tutte le eresie, ci protegga e ci conduca alla salvezza.

 

A. Rosmini,

… uno gnostico stroncato dalla “vera” Chiesa Cattolica, riabilitato nella chiesa universale dell’uomo, la sinagoga si satana, il satanico Novus Ordo, gestito dai modernisti-marrani infiltrati, usurpanti e sostenuti dalle sette eretiche dei “gallicani fallibilisti”, dei “gallicani tesisti”, e delle molteplici “settuncole” sedevacantiste pseudo-tradizionaliste!

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Decreto del Sant’Uffizio

POST OBITUM

[Testo latino e traduzione italiana

– Progetto Barruel- ](*)

(*) Il sito del progetto Barruel, è un sito a-cattolico paramodernista scismatico, che pubblica documenti della Chiesa Cattolica “ante-golpe” del 1958. La traduzione che riportiamo è però funzionale agli articoli ed utile nella comprensione, in lingua vernacolare, del documento citato.

Feria IV die 14 decembris 1887.

Post obitum Antonii Rosmini Serbati quædam eius nomine in lucem prodierunt scripta, quibus plura doctrinae capita, quorum germina in prioribus huius Auctoris  libris continebantur clarius evolvuntur atque explicantur. Quae res accuratiora studia non hominum tantum in theologicis ac philosophicis disciplinis præstantium, sed etiam Sacrorum in Ecclesia Antistitum excitarunt. Hi non paucas propositiones, quae catholicæ veritati haud consonæ videbantur, ex posthumis præsertim illius libris exscripserunt, et supremo S. Sedis indicio subiecerunt.

Porro SS.mus D. N. Leo divina providentia Papa XIII, cui maxime curæ est ut depositum catholicæ doctrinæ ab erroribus immune purumque servetur, delatas propositiones Sacro consilio E.morum Patrum Cardinalium in universa christiana republica Inquisitorum Generalium examinandas commisit.

Quare, uti mos est Supremæ Congregationis, instituto diligentissimo examine, factaque earum propositionum collatione cum reliquis Auctoris doctrinis prout potissimum ex posthumis libris elucescunt, propositiones quae sequuntur, in proprio Auctoris sensu reprobandas, dainnandas ac proscribendas esse iudicavit, prout hoc generali decreto reprobat, damnat, proscribit; quin exinde cuiquam deducere liceat ceteras eiusdem Auctoris doctrinas quæ per hoc decretum non damnantur ullo modo adprobari.

Facta autem de his omnibus SS. mo D. N. Leoni XIII accurata relatione, Sanctitas Sua decretum E.morum Patrum adprobavit, confirmavit, atque ab omnibus servari mandavit.

Feria 4° il dì 14 Decembre 1887.

[Dopo la morte di Antonio Rosmini Serbati uscirono alla luce, sotto il nome di lui, alcuni scritti, nei quali vengono più chiaramente svolti e spiegati parecchi capi di dottrina, i cui germi erano contenuti nei libri precedenti di questo Autore. Le quali cose mossero a fare studii più accurati non solo uomini prestanti nelle filosofiche e teologiche discipline, ma anche i Sacri Pastori della Chiesa. Questi estrassero dai libri di lui, specialmente postumi, non poche proposizioni, le quali non sembravano conformi alla verità cattolica, e le sottoposero al supremo giudizio della Santa Sede.

Quindi il SS.mo S. N. Leone per divina provvidenza Papa XIII, a cui sopra tutto è a cuore, che il deposito della dottrina cattolica si conservi immune e puro da errori, diè incarico di esaminare le denunziate proposizioni al Sacro consiglio degli E.mi Cardinali, Inquisitori Generali in tutta la Repubblica Cristiana.

Pertanto, come è costume della Suprema Congregazione, impreso un esame diligentissimo, e fatto il confronto di quelle proposizioni con le altre dottrine dell’Autore, massimamente secondo che risultano chiare dai libri postumi; giudicò doversi riprovare, condannare, nel proprio senso dell’Autore, come di fatto con questo generale decreto riprova, condanna e proscrive le seguenti proposizioni: senza che, per questo, sia lecito a chicchessia di inferire, che le altre dottrine del medesimo Autore, che non vengono condannate per questo decreto, sieno per veruna guisa approvate. Fatta dipoi di tutto ciò accurata relazione al SS.mo S. N. Leone XIII, la S. S. approvò, confermò il decreto degli E.mi Padri, ed ingiunse che fosse da tutti osservato.

Ecco le proposizioni condannate:

I. In ordine rerum creatarum immediate manifestatur humano intellectui aliquid divini in se ipso, huiusmodi nempe quod ad divinam naturam pertineat.

1. Nella sfera del creato si manifesta immediatamente allo umano intelletto qualche cosa di divino in se stesso, cioè tale che alla divina natura appartenga — (Teosof. Vol. IV. n. 2, pag. 6).

II.  Cum divinum dicimus in natura, vocabulum istud divinumnon usurpamus ad significandum effectum non divinum causae divinae; neque mens nobis est loqui de divinoquodam quod tale sit per participationem.

2. Dicendo il divino nella natura, non prendo questa parola divinoa significare un effetto non divino di una causa divina. Per la stessa ragione non è mia intenzione di parlare di un divino che sia tale per partecipazione — (Ivi).

III. In natura igitur universi, idest in intelligentiis quæ in ipso sunt, aliquid est, cui convenit denominatio divini non sensu figurato sed proprio. Est actualitas non distincta a reliquo actuelitatis divinæ.

3. Vi è dunque nella natura dell’universo, cioè nelle intelligenze che sono in esso, qualche cosa a cui conviene la denominazione di divino non in senso figurato, ma in un senso proprio — (Teosofia, vol. IV, Del divino nella natura, n. 15, p. 18.) — È una… attualità indistinta dal resto dell’attualità divina, indivisibile in sè, divisibile per astrazione mentale — (Teosofia, Vol. III, n. 1423, p. 344).

IV. Esse indeterminatum, quod procul dubio notum est omnibus intelligentiis, est divinum illud quod homini in natura manifestatur.

4. L’essere indeterminato (essere ideale), il quale è indubitatamente palese a tutte le intelligenze (è quel divino che) si manifesta all’uomo nella natura — (Teosofia, Vol. IV, nn. 5 e 6, p. 8).

V. Esse quod homo intuetur necesse est ut sit aliquid entis necessarii et æterni, causæ creantis, determinantis ac finientis omnium entium contingentium: atque hoc est Deus.

5. L’essere intuito dall’uomo deve necessariamente essere qualche cosa di un ente necessario ed eterno, causa creante, determinante e finiente di tutti gli enti contingenti; e questo è Dio (Teosof. Vol. I, n. 298, p. 241).

VI. In esse quod præscindit a creaturis et a Deo quod est esse indeterminatum, atque in Deo, esse non indeterminato sed absoluto, eadem est essentia.

6. Nell’uno (essere che prescinde dalle creature e da Dio, e che è l’essere indeterminato) e nell’altro essere (che non è più indeterminato, ma Dio stesso, essere assoluto) c’è la stessa essenza — (Teos. Vol. II, n. 848, p. 150).

VII. Esse indeterminatum intuitionis, esse initiale, est aliquid Verbi, quod mens Patris distinguit non realiter sed secundum rationem a Verbo.

7. L’essere indeterminato della intuizione… l’essere iniziale… è qualche cosa del Verbo, che ella (la mente del Padre) distingue non realmente, ma secondo la ragione, dal Verbo (Teosof. Vol. II. n. 848, p. 150; Vol. I. n. 490, p. 445).

VIII. Entia finita quibus componitur mundus resultant ex duobus elementis, idest ex termino reali finito et ex esse initiali quod eidem termino tribuit formam entis.

8. Gli enti finiti che compongono il mondo risultano da due elementi, cioè dal termine reale finito e dall’essere iniziale che dà a questo termine la forma di ente — (Teosof. Vol. I n. 454, p. 396).

IX. Esse, obiectum intuitionis, est actus initialis omnium entium. Esse initiale est initium tam cognoscibilium quam subsistentium: est pariter initium Dei, prout a nobis concipitur, et creaturarum.

9. L’essere, oggetto dell’intuito… è l’atto iniziale di tutti gli enti ( Teosof. Vol. III n.1235, p. 73). — L’essere iniziale dunque è inizio tanto dello scibile quanto del sussistente… è egualmente inizio di Dio, come da noi si concepisce, e delle creature — (Teosof. Vol. I n. 287 p. 229; n. 288, p. 230).

X. Esse virtuale et sine limitibus est prima ac simplicissima omnium entitatum, adeo ut quælibet alia entitas sit composita, et inter ipsius componentia semper et necessario sit esse virtuale. — Est pars essentialis omnium omnino entitatum, utut cogitatione dividantur.

10. L’essere virtuale e senza termini (Divino in sè stesso appartenenza di Dio) è la prima e la più semplice delle entità, per cosi fatto modo che qualunque altra entità è composta, e tra i suoi componenti c’è l’essere virtuale sempre e necessariamente. — L’essere virtuale è parte essenziale di tutte affatto le entità, per quantunque col pensiero si dividano — (Teosof. Vol. I p. 221; n. 281, p. 223).

XI. Quidditas (id quod res est) entis finiti non constituitur eo quod habet positivi, sed suis limitibus. Quidditas entis infiniti constituitur entitate, et est positiva; quidditas vero entis finiti constituitur limitibus entitatis, et est negativa.

11. La quiddità (ciò che una cosa è) dell’ente finito non è costituita da cio che egli ha di positivo, ma dai suoi limiti… La quiddità dell’ente infinito è costituita dall’entità, ed è positiva, e la quiddità dell’ente finito è costituita dal limiti dell’entità, ed è negativa — (Teos. Vol. I n. 726, p. 708-709).

XII. Finita realitas non est, sed Deus facit eam esse addendo infintitæ realitati limitationem. Esse initiale fit essentia omnis entis realis. Esse quod actuat naturas finitas, ipsis coniunctum, est recisum a Deo.

12. La realtà finita non è, ma egli (Dio) la fa essere coll’aggiungere alla realità infinita la limitazione — (Teosof. Vol. I. n. 681, p. 658). — L’essere iniziale… diventa l’essenza di ogni ente reale — (Ivi Vol. I. n. 458, p. 399). — L’essere che attua le nature finite, a questo congiunto, essendo reciso da Dio… (Ivi Vol. III. n. 1425, p. 346).

XIII. Discrimen inter esse absolutum et esse relativum non illud est quod intercedit substantiam inter et substantiam, sed aliud multo maius; unum enim est absolute ens, alterum est absolute non-ens. At hoc alterum est relativum ens. Cum autem ponitur ens relativum, non multiplicatur absolute ens; hinc absolutum et relativum absolute non sunt unica substantia, sed unicum esse; atque hoc sensu nulla est diversitas esse, imo habetur unitas esse.

13. La differenza che passa tra l’essere assoluto e il relativo non è quella di sostanza a sostanza, ma una molto maggiore…; perocchè s’ha differenza di essere in questo senso che l’uno è assolutamente ente, l’altro è assolutamente non-ente. Ma questo secondo è relativamente ente. Ora col porre un ente relativo non si moltipica assolutamente l’ente; sicchè rimane, che assolutamente l’assoluto e il relativo sia non già una sostanza sola, ma bensì un essere solo, e in questo senso non v’abbia diversità di essere anzi unità di essere — (Teosof. Vol. V. cap. IV, pag. 9).

XIV. Divina abstractione producitur esse initiale, primum finitorum entium elementum; divina vero imaginatione producitur reale finitum, seu realitates omnes quibus mundus constat.

14. Coll’astrazione divina abbiamo veduto come sia stato prodotto l’essere iniziale, primo elemento degli enti finiti; coll’imaginazione divina, abbiamo pure veduto come sia stato prodotto il reale finito — tutte le realità di cui consta l’universo — (Teosof. Vol. I. n. 463, p. 408).

XV. Tertia operatio esse absoluti mundum creantis est divina synthesis, idest unio duorum elementorum: quæ sunt esse initiale, commune omnium finitorum entium initium, atque realefinitum, seu potius diversa realia finita, termini diversi eiusdem esse initialis. Qua unione creantur entia finita.

15. La terza operazione dell’essere assoluto creante il Mondo è la sintesi divina, cioè l’unione dei due elementi, l’essere inizialeinizio comune di tutti gli enti finiti, e il realefinito, o per dir meglio i diversi reali finiti, termini diversi dello stesso essere iniziale. Colla quale unione sono creati gli enti finiti — (Ivi).

XVI. Esse initiale per divinam sythesim ab intelligentia relatum, non ut intelligibile sed mere ut essentia, ad terminos finitos reales, efficit ut existant entia finita subiective et realiter.

16. Riferito dall’intelligenza per mezzo della sintesi divina, l’essere iniziale, non come intelligibile, ma puramente come essenza, ai termini reali finiti, fa che esistano gli enti finiti subiettivamente e realmente — (Teosof. Vol. I. n. 464, p. 410).

XVII. Id unum efficit Deus creando, quod totum actum esse creaturarum integre ponit: hic igitur actus proprie non est factus, sed positus.

17. Quello che fa Iddio (creando) è unicamente di porre tutto intero l’atto dell’essere nelle creature: dunque quest’atto non è propriamente fatto, ma è posto(Teos. Vol. I. n. 412, p. 350).

XVIII. Amor quo Deus se diligit etiam in creaturis, et qui est ratio qua se determinat ad creandum, moralem necessitatem constituit, quæ in ente perfectissimo semper inducit effectum: huiusmodi enim necessitas tantummodo in pluribus entibus imperfectis integram relinquit libertatem bilateralem.

18. Vi ha una ragione in Dio stesso per la quale ei si determina a creare; e questa ragione è di novo l’amore di se stesso, il quale si ama anche nelle creature. Quindi la divina sapienza, come meglio altrove esporremo, trova esser cosa conveniente la creazione, e questa semplice convenienza basta a far sì che l’Essere perfettissimo vi si determini. Ma non si deve confondere questa necessita di convenienza con quella necessità che nasce della forma reale dell’essere, e che necessita fisica si suol chiamare. La necessità di convenienza è una necessità morale, cioè veniente dall’Essere sotto la sua forma morale; e la necessità morale non sempre induce l’effetto che ella prescrive; ma lo induce solo nell’essere perfettissimo, e non negli esseri imperfetti (a molti de’ quali rimane perciò la libertà bilaterale), perchè l’Essere perfettissimo è insieme moralissimo, cioè ha compiuta in sè ogni esigenza morale (Teosof. Vol. I n. 51, p. 49-50).

XIX. Verbum est materia illa invisa ex qua, ut dicitur Sap. XI 18, creatæ fuerunt res omnes universi.

19. Il Verbo è quella materia invisada cui dice il libro della Sapienza (XI. 18) che furono create le cose tutte dell’universo (Introd. del Vangelo seconde Giov. lez. 37, pagina 109).

XX. Non repugnat ut anima humana generatione multiplicetur, ita ut concipiatur eam ab imperfecto, nempe a gradu sensitivo, ad perfectum, nempe ad gradum intellectivum, procedere.

20. Niente ripugna che il soggetto, di cui si parla si moltiplichi per via di generazione — (Psicolog. I. 4, n. 656). — Noi abbiamo già detto che la generazione dell’anima umana si può concepire per gradi progressivi dall’imperfetto al perfetto, e pero che prima ci sia il principio sensitivo, il quale, giunto alla sua perfezione colla perfezione dell’organismo, riceva l’intuizione dell’essere, e cosi si renda intellettivo e razionale — (Teosof. Vol. I. n. 646, pag. 619).

XXI. Cum sensitivo principio intuibile fit esse, hoc solo tactu, hac sui unione, principium illud antea solum sentiens, nunc simul intelligens, ad nobiliorem statum evehitur, naturam mutat, ac fit intelligens, subsistens atque immortale.

21. Rendendosi l’essere intuibile al detto principio (sensitivo), con questo solo toccamento, con questa unione di sè, il principio prima solo senziente, ora anco intelligente, si solleva a più alto stato, cangia natura, rendesi intellettivo, sussistente, immortale — (Antropol. I. 4. c. 5, n. 819). — Quindi si offre alla mente l’espressione che il principio sensitivo sia divenuto principio razionale, che si sia convertito in un altro, avendo subito veramente una tale permutazione — (Teosof. Vol. I. n. 646, p. 619).

XXII. Non est cogitatu impossibile divina potentia fieri posse ut a corpore animato dividatur anima intellectiva, et ipsum adhuc maneat animale: maneret nempe in ipso, tanquam basis puri animalis, principium animale, quod antea in eo erat veluti appendix.

22. Quanto poi alle appendici di cui parliamo, cioè al corpo animato, non è certo impossibile il pensare, che dalla potenza divina possa esser da lui divisa l’anima intellettiva, ed egli tuttavia rimanersi nella qualità di animale, rimanendo il principio animale, che prima esisteva come appendice, siccome base del novo ente, cioè del puro animale che rimarrebbe — (Teosof. Vol. I. n. 621, pag. 591).

XXIII. In statu naturali, anima defuncti existit perinde ac non existeret: cum non possit ullam super seipsam reflexionem exercere, aut ullam habere sui conscientiam, ipsius conditio similis dici potest statui tenebrarum perpetuarum et somni sempiterni.

23. Questa (l’anima del defunto) esiste certamente, ma e come se non esistesse — (Teodicea, Appendice, art. 10, p.638). — Nel quale stato (di natura) non essendo a lei (all’anima separata) possibile alcuna riflessione su di se stessa, nè alcuna coscienza, la sua condizione si potrebbe rassomigliare ad uno stato di perpetue tenebre, e di sempiterno sonno — (Introduz. del Vangelo secondo Giov. lez. 69, p. 217).

XXIV. Forma substantialis corporis est potius effectus animæ, atque interior terminus operationis ipsius: propterea forma substantialis corporis non est ipsa anima. Unio animæ et corporis proprie consistit in immanenti perceptione, qua subiectum intuens ideam affirmat sensibile, postquam in hac eius essentiam intuitum fuerit.

24. La forma sostanziale del corpo è piuttosto un effetto dell’anima e il termine interno delle sue operazioni; e però non è l’anima stessa che sia la forma sostanziale del corpo (Psicol. Par. II, 1. I, c. II, n. 849). — L’unione dell’anima col corpo consiste propriamente in una percezione immanente, per la quale il soggetto intuente l’idea afferma il sensibile dopo averne in questa intuita l’essenza — (Teosof. Vol. V. c. LIII, art. II, § 5, V. 4°, p. 377)

XXV. Revelato mysterio SS. Trinitatis, potest ipsius existentia demonstrari argumentis mere speculativis, negativis quidem et indirectis, huiusmodi tamen ut per ipsa veritas illa ad philosophicas disciplinas revocetur, atque fiat propositio scientifica sicut ceteræ: si enim ipsa negaretur, doctrina theosophica puræ rationis non modo incompleta maneret, sed etiam omni ex parte absurditatibus scatens annihilaretur.

25. Il mistero della Triade… dopo che fu rivelato, esso rimane bensì incomprensibile nella sua propria natura… ma ben… si può conoscere quella (l’esistenza) d’una Trinità in Dio in un modo almeno congetturale con ragioni positive e dirette, e dimostrativamente con ragioni negative ed indirette; e che, mediante queste prove puramente speculative dell’esistenza di un’augustissima Triade, questa misteriosa dottrina rientra nel campo della filosofia. — Questa esistenza (della SS.ma Trinità) diventa una proposizione scientifica come le altre. — Qualora si negasse quella Trinità, ne verrebbero da tutte le parti conseguenze assurde apertamente… O conviene ammettere la divina Triade, o lasciare la dottrina teosofica di pura ragione incompleta non solo, ma pugnante d’ogni parte seco medesima, e dagli assurdi inevitabili straziata a del tutto annullata — (Teos. Vol. I, nn. 191, 193, 194, pp.155—158.)

XXVI. Tres supremæ formæ esse nempe subiectivitas, obiectivitas, sanctitas, seu realitas, idealitas, moralitas, si transferantur ad esse absolutum, non possunt aliter concipi nisi ut personæ subsistentes et viventes. Verbum, quatenus obiectum amatum, et non quatenus Verbum idest obiectum in se subsistens per se cognitum, est persona Spiritus Sancti.

26. L’essere nelle tre forme (subbiettività, obbiettività, santità,o per dirlo altramente: realità, idealità, moralità) è identico. — Le tre forme poi dell’essere, ove si trasportino nell’Essere assoluto, non si possono più concepire in altro modo, che come persone sussistenti e viventi (Vol. I, numeri 190, 196, pp. 154, 159). — Il Verbo in quantoè oggetto amato, e non in quanto è Verbo, cioè oggetto sussistente per sè cognito, è la persona dello Spirito Santo (Introduzione del Vangelo secondo Giov. Lez. 65, p. 200).

XXVII. In humanitate Christi humana voluntas fuit ita rapta a Sp. Sancto ad adhærendum Esse objectivo, idest Verbo, ut illa Ipsi integre tradiderit regimen hominis, et Verbum illud personaliter assumpserit, ita sibi uniens naturam humanam. Hinc voluntas humana desiit esse personalis in homine, et, cum sit persona in aliis hominibus, in Christo remansit natura.

27. Nella umanità di Cristo la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito Santo ad aderire all’essere oggettivo, cioè al Verbo, che ella cedette intieramente a lui il governo dell’uomo, e il Verbo personalmente ne prese il regime, cosi incarnandosi, rimanendo la volontà e le altre potenze subordinate alla volontà in potere del Verbo, che, come primo principio di quest’essere Teandrico, ogni cosa faceva, o si faceva dalle altre potenze col suo consenso. Onde la volontà umana cesso di essere personale nell’uomo, e da persona che è negli altri uomini rimase in Cristo natura… Il Verbo poi, incarnato cosi per opera dello Spirito Santo, estese la sua unione a tutte le potenze ed alla carne stessa — (Introduz. del Vangelo secondo Giov. lez. 85, pag. 281).

XXVIII. In christiana doctrina, Verbum, character et facies Dei, imprimitur in animo eorum qui cum fide suscipiunt baptismum Christi. – Verbum, idest character in anima impressum, in doctrina christiana est Esse reale (in finitum) per se manifestum, quod deinde novimus esse secundam personam SSmæ Trinitatis.

28. Insegno dunque il Cristianesimo che il Verbo, carattere e faccia di Dio, come viene anche sovente chiamato nelle Scritture, s’imprime nelle anime di quelli che colla fede ricevono il battesimo di Cristo (Introduz. alla Filosofia, n. 92). — Il Verbo dunque, ossia il carattere impresso nell’anima, secondo il cristiano insegnamento è l’essere reale (infinito) per sè manifesto, il quale dipoi sappiamo essere una persona, la seconda della divina Trinità. (Ivi nota).

XXIX. A catholica doctrina, quæ sola est veritas, minime alienam putamus hanc coniectu ram: In eucharistico Sacramento substantia panis et vini fit vera caro et verus sanguis Christi, quando Christus eam facit terminum sui principii sentientis, ipsamque sua vita vivificat: eo ferme modo quo panis et vinum vere transubstantiantur in nostram carnem et senguinem, quia fiunt terminus nostri principii sentientis.

29. Non crediamo aliena dalla dottrina cattolica, che solo è verità, la seguente conghiettura (cioè che nell’Eucaristico Sacramento) la sostanza del pane e del vino ha cessato intieramente d’essere sostanza del pane e del vino, ed è divenuta vera carne e vero sangue di Cristo, quando Cristo la rese termine del suo principio senziente, e così l’avvivo della sua vita, a quel modo come accade nella nutrizione, che il pane che si mangia e il vino che si beve, quando è, nella sua parte nutritiva, assimilato alla nostra carne e al nostro sangue, egli è veramente transustanziato, e non è più come prima pane o vino, ma è veramente nostra carne e nostro sangue, perché è divenuto termine del nostro principio sensitivo. — (Introduzione del Vang. secondo Giov. lez. 87, pp. 285-286).

XXX. Peracta transubstantiatione, intelligi potest, corpori Christi glorioso partem aliquam adiungi in ipso incorporatam, indivisam pariterque gloriosam.

30. Avvenuta la transustanziazione, si può intendere che al corpo glorioso (di G. Cristo) si sia aggiunta qualche parte in esso incorporata ed indivisa e del pari gloriosa. — (Ivi).

XXXI. In Sacramento eucharistiæ, vi verborum corpus et sanguis Christi est tantum ea mensura quæ respondet quantitati (a quel tanto ) substantiæ panis et vini quæ transubstantiantur: reliquum corporis Christi ibi est per concomitantiam.

31. Appunto perché il corpo di Cristo è unico ed indiviso, egli è necessario che dove si trovi una parte si trovi tutto…; ma non tutto quel corpo diviene termine del suo principio senziente, ma unicamente quella parte che corrisponde a quel tanto che v’aveva di sostanza di pane e di sostanza di vino nella transustanziazione. Ancora ne verrebbe che in virtù delle parole divine questa sostanza del pane e del vino si transustanziasse in carne e sangue del Salvatore ; ma il rimanente del corpo e del sangue vi rimanesse unito per concomitanza; il che non par contrario alla dottrina cattolica — (Ivi, p. 286, seg.).

XXXII. Quoniam qui non manducat carnem Filii hominis et bibit eius senguinem, non habet vitam in se; et nihilominus qui moriuntur cum baptismate aquæ, sanguinis aut desiderii certo consequuntur vitam æternam: dicendum est, his, qui in hac vita non comederunt corpus et sanguinem Christi subministrari hunc coelestem cibum in futura vita, ipso mortis instanti. – Hinc etiam Sanctis V. T. potuit Christus descendens ad inferos seipsum communicare sub speciebus panis et vini, ut aptos eos redderet ad visionem Dei.

32. Se dunque chi non mangia la carne del Figliolo dell’uomo, e bee il suo sangue, non ha la vita in se stesso, e tuttavia chi muore col battesimo d’acqua, o di sangue o di desiderio, è certo che acquista la vita eterna; convien dire che quella comestione della carne e del sangue di Cristo, che non fece nella vita presente, gli verrà somministrata nella futura al punto della sua morte e cosi avra la vita in sè stesso… Anche a’ Santi dell’antico Testamento, quando Cristo discese ai Limbo, potè Cristo communicare se stesso sotto la forma di pane e di vino, e così… renderli atti alla visione di Dio. — (Introd. del Vang. secondo Giovanni, lez. 74, p. 238).

XXXIII. Cum dæmones fructum possederint, putarunt se ingressuros in hominem si de illo ederet; converso enim cibo in corpus hominis animatum, ipsi poterant libere ingredi animalitatem, idest in vitam subiectivam huius entis, atque ita de eo disponere sicut proposuerant.

33. (I demonii) impossessatisi di un frutto pensarono che entrerebbero nell’uomo, quando egli, spiccatolo dall’albero, ne mangiasse; giacchè, il cibo convertendosi nel corpo animato dell’uomo, essi potevano entrare a man salva nell’animalità, ossia nella vita soggettiva di questo essere, e farne quel governo che si proponevano. — (Introduz. del Vang. secondo Giov. lez. 63, p. 191).

XXXIV. Ad præservandam B. V. Mariam a labe originis, satis erat ut incorruptum maneret minimum semen in homine, neglectum forte ab ipso dæmone; e quo incorrupto semine, de generatione in generationem transfuso, suo tempore oriretur Virgo Maria.

34. Preservò (Iddio) dal peccato originale una donzella…; alla quale preservazione dall’infezione originale bastava che rimanesse incorrotto un menomo seme nell’uomo, trascurato forse dal demonio stesso, dal quale seme incorrotto passato di generazione in generazione uscisse a suo tempo la Vergine — (Ivi, lez. 64, p. 193).

XXXV. Quo magis attenditur ordo iustifcationis in homine, eo aptior apparet modus dicendi scripturalis quod Deus peccata quædam tegit aut non imputat. — Juxta Psalmistam discrimen est inter iniquitates quæ remittuntur et peccata quæ teguntur: illæ, ut videtur, sunt culpæ actuales et liberæ, hæc vero sunt peccata non libera eorum qui pertinent ad populum Dei, quibus propterea nullum afferunt nocumentum.

35. Più che altri considera questo ordine della giustificazione dell’uomo, più troverà acconcia la maniera scritturale di dire che Dio cuopre certi peccati o non gl’imputa. Infatti col battesimo non si distrugge la mala volontà naturale, ma le se n’aggiunge una soprannaturale, che cuopre, per così dire, la naturale, e impedisce che quella perda l’uomo. Onde il Salmista dice: Beati, quelli le iniquità dei quali furono rimesse, e i peccati de’ quali furono coperti; dove si fa la differenza fra le iniquità che si rimettono, e i peccati che si cuoprono, e sembra che per quelle si vogliano intendere le colpe attuali e libere, e per questi i peccati non liberi di quelli che appartengono al popolo di Dio, e che pero non ne ricevono più danno alcuno — (Trattato della coscienza morale, l. I, c. 6. a. 2).

XXXVI. Ordo supernaturalis constituitur manifestatione esse in plenitudine suæ formæ realis; cuius communicationis seu manifestationis effectus est sensus (sentimento) deiformis qui inchoatus in hac vita constituit lumen fidei et gratiæ, completus in altera vita constituit lumen gioriæ.

36. L’essere (essenziale) si comunica a noi nella sola forma ideale per natura, e questo costituiscel’ordine naturale; l’essere stesso si manifesta a noi altresì nella pienezza della sua forma realeper grazia, e questa è comunicazione e percezione vera di Dio, e costituisce l’ordine soprannaturale…. l’effetto della comunicazione soprannaturale è un sentimento deiforme, di cui non abbiamo a principio coscienza, come non l’abbiamo di ogni sentimento nostro sostanziale e fondamentale. Or poi il sentimento deiforme, di cui parliamo, è incipiente in questa vita, nella quale costituisce il lume della fedee della grazia; compiuto nell’altra, nella quale costituisce il lume della gloria — (Filosof. del Diritto, Part. II. nn. 674, 676, 677).

XXXVII. Primum lumen reddens animam intelligentem est esse ideale; alterum primum lumen est etiam esse, non tamen mere ideale sed subsistens ac vivens: illud abscondens suam personalitatem ostendit solum suam obiectivitatem; at qui videt alterum (quod est Verbum) etiamsi per speculum et in ænigmate, videt Deum.

37. Il primo lume che rende l’anima intelligente è l’essere ideale ed indeterminato ; l’altro primo lume è ancora l’essere, ma non puramente ideale, ma ben anche sussistenze e vivente…. L’idea adunque è l’essere intuìto dall’uomo, ma non è il Verbo; chè non quella ma questo è sussistenza: quello è l’essere che occulta la sua sussistenza e lascia solo trasparire la sua oggettività indeterminata ed impersonale: nella mente che intuisce l’idea non cade la personalità dell’essere… ma chi vede il Verbo ancorchè per ispecchio ed in enimma, vede Iddio — (Introd. alla Filosofia, n. 85).

XXXVIII. Deus est obiectum visionis beatificæ, in quantum est auctor operum ad extra.

38. Sebbene Iddio senza mezzo alcuno sia oggetto della visione beatificatrice, e forma dell’intelletto dei Beati; tuttavia egli è tale in quanto è autore delle opere ad extra, le quali in un modo ineffabile sono in lui — (Teodicea, num. 672).

XXXIX. Vestigia sapientiæ ac bonitatis quæ in creaturis relucent, sunt comprehensoribus necessaria; ipsa enim in æterno exemplari collecta sunt ea Ipsius pars quæ ab illis videri possit (che è loro accessibile), ipsaque argumentum præbent laudibus, quas in æternum Deo beati concinunt.

39. I vestigii della sapienza e della bontà del creato, lungi dal divenire loro (ai comprensori) inutili, anzi riescono necessarii; perocchè questi vestigii tutti raccolti nell’esemplare eterno sono appunto quella parte di esso che è loro accessibile, onde sono tuttavia quelli che danno argomento alle lodi che a Dio eternamente tributano — (Ivi, n. 674).

XL. Cum Deus non possit, nec per lumen gloriæ, totaliter se communicare entibus finitis, non potuit essentiam suam comprehensoribus revelare et communicare nisi eo modo qui finitis intelligentiis sit accommodatus: scilicet Deus se illis manifestat quatenus cum ipsis relationem habet ut eorum creator, provisor, redemptor, sanctificator.

40. Se dunque non potea (Dio) comunicare se stesso totalmente ad esseri finiti, neppure mediante il lume di gloria, rimane a cercare in che modo Egli poteva rivelare loro e comunicare la propria essenza. Certo in quel modo che alla natura delle intelligenze create è conforme; e questo modo è quello pel quale Iddio ha con esso loro relazione, cioè come creatore loro, come provisore, come redentore, come santificatore — (Ivi, n. 677).

Ioseph Mancini S. Rom. et Univ. Inquisitionis Notarius.

Lettera con la quale l’E.mo Cardinale Segretario del S. Uffizio comunica il Decreto della. S. R. ed Universale Inquisizione e le quaranta proposizioni condannate, a ciascun membro dell’Episcopato cattolico.

Ill.me ac Rm.e Domine,

Hisce adiunctum litteris transmittitur ad Amplitudinem Tuam decretum generale quo Suprema Congregatio Em.orum Patrum una mecum Inquisitorum Generalium, adprobante et confirmante SS.mo Domino Nostro Leone XIII, plures propositiones ex operibus, quae sub nomine Antonii Rosmini Serbati edita sunt, damnantur et proscribuntur. Quapropter excitatur pastoralis cura et vigilantia Amplitudinis Tuae ut a damnatis huiusmodi doctrinis oves fidei tuae concreditas quam diligentissime custodias; ac si qui forte sint in ista dioecesi qui illis adhuc faveant, eos ad S. Sedis iudicium docili animo recipiendum inducere studeas. Præcipue vero eniteris ut mentes adolescentium, eorum praesertim qui in spem Ecclesiæ in Seminario aluntur, germana catholicae Ecclesiæ doctrina e puris fontibus Sanctorum Patrum, Ecclesiae Doctorum, probatorum auctorum, ac praecipue Angelici Doctoris S. Thomae Aquinatis, hausta imbuantur.

Tibi interim fausta omnia ac felicia precor a Domino.

Datum Romæ, die 7 Martii 1888.

Addictissimus in Domino

Card. Monaco.

 

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (30): ERRORI IN ROSMINI (2)

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (30):

Errori in ROSMINI (2)

VI

ERRORI SULLA NATURA DELL’UOMO

24. L’uomo è composto da un corpo e da un’anima. L’anima è una sostanza spirituale, cioè indipendente dal corpo nella esistenza. Essa ha diverse facoltà, le une intrinsecamente indipendenti dal corpo, come la facoltà di comprendere, quella di volere, le altre intrinsecamente dipendenti, come quella di immaginare, quella di vedere. Il corpo riceve dall’anima la vita, il movimento ed anche le attività fisiche e chimiche. L’anima ha un grado di vita che tiene in proprio; è la vista intellettuale, consistente nelle operazioni dell’intelligenza e della volontà. Essa ha due gradi di vita che comunica al corpo, è: 1° la vita vegetativa, che consiste nella nutrizione, l’accrescimento e la riproduzione; 2° la vita sensitiva, che si esercita mediante i sensi esteriori, come la vista, l’udito, etc., ed i sensi interiori, l’immaginaione, l’estimativo, etc. – E non soltanto l’anima comunica al corpo la vita, ma gli comunica anche l’essere sostanziale, di modo tale che il corpo riceve dall’anima sia la proprietà di essere una sostanza vivente, sia quella di essere semplicemente una sostanza. Ecco perché l’anima è chiamata la forma del corpo, perché essa è il principio di tutti gli atti che sono in lui, dell’atto primo, che lo rende sostanza, degli atti secondi, che sono tutte le attività e le proprietà che derivano dalla sostanza. – L’anima è una sostanza, non è un’operazione: essa è prima dell’operazione, essa può essere dopo l’operazione: l’operazione deriva dall’anima, non la costituisce. L’anima non è anche una facoltà, ma il principio dal quale le facoltà emanano, la fonte che si distribuisce in esse. Tali sono le verità che la ragione umana e la fede ci fanno conoscere sulla natura dell’uomo.

25. Rosmini contraddice quasi tutti i punti di questa dottrina. L’anima, egli presume, è costituita sensitiva dal sentimento che essa ha del corpo; essa è costituita intellettuale dall’intuizione che acquisisce dell’essere; essa è unita al corpo dal sentimento del corpo e dalla percezione dell’essere nell’essenza del corpo. Ecco i punti principali del suo sistema.

26. In primo luogo, l’anima, secondo lui, ha originariamente il sentimento del corpo. È questo sentimento che la costituisce nella sua essenza. L’anima sensitiva, egli dice, è essenzialmente un’operazione, un atto sensitivo, il primo atto sensitivo, avendo come termine il corpo; essa è nella sua essenza, il sentimento stesso del corpo. Questo sentimento primo è veramente essenziale all’anima, questo sentimento costitutivo dell’anima sensitiva, è conosciuto nella scuola rosminiana sotto il nome di senso fondamentale. Esso ben merita, nella teoria rosminiana, il qualitativo di fondamentale, poiché è il fondamento di tutta la vita dell’anima e del suo essere in se stesso.

27. In secondo luogo, come l’anima è costituita sensitiva dal sentimento del corpo, così essa è costituita intellettiva dall’intuizione dell’idea. « Quando il principio sensitivo riceve l’intuizione dell’essere, egli dice, il principio, che in precedenza non aveva che il sentire, diviene nello stesso tempo intelligente: con questo solo contatto, con questa unione, esso è elevato ad uno stato più nobile, cambia natura, diviene intelligente, sussistente, immortale [Cum sensitivo principio intuibile fit esse, hoc solo tacta, hac sui unione principium illud antea solum sentiens, nunc simul intelligens, ad nobiliorem statum evehitur, naturam mutat, ac fit intelligens, subsistens atque immortale. (Prop. XXI)]. » Prima della percezione dell’essere, l’anima è solo sensitiva, e come tale, si trova sprovvista di intelligenza, di sussistenza e di immortalità; con l’intuizione dell’idea, del principio puramente sensitivo, essa diviene principio sia sensitivo che intellettuale: principium illud antea solum sentiens, nec simul intelligens. Essa si trova elevata ad uno stato più nobile, perché risale da una vita organica alla vita spirituale: ad nobiliorem statum evehitur. Essa cambia natura: naturam mutat. Diviene ragionevole, sussistente, immortale: fit intelligens, subsistens atque immortale. Rosmini non retrocede davanti ad alcuna di queste espressioni. Così l’anima umana non è ragionevole in virtù della sua natura, ma per effetto di una illustrazione esteriore, per la manifestazione esteriore dell’essere, per manifestationem entis aforis illustrantis. Rosmini insegna espressamente questa dottrina!

28. Ma se l’anima umana non è originariamente ed essenzialmente spirituale o intellettuale, se essa ha cominciato con l’essere solamente sensitiva, essa ha potuto essere il prodotto della generazione come le anime degli animali e delle piante- Rosmini ammette questa conseguenza. « Non ripugna, egli dice, che l’anima umana si moltiplichi per generazione, in modo da poterla concepire come elevarsi gradualmente dall’imperfetto, cioè dal grado dell’essere sensitivo, al perfetto, cioè al grado dell’essere intelligente [Non répugnât ut anima humana generatione multiplicetur, ita ut concipiaiur eam ab imperfecto, nempe a gradu sensitivo, ad perfectum, nempe ad gradum intellectivum procedere. (Prop. XX). »

29. Altra conseguenza. Se l’anima umana è diventata intellettuale e spirituale con una manifestaione esteriore dell’essere, non può cessare di essere ragionevole e ridiventare puramente sensitiva, con la soppressione di questa illuminazione esteriore? Rosmini non respinge questa conclusione. « Non è impossibile pensare, egli dice, che la potenza divina potrebbe separare l’anima intellettiva dal corpo animato e questo assumerebbe il suo carattere animale; essa resterebbe nel corpo in effetti, come base di una pura animalità, un principio animale che, precedentemente, era in lui come appendice [Non est cogitatu impossible divina potentia fieri posse ut a corpore anima intellectiva separetur et ipsum adhuc maneat animale: maneret nempe in ipso, tamquam basis puri animalis, principium animale, quod antea in eo erat veluti appendix. (Prop. XXII) »

30. Altra conseguenza ancora.

Nel sistema rosminiano, l’intuizione dell’essere suppone il sentimento del corpo o il senso fondamentale, perché il principio intellettivo è il coronamento de del principio sensitivo. Così senza il senso fondamentale, ogni esercizio della vita intellettuale è impossibile. Rosmini conclude da questo principio che il defunto non ha più conoscenza attuale: « Nello stato naturale, egli dice, l’anima del defunto esiste come se non esistesse; poiché non può fare riflessione su se stessa, né aver alcuna coscienza di se stessa, si può dire che la sua condizione è simile ad uno stato di tenebre perpetue e di sonno eterno [In statu naturali, anima defuncti existit perinde ac non existeret: cum non possit ullam super seipsam reflexionem exercere, aut ullam habere sui conscientiam, ipsius conditio similis dici potest statui tenebrarum perpetuarum et somni sempiterni. (Prop. XXII)].

31. In terzo luogo Rosmini fa dipendere l’unione dell’anima e del corpo dal senso fondamentale e dalla percezione dell’essere. « L’unione dell’anima e del corpo consiste propriamente nella percezione immanente per la quale, il soggetto, contemplando l’idea, afferma il sensibile di cui ha contemplato l’essenza in questa idea [Unio animæ et corporis proprie consistit in immanenti perceptione, qua subjectum intuens ideam affirmat sensibile, postquam in hac ejus essentiam intuitum fuerit. (Prop. XXIV)]. Vale a dire, se noi comprendiamo bene il pensiero del filosofo, l’anima si unisce al corpo percependone il corpo sensitivamente, ed avendo il sentimento del corpo, ciò che Rosmini chiama il senso fondamentale, intellettivamente vedendone l’essere generale nel sensibile. L’unione dell’anima al corpo ha dunque luogo, secondo Rosmini, non per unione di sostanze, come insegna tutta la Scuola, non pure per la compenetrazione delle virtù, come hanno detto alcuni filosofi, ma per semplice percezione. L’anima sensitiva ed intellettiva si trova unita al corpo, avendo del corpo una percezione sensitiva ed intellettuale. Essa gli è unita perché la conosce! Questa dottrina scuote il buon senso. La conoscenza suppone l’oggetto, non lo fa: la percezione sensitiva o intellettuale del corpo unito, suppone l’unione del corpo, non la costituisce. Ed in effetti, o il corpo che sente l’anima e nel quale raggiunge l’essere, gli è unito, o non gli è unito affatto, l’unione non è l’effetto della percezione; se non gli è unito, l’anima si inganna percependolo come se fosse unito. Non si può uscire da questo dilemma.

32. L’errore di Rosmini sull’unione dell’anima al corpo, lo conduce ad un altro errore sulla forma del corpo. Noi abbiamo visto che l’anima si unisce al corpo percependolo con un atto sensitivo ed un atto intellettivo. Ma, se è così, il corpo ha la sua sostanza ed anche la sua vita indipendentemente dal corpo; esso ha dunque di se stesso una forma sostanziale. Di conseguenza, non è l’anima che è, secondo quanto insegna la Chiesa, la sua forma sostanziale. Chi potrebbe dire in effetti che una percezione è una forma sostanziale, un atto primo, un principio di sostanza? Il corpo ha dunque, fuori dall’anima, la sua forma sostanziale; la forma sostanziale del corpo è il termine dell’azione dell’anima, non è l’anima: « La forma sostanziale, dice Rosmini, è piuttosto un effetto dell’anima ed il termine interiore della sua operazione, ecco perché la forma sostanziale del corpo non è l’anima stessa [(Forma substantialis corporis est potius effectus animæ, atque interior terminus operationis ipsius: propterea forma substantialis corporis non est ipsa anima. (Prop. XXIV)] ».

VII

ERRORI SULLA SANTISSIMA TRINITA’

 33. Gli errori che abbiamo finora esaminati, possono essere tutti chiamati degli errori filosofici; perché essi sono opposti a delle verità che la ragione naturale può dimostrare. Quelli che, al contrario ci restano da esaminare, sono propriamente degli errori teologici: Questi sono degli errori concernenti i dogmi della fede, vale a dire quelle verità soprannaturale di cui la ragione può ammirare l’armonia con le verità naturali, ma che essa non può stabilire con i principi propri. E innanzitutto Rosmini ha insegnato due errori fondamentali sul mistero della Santissima Trinità. In primo luogo, egli ha preteso, come Hermès in Germania, che la ragione umana, con le sue forze naturali, potesse dimostrarne l’esistenza con certezza. Egli confessa che la ragione non può scoprire questo mistero, ma sostiene che essa può provarlo dopo essere stato rivelato. Egli confessa anche che non può provarlo con argomenti diretti e positivi, cioè che non può partire da un principio razionale e dedurne il dogma come una conseguenza che vi sarebbe racchiusa; ma egli pretende di poterlo dimostrare con degli argomenti negativi ed indiretti, cioè con argomenti che stabiliscono che bisogna ammettere il dogma, sotto pena di cadere nell’assurdo. Rosmini sostiene per conseguenza, che il dogma della Santissima Trinità è, propriamente parlando, una verità scientifica. « Posta la rivelazione del mistero della Santissima Trinità, egli dice, la sua esistenza può dimostrarsi con argomenti puramente speculativi, negativi, è vero, ed indiretti, ma di natura tale che per essi, questa verità è ricondotta sul terreno dell’insegnamento filosofico e diventa una verità scientifica come le altre; perché se questa verità fosse negata, la dottrina teosofica di pura ragione, non solo resterebbe incompleta, ma anche si riempirebbe di assurdità su tutti i punti: essa sarebbe annichilita [(Revelato mysterio Sanctissimæ Trinitatis, potest ipsius existentia demonstrari arguments mere speculativis, negativis quidem et indirectis, hujusmodi tamen ut per ipsa veritas illa ad philosophicas disciplinas revocetur, atque fiat propositio scientifica sicut ceteræ; si enim ipsa negaretur, doctrina theosophica puræ rationis non modo incompleta maneret, sed etiam omni ex parte absurditatibus scateus annihilaretur. (Prop. XXV)]. »

35. Questa dottrina è in contraddizione con tutta la tradizione cattolica. Pio IX ha più volte insegnato, contro gli hermèsiani germanici, che, secondo l’unanimità dei Padri e dei teologi cattolici, i dogmi dela fede sono dei misteri per la ragione umana, e che il mistero della Santissima Trinità , il più profondo di tutti, è talmente al di sopra dei lumi della ragione umana, che essa non può né scoprirlo né provarlo. Il Concilio Vaticano ha solennemente definito questo insegnamento. « I misteri divini, dice, oltrepassano talmente per loro natura l’intelligenza creata, che anche dopo essere stati trasmessi dalla rivelazione, e noi li abbiamo ricevuti per fede, essi restano tuttavia coperti dal velo della fede e come avvolti da una certa nebulosità, intanto che viaggiamo in questa vita mortale, lontano dal Signore, perché noi camminiamo verso di Lui con la fede e non con la visione chiara divina [(enim mysteria suapte natura intellectum creatum sic excedunt, nt etiam revelatione tradita et fide suscepta ipsius tamen fidei velamine contecta et quadam quasi caligine obvoluta maneant, quamdiu in hac mortali vita peregrinamur a Domino: Per fidem enim ambulamus et non per speciem. (Constit. De fide cath., cap. IV.)]. »

36. Rosmini non attribuisce alla ragione la forza di provare il mistero della Trinità, se non perché altera la nozione del dogma. La fede ci insegna che Dio sussiste in tre Persone. La sostanza divina ha tre sussistenze, in cui Dio è tre Persone, il Padre, che ha tutta la sostanza divina, ma come principio primo; il Figlio, che ha tutta la sostanza divina ancora, ma ricevuta dal Padre per generazione; lo Spirito-Santo, che ha pure tutta la sostanza divina, ma ricevuta dal Padre e dal Figlio come da un unico principio, con un processo distinto di generazione. Tutto è comune alle tre Persone, eccetto la loro opposizione di origine: Non est distinctio in divinis nisi ubi adsit relationis oppositio. Il Padre ed il Figlio hanno una medesima intelligenza, una stessa volontà, una stessa potenza, una stessa divinità; ma il Padre possiede l’Essere divino come principio; il Figlio per generazione. Lo Spirito Santo ha la stessa intelligenza, la stessa volontà, la stessa potenza, la stessa divinità del Padre e del Figlio; ma Egli possiede l’Essere divino per processione dal Padre e dal Figlio, mentre il Padre ed il Figlio lo posiedono come autori dello Spirito-Santo. Tutto ciò che è assoluto in Dio è unico, il relativo solo è moltiplicato: l’essere e le sue proprietà sono uniche in Dio; le processioni e le proprietà fondate sulle processioni possono solo dirsi al plurale. Tale è l’insegnamento della Chiesa, insegnamento unanime, eclatante, tipetuto mille e mille volte dai Padri, definito dai Concili, prodotto nelle liturgie, spiegato nei catechismi.

37. Rosmini riporta una nuova dottrina. Egli non si accontenta di moltiplicare in Dio il relativo, egli moltiplica l’assoluto. Secondo lui il Padre, il Figlio e lo Spirito-Santo sono le tre forme supreme dell’Essere, vale a dire, come si esprime: la soggettività, l’oggettività e la santità o la realtà, la idealità e la moralità. « Le tre forme suprene dell’essere, egli dice, cioè la soggettività, l’oggettività, la santità, in altri termini la realtà, l’idealità, la moralità, essendo trasferite all’essere assoluto, non possono concepirsi altrimenti che come Persone sussistenti e viventi [(Tres suprEmæ formæ esse, nempe subjectivitas, objectivitas, sanctitas, seu realitas, idealitas moralitas, si transferantur ad esse absolutum, non possunt aliter concipi nisi ut personne subsistentes et viventes. (Prop. XXVI.)] » Il Padre è Dio che è, il Figlio è Dio conosciuto; il Santo-Spirito è Dio amato. « Il Verbo, come oggetto amato, e non in tanto che Verbo, cioè oggetto sussistente in sé e per sé conosciuto, è la Persona dello Spirito-Santo. [(Verbum, quatenus objectum amatum et non quatenus Verbum id est obiectum in se subsistens per se cognitum, est persona Spiritus Sancti. (ibid.)]. »

37 bis. Spieghiamo un po’ il pensiero del filosofo. Tutto l’Essere è. Questa proprietà prima dell’essere, che fa dire di lui che è: ecco ciò che Rosmini chiama la realtà o la soggettività. In secondo luogo, l’essere è intellegibile, cioè può essere conosciuto. Questa proprietà che ha l’essere di poter essere conosciuto, è ciò che la Scuola chiama “la verità dell’essere”, ciò che Rosmini chiama l’oggettività o idealità. In terzo luogo, l’essere è buono: così come è l’oggetto dell’intelligenza, così esso è l’oggetto della volontà; ed anche oggetto dell’intelligenza, esso è intellegibile, così intanto che oggetto della volontà, eso è capace di provocare l’amore. Questa terza proprietà dell’essere è ciò che la Scuola chiama la bontà, e che Rosmini chiama meno giustamente la santità o la moralità. È manifesto che queste tre proprietà convengono essenzialmente all’essere in generale, di conseguenza a tutto l’essere. Ma, in Dio, l’essere appartiene alla natura e non alle relazioni. Le tre proprietà dell’essere non possono dunque essere in Dio qualcosa di relativo, ma solamente di assoluto. Pertanto, esse devono dirsi egualmente del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: il Padre è, il Figlio è, lo Spirito Santo è; il Padre è intellegiile, il Figlio è intellegibile, lo Spirito Santo è intellegibile; il Padre è buono e santo, il Figlio è buono e santo, lo Spirito Santo è buono e santo. Rosmini al contrario, pretende di stabilire, su queste tre proprietà dell’essere, la distinzione delle tre Persone. « Le tre forme supreme dell’essere, dice, e cioè: la soggettività, l’oggettività, la santità; in altri termini la realtà, l’idealità, la moralità, essendo trasferite all’essere assoluto, non possono concepirsi altrimenti che come Persone sussistenti e viventi (Prop. XXVI). » Vale a dire la realtà vivente, è il Padre; l’idealità sussistente, è il Figlio; la santità assoluta, è lo Spirito Santo. Che inversione del mistero!

38. Qui ancora, Rosmini è giunto a causa della sua infatuazione per l’essere in generale. Questo essere è così grande ai suoi occhi, che in precedenza lo ha identificato con l’essere divino; esso è così perfetto che vede ora nelle sue forme le sussistenze o le tre Persone divine.

39. Rosmini non ha visto che la sua teoria della Trinità lo conduce necessaramente al triteismo o al sabellianesimo? In effetti egli ben ammette una distinzione reale tra le tre forme dell’essere; in questo caso, come queste forme non esprimono un rapporto d’origine, ma qualcosa di assoluto, è nella necessità di mettere in Dio tre realtà assolute e, di conseguenza, tre sostanze. – Eppure egli confessa che queste tre forme non hanno tra loro che una differenza di ragione; in questo caso, le tre Persone sono tre concetti dell’assoluto, cioè che non c’è più in Dio che una sola Persona reale, come non c’è in Lui che una sola sostanza divina. Rosmini non è potuto sfuggire a questo dilemma. Dal momento che egli cessa di cercare la distinzione di Persone divine, nell’opposizione di relazione per metterla in una forma assoluta, occorre dunque che egli rigetti le tre Persone e che ammetta tre sostanze.

VIII

ERRORI SULL’INCARNAZIONE

40. Rosmini altera la nozione del mistero dell’Incarnazione, così come quella del dogma della Santissima Trinità. Egli pone l’unione della natura umana alla natura divina nella sottomissione della volontà umana alla volontà divina: « Nella volontà del Cristo, egli dice, la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito-Santo ad aderire all’essere oggettivo, cioè al Verbo, che gli abbandonò integralmente il governo dell’uomo, e che il Verbo assunse, nella sua Persona, questo governo e si unì così la natura umana. [(In humanitate Christi bumana voluntas fuit ita rapta a Spiritu Sancto ad adhærendum Esse objectivo, id est Verbo, ut illa Ipsi intègre tradiderit regimen hominis et verbum illud personaliter assumpserit, ita sibi uniens naturam humanam. (Prop. XXVII)]. Per effetto della grazia dello Spirito-Santo, la volontà umana è tutta catturata dalle attrattive del Verbo: rapta a Spiritu Sancto; Essa si attacca a Lui indissolubilmente: ad adhærendum Esse objectivo, id est Verbo; essa ne dirige la sua condotta e la condotta di tutte le facoltà che dipendono da essa: illa ipsi intègre. La natura umana si trova unita ipostaticamente al Verbo, che essa ha abbandonato alla sua direzione: Verbum illud personaliter assumpserit, ita sibi uniens naturam humanam. La volontà cessa di essere personale per l’effetto della sua unione affettiva al Verbo. « È in questa maniera, dice Rosmini, che la volontà umana, nel Cristo uomo, cessa di essere personale, come lo è negli altri uomini, e resta semplice natura [(Hinc voluntas humaria desiit esse personalis in homine, et, cum sit persona in aliis bominibus, in Christo remansit natura. (Ibid.)] » Concludiamo: l’unione della natura umana alla natura divina è puramente morale. Ne deriva la finale deduzione: Rosmini professa il Nestorianesimo.

41. Senza dubbio, l’unione della natura umana alla natura divina è morale, perché la volonà umana è pienamente sottomessa alla volontà divina. Ma essa non è semplicemente morale, essa è naturale, fisica, personale, ipostatica; i Padri hanno impiegato tutte le espressioni. Vale a dire che la natura umana diviene qualcosa del Verbo, essa è presa dalla Persona del Verbo, che la fa sua, comunicandogli la propria sussistenza. Ecco perché la natura umana non ha sussistenza propria. Ecco perché il Verbo che sussiste eternamente nella natura divina, sussiste dall’Incarnazione nella natura umana. Ecco perché la Persona stessa del Verbo « opera nella natura divina, le cose che sono di Dio ed esegue, nella natura umana, le cose che sono dell’uomo ». ecco perché Egli è uomo, così come è Dio.

IX

ERRORI SUL CARATTERE DEL CRISTIANO

42. Rosmini professa un grave errore sul carattere del Cristiano: « Secondo la dottrina cristiana, egli dice, il Verbo, carattere e faccia di Dio, è impresso nell’anima di coloro che ricevono con fede il Battesimo del Cristo [(In christiana doctrina, Verbum character et faciès Dei, imprimitur in animo eorum qui cum fide suscipiunt baptismum Christi. (Prop. XXVIII.) ». – Il carattere del Cristiano non è, secondo Rosmini, una rassomiglianza al Verbo, bensì è la sostanza stessa del Verbo impressa nell’anima; questa non è una qualità che rende l’uomo conforme a Dio, ma è il Verbo di Dio: Verbum, character et faciès Dei, imprimitur. Ma, noi lo abbiamo già visto, il Verbo è l’essere ideale in cui « l’essere infinito è per se stesso manifesto », ecc. perché, aggiunge Rosmini, « il Verbo, cioè il carattere impresso nell’anima, è, secondo la dottrina cattolica, l’essere reale o infinito, per sé manifesto, che abbiamo in seguito appreso essere la seconda Persona della Santissima Trinità [(Verbum, id est, character in anima impressum, in doctrina christiana est Esse reale (infinitum) per se manifestum, quod deinde novimus esse secundam personam Sanctissimæ Trinhatis. (Ibid.)]». – E, siccome il carattere è un proprio dell’animo, si vede costretto a sostenere che l’anima diventi il Verbo, o che il Verbo diventi l’anima. Si ricade di nuovo nel Panteismo!

43. Secondo la dottrina cattolica, l’essere soprannaturale produce in noi, con la giustificazione, la nuova creatura. Come si esprime la sacra Scrittura, è un accidente depositato nella mera sostanza, una forma che eleva la nostra anima al di sopra del suo stato naturale, una abitudine, una qualità che orna ed eleva il nostro essere e le sue potenze, le rende sì amorevolmente belle che Dio stesso trova le sue compiacenze in esso. – In questo essere soprannaturale, in questa nuova creatura, bisogna distinguere la grazia, abitudine o qualità ricevuta, secondo San Tommaso d’Aquino, nella sostanza stessa dell’anima, e che eleva questa sostanza ad una dignità simile a quella di Dio stesso; la fede, la speranza, la carità, le altre virtù soprannaturali, i doni dello Spirito-Santo, che rendono le nostre facoltà capaci di operazioni divine. – Con questa elevazione della nostra natura e delle nostre potenze, noi diventiamo « partecipi della natura divina », come dice S. Pietro. Questa partecipazione non è soltanto morale, essa è fisica; vale a dire che essa non ci dà semplicemente una disposizione ad imitare Dio, nel voler l’onestà, la giustizia come Dio, ma ci dà la potenza di produrre lo stesso oggetto di quello di Dio, un atto di conoscenza che immediatamente Dio per oggetto, come atto per il quale Dio si vede, un atto di amore che abbia immediatamente per oggetto il Bene sovrano, come l’atto con cui si ama Dio. – Ma siamo noi che vediamo Dio, non è Dio che si mette in noi per produrre l’atto della visione. Questo nome che amiamo, Dio, non è Dio che ama se stesso in noi. La nostra intelligenza, non è l’intelligenza divina, è il soggetto della conoscenza soprannaturale; la nostra volontà, non la volontà divina, diviene il soggetto ed il principio di operazioni divine, di operazioni che non appartengono naturalmente che a Dio, che ci sono misericordiosamente comunicate. Ecco perché la grazia e tutti i doni soprannaturali non sono la sostanza stessa di Dio messa in noi, diffusa in noi, agente in noi; sono degli accidenti, delle forme seconde, qualità della nostra natura e delle nostre facoltà, qualità che non possono essere naturali in nessun essere, creato e creabile, e che non possono trovarsi nella creatura che per una comunicazione tutta gratuita, essenzialmente soprannaturale, fatta alla natura. – Ora, il carattere del Cristiano è una prima qualità prodotta dal Battesimo e che è come il fondo di tutto l’essere soprannaturale formato in questo Sacramento; è una potenza data all’anima e che la rende capace di ricevere i doni divini; è una partecipazione al sacerdozio di Gesù-Cristo ed a Gesù-Cristo stesso, dando all’anima il potere di fare le azioni di questo sacerdozio nel servizio generale della Maestà divina, ma una partecipazione primordiale ed imperfetta che dà la nuda potenza e che per questo può sussistere nel dannato. – Di conseguenza, questa partecipazione, questa prima qualità, questa nuda potenza, o qualunque altro nome gli si voglia dare, non sarebbe mai il Verbo stesso, ma qualcosa di creato. – È il caso di sottolineare ancora una volta che Rosmini poggia tutta la sua tesi del carattere battesimale nella sua infatuazione per l’essere in generale? Più in alto, l’essere in generale era il Verbo stesso. Ora, questo essere diviene il “carattere del Cristiano”. Qual nuova confusione tra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale.

X

ERRORI SULL’EUCARISTIA

44. Gli errori filosofici conducono Rosmini ai sistemi più strano sulla Santa Eucaristia. Secondo la dottrina cattolica, la transustanziazione ha luogo « per la conversione di tutta la sostanza del pane nel Corpo di Gesù-Cristo, e di tutta la sostanza del vino, nel suo sangue. » Secondo Rosmini, la transustanziazione si fa con l’estensione del sentimento fondamentale dell’anima di Gesù-Cristo alla sostanza del pane e del vino: « Noi non crediamo, opponendoci alla dottrina cattolica, che è la sola verità, egli dice, la seguente congettura: nel Sacramento dell’Eucaristia, la sostanza del pane e del vino ritorna la vera carne ed il vero sangue del Cristo, quando il Cristo fa questa sostanza termine del suo principio sensitivo e la vivifica della sua vita propria. [(A catholica doctrina, quæ sola est veritas, minime alienam putamus hanc conjecturam: In eucharistico Sacramento substantia panis et vini fit vera caro et verus sanguis Christi, quando Christus eam facit terminum sui principii sentientis, ipsamque sua vita vivificat… (Prop. XXIX)] » La sostanza del pane e del vino resta, ma essa diventa il termine di un principio sensitivo estraneo, che sentendoli, lo incorpora e l’associa alla sua vita. Noi lo abbiamo già sottolineato, il senso fondamentale lascia sussistere la natura nel suo proprio essere: perché sentire, come ogni atto di conoscenza, non cambia la sostanza, ma la percepisce così com’è. Rosmini distrugge quindi il concetto della transustanziazione.

46. Egli usa una comparazione che conferma l’errore precedente, affermandone un altro. « Questo », cioè il cambiamento del pane e del vino, nel corpo e nel sangue di Cristo, « … accade quasi alla stessa maniera, egli dice, che nell’assimilazione per la quale il pane ed il vino, divengono termini del nostro principio sensitivo, per cui sono veramente transustanziati nella nostra carne e nel nostro sangue [(Eo ferme modo quo panis et vinum vere trausubstantiantur in nostram carnem et sanguinem, quia fiunt terminus nostri principii sentientis (Ibid.)]. » Secondo la credenza di Rosmini, la nutrizione ha luogo per estensione del sentimento fondamentale del pane mangiato: questo pane diviene la mia carne, perché il mio senso fondamentale, che non lo intendeva in precedenza, comincia ad intenderlo; l’unione del pane alla mia anima, come quella del corpo intero, è l’effetto del senso fondamentale; essa si produce in me quando il mio senso lo raggiunge come mio. Ora, per Rosmini, la nutrizione ha luogo per estensione del sentimento fondamentale del pane mangiato: questo pane diviene la mia carne, perché il mio senso fondamentale, che non lo comprendeva in precedenza, comincia ad intenderlo; l’unione del pane alla mia anima, come quella del corpo intero, è l’effetto del senso fondamentale; essa si produce in me quando il mio senso lo raggiunge come mio. Ora, per Rosmini, tutto avviene nella transustanziazione come nella nutrizione. Questa ha luogo senza cambiamento intrinseco della sostanza, per un atto estrinseco del senso fondamentale; questo è il risultato della stessa estensione estrinseca del senso fondamentale, senza che sia necessario un cambiamento intrinseco.

47. Quanto esposto contiene due errori: un errore filosofico ed un errore teologico. Dapprima Rosmini si inganna sulla natura della nutrizione: essa non ha luogo per semplice cambiamento estrinseco, ma per una mutazione intrinseca. Questo pane diviene il mio corpo, non perché io lo sento, ma perché ne è traformato; esso non era la mia sotanza (ibid.), ma diviene la mia sostanza non durante il suo atto primo, sua forma sostanziale, per prendere l’atto primo del mio corpo, la forma sostanziale, che gli dà l’essere; esso diviene il mio corpo fornendo al mio corpo una materia prima che, informata dall’anima, fa oramai parte della mia sostanza. Ma soprattutto Rosmini si sbaglia confondendo la transustanziazione con la nutrizione. Se anche avesse della nutrizione un concetto veritiero, quand’anche vi vedrebbe un cambiamento sostanziale, egli dovrebbe accuratamente, con tutta la Chiesa Cattolica, distinguerla dalla transustanziazione. Qando Gesù-Cristo, nella sua vita mortale, si nutriva di pane, il pane era cambiato nel suo Corpo divino, la forma del pane spariva per far posto ad una forma nuova, l’anima stessa del Salvatore, ma la materia del pane restava. Non si può dunque dire se non allora che la sostanza del pane fosse cambiata in Corpo di Gesù-Cristo. Ora, nella transustanziazione, così come la definisce la Chiesa, tutta la sostanza del pane, non solamente la forma, ma la materia stessa, è cambiata nel Corpo di Gesù-Cristo. la transustanziazione non ha luogo semplicemente, come la nutrizione, con la sostituzione di una forma nuova ad una forma antica nella stessa materia; ma i due elementi della sostanza, la materia come la forma, spariscono essendo cambiati in Corpo. Ecco perché la transustanziazione è un cambiamento essenzialmente distinto da ogni altro, « una conversione affatto singolare e meravigliosa », come dice il Concilio di Trento, che non si può comparare alla nutrizione. Senza pericolo di errore.

48. L’errore di Rosmini sulla transustanziazione lo conduce ad una conseguenza che è pur essa stessa un grave errore. Se la transustanziazione si fa per l’estensione del senso fondamentale alla sostanza del pane, bisogna concludere che una nuova sostanza è aggiunta al Corpo di Gesù-Cristo. È ciò che in effetti insegna Rosmini. « Avvenuta la transustanziazione, egli dice, si può concepire che con essa si sia aggiunta al corpo glorioso di Cristo una certa parte, incorporata in Lui, indivisa e parimenti gloriosa [(Peracta transubstantiatione, intelligi potest corpori Christi glorioso partem aliquam adjungi in ipso incorporatam, indivisam, pariterque gtoriosam. (Prop. XXIX) ». Ma non è questo un contraddire l’insegnamento della Chiesa sulla condizione dei corpi gloriosi, il mettere nel corpo resuscitato di Gesù-Cristo un’aggiunta qualunque?. La gloria non comporta l’immutabilità? Non esclude ogni addizione così come ogni sottrazione fatta alla sostanza?

49. Ma non siamo giunti alla fine degli errori di Rosmini sull’adorabile Sacramento. Secondo la dottrina cattolica, la sostanza del pane è cambiata per la forza stessa delle parola, nella sostanza di Gesù-Cristo; la sostanza del vino è cambiata, per la virtù stessa delle parole, nella sostanza del sangue. Il sangue, l’anima, la divinità, sono nell’ostia, perché esse accompagnano il corpo, a modo di concomitanza, così come parlano i teologi, non in virtù delle parole; ma tutto il Corpo è in virtù delle parole nell’ostia. Il corpo, l’anima, la divinità sono nel calice, perché esse accompagnano il Sangue glorioso, o in modo di concomitanza, non in virtù delle parole. Di conseguenza, tutto il Corpo di Gesù-Cristo è, in virtù delle parole, nel calice. Perché il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo non sono rapportate al luogo per la loro quantità: essi sono nel luogo « per modo di sostanza », come parla la Scuola, tutti interi in ogni specie consacrata, e tutti interi in ogni parte, come la sostanza, presa fuori dalla sua quantità e nel luogo, come l’anima è nel corpo. Ecco perché le parole della consacrazione non possono transustanziare il pane in una porzione solo del corpo; esse lo transustanziano indivisibilmente in tutto il Corpo. Secondo Rosmini, al contrario, la sostanza del pane non è cambiata in virtù delle parole della consacrazione, in tutto il corpo, ma solo in una parte del corpo; la sostanza del vino non è cambiata, in virtù delle parole, in tutto il Sangue, ma solo in una parte del sangue. Il resto del Corpo è nell’ostia, come il Sangue, solo per modo di concomitanza; il resto del sangue è nel calice, come il corpo stesso, solo per modo di concomitanza. « Nel Sacramento dell’Eucaristia, dice Rosmini, per la forza stessa delle parole sacramentali, vi verborum, il Corpo ed il Sangue di Cristo non esistono che secondo la misura che corrisponde alla quantità del pane e del vino che sono transustanziati, il resto del corpo non è là se non per concomitanza [(In sacramento Eucharistiæ, vi verborum corpus et sanguis Christi est tantum ea mensura quæ respondet quantitati (a quel tanto) substantiæ panis et vini quæ transubstantiatur: reliquum corporis Christi ibi est per concomitantiam. (Prop. XXXI)].»

50. A questi errori sulla transustanziazione, Rosmini aggiunge degli errori sulla necessità del Sacramento; egli pretende, in effetti, che la ricezione del Sacramento dell’Eucaristia sia assolutamente necessarioalla salvezza, a tal punto che alcun eletto entra in cielo senza aver comunicato sacramentalmente al Corpo ed al Sangue di Gesù-Cristo. il Salvatore ha detto: « Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e se non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi. » Bisogna distinguere nel Sacramento dell’Eucaristia ciò che la Scuola chiama la cosa del Sacramento, res sacramenti, il Sacramento stesso, sacramentum, ed ciò che è nello stesso tempo Sacramento e cosa, res et sacramentum; il sacramentum è la specie consacrata, significante il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo; res et sacramentum, la cosa ed il sacramento, è il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo, significati dalle specie e producenti la grazia; la cosa, res, è la grazia, in altri termini, l’unione a Gesù-Cristo, l’incorporazione stessa al Salvatore, prodotta nell’anima dalla degna Comunione. Si può designare, sotto il nome di Sacramento, ciò che veniamo dal chiamare la “cosa” del Sacramento. In questo caso bisogna dire che la ricezione del Sacramento è assolutamente necessaria alla salvezza, necessaria come necessità di mezzo, così come parlano i teologi; perché nessuno può ottenere la gloria nella vita futura se non riceve la grazia nella vita presente, se non è unito ed incorporato a Gesù-Cristo. È in tal senso che molti Padri hanno inteso in tutto il loro rigore le parole di Nostro-Signore: « Se non mangiare la mia carne e non berrete il mio sangue, non avrete la vita in voi. » Ma se si intende per Sacramento ciò che intende ordinariamente con questa parola, le specie sacramentali con il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo, che esse contengono, bisogna dire, secondo l’insegnamento della Chiesa, che la ricezione del Sacramento è necessaria solamente come necessità di precetto, talmente che nessun adulto può salvarsi in generale se non comunica, perché Nostro Signore ne ha fatto un comandamento. In questo senso le parole di Nostro Sigore: « se non mangiate la mia carne … » si intendono di coloro che potendo, e davanti al comunicare, hanno dimenticato di compiere questo precetto. Rosmini pretende, egli, che la Comunione sacramentale sia assolutamente necessaria, non solo di necessità di precetto, ma di necessità di mezzo; Essa è necessaria ai suoi occhi come è necessaria agli occhi della Chiesa l’effetto proprio del Sacramento: egli intende della Comunione sacramentale ciò che i Padri hanno inteso dell’incorporazione a Gesù-Cristo.

51. Rosmini nega pertanto che un bambino che muore subito dopo il suo Battesimo e non essendosi comunicato, sia salvo? No, ma egli pretende che questo bambino riceva la Comunione uscendo da questo mondo: senza questa comunione ricevuta anche dopo la morte, egli scenderebbe all’inferno. « Poiché, egli dice, colui che non mangia la carne del Figlio dell’uomo e non beve il suo sangue, non ha la vita eterna in Lui; poiché nondimeno coloro che muoiono con il Battesimo di acqua, di sangue o di desiderio ottengono certamente la vita eterna, bisogna concludere che coloro che durante questa vita non hanno mangiato la carne, e bevuto il sangue di Gesù-Cristo, ricevano questo nutrimento celeste nella vita futura, nell’istante della morte stessa. [(Quoniam qui non manducat carnem Filii hominis et bibit ejus sanguinem non habet vitam in se; et nihilominus qui moriuntur cum baptismate aquæ, sanguinis aut desiderii certo consequuntur vitam æternam, dicendum est his qui hac vita non comederunt corpus et sanguinem Christi subministrari hunc Cælestem cibum in futura vita, ipso mortis instanti. (Prop. XXXII)

52. Ma i giusti morti prima dell’istituzione della santa Eucaristia, hano potuto ricevere un Sacramento che non era stato ancora istituito? I giusti morti prima dell’Incarnazione, hanno potuto ricevere il Corpo ed il Sangue del Salvatore che non esisteva ancora? Rosmini non desiste dal suo sistema: « il Cristo scendendo nel Limbo, egli dice, ha potuto darsi in Comunione sotto le specie del pane e del vino ai santi dell’Antico Testamento, alfine di renderli capaci di gioire della visione di Dio. [(Sanctis V. T. potuit Christus descendens ad inferos seipsum communicare sub specie panis et vini, ut aptos eos redderet ad visionem Dei. (Ibid.)] ».

53. Noi ci asterremo dal considerare questi sogni. È sufficiente dire che prima di Rosmini essi sono stati sconosciuti nella Chiesa. Qual Padre, qual teologo, ha parlato mai di questa comunione amministrata da Gesù-Cristo stesso nel Limbo? Come delle anime svincolate dal corpo potevano ricevere i doni celesti sotto le specie visibili e sensibili? Spiritualia spiritualibus nude traduntur. Non si metterà in dubbio giammai la potenza dell’ammirabile Sacramento dell’altare, … ma non trasportiamo fuori dalla vita presente le istituzioni del tempo. I santi dell’antica Legge hnno vissuto tra le ombre delle realtà spirituali: Umbram enim habens lex futurorum bonorum (Hebr., X, t. 1); i santi della Legge nuova, vivendo tra queste realtà velate sotto dei simboli: ipsam imaginem rerum (Ibid.); i santi della vita futura vivono tra queste stesse realtà manifestate a nudo: facie ad faciem. Al momento della morte, non c’è più tempo per comunicarsi, con la ricezione di simboli, alla carne ed al sangue del Salvatore; è il momento di comunicare con la chiara veduta a Colui che è eternamente pane e frumento degli eletti (Una persona pia ma con uno spirito ristretto, ha preteso che l’ultima ostia consacrata sarà trasportata nel cuore della Santa Vergine per esservi eternamente adorata, come in un ostensorio celeste, dagli Angeli e dagli uomini. Noi abbiamo incontrato nelle comunità religiose, delle immagini in cui questa adorazione supposta era rappresentata da una lunga leggenda che spiegava le incisioni. Questo errore ha molta rassomiglianza con quello di Rosmini).

A. Rosmini:

prossimo gnostico “canonizzato” (per finta) dalla sinagoga di satana, la setta del “novus ordo”!

(2. Continua …)

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (29): ERRORI in ROSMINI

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (29):

Errori in ROSMINI (1)

[Dom P. Benoît: Revue du Monde Catholique, 1° Apr. 1889]

 

1. Rosmini è un sacerdote la cui grande pietà e le sante imprese sono state una delle glorie dell’Italia. Egli ha pure avuto l’onore di lasciare dietro di sé una congregazione religiosa, che si è resa raccomandabile per la devozione alla Chiesa e le opere di carità. Tuttavia, questo dimostra una volta di più come lo spirito dell’uomo abbia bisogno costantemente di essere preservato dall’errore per mezzo del Magistero della Chiesa. Infatti la Santa Sede, che già altra volta, al quarto Concilio Laterano IV non ha esitato a condannare il beato Joachim de Flore, anch’egli pio sacerdote e capo di una abbazia illustre, giunge a segnalare ai pastori del mondo intero gli errori di Rosmini, affinché mettano in guardia contro di essi i maestri della gioventù, soprattutto i professori dei seminari. Noi dobbiamo porre molta attenzione a questa condanna, perché un certo numero di questi errori si ritrovano in tutte le contrade della terra, particolarmente in Francia, se non sempre nella forma che dava loro Rosmini, ma almeno per quanto riguarda la sostanza [si ritrovano infatti tutti gli errori-orrori della solita, vecchia e stantia solfa gnostica … panteismo, emanatismo, deismo, essere infinito, e così via …:  v. in È. Couvert: “La gnosi, tumore in seno alla Chiesa” in “dalla gnosi all’Ecumenismo”, riportato negli articoli del blog exsurgatdeus.org: La gnosi, teologia di satana …-ndr-]

I

L’ERRORE FONDAMENTALE:

CONFUSIONE TRA L’ESSERE INDEFINITO E L’ESSERE INFINITO

2. L’errore fondamentale di Rosmini ci sembra essere la confusione tra l’essere in generale e l’Essere divino, in altri termini tra l’indefinito e l’infinito: «Nell’essere che fa astrazione dalle creature e da Dio, vale a dire nell’essere indeterminato, c’è la stessa essenza che in Dio, essere non indeterminato, ma assoluto. (1)»

(1) [« In esse quod præscindit a creaturis et a Deo, quod est esse indétermination, atque in Deo, esse non indeterminato sed absoluto, eadem est essentia ». -Prop. VI].

 3. L’essere in generale è l’essere considerato dall’astrazione dello spirito come se non avesse alcuna determinazione; è l’essere possibile così come l’essere reale, l’essere partecipato e ricevuto come l’essere esistente essenzialmente, l’essere che non esiste che nello spirito così come l’essere che esiste nella natura. L’Essere divino, che lo si chiama anche l’Essere semplicemente, o l’Essere infinito, è l’Essere unico, reale e sussistente, che richiude in sé tutta la pienezza dell’essere. L’essere, in generale, è qualcosa di sì vago, che lo si ritrova in tutto ciò che è inteso dallo spirito; l’Essere infinito è così preciso che non esiste che in una sola realtà, distinta non solo dall’essere generale, ma ogni altro essere reale. L’essere in generale di dice di tutto, si ritrova in tutto, perché, non avendo in sé nulla di determinato, conviene ad ogni oggetto; l’Essere divino è separato da tutto il resto da un’eccellenza che non soffre, tra esso e le altre realtà, che una lontana analogia, e di conseguenza, in luogo di dirsi di tutto ciò che è, esso non può pure dirsi di soggetti plurimi, e non si dice che di uno solo [« infinitum absolutum est ens comprehendens omnes perfectiones eujusque limitis expertes; proinde non concipitur ut in potentia ad hajusmodi perfectiones, sed ut eas actualiter nabens; et consequenter non est quid indeterminatum et determinabile, sed ens habens proprïam naturam nullis limitibus specificis aut genericis circumscriptam aut circumscribendam. At ens in génère oppositas omnino proprietates exhibet. Non enim est quid infinitum comprehensive, seu actu, sed solummodo extensive seu in potentia; est quid maxime indeterminatum ac determinabile, et reapse determinatur in generibus, speciebus et individuis. Quocirca ens in génère inspecium dici infinitum privative, vel in potentia; quod quantum différat a vero infinito nemo, nisi mente prorsus cæcus, non videt. » (Card. Zigliara, Summaphil. Ontol., lib. II, cap. m, art. 4, n. 5.)]. In una parola, l’essere in generale è un concetto astratto e vago che si dice di tutto: l’Essere divino è una realtà concreta e determinata che si dice di uno solo: « Questo Dio, dice il Concilio del Vaticano, essendo una sostanza spirituale, una, singola, interamente semplice ed incommutabile, deve essere proclamata distinta dal mondo in realtà e per essenza, ineffabilmente elevata al di sopra di tutto ciò che non è Esso, che esiste o può concepirsi. » [Qui cum sit una et singularis simplex omnino et incommutabilis substantia spiritualis, prædicandus est re et essentia a mundo distinctus in se et ex se beatissimus, et super omnia, quæ præter ipsum sunt et concipi possunt, ineffabiliter excelsus. » (Conc. Vat., de Fide catholica, I.)]

4. Ora, Rosmini confonde l’essere in generale, frutto dell’astrazione dello spirito, con l’ “Esse” divino, realtà infinita e sussistente: « L’essere indeterminato che, senza alcun dubbio è conosciuta da ogni intelligenza, e questo divino che è manifestato all’uomo nella natura [« Esse indeterminatum, quod procul dubio notum est, omnibus intelligentes, est divinum illud quod homini in natura manifestatur. » (Prop. IV) » – Dio, senza dubbio, come dice S. Paolo [Quia quod notum est Dei, manifestum est in illis; Deus enim illis manifesiavit. Invisibilia enim ipsius, a creatura mundi, per ea quæ facta sunt, iutellecta, conspiciuntur; sempiterna quoque ejus virtus, et divinitas, » (Rom., I, 19-20.)] e come ripete il Concilio Vaticano [« Apostolus qui a gentibus Deum per ea, quæ facta sunt, cognitum esse testatur. » De fide cath. (cap. IV.) può essere conosciuto dalla ragione naturale, perchè la ragione dell’uomo può, con le sue forze naturali, conoscere l’esistenza di Dio, la sua potenza, la sua saggezza, la sua bontà. Così lo hanno conosciuto i filosofi pagani, dice San Paolo, ed è per questo, aggiunge, che essi sono colpevoli per non avergli reso il culto che gli era dovuto [Ita ut sint inexcusabiles: quia cum cognovissent Deum, non sicut Deum glorificaverunt, aut gratias egerunt; sed evanueruut in cogitationibus suis et obteuratum est insipiens cor eorum. (Rom., I, 20-21.)]. – Per Rosmini, al contrario, i filosofi antichi hanno conosciuto Dio perché hanno conosciuto l’essere in generale; la ragione naturale può conoscere Dio perché essa può conoscere l’essere indeterminato. L’essere indeterminato, dice commentando, o piuttosto falsificando il testo di San Paolo, è questo essere divino che tutte le intelligenze possono conoscere, che è manifestato all’uomo nella natura (Prop. IV). – Secondo Rosmini, l’essere indeterminato o l’essere in generale è l’Essere stesso di Dio, e spirito, intentendo l’essere in generale, possiede in lui l’Essere divino: « In seno all’universo, cioè nelle ntelligenze che si incontrano, c’è qualcosa al quale conviene il nome di divino, non in senso figurato, ma nel senso proprio[« In natura igitur universi, id est in intelligentes quæ in ipso sunt, aliquid est cui convenit denominatio divini non sensu fîgurato, sed proprio. » (Prop. III)]

5. Per Rosmini, in effetti, lo spirito, dal momento che egli lo intende come essere generale, è unito a Dio perché l’essere al quale è unito dall’atto di comprensione è l’Essere stesso di Dio; e l’essere in generale, l’essere di ogni cosa, dice Rosmini, « è un’attualità che non si distingue dall’attualità divina [« Est actualitas non distincta a reliquo actualitatis dîvinæ. » (Prop. III)]; è un atto che è identico all’Atto primario; all’« atto puro ». E non è dunque, notiamolo bene, per una semplice metafora che Rosmini dà all’essere in generale il nome di Essere divino, bensì nel linguaggio più stretto. Per lui, ciò che prende il nome di essere, non può mai essere preso come un effetto di Dio, una immagine di Dio: ma è Dio stesso!!! « Affermando il divino nella natura, egli dice, noi non impieghiamo questo vocabolo, “il divino”, per sigificare un effetto non divino della causa divina, e la nostra intenzione non è quella di parlare di un certo divino che sarebbe tale per partecipazione [« Cum divinum dicimus in natura, vocabulum istud divinum non usurpamus ad significandum effectuai non dïvinum causæ divinæ; neque mens nobis est loqui de divino quodam quod tale sit per participationem. » (Prop. II)], che sarebbe divino solo per partecipazione o impropriamente; il divino che è nella natura, è l’essere stesso di Dio!

6. Rosmini si compiace specialmente di identificare l’essere in generale con il Verbo. Secondo lui, il Verbo di Dio è questo essere primitivo che è alla base di ogni conoscenza intellettuale, questo essere che intende l’intelligenza nel momento in cui intende qualcosa, in una parola, l’essere in generale. L’essere in generale è così completamente identico al Verbo che Dio, il Padre stesso non può percepire che una distinzione di ragione tra l’uno e l’altro. « L’essere indeterminato, oggetto di intuizione, dice Rosmini, è qualcosa del Vero che la comprensione del Padre distingue dal Verbo non realmente, ma logicamente [« Esse indeterminatmn intuitionis, esse initiale, est aliquid Verbi, quod mens Patris distinguit non realiter sed secundum rationem a Verbo. » (Prop, VII).]

7. Conclusioni

Rosmini pone una semplice differenza di ragione tra l’essere in generale e l’Essere divino. Questi è l’essere preso nel suo soggetto infinito; l’altro è l’essere considerato come astratto da ogni soggetto: esse quod præscindit a Deo et a creaturis (Prop. VI.). Rosmini chiama il primo l’essere indeterminato, “esse indeterminatum”, ed in secondo l’essere assoluto,esse absolutum”. Ma l’uno non differisce dall’altro che per pura astrazione di spirito; in realtà l’uno è identico all’altro: l’essere in generale è realmente l’essere stesso di Dio o del Verbo. Tale è, a nostro avviso, l’errore fondamentale del sistema rosminiano. A questo proposito, il sistema di Rosmini, non differisce per nulla dal sistema di Hegel.

II

PRIMA CONSEGUENZA: PANTEISMO

8. Ma Hegel è un incredulo di professione, e non teme di gettarsi apertamente nel panteismo. Rosmini è un pio sacerdote, e retrocede davanti all’abisso che gli si apre davanti. Ma inutile cercar di scappare; di buono o cattivo grado, egli cade nel panteismo. Egli ha posto il principio, la conclusione si impone. Le formule pantesiste compaiono in ogni istante sotto la sua penna: egli cerca bene di dissimularne il carattere, tenta anche di corregerle, ma non riesce che a mostrare imbarazzo, e non riesce a sottrarsi all’impero di questo mostruoso errore. E in effetti Rosmini mette l’essere in generale, all’origine dell’ordine ontologico così come dell’ordine logico; poiché ogni essenza, egli dice, è dell’essere, così come ogni idea è una visione dell’essere. Ecco perché gli da il nome di “essere iniziale”. « L’essere, oggetto di intuizione, dice Rosmini, è l’atto iniziale di tutti gli esseri [« Esse, objectum intuitionis, est actus initialis omnium entium. » (Prop. IX.)]. Ecco pèrchè gli dà il nome di “essere iniziale”, vale a dire che l’essere indeterminato è il fondo di ogni realtà, così come di ogni pensiero, è l’essere nel quale e per il quale comincia tutto ciò che è, in qualunque modo esso sia: « L’essere iniziale è l’inizio sia delle cose ideali che delle cose reali [« . . . Esse initiale est initium, tam cognoscibilium quam subsistentium. » (Prop. IX.)]. Questo essere, di cui lo spirito ha naturalmente l’intuizione, è dunque il fondo di tutti gli esseri finiti, che non meritano il nome di esseri se non perché possiedono questo essere primitivo ed universale: «Gli esseri finiti, dei quali si compone il mondo, sono il risultato di due elementi, cioè del termine reale finito e dell’essere iniziale che dà a questo stesso termine la forma dell’essere  [« Entia finita quibus componitur mundus résultant ex duobus elementis, id est ex termino reali finito et ex esse initiali quod eidem termino tribuit formam entis. » (Prop. V.)]. Ma questo essere è anche il fondo della natura divina; perché Dio, come la creatura, non è un essere che perché Egli è l’essere: l’essere iniziale, dice Rosmini, è parimenti l’inizio di Dio, come noi lo concepiamo, e delle creature [« Est pariter initium Dei, prout a nobis concipitur, et creaturarum. » (Prop. IX)]

9. Questo essere si estente dunque a tutto, si trova in fondo a tutto, a Dio, come al mondo, all’essere infinito come all’essere finito. In questo senso, è virtuale “virtuale”, perché ha una estensione infinita, perché non è ristretto ad una realtà, ma si trova in tutto ciò che esiste come il fondo comune di ogni sostanza: esse virtuale et sine limitibus ( Prop. X). ma benché estesa a tutto, essa resta semplice. Perché l’essere in generale esclude ogni composizione: non si possono trovare più elementi, è un elemento semplice: esso rientra nella composizione di ogni essere reale, ma egli stesso è senza componenti: « L’essere virtuale è senza limiti, dice Rosmini, è la prima e più semplice di tutte le entità; così, ogni altra entità è composta, e negli elementi che la compongono, entra sempre e necessariamente l’essere virtuale. Esso è la parte essenziale di tutte le entità, benché divise dal pensiero (3). [« Esse virtuale et sine limitibus est prima ac simplicissima omnium entitatum, àdeo ut quælibet alia entitas sit composita, et inter ipsius componentia semper et necessario sit esse virtuale.Est pars essentialis omnium omnino entitatum, utut cogitatione dividantur. » (Prop. X)]:

10. Ma se l’essere in generale è l’essere divino in se stesso, se l’essere in generale o l’essere divino, entra entra nella composizione di ogni essere reale, tutto ciò che è, si trova, come fondo stesso del suo essere, come elemento essenziale della sua sostanza, essere Dio egli stesso. È la tesi panteista. – il Concilio Vaticano pronunzia questo anatema: « Se qualcuno dice che non c’è che una sola ed unica sostanza in Dio e in tutte le cose, che sia scomunicato » [« Si quis dixerit, unam eamdemque esse Dei et rerum omnium substantiam vel essentiam, anathema sit. » (Const. DE FIDE CATH., cap. I, can. 2.). – Rosmini dice: « Nell’essere indeterminato, c’è la stessa sostanza che in Dio » [In esse quod… est esse indeterminatum, atque in Deo… eadem est essentia. » (Prop. VI)] – Egli aggiunge: « L’essere indeterminato è il fondo iniziale di Dio e delle creature » [Est pariter initium Dei… et creaturarum. » (Prop. IX.)]. Come potrebbe allora sfuggire alla conclusione: « In Dio e nelle creature, c’è lo stesso fondo iniziale, c’è la stessa essenza? » Eccolo dunque con i panteisti: la sua dottrina, come la loro, merita certamente gli anatemi della Chiesa.

III

SECONDA CONSEGUENZA: L’ONTOLOGISMO

11. Ma non siamo che all’inizio degli errori che scaturiscono dal principio fondamentale di Rosmini. Se l’essere in generale si confonde con l’essere divino, siccome l’intelligenza ha naturalmente una percezione immediata dell’essere generale, bisogna concludere che essa percepisce immediatamente l’essere divino. È ciò che professa Rosmini: « Nell’ordine delle cose create, egli dice, qualcosa di divino in sé, che sostiene l’effetto della natra ivina, è immediatamente manifestata all’intendimento umano.[« In ordine rerum creatarum immédiate manifestatur humano intellectui aliquid divini in seipso, hujusmodi nempe quod ad divinam naturam pertineat » (Prop. I.)]. »

12. Secondo la teologia cattolica, la visione immediata di Dio è essenzialmente soprannaturale; secondo Rosmini c’è una conoscenza immediata di Dio, anche nell’ordine della conoscenza naturale: in ordine rerum creatarum (Prop. I): secondo i Dottori cattolici, Dio non può essere naturalmente conosciuto se non in modo indiretto, nello specchio delle creature, attraverso i segni e gli enigmi della creazione; secondo Rosmini, invece, l’essere divino può essere compreso in se stesso: aliquid divini (Prop. I); non effectum non divinum causæ divinæ (Prop. II). – Tutta la Scuola insegna che l’uomo, con la ragione naturale, conosce immediatamente la creatura e si eleva da ella al Creatore come dall’effetto alla causa necessaria e sovraeminente, mettendo in essa tutte le perfezioni osservate negli esseri creati, per viam indentitatis, scartando da essa tutte le imperfezioni che presentano, per viam remotionis, e portando fino all’infinito ogni perfezione notata in esse per viam excellentiæ ( Theol. P. I, q. XII, a. 12.). Rosmini, al contrario, pretende che noi attingiamo immediatamente non solo « l’effetto non divino della causa divina », ma « la causa divina dall’effetto non divino ». Tutti i Padri e tutti i Dottori della Chiesa dichiarano che l’uomo non può naturalmente conoscere Dio se non elevandosi dall’essere partecipato, e conosce immediatamente l’essere divino inteso nella sua immagine; Rosmini sosiene che l’uomo può, anche naturalmente conoscere non solo l’essere partecipato, ma pure l’essere principio (Prop. II), non solo gli effetti contingenti, ma le cause necessarie ed eterne, non soltanto la creatura, ma pure il Creatore, origine e fine di tutto ciò che esiste. (Prop. I).

13. Questo errore è ciò che si è convenuto chiamare, nei tempi moderni, l’ontologismo. Esso è per Rosmini, così come detto più in alto, una conseguenza necessaria della sua confusione tra l’essere indeterminato e l’essere divino, o piuttosto esso è identico a questo primo errore. Se, in effetti, l’essere in generale è l’essere stesso di Dio, la nostra intelligenza, che naturalmente ha la chiara percezione dell’essere in generale, avrà naturalmente la visione immediata di Dio: il nostro spirito, intentendo l’essere in generale, non comprenderà solamente un effetto divino, una lontana vestigia di Dio, ma la causa suprema stessa, comprenderà questo qualcosa dell’essere necessario ed eterno se stesso, la causa che creata, determina e finisce tutti gli esseri contingenti (Prop. III).

IV

IDEALISMO

14. Rosmini, che ha identificato più in alto l’essere del finito, con l’essere stesso di Dio, identifica di contro, l’essenza del finito con il niente. Secondo la dottrina della ragione e della fede, l’essenza del finito consiste in qualche cosa di positivo e di reale. Secondo Rosmini, « la “quiddità” (Ciò che una cosa è) dell’essere finito non è costituito da ciò che essa ha di positivo, ma dai suoi limiti » [Quidditas (id quod est) entis liniti non constituitur eo quod habet positivi sed suis limitibus. (Prop,XI)]. La ragione, come la fede insegnano come nn solo l’essenza di Dio, ma anche l’essenza della creatura è una realtà positiva. Per Rosmini, « la quiddità » sola dell’essere infinito è costituita dall’entità ed è positiva, ma la quiddità dell’essere finito, essendo costituita dai limiti dell’entità, è negativa » [Quidditas entis infiniti constituitur entitate et est positiva; quidditas vero entis finiti constituitur limitibus entitatis et est negativa. (Prop. XI)]. Ed ancora: « La realtà finita non è, ma Dio la fa essere, aggiungendo un limite alla realtà infinita » [Finita realitas non est, sed Deus facit eam esse addendo infinitæ realitati limitationem. (Prop. XII)]. Ancora: La differenza che esiste tra l’essere assoluto e l’essere relativo non è quella che esiste tra una sostanza e sostanza; essa è altro e molto più grande, perché il primo è l’essere assolutamente, il secondo è il non essere assolutamente. [Discrimen înter esse absolutum et esse relativum non illud est quod intercedit substantiam inter et substantiam sed aliad multo maius; unum enim est absolute ens, alterum est relative ens. (Prop. XIII)]. Ma se l’essenza della creatura consiste in una negazione, siccome la negazione è un essere di ragione, bisognerà concludere che l’essenza della creatura non ha realtà che nello spirito di colui che la concepisce. Eccoci dunque in pieno idealismo.

15. Ci si potrebbe stupire nel vedere Rosmini passare dal panteismo all’idealismo. Egli vi passa così disinvoltamente che dopo aver detto che « La realtà finita non è: finita realitas non est (Prop. IV) », dice subito dopo che « l’essere iniziale diviene l’essenza di ogni essere reale, esse initiale fit essentia omnis entis realis (ibid.) », in modo tale da unire in una stessa proposizione queste due asserzioni contrarie, che la realtà finita non è, e che la realtà finita è l’essere stesso di Dio. In effetti, l’essere della creatura è ai suoi occhi l’essere stesso di Dio, talmente che non si può trovare nella creatura un essere proprio, ma soltanto l’essere di Dio. Di conseguenza, se guardate la creatura in ciò che ha di proprio, dovete dire che « la realtà finita non è »; e se guardate in essa l’essere divino divenuto il suo essere, bisogna dire al contrario che essa non è solamente « un effetto non divino di una causa divina (Prop. II) » ma « che essa è qualcosa del Verbo, che il Padre stesso distingue dal Verbo solamente per la ragione (Prop. VII) ».

16. Aggiungiamo altre riflessioni. Rosmini pone un limite nell’essere assoluto, vale a dire nell’essere divino stesso: è così, secondo lui, che è prodotto l’essere limitato della creatura. Ma l’essere divino non respinge, con la sua essenza stessa, ogni limite? L’essere divino è essenzialmente perfetto; dunque essenzialmente esclude ogni imperfezione e per questo un qualunque limite. Se l’Essere divino diviene limitato, non è più l’Essere divino, è distrutto. Ed è assurdo dire che l’Essere divino riceva un limite, che è come pretendere che il cerchio diventi un quadrato senza cessare di essere cerchio. – Poi Rosmini distingue tra l’essenza del finito ed il suo essere. La Scuola ha ben distinto tra l’essenza delle cose e la loro esistenza o il loro essere; essa insegna che l’essenza in Dio è il suo essere o la sua esistenza; ma che nelle creature, l’essenza è una potenza, di cui l’essere o l’esistenza, è l’atto. Ora Rosmini intende l’essenza e l’essere come la Scuola? No affatto, « l’essere è, secondo lui, una realtà che non si distingue dal resto dell’attualità divina, actualitas non distincta a reliquo actualitatis divinæ (Prop. III) »; esso è « quel qualcosa di divino che è manifestato all’uomo nella natura: divinum illud quod homini in natura manifestatur (Prop. IV) »; esso è « qualcosa dell’essere necessario ed eterno: aliquid entis necessarii et æterni (Prop. V) ». Quanto all’essenza, essa è il limite dell’essere. Rosmini dunque impiega le espressioni della Scuola per travestirne il senso.

V

ERRORI SULLA CREAZIONE

17. Creare è produrre tutta la sostanza: “creatio est eductio totius substantiæ”. In altri termini, è produrre una sostanza dal nulla “creatio est productio ex nihilo, o se si vuole ancora, è produrre una sostanza senza materia o soggetto preesistente: “creatio est productio entis ex nihilo sui et subjecti”. Dio dice: « Che luce sia », e subito la luce è. La luce non esisteva prima né in se stessa, né negli elementi; essa è fatta, non da una materia anteriore, ma dal niente. Ecco la creazione. Rosmini intende la creazione altrimenti. Secondo lui, Dio crea mettendo un limite al suo essere. Spieghiamo il suo pensiero con i termini suoi propri. « Per un’astrazione divina, egli dice, è prodotto l’essere iniziale, primo elemento degli esseri finiti; con un secondo atto, con una immaginazione divina, è prodotto il reale finito, ossia tutte le realtà che costituiscono il mondo [Divina abstractione producitur esse initiale, primum finitorum entium elementum; divina vero imaginatione producitur reale finitum, seu realitates omnes quibus mundus constat. (Prop. XIV)]. Segue una terza operazione dell’essere assoluto creante il mondo, un atto di sintesi divina, cioè di unione dei due elementi che sono: l’essere iniziale o fondamento comune di tutti gli esseri finiti [Tertia operatio esse absoluti mundum creantis est divina synthesis, idest unio duorum elementorum; quæ sunt esse initiale, commune omnium finitorum entium initium, atque reale finitum, seu potius diversa realia finita, termini diversi ejusdem esse initialis. Qua uniorie creautur entia finita (Prop. XV)] ».

18. Così tre atti divini concorrono alla creazione: una astrazione divina, una immaginazione divina ed una sintesi divina. Per astrazione, Dio concepisce l’essere iniziale; con l’immaginazione egli si rappresenta la realtà finita; con la sintesi, unisce i due elementi, cioè l’essere iniziale concepito con astrazione ed il « finito reale, o piuttosto i diversi finiti reali, limiti diversi dello stesso essere iniziale »; in altri termini, esso produce l’essere finito applicando il limite all’essere iniziale, che è secondo la verità l’essere divino stesso: la creazione consiste propriamente nell’applicazione di un limite all’essere iniziale o all’essere divino che è in Dio senza limiti. « Nell’operazione della sintesi divina, l’essere iniziale è messo in relazione con l’intelligenza, non come intelleginile, ma puramente come essenza, con dei limiti reali finiti: per questo gli esseri finiti esistono soggettivamente e realmente [Esse initiale per divinam synthesim ab intelligentia relatum non ut intelligibile sed mere ut essentia, ad terminos finitos reales, efficit ut existant entia finita subjective et realiter. (Prop. XVI.)].

19. l’Autore della Sapienza ci insegna che Dio ha creato tutte le cose « di una materia invisibile, ex materia invisa [Creavit orbem terrarum ex materia invisa. (Sap. XI, 18.)] ». I Padri ed i teologi cattolici intendono unanimamente con “questa materia invisibile” gli elementi uniformi che Dio creò all’origine e con cui formò in seguito i veri esseri. Rosmini intende con questa “materia invisibile”, l’essere iniziale, l’Essere divino, il Verbo stesso, che è il fondo comune, initium, initiale principium, di ogni essere finito: « Il Vergo, egli dice, è questa materia invisibile della quale, come è detto nella Sapienza (XI, 18), furono create tutte le cose dell’universo. [Verbum est materia illa invisa ex qua, ut dicitur (Sap. XI, 18), creatæ fuerunt res omnes universi. (Prop. XIX) ».

20. Ma, se l’essere finito risulta da un’applicazione di un limite all’Essere divino, al Verbo stesso, si può ancora dire che è propriamente prodotto? Rosmini vorrebbe conservare questa espressione; perché si può essa rigettare senza contraddire l’insegnamento manifesto della Chiesa? Tuttavia il suo sistema lo produce, malgrado lui, fino a sopprimere il termine di productione. « La sola cosa che Dio fa creando, egli dice, è che Egli pone integralmente l’atto totale dell’essere delle creature; dunque, propriamente parlando, questo atto non è fatto, ma è posto [Id unum efficit Deus creando, quod totum actum esse creaturarum intègre ponit: hic igitur actus proprie non est factus, sed positus. (Prop. VII.) »; in altri termini, non c’è nella creazione, produzione di un atto sostanziale che comincia allora, ma soltanto emission di un atto preesistente: hic igitur actus proprie non est factus, sed positus. Ma che creazione è, se il suo termine presiste, se non è prodotto?

21. Sembrava sentire Hegel o gli altri panteisti. Tuttavia questi è Rosmini, uno scrittore attaccato dal fondo delle sue viscere alla Chiesa. Ma egli è vittima di un falso principio al quale si è interamente dato. Egli ha scambiato l’essere in generale per l’essere stesso di Dio: dunque, conclude qui, l’Essere divino stesso è posto con la creazione negli esseri finiti; la creazione non è la produzione di un essere che precedentemente non c’era, ma la delimitazione di un essere preesistente, è la circoscrizione dell’Essere eterno in un limite particolare.

22. L’obiezione principale che opponiamo a questa teoria rosminiana della creazione, è quella supposta e conferma il panteismo del sistema generale. L’orrore di una conseguenza così mostruosa ci lascia appena la libertà di segnalare altri errori minori, ma tuttavia molto gravi. Rosmini mette l’immaginazione in Dio, ma l’immaginazione è una facoltà sensitiva, legata di conseguenza ad un organo e dipendente dal corpo nella sua esistenza e nel suo esercizio. Dio ha un corpo? Non è Dio puro Spirito? Come si può allora attribuire l’immaginazione a Dio? Poi Rosmini ci rappresenta Dio come concepente per astrazione l’essere iniziale, e per immaginazione il fine reale o il limite, applicando con una sintesi il limite all’essere iniziale, per farne un essere finito. Che teoria grossolana! Malgrado la questione seria, non ci si può dispensare dal pensare al fonditore leggendario che, per fare un cannone, prende del vuoto e vi mette del bronzo intorno.

23. Il Concilio Vaticano, seguendo il Concilio Laterano IV e, secondo l’insegnamento unanime dei Dottori cattolici, definisce che Dio ha creato « con un volere liberissimo “liberrimo consilio” (de fide cathol., cap. I) ». Dio, in effetti, poteva benissimo non creare ciò che ha potuto creare; perché, possedendo in se stesso un bene infinito di cui il godimento vince il suo amore, gli è impossibile trovare un accrescimento di perfezione o di felicità nelle creature (Ibid.); l’essere creato non apporta all’Essere infinito alcun profitto necessario; senza dubbio, se lo ha creato, lo ordina alla sua gloria; ma se non lo ha creato, non è meno sovranamente beato ed assolutamente perfetto: la creazione è dunque un atto interamente libero. [« Questo solo vero Dio, per la Sua bontà e per la Sua onnipotente virtù, non già per accrescere od acquistare la Sua beatitudine, ma per manifestare la Sua perfezione attraverso i beni che dona alle Sue creature, con liberissima decisione fin dal principio del tempo produsse dal nulla l’una e l’altra creatura contemporaneamente, la spirituale e la corporale, cioè l’angelica e la terrena, e quindi l’umana, costituita in comune di spirito e di corpo (CONC. LATER. IV, c. 1, Firmiter) » – Conc. Vaticano: Cost. “Dei Filius” cap. I]. Ma Rosmini professa un’altra dottrina. Per lui, l’essere della creatura è l’essere stesso di Dio: dunque, secondo lui, l’essere della creatura, come l’essere divino, è il termine necessario dell’amore che è in Dio. Dio si determina a creare solo perché egli ama nella creatura il suo proprio essere . Ma siccome ama necessariamente il suo proprio essere , non può impedirsi di amarlo nella creatura, e di conseguenza di mettervelo, e così di creare: « L’amore di cui Dio si ama anche nelle creature, ed è questa la ragione che lo determina a creare, essa costituisce una necessità morale, che nell’essere perfettissimo, produce sempre il suo effetto [Amor quo Deus se diligit etiam in creaturis, et qui est ratio qua se déterminat ad creandum, moralem necessitatem coastituit, quæ in ente perfectissimo semper inducit effectum. (Prop. XVIII)] » L’uomo, secondo Rosmini, è libero di camminare o non, di parlare o tacere; ma Dio non è libero, almeno nello stesso grado, di creare o di non creare: « Questa sorta di necessità », una necessità morale che mette in Dio, « lascia intera la libertà bilaterale ai numerosi esseri imperfetti [Hujusmodi enim nécessitas tantum modo in pluribus entibus imperfectis integram relinquit libertatem bilateralem. (Prop. XVIII)] ». (1. Continua …)

PREGHIERE ED INDULGENZE APOCRIFE

PREGHIERE ED INDULGENZE APOCRIFE

I nemici della Chiesa di Cristo, di Dio e di tutti gli uomini, hanno da sempre tentato con tutti i mezzi di nuocere alla Sposa di Cristo ed ai suoi fedeli, cercando di corromperne l’anima e condurla là … ove è pianto e stridor di denti. Una delle armi più insidiose ed occulte, è quella di usare false preghiere ed indulgenze apocrife ed indurre i Cristiani alla superstizione, al sacrilegio,  al peccato contro la fede, la carità, ed ovviamente alla presunzione di salvarsi senza meriti [peccato contro lo Spirito Santo!]. La Chiesa Cattolica ovviamente ha cercato di allertare i fedeli già in varie occasioni, nel passato. Qui di seguito, a mo’ di esempio, riportiamo alcuni decreti contenuti in Atti Apostolici, ove vengono condannate come apocrife una serie di preghiere anche abbastanza note e “praticate”. Ne diamo qualche esempio:

In Acta Sanctæ Sedis n. 31 (1898-1899) a pagina 127 leggiamo:

DECRETUM URBIS ET ORBIS, quo revocantur indulgentiæ omnes mille vel plurium millium annorum. [decreto che revoca le indulgenze di mille e più anni]

“Quum huic S. Congregationi Indulgentiis Sacrisque Reliquiis præpositae ex ipsa sui institutione munus demandatum sit vigilandi, ne in christiano populo falsae et apocryphæ, veliam revocatae a RR. PP. Indulgentiæ temere evulgentur, pluries ab ea quæsitum est, num Indulgentiæ mille sive etiam plurium millium annorum, quae in nonnullis Summariis et etiam in Pontificiis Constitutionibus leguntur, sint retinendæ uti veræ, an potius inter apocryphas amandandæ, ea potissimum de causa quod immoderatæ viderentur. Porro quum hæc S. C. generatim animadverterit prædictarum Indulgentiarum concessionem, ut plurimum, nulli aut suppositivo niti fundamento, prætereaque perpenderit id quod Sacrosancta Tridentina Synodus Sess. 25, cap. XXI Decret, de Indulg. docuit, in concedendis nimirum Indulgentiis moderationem esse adhibendam, ne nimia facilitate ecclesiastica disciplina enervetur; opportunum esse censuit, sicut alias peragere consuevit, ut Indulgentiae omnes, quæ mille vel plurium millium annorum numerum attingunt, prætermisso an veris sint accensendæ vel apocryphis, revocarentur et abrogarentur: id enim postulare videbantur et mutata temporum adiuncta, et modo vigens in Ecclesia disciplina. Emi itaque Patres huic S. Congregationi praepositi, in generalibus Comitiis ad Vaticanum habitis die 5 Maii 1898, omnibus mature perpensis, unanimi suffragio rescripserunt: Indulgentias omnes mille vel plurium millium annorum omnino esse revocandas si SS.mo placuerit. [Sono assolutamente da revocare le indulgenze di mille o più anni].

Facta autem de his omnibus relatione SS.mo D.no Nostro Leoni Papæ XIII in Audientia habita die 26 Maii 1898 ab infrascripto Card. Præfecto, Sanctitas Sua Eminentissimorum Patrum sententiam ratam habuit et confirmavit, mandavitque per generale Decretum declarari omnes Indulgentias mille vel plurium millium annorum, quae hucusque concessae dicuntur aut sunt, revocatas esse, et uti revocatas ab omnibus habendas.

Contrariis quibuscumque non obstantibus.

L’anno successivo segue questo decreto:

In Acta Sanctae Sedis n. 31 (1898-1899) a pagina 727, si legge in questo Decreto:

A questa Sacra Congregazione, preposta alle Sacre Indulgenze e alle reliquie, sono pervenuti dei fogli che riportano preghiere con annesse indulgenze alle medesime attribuite, e sulla cui autenticità sono portati gravi dubbi. Pertanto questa Sacra Congregazione, affinché i fedeli non vengano tratti in errore, specialmente in questi tempi in cui tutti i nemici della Chiesa cercano ogni pretesto per irridere il tesoro inestimabile delle Indulgenze, che piamente, santamente, e incorrottamente si amministra, come da suo dovere ha avocato a se l’esame di questi fogli, e verificare e dichiarare qualora si trovi in essi promulgazione di indulgenze false, apocrife, e del tutto confuse, la diffusione di questi fogli sia del tutto proibita e le asserite indulgenze dichiarate apocrife e false. – Per qual motivo gli Em.mi Padri, riuniti in Vaticano il 5 maggio 1898 in Congregazione Generale, dopo matura riflessione, con unanime votazione hanno sottoscritto: i predetti fogli presentati a questa Sacra Congregazione sono da vietare e, come detto, le annesse indulgenze essere dichiarate apocrife e false.
Fatta di questo relazione presso il S. Padre Leone XIII nell’udienza del 26 maggio 1898, dal sottoscritto Cardinale Prefetto, sua Santità ha approvato e confermato e dato il mandato di preparare un decreto generale, nel quale venga stabilito che il contenuto dei fogli annessi, o che si trovi espresso in edizioni diverse sia proscritto e che le indulgenze riportate in essi siano condannate come false e apocrife. Seguono i “foglietti” con le preghiere ed indulgenze apocrife riportare:

Foliolum I

– Litanie della Beata Vergine Addolorata

composte dal Sommo Ponteficp Pio VII il quale accordò indulgenza plenaria nei venerdì dell’ anno a chi contrito le reciterà col Credo, colla Salve Regina e con tre Ave al Cuore addolorato di Maria SS.ma.

Kyrie, eleison. Christe, eleison. Kyrie, eleison.

Christe, audi nos. Christe, exaudi nos.

Pater de Coelis Deus, miserere nobis.

Fili Redemptor mundi Deus, miserere nobis.

Spiritus Sancte Deus, miserere nobis.

Sancta Trinitas unus Deus, miserere nobis.

Sancta Maria, … ora pro nobis,

Sancta Dei Genitrix, …

Sancta Virgo Virginum, …

Mater crucifixa,

Mater dolorosa,

Mater lacrymosa,

Mater afflicta,

Mater derelicta,

Mater desolata,

Mater filio orbata,

Mater gladio trans verberata,

Mater aerumnis confecta,

Mater angustiis repleta,

Mater cruci corde affixa,

Mater mœstissima,

Fons lacrymarum,

Cumulus passionum,

Speculum patientiæ,

Rupes constantiæ,

Anchora confidentiae, ora pro nobis.

Refugium derelictorum, ora

Clypeus oppressorum, ora

Debellatrix incredulorum, ora …

Solatium miserorum, ora

Medicina languentium, ora …

Fortitudo debilium, ora …

Portus naufragantium, ora

Sedatio procellarum, ora

Recursus moerentium, ora …

Terror insidiantium, ora …

Thesaurus fidelium, ora …

Oculus Prophetarum, ora …

Baculus Apostolorum, ora …

Corona Martyrum, ora …

Lumen Confessorum, ora …

Margarita Virginum, ora …

Consolatio Viduarum, ora …

Laetitia Sanctorum omnium, ora …

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, parce nobis Domine.

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, exaudi nos Domine.

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.

Respice super nos, libera nos, salva nos ab omnibus angustiis in virtute Iesu Christi. Amen.

Scribe, Domina, vulnera tua in corde meo, ut in eis legam dolorem et amorem: dolorem ad sustinendum pro Te omnem dolorem; amorem ad contemnendum pro Te omnem amorem. Laus Deo ac Deiparæ.

Ora pro nobis Virgo dolorosissima!

R). Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus.

Interveniat pro nobis, quæsumus, Domine Iesu Christe, nunc et in hora mortis nostrae apud tuam clementiam Beata Virgo Maria Mater tua, cuius sacratissimam animam in hora tuae passionis, doloris gladius pertransivit. Per te, Iesu Christe Salvator mundi, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen.

– Salutazione a Maria SS. Addolorata

Dai Sommi Pontefici arricchita dell’ indulgenza plenaria lucrabile in ogni venerdì dell’anno da quei fedeli che confessati e comunicati la reciteranno divotamente.

Ave Maria doloribus plena, Crucifixus tecum, lacrimabilis tu in mulieribus et lacrimabilis fructus ventris tui Iesus. — Sancta Maria, mater Crucifixi lacrimas impertire nobis crucifixoribus Filii tui, nunc et in hora mortis nostrae. Amen.

Con approvazione ecclesiastica.

Torino, 1865 — Tip. dell’Oratorio di S. Francesco di Sales.

Foliolum II
La “Corona di Spine”

LA CORONA DI SPINE.

La corona di spine spiega la vita, passione e morte di N. S. Gesù Cristo, cioè dalla sua nascita fino alla morte.

1. Ogni grano di questa corona ha la somiglianza di una testa di bestia, e rappresenta come Gesù nacque tra il bue e l’asinello.

2. Questa corona somiglia alla corona di spine con cui fu incoronato Gesù Cristo.

3. Coloro che avranno questa corona in casa sopra un Crocifisso od un quadro e reciteranno per 33 giorni cinque Pater, Ave e Gloria all’incarnazione, passione e morte di N. S. Gesù Cristo, verrà deliberata un’anima dalle pene del purgatorio della propria famiglia e questa prega per il divoto che recita questa orazione.

Queste corone sono spedite e benedette dai PP. Crociferi del Belgio e autorizzati dal S. P. Leone XIII.

Chi reciterà divotamente questa orazione acquisterà 500 giorni d’Indulgenza oltre aver liberato un’ anima dal purgatorio.

Roma — Tipografia Pontificia, 1894.

 

Foliolum III
L’Orazione alla Piaga della Spalla

RIVELAZIONE

Fatta a S. Bernardo Abbate di Chiaravalle dell’incognita e dolorosa piaga della spalla di Nostro Signore Gesù Cristo da lui sofferta nel portar la pesante Croce.

Domandando una volta S. Bernardo a Nostro Signore nell’orazione, qual sia stata la sua maggior doglia occulta, sentita nel corso della sua Santissima Passione, rispose il Signore: Io ebbi una piaga sulla spalla profonda tre dita, fattami nel portare la Croce; questa mi è stata di maggior pena e dolore di tutte le altre, quale dagli uomini è poco considerata perchè è incognita. Ma tu abbila in venerazione, e sappi che qualunque grazia mi chiederai in virtù di detta Piaga mi onoreranno, gli perdonerò i loro peccati quotidiani, de’ mortali non mi ricorderò più e conseguiranno la vita eterna, cioè la mia grazia e misericordia.

Eugenio III ad istanza di S. Bernardo ha concesso, a chiunque dirà tre Pater noster, e tre Ave Maria, in onore della suddetta Piaga come è stato a S. Bernardo rivelato, tre mila anni d’Indulgenza.

ORAZIONE DA DIRSI ALLA PIAGA DELLA SPALLA DI NOSTRO SIGNORE.

Dilettissimo Signore Gesù Cristo, mansuetissimo Agnello di Dio, io povero peccatore, adoro e venero la Santissima vostra Piaga che riceveste sulla spalla nel portare la pesante Croce al Calvario, nella quale restarono scoperte tre Sagratissime Ossa, tollerando in essa un immenso dolore ; Vi supplico pertanto per virtù e meriti di detta Piaga ad aver di me misericordia col perdonarmi tutti i miei peccati sì mortali che veniali, e ad assistermi nell’ora della mia morte, e di condurmi nel vostro Regno beato. Amen.

Sia sempre benedetto, e ringraziato Gesù Cristo che col suo preziosissimo Sangue ci ha salvato.

Oremus.

Deus, omnium fidelium pastor et rector, famulum tuum Leonem quem pastorem Ecclesiae tuae præesse voluisti, propitius respice: da ei quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest proficere: ut ad vitam una cum grege sibi credito, perveniat sempiternam. Per Dominum.

Sono pregati di un’Ave Maria per chi dispensa gratis il presente foglio.

Roma — Tipografia della Pace di F. Cuggiani.

(Vide Decr. Auth. n. 18).

Foliolum IV
La Corona “dei Meriti e della Passione di N.S. Gesù Cristo” (Spagnolo)

Imprenta de la Viuda é Hijo de Muñoz Plaza de la Merced.

CORONA DE LOS MERECIMIENTOS DE LA PASIÓN Y MUERTE DE NUESTRO SEÑOR JESU CRISTO.

(con licencia)

Ciudad-Real—1868

Imprenta de la Viuda é Hijo de Muñoz Plaza de la Merced.

 

CORONA DE LOS MERECIMIENTOS DE LA PASIÓN Y MUERTE DE NUESTRO SEÑOR JESU CRISTO.

Memoria de los merecimientos de la pasión de Nuestro Señor Jesucristo concedida por Nuestro SSmo Padre Pio V al Duque de Herencia y á su hijo el Principe de Sirena, el cual, yendo á visitar á nuestra Señora de Loreto, fué á besar los pies á su Santidad, y le dijo que le pidiese lo que quisiera, y el dicho Principe le suplicó que para salud de las almas concediese algunas indulgencias, para lo cual mandó su Santidad viniesen todos los Cardenales al Consistorio y Congregación y que rogasen á nuestro Señor fuese servido illuminar su intendimiento y les inspirase las gracias que su Santidad iba á conceder al Principe para que fuere en provecho de las almas: y estando todos juntos dijeron que concediese un Paternoster y diez Ave Marias que se llamará corona de los merecimientos de la pasión y muerte de nuestro Señor Jesucristo y que tuviese las gracias é indulgencias siguientes.

1a. Concede su Santidad à las personas que tubieren esta corona y la rezaren con devoción, rogando á Dios que conceda estas gracias, indulgencia plenaria y remisión de sus pecados.

2a. Todas las personas que rezaren la corona con contrición de sus culpas y pecados ganan indulgencias plenaria y remission de sus pecados culpa y pena, aunque la recen mil veces al dia.

3a. Que á totas las personas y en todas las veces que tuviesen la Corona en la manos diciendo : Dios y Señor mio Jesucristo, por los merecimientos de vuestra pasión santísima tened piedad y misericordia de mi : le serán perdonados sus pecados.

4a. Que todas las veces, que rezaren por modo de sufragio por las ánimas del Purgatorio, se sacan tantas almas como veces les rezaren y también indulgencia plenaria.

5a. Concede su Santidad á las personas que oyeren misa y rezaren dicha corona por cada vez cuatro mil años de perdón.

6a. También las veces que la rezaren por el Pontífice que las concedió, le serán perdonados sus pecados.

7a. Que el que tuviere esta corona en sus manos en el articulo de la muerte vaya absuelto de culpa y pena como el dia que fué bautizado.

8a . Concede su Santidad al dicho principe que pueda dar la corona á veinte personas : las veinte cada una á siete y cada una de estas siete á otras siete y así de mano en mano para que se comunique á todos los fieles.

9a. Que si perdiese la dicha corona, puede elegirse otra en su lugar que tenga las mismas gracias é indulgencias y esto sea una vez tan sola.

10a. Que para ganar estas indulgencias y gracias han de tener la bula de la Santa Cruzada y un tratado de estas indulgencias.

11a . Asi mismo, su Santidad de su propria voluntad y en presencia de sus hermanos los Cardenales dio la Corona al Duque diciéndole: La daréis á los que os la pidan y unos á otros poseídos del amor de Dios delante de un Crucifijo é incados de rodillas.

12a. El orden que se ha da tener para dar dicha corona ha ser, el que la pida esté incado de rodillas, como se dijo en el articulo anterior, y ha de decir : u Hermano, yo os ruego por amor de Dios que me deis la corona de los merecimientos de nuestro Señor Jesucristo, para que yo gane las gracias á indulgencias que su Santidad me concede por ella „. El que la dá poniéndola en las manos dirá : “Hermano yo os la entrego en memoria de la pasión y muerte de nuestro Señor Jesucristo con la gracias á mi concedidas: la podréis dar á siete personas y encargo la deis de limosna en reverencia de la pasión de nuestro Señor Jesucristo y rogueis por las almas del Purgatorio Amen „.

Foliolum V

Le parole dette da Maria SS. Addolorata, quando ricevette il Corpo esamine nelle braccia (oggi conosciuta come “Sentimenti di Maria SS. Addolorata …”)

O fonte inesausto di verità come ti sei disseccato! O saggio Dottor degli uomini, come te ne stai taciturno! O splendore di eterna luce, come mai la tua bella faccia è divenuta deforme! O altissima divinità come ti fai vedere a me in tanta povertà! O amor del cuore, quanto grande è la tua bontà! O delizia eterna del mio cuore quanto eccessivi e molteplici sono stati i tuoi dolori! Signor mio Gesù Cristo che hai comune col Padre, e collo Spirito Santo, una sola e medesima natura, abbi pietà di ogni creatura e principalmente delle anime Sante del Purgatorio. Così sia. Cinque Credi, una Salve Regina, un Pater Ave e Gloria, secondo l’Intenzione del Sommo Pontefice ed un Requiem.

Questa divozione, che si trovò in una Cappella di Polonia sopra una tabella, è stata approvata da Innocenzo XI, il quale concesse la liberazione di 15 anime dal Purgatorio, ogni volta che si reciterà. Lo stesso fu confermato da Clemente III.

La stessa liberazione di 15 anime del Purgatorio, ogni volta che si reciterà questa orazione, fu confermata da Benedetto XIV con Indulgenza Plenaria. La stessa concessione fu confermata da Pio IX con l’aggiunta di Cento altri giorni d’indulgenza.

S’implori una prece per chi dispensa l’orazione.

Montefortino 1893 — Tip. Marinozzi.

Foliolum VI

Gesù di Nazaret Re dei Giudei (Francese)

JÉSUS DE NAZARETH, ROI DES JUIFS, RÉDEMPTEUR

SOUFFRANT, AYEZ PITIÉ DE NOUS.

Extrait de la vie du bienheureux frère Innocent à Clusa frère Minime Recollet, singulier en vertus et en miracles, décédé à Rome le 15 décembre 1631.

Dans sa vie (premièrement imprimé en italien) dédiée an pape Innocent XI, trouvons-nous cette histoire singulière: Le saint homme parlant un jour avec certain prince et quelques théologiens, disait qu’à notre Sauveur Jésus Christ, allant au mont Calvaire chargé de sa Croix, étaient sortis de l’épine du dos trois Os ou Côtes qui avaient percé les articulations de sa chair. Le prince ainsi que tous les autres ne voulaient y ajouter foi, parce que, d’après eux, ni l’Ecriture sainte ni aucune Révélation n’en faisaient mention, et que cette opinion n’était pas admise par notre Mère la Sainte Eglise; mais frère Innocent leur observait : que le pape Eugène III, d’après les instances de saint Bernard avait accordé cent mille ans d’indulgences à tous ceux qui en l’honneur et commemoration de ces trois Os ou Côtes réciteraient trois fois le Pater et Ave Maria. Nonobstant cela aucun ne voulut y croire. Mais voyez quelle chose extraordinaire en est suivie: le saint homme, en leur présence élevant son coeur à Dieu, est devenu en extase, et dans le peu de temps, qu’il y restait, un papier sur lequel était écrit et très bien détaillé toute l’histoire des trois Os, comme le frère l’avait racontée, et l’indulgence du pape Eugène III accordée à cet égard, lui a été mise miraculeusement dans la main ; et ce qui est le plus frappant, est que cet écrit était soussigné par la main propre de Clement VII, pour lors pontife régnant à Rome.

Le frère Innocent revenant de son extase, remit au prince et aux théologiens l’écrit miraculeux : mais ceux-ci troublés et interdits, ne savaient s’ils voulaient croire ce qu’il venaient de voir devant leurs propres yeux, ne sachant comment ce papier pouvait être parvenu au saint homme, ainsi signé de la main du Saint Père.

Il leur semblait qu’il ne fallait rien de plus pour ajouter foi aux grands mérites du serviteur de Dieu, par qui le Seigneur voulut faire renaître la dévotion aux trois Os, qui avait restée si longtemps en oubli dans le coeur des fidèles.

Cette histoire miraculeuse, très propre pour exciter les catholiques à la compassion et à l’amour réciproque en considération de la douloureuse passion du Fils de Dieu, ainsi que pour mériter en si peu de temps autant d’indulgences, a été imprimée d’après le désir de personnes pieuses. Plut à Dieu que chacun voulut méditer non seulement sur la pesanteur de la croix, mais beaucoup plus sur l’énormité des péchés du monde, lesquels le Père céleste a voulu faire expier par son Fils unique, notre caution, ce pourquoi les épaules innocentes et toute puissantes et ses saintes Côtes et Os ont été si péniblement démembrés.

Ex Fremac. Ord. F. M. R.

Imprimi poterit F. BONAVENT. VAN Den Dycke,

Minister provinciæ.

Imprimi poterit. Actum Antuerp. 22 Nov. 1714.

L. De CARVAIAL L. C.

Nous trouvons dans des anciens ouvrages romains, que le pape Georges III, a accordé d’après les instances de la Reine d’Angleterre, et à tous ceux qui réciteront la prière suivante après V élévation du Corps de Notre Seigneur pendant la Messe, devant le très saint Sacrement de l’Autel, ou bien devant un Crucifix, autant d’années d’indulgence que notre Seigneur Jésus Christ avait de plaies à son corps, qui étaient au nombre de 5676: ainsi trouvons-nous dans les Révélations.

PRIÈRE.

O très aimable Seigneur Jésus Christ, Fils du Dieu vivant, je vous prie par l’ardent amour avec lequel vous avez aimé le genre humain, quand, ô Roi céleste vous étiez pendant à la croix avec un visage divin triste, des sensés inquiets, un coeur percé, d’un côté ouvert, des reints tremblants, d’un corps disloqué, des plaies sanglantes avec des flux et reflux, des veines forcées, d’une bouche criante, d’une voix enrouée, d’un visage pâle, une couleur mourante, des yeux pleurants, un ardent amour, un gosier soupirant, une soif ardent, un goût amer de fiel et de vinaigre, avec la tête penchée, couronnée d’épines, rencontrant la mort lors de la separation de son âme divine avec son très saint corps, avec l’origine de la fontaine vivant d’amour. Par le même amour, je vous prie, ô très doux et très aimable Seigneur Jésus Christ, par lequel votre aimable coeur fut pressé et entrecoupé, que vous voudriez vous réconcilier sur le grand nombre de mes péchés, et accorder ainsi qu’à ceux pour lesquels je suis obligé de prier, ,une fin bienheureuse et une résurrection glorieuse, par votre miséricorde infinie qui vivez et régnez avec le Père et le saint Esprit dans les siècles des siècles. Ainsi soit-il.

O êtres aimables ! soyez assidus et pensez à votre âme altérée, et nourrissez-la des mérites des très saintes Indulgences, pour obtenir par le très saint Sang de notre Sauveur Jésus Christ la remission de vos péchés et ensuite l’éternité bienheureuse. Excitez-vous donc pour l’amour des grandes souffrances de Jésus, à la récitation de cette prière divine et de trois Pater et Ave Maria, et priant ici sur la terre dans l’esprit et la personne de Jésus Christ, à savoir dans l’esprit de pénitence et de repentir, pour satisfaire ainsi conjointement avec lui pour vos péchés à la justice de sa Majesté blessée. PENSEZ-Y DONC BIEN.

Avec crainte et espoir travaillez à votre salut, dit saint Paul, Phil. 2. e. Laissons-nous faire le bien, dit-il, quand nous en avons le temps. Gai. 6. c. dit l’Eccl. 7. c. Celui qui craint le Seigneur n’omet rien ; à savoir de faire le bien là où il peut. Pour cette raison Jésus Christ, la vérité éternelle, nous exhorte. Luc. 9. Paites commerce jusqu’à ce que je viens savoir en bonnes oeuvres. Matth. 6. Amassez-vous des trésors pour le Ciel. Et après avoir fait assiduité dites avec Luc, c. 10, nous sommes des serviteurs inutiles, sur quoi S. Bernard dans le Psal. Qui habitas sermo 4, en nous menaçant dit: malheur à nous, si nous n’avons fait ce que nous devions faire. Jésus soyez loué! et prions-le mutuellement jour et nuit sans discontinuer comme dit S. Paul: car à toutes heures nous sommes à la porte de l’éternité, où nous suivra et le bien et le mal que nous aurons commis et cela pour l’éternité. Mâchez bien la nourriture Cela empêche la pourriture. Que le Saint Esprit soulage et remplisse les âmes des fidèles. Ainsi soit-il.

Bruxelles. Typ. J. Crols-Pirmez, rue de Flandre 106.

(Vide Decr. Auth. n. 18).

Foliolum VII

1 Orazione al Salvatore del mondo

 ORAZIONE AL SALVATORE DEL MONDO.

Signor mio Gesù Cristo Padre dolcissimo per amor di quel gaudio, che ebbe la vostra diletta Madre quando le appariste in quella sacratissima notte di Pasqua, e per quel gaudio quando vi vide glorificato con la chiarezza della divinità, vi prego ad illuminarmi con i doni dello Spirito Santo acciocché in tutti i giorni di mia vita possa adempiere la volontà di voi, che vivete e regnate con Dio padre nella vita dello Spirito Santo per tutti i secoli de’ secoli. Amen.

I Sommi Pontefici Bonifazio VIII e Benedetto IX concedono ottantamila anni di indulgenze a ehi reciterà la suddetta Orazione, come si vede in S. Giovanni Laterano di Roma in un marmo.

2. ORAZIONE DI S. GREGORIO PAPA, CHE SI TROVA A LETTERE D’ORO SCRITTA IN S. GIOVANNI IN ROMA.

Bonifazio Papa concede a chi confessato e comunicato la dirà, la remissione di tutti i peccati, e ogni volta che la dirà ottanta mila anni, e 40 quarantene, e chi la dirà 30 giorni continui avanti l’Immagine di M. V., otterrà qualunque grazia, e chi la dirà vita durante ogni giorno otterrà la grazia di morire fedelmente.

ORAZIONE

Stabat Virgo iuxta Crucem

Videns pati veram lucem

Mater Regis omnium

Vidit Caput coronatum

Spinis latum perforatum

Vidit mori filium. Vidit Caput inclinatum

Totum Corpus cruentatum. Pastor pro Ovibus

Vidit potum felle mixtum. Natum suum Crucifixum

Gubernantem omnium Christum pati flagello

Virgo mater et ancella. Vidit et obbrobria

Amen.

3. Orazione alla santa Croce da dirsi anche in sollievo delle anime sante del Purgatorio

Io vi adoro Croce Preziosa che con le delicate membra del mio Signore Gesù Cristo foste adorata, ed aspersa del suo Preziosissimo Sangue. Adoro te Dio mio posto in lei, e te Croce Santissima per amor suo e così sia. Questa orazione a dirla ogni Venerdì 5 volte si cavano 5 anime dal Purgatorio, ed il Venerdì santo se ne cavano 33. Divozione dell’incognita e dolorosa Piaga della Sacra Spalla di N. S. G. C. da lui patita nel portare la pesante Croce.

Dimandando una volta S. Bernardo Abate al nostro Signore nell’orazione qual sia stata la sua maggior doglia occulta sentita nel corso della sua passione; rispose il Signore: Io ebbi una piaga sulla spalla, profonda tre dita, fattami nel portare la Croce: questa mi è stata di maggior pena e dolore di tutte le altre, quale dagli uomini è poco considerata, perchè è incognita; ma tu abbila in venerazione: e sappi che qualunque grazia mi chiederai per tal Piaga te la concederò, e tutti quelli che per amor di essa mi onoreranno io loro perdonerò i quotidiani peccati, rimetterò loro i mortali, e conseguiranno la mia grazia e misericordia.

Eugenio III, ad istanza di S. Bernardo, ha concesso 3000 anni d’Indulgenza a chiunque dirà tre Pater e Ave ad onore della Piaga della Spalla di Gesù Cristo, e delle tre ossa prominenti, come si dice che sia stato rivelato a detto Santo.

ORAZIONE A DETTA PIAGA

Dilettissimo Signor Gesù Cristo, mansuetissimo Agnello di Dio, io povero peccatore saluto, e riverisco la vostra Santissima piaga, che patiste sulla spalla dal portar la pesante Croce, laonde per causa delle tre ossa prominenti, che quivi sporgevano in fuori vi si cagionava intensissimo dolore sopra tutti gli altri del vostro SS. Corpo. Vi adoro mio appassionato Signore, vi lodo, vi onoro, e vi glorifico con l’intimo del mio cuore e vi ringrazio per quella SS. profondissima e dolorosissima Piaga della vostra spalla, supplicandovi umilmente per quel gran dolore che in essa sentiste, e per quel grave peso della Croce, ad aver misericordia di me peccatore, a perdonarmi tutti i miei peccati, sì veniali che mortali, e di ac compagnarmi sul sentiero della Croce per i vostri Sanguinosi Vestigi alla eterna Beatitudine.

Tre Pater, Ave e Gloria.

ORAZIONE

Sacro Cuore di Maria

Voi siete gran Regina

Tutto il mondo a voi s’inchina

Voi salvate l’anima mia. — Un Pater ed Ave.

Pio VI concesse Indulgenza plenaria nell’anno 1787 a chiunque reciterà la detta orazione.

Siena 1888 — Tip. S. Bernardino.

Foliolum VIII

LETTERA DI GESÙ CRISTO.

DELLE GOCCIE DI SANGUE CHE SPARSE N. S. G. C MENTRE ANDAVA AL CALVARIO.

Copia di una lettera di Orazione ritrovata nel Santo Sepolcro di N. S. G. C. in Gerusalemme, conservata in una cassa d’argento da S. Santità, e dagli Imperatori ed Imperatrici cristiani. Desiderando S. Elisabetta Regina d’Ungheria, Santa Matilde e Santa Brigida sapere alcune cose della Passione di Gesù Cristo, facendo fervorose e particolari Orazioni, mercè le quali gli apparve Gesù Cristo favellando con esse e cosi dicendo: Sappiate che i soldati armati furono 150, quelli che mi condussero legato furono 23, gli esecutori di giustizia 83, i pugni che ricevei alla testa furono 150 e nel petto 108, i calci nelle spalle 80, e fui trascinato con corde e per i capelli 23 volte, natte e sputi nella faccia furono 180, battiture nel corpo 6666, battiture nel capo 110, mi diedero un urtone, notate nel cuore, fui alzato in aria per i capelli ad ore 21, ad un tempo mandai 120 sospiri, fui trascinato e tirato per la barba 23 volte, piaghe nella testa 20, spini di giunchi marini 72, punture di spine nella testa 100, spine mortali nella fronte 3, dopo flagellato e vestito da re di burla, piaghe nel corpo 1000. I soldati che mi condussero al Calvario furono 908, quelli che mi guardavano 3, goccie di sangue che sparsi furono 28430 e chi ogni giorno recita 7 Pater, Ave e Gloria per lo spazio di 15 anni per compiere il numero delle goccie di sangue che ho sparso, gli concedo 5 grazie:

1° . L’indulgenza plenaria e remissione di tutti i peccati;

2°. Sarà liberato dalle pene del purgatorio;

3°. Se morrà prima di compire detti 15 anni, per esso sarà come li avesse compiti;

4°. Sarà come fosse morto ed avesse sparso il sangue per la Santa Fede ;

5°. Scenderò io dal cielo a prendere l’anima sua e quella dei suoi parenti fino al quarto grado.

Quegli che porterà questa Orazione non morirà annegato, né di mala morte, né di morte improvvisa, sarà liberato dal contagio e dalla peste, dalle saette, e non morirà senza confessione, sarà liberato dai suoi nemici, e dal potere della Giustizia, e da tutti i suoi malevoli e da falsi testimoni. Le donne che non possono partorire, tenendola addosso, partoriranno subito e usciranno di pericolo. Nella casa ove sarà questa Orazione non vi saranno tradimenti nè di cose cattive, e 40 giorni prima della sua morte quello che l’avrà sopra di sè vedrà la Beata Vergine Maria, come dice S. Gregorio Papa.

Un certo Capitano spagnolo viaggiando per terra vide vicino Barcellona una testa recisa dal busto che gli parlò cosi: Giacché vi portate a Barcellona, o passeggiero, conducetemi un confessore acciò possa confessarmi essendo già da tre giorni che sono stata recisa dai ladri, e non posso morire se non mi confesso. Condotto al luogo il Confessore dal Capitano suddetto, la testa vivente si confessò ed indi spirò, trovando addosso al busto da cui era stata recisa, la seguente orazione la quale in quella occasione fu approvata da vari Tribunali della S. Inquisizione di Spagna. I suddetti 7 Pater, Ave e Gloria si potranno recitare e applicare anche per qualsivoglia anima. Altra simile copia della suddetta lettera è stata miracolosamente ritrovata nel luogo chiamato Porsit, tre leghe lontano da Marsiglia, scritta a lettere d’oro e per opera divina portata da un fanciullo di 7 anni del medesimo luogo di Porsit. Con un’aggiunta e dichiarazione il 2 Gennaio 1750 che dice : Tutti coloro che travaglieranno nei giorni di Domenica saranno maledetti da me, perchè nelle Domeniche dovete andare alla Chiesa

POLIOLUM IX.

Proscribitur etiam foliolum quoddam ex charta vel etiam ex lino confectum et diversis linguis exaratum, quod “Breve S. Antonii Patavini„ appellatur, hisce ultimis temporibus late diffusum, in quo, post relatam oratiunculam ex Breviario Romano desumptam:   “Ecce Crucem Domini, fugite partes adversae. Vicit Leo de tribu Juda, Radix David. Alleluja! Alleluja! „, hæc leguntur:

Sancte Antoni magne Taumaturge (alibi: Dæmonum effugator, ora pro nobis.

R). Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus.

Ecclesiam tuam, Deus, Beati Antonii confessoris tui commemoratio votiva lætificet ut spiritualibus semper muniatur auxiliis et gaudiis perfrui mereatur æternis. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Proscritto pure il cosiddetto “breve” di S. Antonio.]

Foliolum X

Demum proscribitur libellus cui titulus « Corona del Signore, sua origine, significazione ed indulgenze, ed alcuni metodi di recitarla con divozione e spirituale profìtto. » — Faenza 1871, Ditta tipografica Pietro Conti „ eo quod contineat plures apocryphas Indulgentias, nimirum pro Oratione  “Deus qui nobis in Sancta Sindone etc. „ et pro alia: “Dio ti salvi, Santissima Maria, Madre di Dio, Regina del Cielo ecc. „ iam damnatas per Decretum u Delatæ sæpius „ anni 1678 (n. 18); nec non pro sequentibus qæe nunc reprobantur;

Innocenzo VIII concesse indulgenza Plenaria a chi recita la seguente.

« Il Cielo ti Salvi, o Vergine Sovrana,

Stella del Sol più chiara,

Di Dio Madre pietosa,

Del mel più dolce, e rara;

Rubiconda più che Rosa,

Candida più che Giglio,

Ogni virtù t’infiora

Ogni santo ti onora,

Nel Ciel la più sublime. Così sia»

Clemente XIV concede l’Indulgenza plenaria a chi reciterà  l’orazione seguente al glorioso Patriarca S. Benedetto che ha rivelato alla Magna Badessa S. Geltrude di assistere nell’ora della morte, per opporsi potentemente agli assalti del nemico infernale, chi divotamente l’avrà agni giorno ossequiato colla seguente:

PREGHIERA.

Benedetto, mio caro Padre, vi prego per quella dignità, con la quale il Signore si degnò di cosi glorioso fine onorarvi e beatifìcarvi, che vogliate trovarvi presente alla mia morte, eseguendo in me tutte quelle promesse fatte alla Vergine S. Geltrude.

MEMORIA DEL GLORIOSO TRANSITO DI S. BENEDETTO.

Ant. Stans in oratorio dilectus Domini Benedictus Corpore et Sanguine Dominico munitus, inter Discipulorum manus imbecillia membra sustentans, erectis in coelum manibus inter verba orationis spiritum efflavit. Qui per viam stratam palliis et innumeris coruscam lampadibus coelum ascendere visus est.

  1. Gloriosus apparuisti in conspectu Domini.

R). Propterea decorem induit te Dominus.

Deus, qui pretiosissimam mortem SSilii Patris Benedicti tot tantisque privilegiis decorasti : concede quaesumus nobis, ut cuius memoriam recolimus, eius in obitu nostro beata praesentia ab hostium muniamur insidiis. Per Christum etc.

Chi non sa leggere, potrà dire tre Pater ed Ave con l’intenzione predetta.

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Contrariis quibuscumque non obstantibus.

Datum Romæ ex Secretaria eiusdem S. Congregationis die 26 Maii 1898.

HIERONYMUS CARD. GOTTI Præfectus.

f. ANTONIUS Archiep. Antinoen. Secretarius.

A firma del Prefetto

Fr. Girolamo Card. Gotti.

In data 26 maggio 1898

Il decreto seguente ha una straordinaria importanza per chi volesse esser sicuro che le preghiere che recita non siano false, sacrileghe, superstiziose e peccaminose.

Acta Sanctæ Sedis n. 32 (1899-1900) a pagina 243:  decreto“Inter cetera” [3 agt. 1899] qui leggiamo le norme suggerite per discernere le vere indulgenze dalle false ed apocrife:, onde prevenire le calunnie verso l’istituzione delle indulgenze, e così impedire la dispersione del celeste tesoro.

URBIS et ORBIS. Decretum de regulis seu normis ad dignoscendas veras Indulgentias ab apocryphis.

Inter cetera quæ huic S. Congregationi Indulgentiis Sacrisque Reliquiis praepositæ munera sunt tributa, illud supereminet secernendi nimirum veras Indulgentias ab apocryphis easque proscribendi. Cui quidem muneri satis ipsa fecit plurimis editis ad haec usque tempora decretis de apocryphis Indulgentiis in authentica Decretorum collectione contentis. Verum etsi haec S. Congregatio vigilans ab ipso suæ institutionis exordio semper exstiterit quoad Indulgentiarum publicationem, ne falsæ in Christianum populum irreperent, nihilominus, quum hac etiam nostra aetate non desint, qui, vel mala voluntate, aut etiam irrationabili zelo perculsi, falsas, vel ut minimum valde suspectas, Indulgentias sive orationibus, sive piis exercitiis adnexas propalare inter fideles non vereantur, hinc factum est ut plures Antistites hanc S. Congregationem adfuerint, ut de aliquibus Indulgentiis suum iudicium ederet. Id potissimum praestiterunt ea causa permoti ut non solum verae a falsis Indulgentiis discernerentur, sed praesertim ut Ecclesiæ hostibus via praecluderetur eam calumniandi, et aspernendi coelestem Indulgentiarum thesaurum. Porro S. Congregatio ut huic malo, quoad fieri posset, præsens remedium adhiberet, regulas seu normas quasdam statuere excogitavit, quibus prae oculis habitis nedum locorum Ordinariis, sed et ipsis Christifidelibus facilis aperiretur via ad dignoscendum quodnam sit ferendum iudicium de aliquibus Indulgentiis, quae passim in vulgus eduntur, dubiamquè praeseferunt authenticitatis notam.

Hoc vero S. Congregationis propositum SS.mo D.no Nostro Leoni XIII delatum, eadem Sanctitas Sua illud approbavit iussitque quam primum executioni mandari.

Quare S. Congregatio, adhibito studio Rmorum Consultorum, Indicem prædictarum regularum elucubrandum curavit; quem deinde in generali Congregatione ad Vaticanum coadunata die 5 Maii 1898 examini Eiîiorum PP. Cardinalium subiecit. Hi vero postquam praefatum Indicem mature perpenderint, eumdem, in aliquibus immutatum, in altera Congregatione denuo expendendum sibi reservarunt.

Quod quidem actum est in generalibus Comitiis ad Vaticanum habitis die 3 Augusti 1899, in quibus Emi et Rmi Patres Indicem uti infra proponendum censuerunt:

REGOLA I.

Authenticæ sunt omnes indulgentiæe, quæ in novissima Collectione a S. Indulgentiarum Congregatione edita continentur.

[Sono autentiche tutte le indulgenze contenute nell’ultima collezione edita dalla Congregazione delle Indulgenze.]

REGOLA II.

Indulgentiæ generales, quae in supradicta Collectione non exhibentur, vel quae concessae feruntur post editam Collectionem, tunc solummodo habendae erunt ut authenticae, cum earumdem concessionis authographum monumentum recognitum fuerit a S. Indulgentiarum Congregatione, cui, sub nullitatis poena, exhibendum erit antequam publicentur.

[Le indulgenze generali che non si trovano nella succitata collezione edita, o che saranno concesse dopo l’edizione della collezione, sono da ritenersi autentiche solo se munite di concessioni autografate dalla Congregazione delle S. Indulgenze, che dovranno essere esibite, pena nullità, prima della pubblicazione]

REGOLA III.

Authenticæ habeantur Indulgentiæ concessæ Ordinibus et Congregationibus religiosisj Archiconfraternitatibus, Confraternitatibus, Archisodalitas, Sodalitiis, piis Unionibus, piis Societatibus, nonnullis Ecclesiis celebrioribus, Loeis piis et Obiectis devotionis, quae continentur in Summariis recognitis et approbatis a S. Congregatione Indulgentiarum, eiusque auctoritate vel venia typis editis.

[Sono da ritenersi autentiche tutte le indulgenze concesse agli Ordini ed alle Congregazioni religiose, alla Arciconfraternite, alle Confraternite, agli Archisodalizi, ai Sodalizi, alle pie unioni, alle pie società, ad alcune delle chiese più popolose, ad oggetti di devozione che sono contenute nei sommari recogniti e approvati dalla S. Congregazione ed edite con la loro autorità]

REGOLA IV.

Non habeantur ut authenticae Indulgentiae sive generales, sive particulares, quae continentur in libris, in libellis, in summartis, in foliis,  in chartulis, sive etiam in imaginibus, impressis sine approbatione auctoritatis competentis; quae approbation concedenda erit post diligentem recognitionem et distincte exprimenda.

[Non si considerino autentiche le indulgenze, generali o particolari, contenute in fogli, libelli, libri, o anche in immagini, senza approvazione delle autorità competenti, da concedere solo dopo una diligente ricognizione chiaramente espressa.]

REGOLA V.

Apocryphæ, vel nunc prorsus revocatæ, sunt omnes Indulgentiæ mille vel plurium millium annorum quocumque tempore concessæ dicantur.

[Apocrife o revocate ora sono tutte le indulgenze ove si  dicano concessi svariati millenni ovunque esse siano state concesse.]

REGOLA VI.

Suspectæ habeantur Indulgentiæ plenariæ quæ asseruntur concessæ recitantibus pauca dumtaxat verba: exceptis Indulgentiis in articulo mortis.

[Sono sospette tutte le indulgenze plenarie che si asserisce  esser concesse recitando solo poche parole, tranne che in “articulo mortis”.]

Regola VII

Reiiciendæ sunt ut apocryphæ Indulgentiæ, quae circumferatur in libellis, foliis seu ehartulis impressis vel manuscriptis, in quibus ex levibus aut etiam superstitiosis causis et incertis revelationibus, vel sub illusoriis conditionibus promittuntur Indulgentiæ et gratiæ usum et modum excedentes.

[Sono da considerarsi apocrife quelle indulgenze che circolano in volantini ed opuscoletti (… oggi anche libri, internet, you-tube etc. … visto la grande diffusione che ne fanno –ndr.-) contenenti dubbie rivelazioni che quasi sfociano nella superstizione, che, con illusorie condizioni, promettono indulgenze e grazie spropositate.]

 Regola VIII

Ut commentata reiicienda sunt folia et libelli, in quibus promittitur fidelibus unam alteramve precem recitantibus liberatio unius vel plurium animarum a Purgatorio: et Indulgentiae quae dictae promissioni adiici solent ut apocryphæ habendæ sunt.

[Sono da rigettare tutti i fogli o libelli in cui si promette ai fedeli, con le recitazione di una o d’altra preghiera, la liberazione di una o più anime del purgatorio: e le indulgenze collegate a dette “ promesse” sono da rigettarsi e ritenersi apocrife.]

REGOLA IX.

Apocryphæ, vel saltem ut graviter suspectæ, habeantur, Indulgentiærecentioris assertæ concessionis,  si ad inusitatum numerum annorum vel dierum producuntur.

[Apocrife, o almeno gravemente sospette, sono tutte le indulgenze presunte di più recente concessione, che promettono un numero inusitato di anni o di giorni di indulgenza]

Datum Romæ ex Secretaria eiusdem S. Congregationis die 10 Augusti 1899.

Fr. HIERONYMUS M. CARD. GOTTI, Praefectus.

f A. SABATUCCI ARCHIEP. ANTINOEN. Secr.

Congr. Indice

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A  PROPOSITO DELLE “promesse” annesse alle ORAZIONI S. BRIGIDA

Abbiamo un monito del Santo Officio, del  gennaio 1954, che si occupa di esse espressamente:

III

MONITUM

In aliquibus locis divulgatum est opusculum quoddam, cui titulus « SECRETUM FELICITATIS »- Quindecim orationes a Domino S. Birgittæ in ecclesia S. Pauli, Romae, revelatae », Mceae ad Varium (et alibi), variis linguis editum.

Cum vero in eodem libello asseratur S. Birgittæ quasdam promissiones a Deo fuisse factas, de quarum origine supernaturali nullo modo constat, caveant Ordinarii locorum ne licentiam concedant edendi vel denuo imprimendi opuscula vel scripta quae prædictas promissiones continent.

[In alcuni diversi luoghi viene divulgato un opuscolo con il titolo “Secretum felicitatis” con le quindici orazioni date dal Signore a Santa Brigida nella chiesa di S. Paolo in Roma, edito in varie lingue.  Poiché in questo libricino si asserisce per vero che a Santa Brigida siano fatte da Dio delle promesse delle quali non risulta in alcun modo l’origine soprannaturale; si diffidano gli Ordinari dal concedere licenza di edizione o stampa ad opuscoli che contengano le predette promesse.]

Datum Romæ, ex Ædibus S. Officii, die 28 Ianuarii 1954.

Marius Orovini, Supremæ S. Congr. S. Officii Notarius

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Attualmente, rimosso il freno del Santo Uffizio, preghiere ed indulgenze apocrife circolano innumerevoli, ispirate anche dalle eresie della setta del “novus Ordo”, che si spaccia per Chiesa Cattolica, da falsi sacrileghi prelati, da falsi religiosi e religiose, o addirittura da laici fanta-teologi “fai-da-te”, incontrollate, di carattere sentimental-sdolcinato, suggerite dal poetico-liberal-pensiero, con libertà dottrinale e teologica “neomontanista”, come ad esempio l’empio movimento satanico del c. d. “rinnovamento dello spirito” (in realtà si elimina lo Spirito Santo, e si dà spazio agli spiriti demoniaci … ). Per i pochi Cattolici in comunione con il Santo Padre Gregorio XVIII, il “pusillus grex”, valgono le regole, da osservarsi con somma attenzione e maniacale prudenza, del decreto del Santo Uffizio 3 agosto del 1899 “Inter cætera”. Si recitino solo le preghiere approvate dalla Chiesa Cattolica, antecedenti al novembre 1958, ed indulgenziate come da Raccolte Ufficiali  della S. Congregazione delle Indulgenze. Nel caso opposto, si commette come minimo sacrilegio, e le preghiere rigettate ancor prima di essere concluse. Attenti fedeli, il lupo maledetto si è travestito da Angelo di luce ed inganna oggi soprattutto con la falsa spiritualità, le false devozioni, i falsi riti ed i sacrileghi pseudo-sacramenti. A noi Cattolici, non è permesso cedere al nemico travestito, anche se il suo travestimento è una talate nera, rossa o bianca, … dai frutti li riconoscerete …