I Papi delle Catacombe [5]
[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]
Quinta persecuzione (anno 199).
Il regno di Commodo (dal 180 al 192) fu un periodo di tranquillità relativa per il Cristianesimo. C’è da stupirsene, quando si pensa che questo figlio di Marco Aurelio era un mostro di dissolutezza e di crudeltà. Questo imperatore romano aveva dei divertimenti singolari. Egli faceva abbigliare da giganti e da mostri mendicanti e storpi; poi li abbatteva egli stesso a colpi di bastone, e si faceva nominare l’Ercole romano. Un giorno incontrò un uomo di taglia straordinaria: lo tagliò in due per provare la sua forza e per gioire del piacere di vedere spargere le viscere della vittima. L’incesto ed i crimini più abominevoli infestavano allora il suo palazzo; ma una donna, di nome Marcia, che stimava i Cristiani, alla quale Commodo accordò onori da imperatrice, addolcì il “mostro” riguardo ai fedeli, procurando così qualche anno di tregua alla Chiesa. Numerose conversioni segnalarono questo breve periodo di pace; la più celebre è quella di un senatore di nome Apollonio, che fu denunciato da uno dei suoi schiavi. Una legge aveva proibito di accusare i Cristiani come tali e il delatore fu condannato a morte. Ma la decisione data da Traiano a Plinio era sempre in vigore; una volta denunciato, il Cristiano non poteva evitare una condanna se non apostatando. -Apollonio, per decisione dei senatori, ebbe la testa tagliata, dopo aver confessato la sua fede in pieno senato. Commodo angustiava l’impero con le sue stravaganze e le sue crudeltà. Egli aveva deciso ad esempio di far uccidere i due consoli da una schiera di gladiatori. La viglia del giorno fissato per questa cruenta follia, fu strangolato però dalla sua concubina principale e dai due prefetti del pretorio. I soldati affidarono poi l’impero ad un vecchio generale, di nome Pertinace, dal quale si staccarono in capo a tre mesi, perché era troppo severo. Allora essi offrirono la corona a chi potesse dar loro più denaro: costui fu un certo Didio Giuliano, che era così ricco da comprare l’impero; ma i soldati non lo trovarono così generoso; ben presto lo si depose e lo si portò al supplizio. Tre generali si disputarono in seguito il potere. Settimio Severo ebbe la meglio sui competitori e regnò dal 193 al 211. Egli si mostrò all’inizio molto favorevole ai Cristiani ed affidando addirittura l’educazione dei suoi figli ad uno di essi chiamato Proculo. Ma queste buone disposizioni non durarono a lungo; egli lanciò un nuovo editto di persecuzione, ed i supplizi ricominciarono particolarmente presso i Galli, in Italia, in Egitto e nell’Africa settentrionale, che i Romani chiamavano la provincia d’Africa. A Cartagine, il proconsole Saturnino aveva già fatto morire san Sperato e i suoi compagni, chiamati: “dodici martiri scillitani”, perché erano di Scillite, piccola città di provincia. Uno dei suoi successori fece dei martiri ancora più illustri, come nella persona di Santa Perpetua e santa Felicita, il cui glorioso combattimento meritò loro di avere i nomi inseriti nel Canone della Messa. Perpetua non aveva che 22 anni; aveva un bambino al seno; suo padre e sua madre vivevano ancora; suo padre era pagano, si pensa che la madre fosse cristiana. Felicita era una schiava cristiana; ella era allora incinta. Con esse venne arrestato Revocato, che era schiavo con Felicita, Saturnino, Saturo e Secondulo. Santa Perpetua scrisse ella stessa gli atti del suo martirio fino alla vigilia della sua morte. Bisogna leggere questi atti, scritti da una giovane donna, madre di famiglia, di nobile nascita, cara ai suoi, alla quale nulla mancava per essere felice nel mondo, e che si vide separata da suo padre, da sua madre, dal suo sposo, dal figlioletto, per essere divorata dalle bestie sotto gli sguardi di tutto il popolo. Ella vede il suo vecchio padre che l’ama e che l’ama con tenerezza, baciarle le mani, gettarsi ai suoi piedi per convincerla a farle dire una parola che la salvasse; ella compatisce il dolo di questo padre e lo consola, ma non dirà la parola, perché questa parola sarebbe stata una menzogna, ed ella scrive tutto ciò alla vigilia del suo supplizio, con un candore, una calma sovrumana. « No, esclama a questo proposito uno storico, questa pace che l’uomo non saprebbe dire, e neanche concepire, Dio solo la può dare. » [Rohrbacher]. La sola vera Religione, aggiungeremmo noi, può presentare tali meraviglie. Ma ascoltiamo santa Perpetua: « Noi eravamo nelle mani dei nostri persecutori, quando mio padre, spinto dalla tenerezza che aveva per me, venne a tentare nuovi sforzi per vincere la mia costanza. Poiché egli continuava, io gli dissi: “Questo vaso che vedete a terra, può cambiare nome? – No assolutamente, mi rispose. – Così, gli replicai, io non posso dirmi altra cosa che io non sia, cioè Cristiana.” A queste parole mio padre si gettò su di me come se volesse strapparmi gli occhi; ma si contentò di maltrattarmi, e si ritirò poi tutto confuso per non aver potuto vincere la mia risoluzione con tutti gli artifici che il demonio gli aveva suggerito. Essendo stata qualche giorno senza rivederlo, resi grazie a Dio e mi trovai risollevata. E fu in questo intervallo di tempo che fummo battezzati [Perpetua e Revocato non erano ancora che dei catecumeni]. Io non domandai nient’altro all’uscita dall’acqua, se non la pazienza nelle pene corporali. – « Pochi giorni dopo, mi si gettò in una prigione; ne fui affranta, perché non avevo mai visto tali tenebre. Giornata dura! Un calore soffocante a causa della folla; i soldati ci spingevano ed io morivo di inquietudine per mio figlio che non avevo con me. Allora i beati diaconi Terzio e Pomponio che ci assistevano ottennero, dietro ricompensa in denaro, che ci fosse permesso di uscire e passare qualche ora in un luogo più comodo della prigione. Profittammo di questa situazione vantaggiosa per allattare il mio bambino, lo raccomandai a mia madre; rinvigorii mio fratello; fui affranta dal dolore nel vedere le sofferenze che provocavo loro. Passai dei giorni nella più crudele delle pene; ma avendo ottenuto che mi si lasciasse mio figlio nella prigione, mi tranquillizzai completamente, e la prigione mi sembrò un gradevole soggiorno, tanto che amavo meglio essere lì che altrove … Si era così sparsa la voce che noi dovevamo essere interrogati, e mio padre venne a trovarmi, tutto affranto dalla tristezza; e mi diceva: « Figlia mia, abbi pietà dei miei capelli bianchi, abbi pietà di me! Se io sono degno di essere chiamato tuo padre, se ti ho allevata fino a questa età, se ti ho preferita ai tuoi fratelli, non mi rendere l’obbrobrio degli uomini. Guarda tua madre, considera che tuo figlio che non potrà vivere dopo di te … abbandona questa ostinazione per non perderci tutti, perché nessuno di noi oserà più apparire in pubblico, se vieni condannata al supplizio. » E parlando così, mio padre mi baciava le mani e poi, gettandosi ai miei piedi, piangeva, non mi chiamava più sua figlia, ma sua “dama”. Ed io lo compiangevo, vedendo che della mia famiglia era il solo a non gioire del mio martirio. Per consolarlo gli dicevo: « Sarà quel che a Dio piacerà, perché sapete che noi non siamo in nostro potere, ma nel suo. » Egli se ne andò tutto rattristato. L’indomani, come già sapevamo, ci vennero a cercare per l’interrogatorio. La voce si sparse in tutti i quartieri vicini, ed una folla di popolo prese posto in tribunale. Gli altri subirono l’interrogatorio e confessarono generosamente Gesù-Cristo. Quando arrivò il mio turno, mio padre si avvicinò a me tenendo in braccio mio figlio dicendo: « Abbiate pietà di vostro figlio. » Il procuratore Ilariano mi disse dal suo canto: « Risparmiate la vecchiaia di vostro padre; risparmiate l’infanzia di vostro figlio. Sacrificate agli dei, per la prosperità dell’imperatore. – Io non sacrificherò risposi. – Siete dunque Cristiana? Mi disse. – Si, io sono cristiana. » E mio padre si sforzava di portarmi via dal tribunale. Ilariano diede ordine di allontanarlo, ed il littore gli diede un colpo di frusta. Io avvertii questo colpo come se fossi stata colpita io stessa, tanto soffrivo nel vedere insultare a causa mia, i capelli bianchi di mio padre. Allora Ilariano pronunciò la sentenza del nostro arresto, e ci condannò tutti ad essere dati alle belve. Noi tornammo pieni di gioia in prigione. Appena rientrata, inviai il diacono Pomponio a richiedere mio figlio a mio padre che non volle mandarmelo. Ma Dio permise che il bambino non chiedesse più di succhiare e che il mio latte non gli servisse più … – « Avvicinandosi il giorno destinato agli spettacoli (ed al martirio), mio padre ritornò a trovarmi. Era in uno stato di depressione inesprimibile: si strappava la barba, si prostrava con la faccia a terra, malediceva la sua vecchiaia, diceva cose capaci di smuovere tutte le creature. Io morivo di dolore nel vederlo in questo stato … la vigilia dello spettacolo, ebbi una visione che mi fece comprendere che io non combattevo contro le bestie, ma contro il demonio, e così mi assicuravo la vittoria. Questo è quanto ho fatto fino alla vigilia degli spettacoli; qualcun altro scriverà ciò che sta per succedere. » Così finisce la relazione di Santa Perpetua. Secondulo morì nella prigione. Felicita era incinta di otto mesi; ella si affliggeva nel timore che il suo martirio fosse differito, perché la legge proibiva di mettere a morte le donne incinte. I santi confessori si misero in preghiera, ed ottennero che fosse proposta la liberazione di Felicita. Ella mise al mondo una figlia che una donna cristiana allevò come figli propria. La vigilia del combattimento si diede ai confessori, secondo il costume, l’ultimo cibo che si chiamava appunto l’ultimo pasto e che si faceva in pubblico. I cristiani ebbero in questa occasione il permesso di entrare nella prigione il cui guardiano, chiamato Pudente, si era convertito. Quest’ultimo festino fu un’agape; i martiri profittarono del concorso che si faceva intorno ad essi per pregare ancora una volta Gesù-Cristo: “ … e che! Disse Saturo alla folla, il giorno di domani non sarà sufficiente a soddisfare la vostra curiosità? Oggi voi sembrate aver pietà di noi, e domani applaudirete alla nostra morte. Tuttavia, guardate bene i nostri volti, per riconoscerci nel terribile giorno del giudizio. » Il giorno dopo essi si recarono all’anfiteatro come se andassero al cielo. Il loro viso irradiava ina gioia ineffabile. Arrivata alla porta, si voleva far prendere agli uomini la veste dei sacerdoti di Saturno, ed alle donne la striscia che portavano le sacerdotesse di Ceres. I martiri rifiutarono questi indumenti di idolatria: « Noi non siamo qui, dissero, per conservare la nostra libertà; noi abbiamo sacrificato la nostra vita per non fare nulla di simile; e siamo convenuti quì. » A questo punto li si lasciò tranquilli. Iniziò il combattimento: si diedero Saturnino e Revocato in pasto ad un leopardo e ad un orso che li colpì ma senza ucciderli; il convittore li colpì più tardi. Saturo fu esposto ad un cinghiale che uccise il cacciatore e rispettò il martire; lo si espose poi ad un leopardo, che con un sol colpo di denti lo abbatté bagnandolo nel suo sangue. Perpetua e Felicita furono spogliate e messe in delle reti, per essere esposte ad una vacca furiosa. Il popolo stesso si rivoltò a questa raffinata crudeltà, e si rivestirono le generose donne di abiti fluttuanti. La vacca si gettò dapprima su Perpetua, la lanciò in aria e la lasciò ricadere sul dorso. Perpetua si sedette; rimise in ordine i suoi vestiti e raccolse i suoi capelli disordinati per non sembrare in lutto, e vedendo Felicita tutta accasciata per una caduta simile alla sua, le tese la mano e l’aiutò a sollevarsi. Entrambe stavano in piedi approssimandosi un nuovo combattimento; ma il popolo vinto da tanto coraggio e dolcezza non volle che le si esponessero una seconda volta. Richiamate qualche momento dopo per ricevere l’ultimo colpo, esse ritornarono con gioia. Felicita cadde per l’azione di un convittore maldestro che le fece gettare un grido di dolore; Perpetua condusse ella stessa alla sua gola la mano tramante del carnefice. L’Egitto aveva i suoi martiri come la provincia d’Africa: i Cristiani vi furono perseguitati con estremo rigore; fu allora che S. Leonida, padre di Origene, morì per Gesù-Cristo. – In Gallia, sant’Ireneo seguiva il suo maestro San Potino. Si contarono a Lione quasi ventimila martiri. Quanto a Settimo Severo, la mano di Dio si appesantì su di lui come sugli altri persecutori della Chiesa: suo figlio Caracalla aveva tentato di ucciderlo; impegnato in una guerra ai Calcedoniensi (in Scozia), egli si sottopose a tante fatiche che lo resero malato; la gotta lo tormentava, ed una sedizione venne ad aumentarne le sofferenze tanto che volle abbreviarle avvelenandosi; ma poiché gli si rifiutava del veleno, mangiò avidamente cibi indigesti tanto da morirne, nella città di York. Una delle sue ultime parole fu: « Io sono stato tutto e ora niente mi serve! » Esclamazione di disperazione che dipinge in modo vivo la vanità della potenza di questo imperatore, nemico degli uomini e di Dio.