I PAPI DELLE CATACOMBE (3) J. Chantrel

I Papi delle Catacombe [III]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

III

I Martiri.

Quando morì l’Apostolo San Giovanni, nello stesso anno del Papa San Clemente, il Vangelo era già stato predicato su tutta la terra, e floride comunità cristiane esistevano nelle principali città dell’Impero. Questa rapida propagazione di una Religione nemica della voluttà e della tirannia, spaventò gli imperatori: Nerone e Domiziano avrebbero voluto distruggerla, ma essi erano dei mostri di crudeltà, e si poteva credere che non fossero stati perseguitati se non perché questi fossero dei tiranni; la persecuzione di Traiano, uno de più grandi imperatori che abbia mai avuto Roma pagana, celebre per la sua giustizia e la sua dolcezza, mostrò ciò che il Cristianesimo poteva attendersi anche da principi migliori. Uno dei primi atti di Traiano infatti, fu quello di bandire il Papa San Clemente; subito dopo rimise in vigore un’antica legge romana che proibiva di riconoscere alcun dio senza l’approvazione del senato. Tutto si fece con la massima regolarità; non si ebbero editti cruenti, ci si contentò di proibire nelle provincie le associazioni e le assemblee notturne. Era una persecuzione di carattere politico, a giudizio dell’imperatore. In effetti, non si accusavano i Cristiani di alcun crimine, non si contestava la loro innocenza, ma essi adoravano un Dio non riconosciuto dalla legge, essi erano in contravvenzione con i regolamenti relativi al culto ufficiale dell’impero, dunque essi meritavano la morte. È curioso vedere come le più belle intelligenze del paganesimo e lo stesso imperatore trattano questa questione. Plinio il Giovane, uno dei migliori scrittori latini e uno dei più bei caratteri dell’antica Roma, era governatore di Bitinia, e un particolare amico di Traiano. Dopo aver interrogato i Cristiani per far loro rispettare la legge, si credette obbligato a scrivere all’imperatore per sapere come comportarsi di fronte a questa gente alla quale non aveva nulla da rimproverare: « Io ho voluto esaminare personalmente, egli dice, la condotta dei Cristiani. Essi hanno l’abitudine di riunirsi in un dato giorno, prima del levarsi del sole, e di cantare insieme degli inni in onore del Cristo, che venerano come un Dio. Essi si obbligano con giuramento ad evitare tutti i crimini, a non commettere frode alcuna, furto, né adulterio e a non mancare mai alla propria parola, a non negare un prestito. Essi poi si ritirano e si riuniscono nuovamente per consumare in comune un pasto ordinario ed innocente. Per la proscrizione che si dirige contro i Cristiani si mettono in pericolo una moltitudine di persone di ogni età, sesso e di ogni condizione, perché questa superstizione contagiosa ha raggiunto non solo le città, ma pure le borgate e le campagne. Si abbandonano i templi degli dei, i sacrifici solenni sono interrotti da molto tempo e nessuno compra più le vittime, io ho esitato non poco per sapere se occorre nei processi di questo genere, ammettere qualche differenza di età o di rango; se i più teneri fanciulli non debbano essere distinti dalle persone adulte; se occorre perdonare ai pentiti, o se è sufficiente non essere più Cristiani a chi lo è stato una volta; infine se ciò che si punisce sia il nome soltanto, senza aggiungere altri reati, o siano altri crimini legati al nome. » Non si potrebbe trovare una testimonianza così magnifica resa alla purezza dei costumi dei primi Cristiani ed alla loro innocenza. La lettera di Plinio prova nel tempo stesso quanto il Cristianesimo sia progredito. Si doveva attendere una risposta imperiale che mettesse i Cristiani fuori causa, perché la loro Religione non aveva ricevuto ancora l’approvazione del senato, Traiano avrebbe proposto senza dubbio a questa assemblea di riconoscere Gesù-Cristo come uno degli dei tollerati nell’impero. Ma si dimentica che i sacerdoti degli dei vedevano deserti i loro templi, che la Religione del Crocifisso è la nemica delle passioni, e che l’errore, tollerante verso tutti gli errori, è sempre intollerante verso la verità. Così Traiano rispose a Plinio: « Non bisogna ricercare i Cristiani, ma se essi sono denunciati e persistono nella loro fede, bisogna punirli. » Su questo Tertulliano scrive: « strano decreto questo che, proibendo di ricercare i Cristiani, riconosce implicitamente la loro innocenza ed ordina comunque di punirli come colpevoli in seguito ad una semplice denunzia! » Tertulliano aveva ragione, ma la passione non ragiona, ed il paganesimo ed il dispotismo imperiale sentivano comunque troppo bene a qual punto la nuova Religione li minacciasse per consentire di tollerarla: essa rendeva gli uomini migliori e faceva diminuire il numero di crimini e, cosa più importante, proscriveva le voluttà e gli eccessi della tirannia!

Terza persecuzione (106)

La persecuzione seguì dunque sotto Traiano con lo stesso furore che sotto Nerone e Domiziano, con degli intervalli di tregua seguiti da nuovi rigori nelle varie provincie, secondo le disposizioni particolari dei governatori romani. È allora che morirono per il nome di Gesù-Cristo, il venerabile vecchio Simeone, parente di Nostro Signore e vescovo di Gerusalemme ed i discepoli degli Apostoli, Onesimo e Timoteo, il Papa Sant’Evaristo, e altri migliaia. Ma tra tutti si distinse l’illustre vescovo di Antiochia, Sant’Ignazio, discepolo di Giovanni Evangelista, che era succeduto a Sant’Avodio, a sua volta successore di San Pietro. Traiano marciava allora contro i Parti. Arrivato ad Antiochia, pensò di riconciliarsi con i propri dei facendo ricercare i Cristiani. Ignazio comparve davanti al potente imperatore che gli dice subito. « Sei tu dunque, cattivo demonio, che osi sfidare i miei ordini e persuadere gli altri a perire miseramente? – “Nessuno, risponde San Ignazio, chiama Teoforo un cattivo demonio” (Ignazio era soprannominato teoforo che in greco significa portatore di Dio) – E chi è Teoforo? – riprese Traiano – Colui che porta Gesù-Cristo nel suo cuore. – Tu credi dunque che non abbiamo anche noi, nei nostri cuori, gli dei che ci danno la vittoria? – È un errore chiamare dei i demoni che voi adorate, riprende Ignazio; non c’è che un solo Dio che ha fatto i cieli e la terra con tutto quanto contengono, ed un solo Gesù-Cristo suo unico Figlio, nel regno del quale io desidero ardentemente essere ammesso. – Tu voi parlare senza dubbio di colui che è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato? Dice l’imperatore. – È quello stesso che con la sua morte ha crocifisso il peccato con l’autore del peccato, replicò il santo Vescovo. – Tu porti dunque Gesù Cristo in te? Disse ancora Traiano. – Si, rispose Ignazio, perché è scritto: Io abiterò e riposerò in voi. » Traiano disperando di vincere la costanza del Vescovo troncò la questione dicendo: « Noi ordiniamo che Ignazio, che dice di portare in sé il Crocifisso, venga legato e condotto a Roma per esservi divorato dalle bestie e servire da spettacolo al popolo. » Ascoltando questo ordine, Ignazio esclamò con trasporto di gioia: « Io vi rendo grazie, o Signore, di questo onore che mi fate di portare le stesse catene con cui avete onorato il grande Paolo, nostro Apostolo. » E raccomandando a Dio la sua Chiesa, si incatenò egli stesso consegnandosi ai soldati. Gli imperatori romani non erano abituati a vedere tali “crimini”. Il viaggio di Sant’Ignazio a Roma fu un lungo trionfo ed una missione fruttuosa. – I diversi Cristiani della Siria gli inviavano delegazioni; ma egli li supplicava di non ritardare la consumazione del proprio martirio. Egli temeva che i Cristiani di Roma facessero delle rimostranze in suo favore; scrisse loro questa lettera, monumento magnifico dell’amore con il quale i Cristiani di allora abbracciavano la croce e le torture, e nuova prova del primato riconosciuto alla sede di San Pietro: « Ignazio alla Chiesa favorita di Dio, illuminata dalla luce di Colui che dispone tutto secondo l’amore di Gesù-Cristo, a questa Chiesa, elevata su una sede d’onore al di sopra delle altre Chiese, ove tutto è regolato dalla prudenza, ove tutto è condotto con saggezza, ove regna la carità, ove trionfa la castità … io temo che non abbiate per me una compassione tanto tenera e, opponendovi alla mia morte, non vi opponiate alla mia felicità. Soffrite perché io sia immolato, mentre è drizzato l’altare! Unite soltanto le vostre voci e cantate, durante il sacrificio, degli inni di lode … non lasciatevi andare ad una falsa compassione per me. Lasciate che diventi pasto delle bestie. Che io sia il frumento di Dio; bisogna che io sia macinato dai denti delle bestie affinché diventi un pane degno di essere offerto a Gesù-Cristo. Oh! Accarezzate queste bestie feroci affinché divorandomi interamente divengano la mia tomba. Io sospiro le bestie che mi sono preparate: possano esse distruggermi sul campo! Io le irriterò affinché mi divorino prontamente e che non sia di me come un qualcuno che esse non hanno osato toccare. Se esse non vogliono, io le forzerò … Io vi ho scritto vivente, ma desidero morire. Il mio amore è crocifisso. Io sono insensibile sia al cibo corruttibile, sia ai piaceri di questa vita. Io desidero il pane di Dio, che è la carne di Gesù-Cristo. Io desidero per bevanda il sangue dello stesso Gesù-Cristo, che è la carità incorruttibile. » – Si trova forse nel paganesimo un tale amore di Dio, un tale disprezzo della vita, una tale aspirazione verso l’infinita Bontà e l’infinita Santità? Come aveva, il Cristianesimo, trasformato la natura umana! Qual superiorità non dava allo spirito sulla carne! È questa quella rivoluzione che il paganesimo avvertiva fremendo e di cui tentava di respingere il definitivo avvento, elargendo e moltiplicando i supplizi e le seduzioni! Il santo vescovo di Antiochia non scrisse solo ai fedeli di Roma: egli indirizzò ancora lettere alle Chiese di Efeso, da Magnesia, Tralleis, Smirne e Filadelfia, e a San Policarpo, discepolo come lui di San Giovanni Evangelista e Vescovo di Smirne; tutte queste lettere sono dei monumenti di saggezza, di fede e di carità. Egli si era dapprima fermato per un certo tempo a Smirne; le sue guardie lo condussero poi a Troade, a Neapoli, in Macedonia ed a Filippi. Egli dovette attraversare a piedi tutta la Macedonia e l’Epiro. Si imbarcò ad Epidauro in Dalmazia, passò nei pressi di Regesta, Pozzuoli, e sbarcò nei pressi di Ostia da dove si recò a Roma; i Cristiani accorsero numerosi al suo arrivo. Egli arrivò a Roma il 20 dicembre dell’anno 107: era questo l’ultimo giorno dei giuochi pubblici che allora si celebravano. Il prefetto della città lo fece subito condurre all’anfiteatro. Ignazio ascoltando i ruggiti dei leoni, riprese queste parole dalla sua lettera ai Romani: « Io sono il frumento di Dio, bisogna che sia macinato dai denti delle bestie perché divenga un pane degno di Gesù-Cristo. » Appena le ebbe pronunciate, due leoni furono lanciati su di lui e lo divorarono in un istante, non lasciando del suo corpo se non le ossa più grandi e più dure. Dio lo aveva esaudito. « A questo triste spettacolo, dicono i Cristiani che avevano accompagnato e che hanno raccontato il suo martirio, scoppiammo tutti in lacrime. Passammo la notte seguente in preghiera e nella veglia, scongiurando il Signore che ci consolasse di questa morte, dandoci qualche segno della gloria che la seguiva. Il Signore ci esaudì; essendosi alcuni tra noi addormentati, videro Ignazio in una gloria ineffabile. » Traiano fu meno malvagio di altri persecutori, si impegnò in diverse spedizioni militari che lo coprirono di gloria; ma la mano di Dio alla fine si appesantì su di lui. Egli era in Oriente, e gli si preparava a Roma e in tutta l’Italia un ritorno trionfale. Assediò una città quasi sconosciuta degli arabi agareni o saraceni, ma fu battuto e costretto a ritirarsi. Allora si ammalò; si sospettò che si fosse avvelenato. Appena tornato in Italia, morì a Selinunte, in Sicilia, nell’anno 112, dopo diciannove anni di regno, lasciando suo successore: Adriano, marito di sua nipote. Traiano non ebbe posterità; nel momento della morte poté apprendere che tutte le provincie da lui conquistate si erano rivoltate. Nella sua condotta privata si era distinto per infami dissolutezze che condivise con il suo successore, del quale era tutore. Questo uomo, che i suoi abominevoli costumi avrebbero reso ai nostri tempi oggetto di disprezzo e di disgusto universale, fu tuttavia uno dei “migliori” imperatori romani, vantato come il modello dei principi: ecco ciò che il paganesimo produceva di più perfetto! – Adriano, che regnò dal 117 al 138, si disonorò ancor più del suo predecessore per l’infamia dei costumi; tutte le abominazioni di Sodoma erano familiari a questo imperatore del secondo secolo dell’era cristiana, che gli storici considerano tuttavia il secolo d’oro dell’impero. La persecuzione continuò sotto Adriano come era stato sotto Traiano. Due Papi, sant’Alessandro e san Sisto I ne furono le vittime. Si annovera tra esse pure Dionigi l’Aeropagita, che si era convertito alla predicazione di San Paolo; egli divenne il primo Vescovo di Atene, e fu molto probabilmente il primo Vescovo di Parigi: così almeno ce lo riportano le più antiche tradizioni ed i martirologi di Roma e dei Greci, autorità che valgono bene quella dei critici che hanno voluto fare due Dionigi del discepolo di San Paolo. Non c’era forse un disegno provvidenziale nella missione data all’Aeropagita, di venire il Gallia per morirvi su questa collina di Montmartre (mons martyris = mote dei martiri) che domina la “moderna Atene” e la nuova capitale intellettuale del mondo moderno, come Atene lo era del mondo romano? Ma il martirio più celebri di questi tempi fu quello di santa Simforosa e dei suoi figli: Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Stratteo ed Eugenio. Adriano aveva fatto costruire una magnifica casa di campagna a Tibur (Oggi Tivoli). Venne a sapere che colà viveva una vedova di un cristiano martire, chiamata Simforosa, che non si occupava che di pregare ed allevare piamente i suoi figli. Egli volle vederla, tanto più che i suoi sacerdoti pretendevano che gli dei si sarebbero irritati contro di lui se Simforosa ed i suoi figli continuassero ad invocare il nome di Gesù-Cristo. Adriano impiegò dapprima la dolcezza e la persuasione. Simforosa rispose a nome di tutti: « Getullio, mio marito, e mio fratello Amanzio, entrambi tribuni nelle vostre armate, hanno sofferto tormenti diversi per il nome di Gesù-Cristo, piuttosto che sacrificare agli idoli. Noi vogliamo imitarli! » – Adriano, irritato da questa risposta, prese allora un tono severo: « Se tu non sacrifichi con i tuoi figli, egli disse a Simforosa, voi sarete tutti offerti in sacrificio ai nostri dei potenti. – I vostri dei non possono ricevermi in sacrificio, replicò la santa vedova; ma se io sono bruciata per il nome di Gesù-Cristo, la mia morte aumenterà i tormenti che i vostri demoni soffrono nelle loro fiamme. – Sacrificate ai miei dei, o perirete tutti miseramente, esclamò l’imperatore. – Non crediate che la paura possa farmi cambiare idea, rispose dolcemente Sinforosa, io desidero essere riunita nel luogo di riposo con mio marito morto per il nome di Gesù-Cristo. » Non si poté cavare null’altro da questa coraggiosa cristiana. La si condusse al tempio di Ercole ove ebbe il viso tempestato da pugni. Venne sospesa poi sui cavalletti e, poiché si mostrava irriducibile, la si gettò nel fiume con una grossa pietra al collo. L’indomani Adriano fece venire i sette figli della santa. Dopo aver inutilmente utilizzato carezze e minacce per farli apostatare, fece piantare intorno al tempio di Ercole sette pali sui quali li stese con delle pulegge serrate con tale violenza che le loro ossa furono slogate. Ma lungi dal cedere alla crudeltà degli aguzzini, essi si animarono gli uni con gli altri. L’imperatore, furioso per una tale resistenza, comandò che venissero messi a morte nel posto stesso ov’erano: Crescente fu trafitto con un colpo di spada alla gola; Giuliano ebbe il petto trafitto da diverse punte di ferro ivi spinte; Nemesio ebbe il cuore trafitto da una lancia, Primitivo fu colpito allo stomaco; si ruppero le reni a Giustino e si aprì il costato a Stratteo, ed Eugenio, che era il più giovane, fu squarciato dall’alto in basso. Adriano fece scavare una fossa profonda ove vennero gettati i corpi dei martiri. I sacerdoti pagani chiamarono questo luogo i sette Biothanates, cioè i sette suppliziati. Tali erano i divertimenti del clementissimo e dolcissimo Adriano che, salendo al trono, aveva proclamato che avrebbe dimenticato tutte le sue antiche ingiurie e che si era fermato un giorno alle grida di una donna che domandava giustizia all’imperatore e dicendogli di cessare di regnare se non voleva rendere giustizia a questi soggetti. Ma a parte qualche tratto di virtù puramene umana, a parte alcuni reali miglioramenti portati all’amministrazione dell’impero, quanta crudeltà! Quante bassezze ed infamie che disonorerebbero per sempre un principe cristiano! Adriano amava l’arte e per gelosia faceva perire gli artisti la cui gloria lo offuscava; egli amava la giustizia e faceva morire i Cristiani innocenti. Quando si avvicinò alla morte, accelerò le sue vergognose scelleratezze, si mostrò più crudele e più fanatico che mai: fece perire suo cognato Serviano e il pronipote Fusco; fece morire di dolore o di veleno sua moglie Sabina, della quale fece poi una dea; fece morire suo figlio adottivo Vero, perché questi persecutori non avevano figli, e ne fece parimenti un dio. Nulla di tutto questo calmava le sue sofferenza, egli desiderava morire e non poteva; chiedeva del veleno o una spada, e nessuno gliene dava; si lamentava di non poter morire, egli che poteva ancora far morire gli altri. Infine mangiò e bevve delle cose che non convenivano al suo stato, e morì così come un animale al quale non interessa né il passato né l’avvenire; il senato fece un “dio” di questo dissoluto che aveva temuto e disprezzato quando era in vita. Tuttavia la persecuzione si era rallentata verso la fine del suo regno: le delegazioni di governatori delle provincie e gli eloquenti apologisti dei Cristiani, avevano finito per ispirare ad Adriano migliori sentimenti riguardo alla religione di Gesù-Cristo; si dice anche che pensò di inserire Gesù nel numero dei suoi dei, e che permise ai Cristiani di erigere dei templi. Ma la persecuzione, benché meno viva, faceva sempre delle vittime, sia in una provincia che in un’altra, ed il regno di Antonino Pio, successore di Adriano, non fu che un periodo di tranquillità relativa: ma non era la pace! Antonino, il più dolce degli imperatori romani, regnò dal 138 al 161; si ebbero a lodare in lui molte eccellenti qualità; ma in fondo era di carattere debole e senza energia, voleva il bene solo per essere tranquillo, e sognava soprattutto di vivere la vita gioiosamente, senza ricusare i piaceri più divertenti. In questa epoca viveva anche qualche pagano di vita più stimabile, come lo storico Plutarco ed il filosofo Epitteto. Leggendo il primo, si ama il suo carattere, ma la sua morale è ancora molto lontana da quella evangelica! Il secondo, nato schiavo, fu veramente un modello di fermezza e di pazienza: avendogli un giorno il suo maestro fratturato una gamba battendolo, egli si contentò di dirgli: « Ve lo avevo detto che me la fratturavate. » La raccolta di sentenze di Epitteto forma un bel codice morale; ma in questo codice, se si avverte la fermezza dello stoico, non si sente la tenera carità del Vangelo che egli forse già conosceva all’epoca, e le virtù che ispira non hanno quel profumo di dolcezza e di umiltà che esala da tutte le virtù cristiane. Sembra che il demonio abbia tentato di sedurre le anime più generose con l’attrazione di queste virtù naturali che egli era ben sicuro di abbattere facilmente, qualora fossero riuscite a dissuadere gli uomini dall’abbracciare il Cristianesimo. Vedendo che non poteva sedurre tutti con le attrattive grossolane della voluttà, egli tentava almeno di arrestare i pagani più virtuosi a metà del cammino lungo la strada che conduceva al Cristianesimo. Alcuni autori, ammirando la purezza e l’elevazione della morale di Epitteto, hanno pensato che fosse cristiano, e che avesse conversato in gioventù con san Paolo, poiché faceva parte della casa di Nerone quando san Paolo venne a Roma. È possibile che in effetti Epitteto abbia visto san Paolo; non si può dubitare che egli abbia conosciuto la morale del Vangelo, e che non abbia studiato una religione che faceva tanto scalpore in quei tempi; ma degli indici troppo evidenti di paganesimo, che affastellano il suo libro, non permettono di credere che egli abbia realmente aderito al Cristianesimo. Ad ogni modo e malgrado le belle massime dei filosofi, malgrado la dolcezza di Antonino Pio, la Chiesa ebbe a soffrire durante questo regno e l’imperatore stesso ebbe a prendere parte alla persecuzione. – C’era a Roma una vedova, degna emula di Simforosa, assai distinta per la sua virtù e per la nascita. Ella allevava sette figli nel timore del Signore e nella pratica di ogni virtù. I sacerdoti pagani, furiosi per i progressi di una religione che rendeva deserti i propri templi, e per l’influenza che questa vedova, di nome Felicita, esercitava intorno ad essa, chiesero all’imperatore di farla morire o di costringerla a sacrificare agli dei con i suoi figli. Antonino, che era superstizioso, non avrebbe del resto osato resistere ai sacerdoti dei suoi dei, ma non voleva turbare per questo il suo riposo; incaricò allora di quest’affare Publio, prefetto della città. – Publio fece dunque venire davanti al suo tribunale Felicita con i suoi figli. Egli la prese da parte e cercò di invogliarla all’apostasia, mettendola al corrente degli ordini dell’imperatore, raccomandandole l’esempio che ella doveva dare alla città, e la salvezza dei suoi figli che dipendeva dalla risoluzione che avrebbe preso. « Voi non mi conoscete, rispose tranquillamente Felicita, se credete di spaventarmi con le vostre minacce o sedurmi con le belle parole. Io spero che Dio mi sosterrà nel combattimento che si avvicina. – Maledizione! Esclamò Publio, se la morte ha per te tanto fascino, non impedire almeno ai tuoi figli di vivere! – I miei figli vivranno, riprese la santa vedova, se rifiutano di sacrificare agli idoli; ma se soccombono, essi dovranno attendersi dei supplizi eterni. » Il giorno seguente Publio tenne una seduta solenne davanti al tempio di Marte, e fece nuovamente condurre al suo tribunale la nobile donna ed i suoi figli; poi rivolgendosi alla madre: « Abbi pietà di questi figli nel fiore dell’età, e che possono aspirare alle più alte dignità dell’impero. – Questa pietà, rispose la santa, sarebbe un’empietà, e la compassione che voi mi prospettate è una vera crudeltà. » Allora, volgendosi verso i suoi figli: « ragazzi miei, ella disse, guardate in alto, guardate il cielo: è la che Gesù-Cristo vi attende con i suoi santi; persistete nel suo amore e combattete generosamente per le vostre anime. » Preso da furore per l’affronto, Publio disse: « Tu osi in mia presenza disprezzare gli ordini dell’imperatore? » Egli si decise allora a fare un nuovo tentativo per impaurire i giovani, affrontandoli l’uno dopo l’altro; ma si vide rinnovare la sublime scena dell’interrogatorio di Antioco ai Maccabei. Il primogenito dei sette, chiamato Gennaro, rispose: « Ciò che voi mi consigliate di fare è contrario alla ragione; io aspetto dalla bontà del Signore Gesù che Egli mi preservi da una tale empietà. » Gennaro fu battuto con la verga e messo in carcere. Il secondo fratello, Felice, fu poi portato davanti al prefetto. « Non c’è che un solo Dio, esclamò, è a Lui solo che dobbiamo sacrifici: tutti gli artifici e le finezze della crudeltà saranno vani, noi non abbandoneremo la nostra fede. » Felice venne trattato come il fratello. Venne poi il terzo, di nome Filippo: « Il nostro signore, l’imperatore Antonino, gli disse Publio, ti ordina di sacrificare agli dei onnipotenti. – Coloro ai quali tu vuoi che io sacrifichi, rispose Filippo, non sono né dei, né onnipotenti; essi sono dei vani simulacri privi di sentimenti, chiunque sacrifico fatto a loro, precipita in una infelicità eterna. » A Filippo successe Silvano, il quarto dei fratelli: « A quanto vedo, gli disse Publio, voi avete cospirato con la più malvagia delle madri per sfidare l’ordine del principe ed andare incontro alla vostra perdita? – Se noi temeremo, rispose Silvano, questa perdita passeggera, noi cadremo in una disgrazia eterna. Ma voi non conoscete quale ricompensa è riservata ai giusti e qual supplizio attende i peccatori; ecco perché noi disprezziamo senza paura la legge dell’uomo per obbedire a quella di Dio. Coloro che disprezzano gli idoli e servono Dio onnipotente, troveranno la vita eterna; coloro che adorano i demoni cadranno con essi in un eterno incendio. » Alessandro rimpiazzò Silvano: « Abbi pietà della tua giovane età, gli disse il prefetto, salva una vita che è ancora nel corso dell’infanzia, sacrifica agli dei e diverrai amico dell’imperatore. – Ma io, esclamò Alessandro, sono servo di Gesù-Cristo; i vostri dei saranno precipitati in un supplizio eterno con i loro adoratori. » Vitale, il sesto dei fratelli, si mostrò altrettanto intrepido. Infine venne Marziale, il più giovane, dolce piccolo agnello che il prefetto sperava di far piegare:« Sii più saggio dei tuoi fratelli, gli disse; essi si attirano la sventura disprezzando le leggi dell’imperatore. – Ah! gridò il bambino, se voi sapeste quali tormenti sono riservati a coloro che servono i demoni! Dio tarda ancora a far vendetta su di voi e sui vostri idoli; ma infine tutti coloro che non confessano che Gesù-Cristo è il vero Dio, saranno gettati nel fuoco eterno. » Tutti questi gloriosi martiri furono tormentati cl fuoco dopo essere stati crudelmente frustati. Publio ne fece un rapporto ad Antonino che rinviò i sette fratelli a diversi giudici, per farli morire con diversi generi di supplizi. Gennaro fu battuto fino a morirne con fruste guarnite con sfere di piombo. Felice e Filippo caddero sotto i violenti colpi di bastoni scaricati su i essi. Silvano fu gettato a testa in giù da un precipizio; Alessandro, Vitale e Marziale, furono decapitati. Felicita aveva assistito a questi supplizi: aveva nuovamente generato i suoi figli alla vita eterna sostenendoli con le sue esortazioni e le sue preghiere. Il suo martirio si prolungò ancora quattro mesi; ella fu allora decapitata ed andò così a raggiungere in cielo i suoi generosi figli. Questo accadeva nell’anno 150 dell’era cristiana. – Il pio Antonino morì per un eccesso alimentare senza lasciare posterità; ma egli aveva adottato Marco Aurelio, che gli successe e che regnò dal 161 al 180. Durante il regno di Antonino erano morti martiri tre Papi: San, Igino, San Telesforo e san Pio I.