LETTURE CATTIVE

LETTURE CATTIVE.

[G. Dalla Vecchia: “Albe primaverili”, G. Galla ed. Vicenza, 1911]

 Ne comedas…. morte morieris.

Non mangiarne, altrimenti morrai.

(Gen. II, 17).

ESORDIO. — Nel Paradiso terrestre sorgeva una pianta dai frutti bellissimi… Ma ai suoi piedi si aggirava insidioso il serpente…, mentre nel leggero fruscio delle sue foglie risuonava l’eco del divino comando, che ingiungeva ad Adamo di non gustare di quei frutti, sotto pena di morte… Ne comedas…; morte morieris… — E non aveva forse l’uomo l’albero della vita, che gli avrebbe assicurata L’immortalità? Ma, un dì, la mano della donna si stese ai rami vietati… Adamo ed Eva gustarono…, commisero la colpa…; la sentenza piombò tosto…: morte morieris… Oggi pure, sorge in mezzo all’umanità una pianta, che si può chiamare l’albero della scienza del bene e del male… I suoi frutti hanno un fascino alla nostra mente…, attirano a stendervi la mano… Ma su di essi vi è un divieto divino… Non li toccare; ne comedas… Guai all’incauto, specialmente se in giovane età, che avesse a gustarne il nettare avvelenato! Quel giorno sarebbe funesto all’innocenza, al candore, alla vita dell’anima sua: Morte morieris. – Già mi avete compreso. Io voglio parlarvi dei libri e dei giornali cattivi, che sono la causa principale della rovina di tante anime, di tanta gioventù. Seguitemi con riflessione, con buona volontà, e sarà tutto vantaggio per voi, per le vostre famiglie, per la società intera.

PARTE PRIMA

1° — Ai nostri giorni si sente un prepotente bisogno dell’istruzione; si moltiplicano le scuole, si aprono biblioteche, per soddisfare 1’ansia sempre crescente del sapere… — L’ istruzione, se diretta e condotta con sani criteri, è ottima cosa; è anche un dovere, perché tutti siamo tenuti a sviluppare i doni ricevuti da Dio, fra i quali bellissimo è quello dell’ intelligenza. — Ma pur troppo questa istruzione moderna, tanto decantata, è leggera, e superficiale… ; rifugge dalle cose serie… ; anzi in molti casi riesce un veleno all’innocenza, alla moralità, alla fede…

2° — Se volete istruirvi, si va dicendo, leggete, leggete molto… — È vero, che il leggere giova tanto, anzi è un fattore importante dell’educazione… ; ma può riuscire, e riesce di fatto, una sorgente funesta di dissolutezza e di miscredenza. Infatti: Ben pochi leggono libri veramente seri ed istruttivi; i più si danno a letture frivole, leggere, che danno alla mente un belletto di idee fantastiche e vane; e vi lasciano un vuoto…, un’ignoranza fenomenale delle cose più necessarie a sapersi da un uomo, e molto più da un cristiano… Il peggio si è, che questi poveri ignoranti si spacciano per dotti…, per sapienti… ; pretendono di criticare tutti, e tutto… anche i misteri e le verità della fede… — Questa loro ignorante superbia dà ad essi un’impronta di leggerezza, di nullità, che si trasfonde nei loro atti e discorsi…, nella loro condotta… —- I cattivi si gonfiano con le loro adulazioni, trascinandoli in un abisso di contradizioni e di errori… ; i buoni li compatiscono…, ma ne stanno lontani…

3° — Vi è di più. — I libri, che oggi si danno in mano anche a giovanetti di tenera età, i giornali che si vedono nelle case di certe famiglie anche cristiane, non solo sono frivoli e leggeri, ma di più sono cattivi, atei, osceni… – Chi può misurarne le funeste conseguenze? — Scritti con incredibile svenevolezza, con uno stile piccante, seminati di immagini seducenti, accendono le passioni, svelano orridi abissi, spingono agli eccessi più fatali. Quando un giovane ha letto uno di questi libri e giornali, quasi sempre perde l’innocenza, l’amore al lavoro, l’energia necessaria per diventare virtuoso cristiano e cittadino utile a sé ed alla patria. Talora sarà un sepolcro imbiancato…, ma sempre un sepolcro, in cui regnerà una tenebrosa corruzione… — Non esagero; i fatti parlano chiaro. — Ai nostri giorni una colluvie di libri e giornali cattivi inonda la nostra patria, e che cosa vedete? Pochissimi conservano la fede dei nostri avi, quella fede generosa ed ardente, capace di vere e sode virtù domestiche e sociali… I più hanno una fede all’acqua di rose, per certe circostanze, quando la esige 1’etichetta, l’opportunismo… Molti la sconfessano apertamente, e stupidamente si vantano di non credere affatto. — La corruzione dei costumi giunge ad un eccesso sì pauroso, da scusare, e talora elogiare i delitti più enormi e ripugnanti… — Lo spirito di orgoglio e di ribellione nelle famiglie, nelle nazioni… ; i suicidi così frequenti, vera viltà del nostro secolo… ; la cancrena di marciume che rode la vita dell’odierna società… Cercatene pure, dove volete, le cause… ; ma, se siete sinceri, dovete convenire con me… ; lo si deve in massima parte ai romanzi, ai libri, ai giornali irreligiosi, empi, osceni…

4° — La Chiesa di Gesù Cristo alza la voce per ritrarre i suoi figli da questi frutti avvelenati. Ella ripete ed intima: Ne comedas; non gustarne, morrai! morte morieris…

Ma chi l’ascolta?

— Si grida superbi: Con che diritto la Chiesa proibisce di leggere certi libri e giornali?

— Col diritto, che ha la madre di proibire ai propri figli di mangiare cibi avvelenati. — Col diritto, che hanno le autorità civili di sequestrare e condannare gli scritti pericolosi all’ordine pubblico… Ogni società bene ordinata deve farlo; quindi molto più la Chiesa…

— In tutti i secoli la Chiesa vigila su questo punto così delicato; condanna i libri empi ed immorali; costituisce la Congregazione dell’Indice per esaminare e proibire le pubblicazioni contrarie alla fede… Quindi ogni vero figlio della Chiesa deve obbedire ed astenersi da quello, che Ella ha proibito…

5° — Ma dirà qualcuno: Ma leggere i giornali ed i romanzi, anche cattivi, a me non reca alcun danno… Ti rispondo: O non capisci quello che leggi, ed allora obbedisci, perché sei cristiano e suddito della Chiesa… Oppure comprendi, ed allora vuol dire che sei già bello e rovinato, fino a non distinguere più il male dal bene. — Ed anche, se fossi ancora innocente, però non lo credo, temi, perché il veleno, sebbene lentamente, apporta sempre la morte. – La Harpe legge un libro di Voltaire… ; eccolo schierarsi fra i nemici della Chiesa… e finisce in prigione, dove però si converte…

— Napoleone il grande, diceva: « Io non mi sento abbastanza forte per reggere un popolo che legge libri osceni… »; ed aveva a sua disposizione circa un milione di soldati.

— Ippolito Pindemonte scrive: “l’assassino di strada mi sembra innocente al confronto di chi detta un libro cattivo…”

Dunque; ne comedas; non gustare di questi frutti vietati; altrimenti morte morieris.

PARTE SECONDA

Chi si espone volontariamente e senza giusto motivo al pericolo prossimo di peccare, pecca; e non vi è pericolo maggiore dei libri e giornali cattivi… Allettano, lusingano…, ma poi danno la morte.

6° — Genitori, attenti: non lasciate entrare in casa vostra libri, romanzi, giornali, che possano, anche pur di lontano, costituire un pericolo o per la fede, o per la moralità dei vostri figli… — Non temete di vigilare troppo… ; la severità su questo punto non sarà mai eccessiva… Basta una riga per offuscare l’innocenza di un fanciullo, di una giovanetta… — Non dimenticate mai del conto strettissimo che dovrete dare al Signore per le anime dei vostri figliuoli… Quel foglio, quel romanzo, potrebbe essere un assassino per queste anime candide a voi affidate… E lo ammetterete in vostra casa?… E con il vostro denaro vorrete farvi suoi complici?

7° — Voi, o giovani, se volete vivere onesti e felici, non leggete né libri, né giornali pericolosi… Prima di leggere un libro, domandate il parere del confessore, o del parroco… — Quella lettura può compromettere l’educazione e la vostra fede; può sviarvi dall’amore allo studio; può inaridire in voi 1’affetto alla famiglia, può condurre nella vostra anima il peccato, il rimorso, la disperazione. Lungi i sotterfugi; quel libro, che ascondete alla pupilla materna, è un serpente velenoso… Gettatelo lungi da voi.

8° — Tutti poi ricordatevi, che chi compera, o si associa ad un foglio cattivo, licenzioso, liberale, concorre all’opera nefasta della Massoneria e del demonio… Fogli di questo genere, in casa vostra, mai. Invece, associatevi ad un giornale seriamente cattolico; datelo tranquilli ai vostri figli; fatelo penetrare nelle famiglie, nelle officine, nei ritrovi, nelle osterie, nei caffè… Favorite sempre, con le parole e con l’opera, la stampa cattolica, la quale, al giorno d’oggi, è il mezzo potente per combattere i nemici di Dio e della Chiesa.

— Così avrete concorso all’esecuzione di un’opera veramente utile, cristiana, tanto necessaria al bene della società… Avrete compiuto un’azione eminentemente virtuosa, e Dio certo non vi lascerà senza una grande ricompensa.

L’AGONIA DI GESU’: QUARTO VENERDI’ DI QUARESIMA

QUARTO VENERDÌ DI QUARESIMA

[Don U. Banci: L’AGONIA DI GESU’, F. Pustet ed. Roma, 1935 – impr.]

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

QUARTA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Deus meus, Deuis meus, ut quid dereliquisti me? (MATTEO, cap. XXVII, v. 46) .

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

CONSIDERAZIONE

Uno strano fenomeno ricordato dagli Evangelisti, accompagna l’agonia del Salvatore. Una densa caligine avvolge il sole ed un’ombra triste e paurosa si stende su tutta la terra. Oh! Tenebre misteriose, che gettando lo sgomento negli uomini, contribuiste a rendere più desolata la pietosa scena del Calvario, voi siete immagine di quella spaventosa solitudine, che lacera l’anima del mio Signore quando volgendo lo sguardo al cielo esclama: Eli, Eli, lamma sabactani? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?  Questo grido che fu l’espressione di uno strazio che non ha nome, fu occasione per i suoi nemici di nuovi scherni. Mal comprendendo le sue parole, alcuni presenti dissero: Costui chiama Elia, ed altri, quelli forse che poco prima lo avevano sfidato a scendere dalla croce soggiunsero con sarcasmo: Lascia, vediamo se viene Elia a liberarlo! [MATTEO, cap. XXVII, v. 47, 4 8]. Ma quelli che parlano così sono coloro che non sanno quello che fanno. Tu però, anima cristiana, cerca di ben comprendere ciò che Gesù ti ha voluto dire con queste parole, affinché quella desolazione, che Egli volle soffrire per te, arrechi conforto all’anima tua, travagliata dal dolore.

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La sera innanzi, entrando nel Getsemani per pregare, come era suo costume, aveva confidato ai suoi amici che l’anima sua era triste di una tristezza mortale: L’anima mia è addolorata a morte [MARCO, cap. XIV, v. 34]. E l’agonia che incomincia. E tu sai, anima cristiana, a quale angoscia mortale fu in preda in quella sera il tuo Salvatore. Nella solitudine di quella grotta, nella quale era entrato per raccogliersi in preghiera, con la sua penetrazione divina vide ed ebbe la sensazione fisica di presentire simultaneamente nelle sue delicate carni tutti i dolori della sua passione; vide l’ingratitudine del suo popolo, che lo aveva fatto piangere sulla strada di Gerusalemme; vide la moltitudine immensa dei peccati di tutti i popoli, che come torrente impetuoso si rovesciava nell’anima sua desolata; vide l’inutilità del suo sacrificio per tante anime, che con la loro incomprensione ed ostinata ingratitudine frustravano l’aspirazione ardente di tutta la sua vita. Questa visione orrenda, che nel Getsemani lo aveva spaventato fino al punto da farlo sudar sangue, si ripete ora sulla croce, aggravata da una circostanza ben dolorosa, l’abbandono del Padre. E un momento questo, in cui il dramma della passione di Gesù si rivela in tutto il suo orrore. Era scritto: È maledetto da Dio chi pende dalla croce Deuteronomio, [cap. XXI, v. 23], e la maledizione di Dio si fa sentire in tutto il suo rigore su di Lui, mallevadore dei nostri peccati; e la misura è ormai colma, la sua desolazione è al completo, il Martire si rivela il vir dolorum, l’uomo del dolore, [ISAIA, cap. LIII, v. 3] e si sarebbe anche qui sulla croce rinnovato il sudore di sangue, se ormai le sue vene non fossero esauste. Anima cristiana, quando senti il peso delle tue tribolazioni, volgi il tuo pensiero a Gesù, che agonizza sulla croce, e pensa che per quanto grandi possano essere i tuoi dolori, senza paragone più grandi furono quelli di Gesù, poiché anche Gesù aveva un corpo in tutto simile al tuo, e come il tuo soggetto al dolore. Anzi, dice il grande S. Tommaso d’Aquino: « Non vi fu nulla più perfettamente ordinato e completo del corpo di Gesù, tanto che nessun altro poteva sentire, come il suo, tutta l’intensità del dolore » [Somma teologica, parte III, q. 46, art. 6].

2 . E la sua divinità, lungi dall’attenuargli il dolore, contribuì, ed in modo efficace, a renderglielo più forte; poiché, appunto perché Dio, Gesù poté avere la previsione certa, esatta, circonstanziata di tutta la sua passione e della sua morte; appunto perché Dio poté misurare tutta la gravità del peccato e prevedere tutte le ingratitudini umane, che tanto cordoglio procurarono al suo cuore. D’altra parte Egli stesso volle che fosse sospesa quell’impressione di felicità, che gli arrecava la visione beatifica, conseguenza dell’unione ipostatica della natura umana con la natura divina, in modo che nulla potesse impedire alla sua benedetta umanità di sentire il dolore in tutto il suo rigore. Già il Profeta lo aveva predetto, che sarebbe stato solo a sostenere tutto il peso del suo formidabile dolore. E a questa che fu la passione del suo cuore, divenuto il ricettacolo di ogni amarezza, si aggiunse la passione del corpo. Guarda infatti, ancora una volta, come sul corpo di Gesù si siano accumulati i tormenti di ogni martirio. Non c’è senso che non abbia il suo dolore; non c’è parte del corpo che non sia ferita, piagata, insanguinata. Si verifica alla lettera la parola del Profeta Isaia: Dalla pianta dei piedi, fino alla sommità del capo, non v’è in Dio sanità, ma ferite, lividure, piaghe sanguinanti [ISAIA, loc. cit. ]. Dunque ripeti con lo stesso Profeta: Veramente i nostri languori Egli ha preso sopra di sé; ed ha portato i nostri dolori, [Isa. Cap. LIII, 4] e quindi devi concludere con S. Tommaso d’Aquino che « i dolori sopportati da Gesù nel corpo e nell’anima furono i più grandi che mai siano stati in questa vita » [Somma teologica, loc. cit.]. Che se la sua benedetta umanità poté resistere al cumulo di tanti dolori, ciò fu perché sostenuta da una virtù soprannaturale. Te lo dice Gesù con quelle parole: L’anima mia è triste fino a morirne, cioè, commenta S. Ilario, «nell’intimo di me stesso l’abbattimento e lo spavento sono così grandi che ne morrei, se non avessi i soccorsi della mia forza divina » [S . ILARIO, Intorno al cap. XXVI di S. Matteo]. Egli dunque può ben dire a te, tormentato da lunga malattia: Conosco, o povero e caro infermo, le tue ore di abbandono nella tua cameretta solitaria; anch’io le ho provate. Può ben dire a te, povera sposa, caduta ad un tratto nella più dolorosa solitudine; a te, povera madre, che invano vai cercando quel figlio che più non è; può ben dire a voi, cuori incompresi e contraddetti, a voi diseredati del mondo, i cui giorni passano senza consolazioni; a voi tutti perseguitati dalla sventura, a cui la vita sembra non abbia riserbato altro che il pianto: Conosco le vostre sventure; non mi è nuovo l’angoscioso vostro isolamento; esso fu anche il mio! Crudeli isolamenti, solitudini amare, spietate separazioni, abbandoni di ogni specie, Dio Salvatore vi volle soffrire tutti per mettere su ciascuno di voi un raggio del suo amore; un’impronta della sua grazia; il merito della sua accettazione » [LANFANT, Il cuore al Getsemani, serm, IV]. Non dire più nei momenti di sconforto: perché, o Signore, debbo essere così infelice! Perché mi avete abbandonata? No, anima cristiana, non sei abbandonata, come non lo era Gesù sulla croce. Talvolta, è vero, Iddio punisce coi suoi abbandoni l’orgoglio, la sensualità, la presunzione, il peccato; ma è anche vero che il più delle volte la desolazione con cui ti affligge è una prova del suo amore. È per distaccarti dal mondo e da te stessa; è per renderti più pura e più bella agli occhi suoi, che ti fa passare per il crogiuolo della tribolazione. Tre volte, diceva S. Paolo, ho domandato di essere liberato dallo schiaffo di Satana, e Dio mi rispose: ti basti la mia grazia. La sublimità delle celesti rivelazioni avrebbe potuto inorgoglirmi”  [Epistola ai Corinti, cap. XII, v. 7]. Anzi non sei forse mai tanto vicina al tuo Dio, come allora quando la tua vita è un Calvario. Nelle tue solitudini, dunque, in tutte le tue pene solleva, come Gesù, il tuo sguardo al cielo, e come le pie sorelle di Betania, desolate per la morte del fratello, chiamalo Gesù; Egli verrà e non sarai più sola. « E se tu piangerai, Egli piangerà con te; se pregherai, pregherà con te; se sarai oppressa dai patimenti, dall’agonia, dalla morte, Egli sarà là vicino a te per consolarti e per aprirti il Paradiso » Poiché Gesù non ti chiede, o anima cristiana, di soffocare le improvvise esplosioni della natura trambasciata, spesso più forti di qualunque coraggio. Se il tuo cuore è ferito nei suoi affetti dall’onta, dall’ingratitudine, da separazioni crudeli, tu puoi piangere, perché anche Gesù ha pianto sulla sventurata Gerusalemme e sulla tomba del suo amico Lazzaro. – Se temi i mali che sono per incoglierti, puoi domandare a Dio che li rimuova, perché anche Lui ha temuto per se stesso ed ha detto al Padre: Padre, fate che questo calice passi lontano da me. – Se il tuo povero corpo è straziato dal dolore, tu puoi implorare sollievo, poiché anche Lui ha gridato dall’alto della croce: Ho sete. Se la tua anima è sopraffatta dall’angoscia, se ti senti abbandonata, puoi gemere, lagnarti, perché anche Lui ha lasciato cadere dalle sue labbra queste dolorose parole: La mia anima è triste fino alla morte. Mio Dio, mio Dio perché mi avete abbandonato? [MONSABRÈ, Ritiri pasquali, 1S83]. E non è Gesù stesso che ti rivolge quel caro invito: Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi ed io vi ristorerò? [MATTEO, cap. XI, v. 28]. – Ascoltala, anima cristiana, questa voce; è la voce di quel cuore che arde di amore per gli uomini. Ma un’altra cosa ti vuol dire Gesù. Se il Divin Padre non risparmia lo stesso suo Unigenito, se gli impone di bere fino alla feccia il calice di ogni amarezza, se Gesù ha l’impressione di provare in sé un abbandono simile a quello che forma la disperazione del dannato, è perché Iddio vede in Lui l’immagine del peccato. Ora, se questo si fa nel legno verde, che sarà nel secco? [LUCA, cap. X XIII, v. 31]. – Se la giustizia divina punisce con tanto rigore in Colui che è la stessa santità, solo l’apparenza del peccato, che cosa non farà in chi del peccato si rende realmente reo! Non è dunque il dolore che ti deve affliggere e che devi temere; ma più di ogni altra cosa devi temere il peccato, perché è questo l’unico vero male, la causa unica di ogni dolore. Pensa, anima cristiana, a quando nel dì finale dovrai presentarti dinanzi a Cristo per sostenere il suo gran giudizio. Tu allora vorrai associarti alla moltitudine potente degli Angeli e degli eletti, la quale canterà la fine dell’esilio e le delizie della patria conquistata [MONSABRÉ, Ritiri pasquali, 1875]; ma se ostinata nel peccato, nel peccato morrai, sentirai gridarti in faccia da Gesù stesso quella terribile invettiva: Via da me, maledetto, al fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. [MATTEO, cap. XXV, v. 41]. E mentre mille voci ti grideranno « vattene maledetto », tu confuso e tremante esclamerai come il Salvatore: « Dio, Dio mio perché mi abbandonate?», ma il tuo grido non avrà conforto; « e sarà questa l’elegia del tuo cuore, che affranto da una maledizione irrimediabile, riempirà l’eco della tua eternità. Ascolta dunque, anima cristiana, il grido di angoscia di Gesù, abbi pietà di te stessa, e trattieni con un pronto pentimento Iddio, che forse già si allontana da te » [MONSABRÉ, Ritiri pasquali, 1880].

Breve pausa, poi si reciti la seguente …

PREGHIERA

O addolorato Salvatore, il grido di angoscia uscito dalle vostre labbra, mi dice tutta la desolazione del vostro cuore. Non meritavate certamente Voi di essere abbandonato dal Padre; sono io che per la moltitudine dei miei peccati, essendomi da Voi allontanato, ho tante volte meritato di essere da Voi abbandonato. Ma Voi, generosissimo mio Salvatore, avete voluto soffrirlo questo abbandono appunto perché non fossi io abbandonato ai rigori della divina giustizia. E che cosa, vi dirò col Salmista, che cosa vi renderò per tanto benefizio? Vi prometterò di non volere più, ad ogni costo allontanarmi da Voi? Sì, o mio addolorato Salvatore, ve lo prometto, ma conosco troppo bene la mia debolezza; stanno dinanzi al mio sguardo le mie numerose ingratitudini, che depongono contro di me e mettono in dubbio la mia perseveranza. Lo so per esperienza, o mio Gesù, che lontano da Voi non c’è pace, non c’è felicità. Io so che Voi solo avete parole di vita eterna, perché Voi solo siete la via, la verità, la vita; e che quindi coloro che si allontanano da Voi periranno; so tutto, lo so come lo sapeva il vostro Apostolo Pietro, ma purtroppo anch’io come lui, nonostante le mie più calde e ripetute promesse, ho più volte ceduto di fronte alla tentazione. Continuando così, nonostante il vostro grande amore per me, nonostante quello che per me avete sofferto, vi costringerò ad abbandonarmi in vita, in morte, per tutta l’eternità. No, o mio Salvatore, per quel dolore che provaste sulla croce quando in Voi stesso sentiste l’abbandono del Padre, vi scongiuro a non abbandonarmi. Voi ben lo sapete perché ce lo avete detto, che senza di Voi a nulla noi siamo capaci; dunque aiutate la mia debolezza; sostenetemi con la vostra grazia, affinché mai più mi allontani da Voi. No, o Signore, non sia per me quella terribile sentenza, che segnerà un’eterna separazione tra Voi e il peccatore. Io voglio, sia pure per la via del Calvario, giungere alla vostra gloria per cantarvi il cantico perenne della mia gratitudine. O Maria, madre dei viventi, come Eva fu madre dei peccatori, aiuto potente dei cristiani, vegliate su di me con la vostra materna sollecitudine, e per quel dolore che provò il vostro cuore nell’udire il pietoso lamento di Gesù, ottenetemi la grazia della finale perseveranza. Auxilium christianorum, ora prò nobis ( Aiuto dei cristiani prega per noi).

Pater, Ave e Gloria.

Dunque dal Padre ancora

Abbandonato sei?

Ridotto ti ha l’amore

A questo, o buon Gesù?

Ed io, coi falli miei,

Per misero gioir,

Potrotti abbandonar?

Piuttosto, o Dio, morir!

Non più, non più peccar,

Non più peccar, non più.

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus,

ad locum supplicii tamquam

ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

10. V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

11. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis afFigi,

in cruce levari, inter

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

.2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato;abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la lancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

1. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

4. V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

5. V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, testibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine, super hanc familiam

tuam, prò qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit

manibus tradì nocentium, et Crucis subire tormentum.

Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

1. V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

2. V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

3. V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

4. V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]

NECESSITA’ DI SERVIRE DIO DA GIOVANI

Necessità di servire Dio da giovani.

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. II, S.E.I. ed. Torino, 1930- impr.]

– 1. Quanto è stimabile chi serve Dio da giovane. — 2. È facile servire Dio dalla giovinezza. — 3. Vantaggi del servire a Dio dalla giovinezza. — 4. Motivi di servire Dio nella gioventù: 1° perché questa età passa presto; 2° Perché quale è la gioventù, tali sono le altre età; 3° Perché questa età è la più esposta al male; 4° Perché questa età appartiene in modo speciale a Dio. — 5. È cosa vergognosa sciupare la giovinezza. — 6. Castighi minacciati a quelli che non servono il Signore da giovani. — 7. Mezzi per servire Dio dalla giovinezza.

1 . QUANTO È STIMABILE CHI SERVE DIO DA GIOVANE . — « Chi piace a Dio (dalla giovinezza) diventa il suo prediletto », dice il Savio: — Placens Deo factus est dilectus (Sap. IV, 10). A somma lode di Tobia la Sacra Scrittura dice che egli non fece mai nessuna azione da ragazzo, mentre pure era il più giovane di tutta la sua tribù: — Cumque esset iunior omnibus, nihil tamen puerile gessit in opere (TOB. I, 4). E perché aveva temuto e obbedito Dio fino dai più teneri anni, la Scrittura dice che egli non mormorò contro Dio perché lo avesse colpito di cecità; ma stette saldo nel timore del Signore che egli ringraziava ogni giorno: — Cum ab infantia sua semper Deum timuerit, et mandata eius custodierit, non est contristatus contra Deum, quod plaga cœcitatis evenerit ei; sed immobilis in Dei timore permansit, agens gratias, Deo omnibus diebus vitæ suæ (TOB. II, 13-14). – Leggiamo nel 2° libro dei Maccabei, al capo VII, l’esempio di coraggio e di fermezza nel proprio culto, che fra acerbe torture diedero i sette fratelli, perché avvezzi dalla prima età ad obbedire e servire Dio … E quanti altri batterono la medesima via! … Che spettacolo più dolce e più bello può offrirsi agli occhi di Dio, degli Angeli e degli uomini, che quello di un giovinetto o di una fanciulla i quali passano la giovinezza nella modestia, nella purità, nella saviezza, nella prudenza, nell’umiltà, nella pietà, nella preghiera! – O spettacolo che tanto più innamora, quanto più è raro! Volesse il cielo, che di molti dei nostri giovani si potesse fare l’elogio che di S. Malachia fece l’abate di Chiaravalle: « Benché tenerissimo di anni, non mostrava nulla della petulanza giovanile, ma si diportava in tutto con costumi degni della gravità di un vecchio (In morte B. Malach.) ». Volesse il cielo che della nostra società si potesse ripetere col medesimo dottore: « Noi vediamo tuttodì molti giovani più assennati che i vecchi, mostrare provetta età nei loro costumi; anticipano il tempo coi loro meriti e compensano con le virtù quello che manca ai loro anni (Serm. in Ps.) ». Ecco a questo proposito una sentenza di S. Agostino, degna di essere scritta a lettere d’oro: « La vostra vecchiezza tenga della puerizia, e nella puerizia traspiri la vecchiaia: cioè la vostra saggezza senile sia senza alterigia e la giovanile timidità sia accompagnata dalla saviezza, affinché lodiate Dio ora e nell’eternità (Sent.) » .

2. È FACILE SERVIRE DIO DALLA GIOVINEZZA. — Il tempo e le circostanze più adatte all’innesto sono la primavera e il vento caldo del mezzogiorno. L’innesto spirituale riesce mirabilmente nella primavera della vita, nell’età in cui i sentimenti sono sul fiorire e lo Spirito Santo spira su l’anima ancora tenera il sacro e ardente soffio del suo amore. Infatti la gioventù somiglia a un ramo novello, per la sua flessibilità e la facilità con cui riceve l’innesto divino il quale, nutrito del succo della grazia, forma un albero fruttifero, l’albero della vita. Udite, o giovani, che cosa vi dice il Signore: « Ascoltatemi, o frutti divini, e fruttificate come il rosaio piantato lungo le sponde di fresco ruscello; spandete un odore balsamico come il Libano; portate i fiori che siano, nel candore e nel profumo, come i gigli, adornatevi di verde fogliame, cantate inni di lode e benedite il Signore nelle sue opere. Magnificate il suo nome e rendetegli testimonianza con le parole della vostra bocca » — Obaudite me, divini fiuctus, et quasi rosa piantata super rivos aquarum fructifìcate; quasi Libanus odorem suavitatis habete; florete flores quasi lilium, et date odorem, et frondete ingratiam, et collaudate canticum et benedicite Dominum in operibus suis. Date nomini eius magnifìcentiam, et confitemini illi in voce labiorum (Eccli. XXXIX, 17 -20). « Mentre ero ancora giovinetto, narra di sé l’autore dell’Ecclesiastico, ho cercato la sapienza con le mie preghiere; la domandava a Dio nel tempio e diceva: io le terrò dietro fino alla fine di mia vita; ed essa fiorì in me, come vite che dà frutto precoce, e il mio cuore trovò in lei la sua letizia. I miei piedi camminarono per la strada retta; dai primi anni io mi misi in traccia di lei: ho abbassato l’orecchio, e l’ho ricevuta » (Eccli. LI, 18 – 21), Ecco l’esempio da imitarsi dai giovani i quali sono disposti più che ogni altra età, ad accogliere prontamente e praticare facilmente i dettami della divina sapienza, perché la giovinezza è l’età più prossima all’innocenza, la più atta a ricevere le buone impressioni e la più pronta a fare una buona azione; è l’età più cara a Dio. « Lasciate che i fanciulli vengano a me », diceva il Maestro divino: — Sinite parvulos ad me venire (MATTH. XIX, 14). S. Benedetto ammetteva nel suo ordine specialmente i giovani, affinché si avvezzassero presto alla disciplina monastica. Anzi la storia ci dice che nei primi tempi del Cristianesimo vi era l’uso di disporre i ragazzi, i giovani e le fanciulle ai tormenti e al martirio. Cari modelli ce ne forniscono la madre dei Maccabei e Santa Felicita le quali, nell’educazione dei loro figli, non tralasciarono d’insinuarvi l’amore al martirio e, giunto il tempo, ve li condussero. Così leggiamo che fece, sotto il tiranno Dunaano, re di Arabia, una pia madre la quale aveva istruito e preparato al martirio un suo bimbo. Ora avvenne che il fanciullo, all’età di cinque anni, vide un giorno strapparsegli la madre, per ordine del tiranno, ed essere condannata ad ardere viva. A quella vista, mosso dal desiderio del martirio, il ragazzino cominciò a piangere e sospirare dietro la madre: avendogli Dunaano domandato se amasse meglio essere con lui in un bel palazzo, ovvero con la madre in una caldaia infocata: Preferisco, rispose, starmene con la mamma, affinché ella mi prenda e conduca con sé al martirio. — E sai tu che cosa è il martirio? riprese Dunaano. — E il bambino a lui: — Il martirio è morire per Gesù Cristo per vivere di nuovo. — Chi è Gesù Cristo? replicò il tiranno. — Venite alla chiesa, soggiunse il bambino, e ve lo farò vedere. Ma non cessando il tiranno di sollecitarlo con lusinghe e promesse, quel mirabile fanciullo finì col dirgli: — Taci, o mostro; non cerco né voglio te, ma la madre mia. — Riunito a lei, si strinse al suo petto e ricevé con essa la corona del martirio (Stor. Eccl.).

3. VANTAGGI DEL SERVIRE A DIO DALLA GIOVINEZZA. — « Coloro che mi cercano di buon mattino, mi troveranno », dice il Signore: — Qui mane vigilant ad me, invenient me (Prov. VIII, 17). Chi giunge a buona vecchiaia, gode i frutti raccolti nel tempo della giovinezza, che sono la saggezza, l’autorità, il diritto di dare consigli, l’onoratezza, la speranza dell’eternità beata. Ha dei figli e dei nipoti saggi, prudenti, gravi e onorati… Chi al contrario ha fatto cattivo uso degli anni giovanili, raccoglie nella tarda età dispiaceri, malinconia, disonore, disperazione, sia per conseguenza della vita malvagia che ha menato, sia per la mala condotta dei figli e dei nipoti. « Figlio mio, dice il Signore, se avrai l’animo saggio, il mio cuore ne gioirà con te » •— Fili mi, si sapiens fuerit animus tuus, gaudebit tecum cor meum (Prov. XX II, 15). « Ricevi, figlio mio, l’istruzione nei tuoi primi anni, e otterrai la sapienza fino alla vecchiaia. Avvicinati a lei e aspettane i buoni frutti in pazienza, come colui che ara e semina il terreno, aspettando la messe; in questo lavoro poco avrai da faticare e ti nutrirai ben presto de’ suoi prodotti » — Fili, a iuventute tua excipe doctrinam, et usque ad canos invenies sapientiam. Quasi is qui arat et seminat, accede ad eam, et sustine bonos fructus illius; in opere enim ipsius exiguum laborabis, et cito edes de generationibus illius (Eccle. VI, 18-20). Cercate la virtù nel tempo della vostra giovinezza, e la troverete come un frutto precoce; sarete colmi di felicità (Eccli. LI, 18 – 20). « Io mi sono ricordato di voi, dice il Signore; ebbi pietà della vostra giovinezza e del mio amore per l’anima vostra, sposa mia » — Recordatus sum tui, miserans adolescentiam tuam, et caritatem desponsationis tuæ (IEREM. II, 2). Io mi sono ricordato, anima infedele, ed ho richiamato alla tua memoria la tua prima età, durante la quale io, tuo Dio, non già per riguardo alla bellezza, o alla sapienza, o alla ricchezza, o ad altro tuo merito, ma per pura mia misericordia ho preso te in mia sposa, te debole, povera, inferma; ti ho tratta a me e protetta e dotata del battesimo, della scienza cristiana, della grazia, ecc.; ti ho vestita di abiti preziosissimi e ornata di splendentissimi brillanti, affinché tu mi serbassi la fedeltà che le spose devono ai loro sposi… « È vantaggioso per l’uomo, dice Geremia, ch’egli porti il giogo del Signore fino dall’adolescenza » — Bonum est viro cum portaverit iugum ab adolescentia sua (Lament. III, 27). Portare il giogo del Signore, vuol dire obbedire alle sue leggi e ai suoi precetti, accettare gli obblighi che importa il servizio di Dio; essere umile, dolce, paziente nelle contrarietà. Colui che si è sottoposto al giogo del Signore fino dai primi anni, e che ha diretto, col freno di una savia moderazione, la sua giovinezza, riuscirà, dice S. Ambrogio, a vincere le proprie passioni: dominerà i suoi sensi, e terrà in freno le concupiscenze della carne; saprà discernere e sradicare le cattive inclinazioni del proprio cuore, godrà tranquillità e pace. Il giogo potente e amabile del Signore porta a desiderare Dio e cercarlo; se la gioventù, quasi indomabile, si mette sotto questo giogo, tutto le diventa facile, dolce e piacevole (In Psulm. CXVIII, serm. IX). Per mezzo del giogo del suo servizio, Dio doma la gioventù, la mantiene in piedi, la preserva dalle cadute pericolose, la rende dolce, l’informa al bene e finalmente la perfeziona. Egli suole alleggerire il suo giogo e far sì che vi si gusti la vera felicità, colmando di grazie e di consolazioni quelli che lo portano, secondo la parola di Gesù Cristo medesimo: « Dolce è il mio giogo, soave il mio peso — Iugum meum suave est et onus meum leve (MATTH. XI, 30).  Quanto saggia e generosa è l’anima la quale fu educata di buon’ora alla scuola di Gesù Cristo, e volle conservarsi veramente libera, sottoponendosi al giogo divino, oppure geme di aver passato alcuni giorni fuori di questa disciplina, che è principio di vita e di forza! Quest’anima eroica è ferma nel proposito di sottoporsi e consacrarsi fino alla morte al servizio del Signore nel silenzio, nella pazienza, nella rassegnazione; senza mai scuotere il suo giogo e astenendosi da ogni mormorazione; poiché l’anima la quale cerca di liberarsi di questo giogo, lo porta a malincuore, lo trascina e lo abborre; e allora essa ne è schiacciata, e perde ogni merito… Buona cosa è avvezzarsi da giovani alla disciplina, alla mortificazione, all’austerità, alla pazienza, alla pratica della virtù, in una parola al servizio di DIO. È questa la via che conduce alla salute eterna e a grande perfezione. Dalla loro infanzia Sansone e Samuele si astennero dal vino e da ogni bevanda fermentata e furono consacrati Nazarei. In età tenerissima, S. Giovanni Battista si ritirò nel deserto, vestì il cilizio, si cibò di locuste, e meritò di essere il precursore e il martire di Gesù Cristo. Il Salvatore divino cominciò dal presepio a praticare la povertà e l’obbedienza, a menare una vita di stenti e a prepararsi alla croce. Egli di se stesso diceva, per mezzo del profeta: « Menai vita travagliata e povera fin dai giorni della mia giovinezza » — Pauper sum ego et in laboribus a iuventute mea (Psalm. LXXXVII, 16). Gesù ama l’infanzia che lo serve, dice S. Leone, quell’infanzia ch’egli assunse nell’anima e nel corpo suo. Gesù ama l’infanzia che è un modello di umiltà, d’innocenza, di dolcezza. Gesù ama l’infanzia, secondo la quale informa i costumi ed a cui riconduce la vecchiaia, e che propone per esempio a quelli che chiama a entrare nel regno dei cieli (Serm. in Ephiph. n. 7). Dove trovare utilità eguali a quelle che s’incontrano nel servizio di Dio accettato fin dalla giovinezza? Sapete che cosa vuol dire servire Dio dalla gioventù? Vuol dire conservare la propria innocenza e purità; essere nelle grazie di Dio, avere Dio in noi stessi, i suoi favori, le sue benedizioni; vuol dire non perdere mai il prezioso tesoro del battesimo e rimanere fedeli ai sacri impegni quivi contratti; vuol dire avanzare di virtù in virtù e aumentare ogni anno, ogni giorno, ogni ora, i propri meriti e la propria corona; vuol dire conservare la pace del cuore e prepararsi ineffabili conforti, assicurare la propria salvezza, restare tempio dello Spirito Santo, ornato di tutti i suoi doni; mostrarsi degno membro di Gesù Cristo, riuscire vincitore dell’inferno, del mondo, di noi medesimi; vuol dire cominciare su la terra la vita degli Angeli, e gustare un saggio anticipato delle ineffabili delizie della città celeste; vuol dire essere la consolazione del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di Maria, degli Angeli, dei santi, della Chiesa, della società, della famiglia; spargere dappertutto il buon odore di Gesù Cristo e invitare col proprio esempio, gli altri a fare lo stesso, a schivare il peccato,, a praticare la virtù e a santificarsi. Felice nel tempo e nell’eternità quel giovane che serve al Signore con tutto il cuore e con tutta l’anima e con tutte le forze e che persevera in questo dolce e salutare servizio!

4. MOTIVI DI SERVIRE DIO NELLA GIOVENTÙ: perché questa età passa presto. — Che cosa è la gioventù? un’età che passa come il fiore sbocciato la mattina, appassito la sera; come leggero vapore, o goccia di rugiada al comparire del sole; come sogno, o baleno, o volò di uccello… Che cosa sono tutte le età, prese ad una ad una? Che cosa è la vita intera, paragonata all’eternità? Per quanti poi la giovinezza è l’ultima età della vita? Quanti devono dire con Ezechia, re di Giuda: Sul fine dei miei anni discendo nel sepolcro… La mia vita fu tolta e piegata ad un tratto, come la tenda di un pastore: fu troncata come la tela del tessitore. Mentre io era tuttavia sul crescere, la mano del Signore mi ha reciso; dal mattino alla sera i miei giorni ebbero fine. Speravo di vedere ancora l’aurora del giorno seguente, ma il male stritolò come leone le mie ossa (ISAI. XXXVIII, 10, 12 – 13)? Oh, di quante persone si può dire quello che Geremia diceva del popolo di Gerusalemme: « Il sole tramontò per lui, mentr’era ancora giorno alto » — Occidit ei sol, eum adhuc esset dies (XV, 9)! – Se volete sapere perché mai una morte prematura abbia colpito quel giovane virtuoso, aprite la Sapienza al capo IV, e vedrete che siccome egli piaceva a Dio, perciò Dio lo amò più degli altri e lo tolse di mezzo ai peccatori fra cui viveva, affinché la malizia non gli traviasse l’intelletto e l’illusione non gli guastasse il cuore. Poiché molto facilmente avviene che l’uomo semplice e aperto sia colto al laccio della frivolezza dei beni e dell’incostanza dei desideri terreni. Consumato in pochi giorni, tuttavia visse molto e perché la sua anima piaceva a Dio, egli si affrettò a toglierlo dalle iniquità del secolo. Ma la gente vede e non comprende; non pensa che la grazia e la misericordia del Signore piovono sopra i suoi santi, e il suo sguardo si posa su di loro. Il giusto morto condanna gli empi vivi; ed una santa gioventù rapidamente trascorsa è rimprovero alla vecchiezza del malvagio (Sap. IV, 10-16). Perché poi altre volte la morte abbatte, non meno prematuramente, quel giovane corrotto ed empio? Sebbene siano impenetrabili i segreti di Dio, che noi dobbiamo adorare e non scrutare, ci è però lecito asserire che questo avviene: 1 ° in punizione della sua rea condotta…; 2 ° perché non prolunghi di più la catena delle iniquità e non accresca di più il già troppo terribile conto che ha da rendere a Dio … ; 3 ° per mettere un fine agli scandali che semina …; 4° perché serva d’esempio ai suoi coetanei; ai savi affinché perseverino, ai dissipati perché si convertano…; 5 ° perché era maturo per l’inferno. Ah! la brevità della giovinezza grida ad alta voce ai giovani la necessità di consacrare quest’età al servizio del Signore.

Perché quale è la gioventù, tali sono le altre età. — « La vostra vecchiezza ricopierà gli anni della vostra gioventù », dice i l Signore: — Sicut dies iuventutis tuæ, ita et senectus tua (Deuter. XXXIII, 25). «L’adolescente, dice il Savio, continuerà la strada per la quale si è messo e non ne uscirà nemmeno da vecchio » — Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit non recedet ab ea (Prov. XXII, 6). « Le ossa dell’empio, scrive Giobbe, saranno penetrate dei vizi della sua giovinezza, e se li porterà con sé nella polvere della tomba » — Ossa eius implebuntur vitiis adolescentiae eius, et cum in pulvere dormient (XX, 11). Un vaso di terra, come nota S. Gerolamo, mantiene a lungo, ed alcune volte anche per sempre, dice il poeta, l’odore del liquore di cui fu riempito l a prima volta.

Perché questa età è la più esposta al male. — Chi negherà che la gioventù sia un’età piena d’ignoranza, d’inesperienza, di debolezza, di presunzione? Quattro motivi spingono il demonio a muovere più accanita guerra alla gioventù, che non alle altre età, e sono: 1) perché sa che Dio ama di speciale amore la gioventù pia e costumata; perciò egli si adopera mani e piedi per rubare al Signore l’incantevole fiore dell’età e della virtù; 2) perché con questo mezzo egli trascina incatenate per la strada del peccato, tutte le età seguenti…; 3) perché è più facile adescare i giovani … 4) perché quando sono caduti nel vizio, i giovani vi si immergono perdutamente… Anche il mondo e la carne fanno ai giovani guerra più crudele che non agli altri, come l’esperienza c’insegna. « La gioventù, scrive S. Basilio, è molto leggera e assai proclive al male; ora sono concupiscenze indomite e sfrenate, ora collere bestiali e crudeli. Maldicenza di parole, petulanza di tratto, arroganza di risposte, boria e fasto figlio dell’orgoglio, uno sciame insomma di vizi ronza continuamente attorno, e assale e morde l’età giovanile (Homil. in Psalm.) ». Ora se i giovani sono esposti a tanti pericoli e scogli, a tante tentazioni e passioni, ed hanno poco o nulla di esperienza, non è forse cosa estremamente utile e necessaria che si consacrino al servizio di Dio, se vogliono scampare a certo naufragio?

Perché questa età appartiene in modo speciale a Dio. — Certamente tutte le età appartengono al supremo padrone di tutte le cose, ma per titolo specialissimo a Lui appartiene la giovinezza che rappresenta le primizie della vita dell’uomo e ognuno sa che le primizie furono in ogni tempo e luogo offerte al Signore… I bei fiori di primavera e principalmente i primaticci, sono sempre i più belli, i più graditi, i più preziosi, i più ricercati, e noi preferiamo questi quando vogliamo fare un regalo a persona cara. Ora l’età giovanile è il più eletto fiore del giardino del Signore; a Lui dunque bisogna consacrarla… Sul fiore dell’età, Gesù Cristo diede la sua vita per la salute del mondo; a questo pensiero, chi non consacrerà al divin Redentore questa parte della sua vita? … La gioventù non ci appartiene; toglierla o negarla a Gesù Cristo, è un furto che noi gli facciamo.

5. È COSA VERGOGNOSA LO SCIUPARE LA GIOVINEZZA. – La maggior parte dei giovani si avviano per una cattiva strada e vanno dicendo: Darò la mia gioventù al piacere e la vecchiaia alla penitenza; la gioventù concederò all’ozio ed alle passioni, la vecchiezza al lavoro e alla virtù; sacrificherò la giovinezza alla carne, al mondo, al demonio, la vecchiaia consacrerò all’anima e a Dio … Che insulto a Dio, che vergogna per l’uomo è mai questa, di dare al diavolo il fiore e il frutto della vita, serbando a Dio il gambo fatto strame! Dove trovare insensatezza più stupida che questa, di sciupare nell’ozio e nella mollezza un’età atta al lavoro, e costringere ad una fatica troppo pesante, l’età fatta per il riposo! Come si regola l’uomo prudente, negli affari del secolo? Egli dice: bisogna che cerchi, nel vigore dell’età, a procacciarmi dei mezzi per passare tranquillo i miei ultimi giorni. Ora perché non si fa altrettanto, trattandosi dell’affare dell’anima?… Che spaventoso pericolo non è quello di chi si abbandona al disordine, nella vana e incerta speranza, prima di una lunga vita, poi di avere il tempo necessario alla penitenza!… Alla gioventù tocca preparare, dice Seneca, alla vecchiaia godere: — Iuveni parandum, seni utendum (Prov.). – Grave imprudenza e mostruosa ingratitudine è abbandonare e offendere Dio nella giovinezza. A chi si diporta in tale maniera, sono diretti quei rimproveri di Geremia: « Tu hai dunque abbandonato il Signore Dio tuo nel tempo in cui ti guidava per la strada. Ed ora che cosa ti giova l’aver lasciato la sorgente di acqua viva, per bere il fango delle passioni e del mondo? La tua malizia insorgerà ad accusarti e la tua avversione si leverà a rimproverarti. Vedi una volta e comprendi quanto sia per te funesta e amara cosa l’esserti allontanato dal Signore Dio tuo e non avere più il suo timore. Tu hai rotto le mie catene, hai spezzato il mio giogo, gridando: Non servirò! » (IEREM. II, 17-20). – E non sono pochi, purtroppo, questi giovani che furono divorati dal fuoco delle passioni, che deviarono dal retto cammino fin dalla prima età e s’impigliarono nell’errore fino dall’infanzia: — Iuvenes comedit ignis (Psalm. LXXVII, 63). — Alienati sunt peccatores a vulva, erraverunt ab utero (Id. LVII, 3). Della maggior parte dei giovani si può dire con Baruch, che videro il lume, eppure vissero di vita carnale; ignorarono la strada della sapienza, non ne conobbero il sentiero: la rigettarono, ed essa si allontanò da loro (III, 20-21). – « O giovani, dice il Signore, e fino a quando amerete voi le fanciullaggini? fino a quando gli insensati brameranno quello che loro è nocevole, e gli imprudenti volgeranno il tergo alla scienza? » — Usquequo, parvuli, diligitis infantiam? et stulti ea, quæ sibi sunt noxia, cupient, et imprudentes odibunt scientiam? (Prov. I , 22). Fino a quando avrete voi in uggia la scienza della virtù e della salute, e farete buon viso alle frivolezze, ai giuochi, all’ozio, all’infingardaggine, al peccato, alla morte?… « Credete voi di trovare, domanda. VEcclesiastico, nella vostra vecchiaia, quello che non avrete raccolto nella giovinezza? » — Quæ in iuventute tua non congregasti, quomodo in senectute tua invenies? (XXV, 5). Dove sono, ahimè! i giovani che abbiano conservato la loro innocenza? dove trovare giovani umili, modesti, casti, docili, saggi, edificanti? Come ne è piccolo il numero! come grande, al contrario, è la folla di quelli che perdettero così bella virtù!…

6. CASTIGHI MINACCIATI A QUELLI CHE NON SERVONO IL SIGNORE DA GIOVANI. — « Godi pure, o giovane, nei giorni della tua adolescenza, sfoga ogni tuo capriccio, ma sappi che di tutte queste cose Dio ti chiederà conto » — Lætare, iuvenis, in adolescentia tua, ambula in viis cordis tui, et in intuitu oculorum tuorum; et scito quod prò omnibus his adducet te Deus in iudicium (Eccle. X I , 9). « I ragazzi, lamenta Geremia, furono trascinati in schiavitù dinanzi alla faccia del dominatore » — Parvuli ducti sunt in captivitatem, ante faciem tribulantis (Lament. I, 5), cioè innanzi al demonio, come spiegano gli interpreti. E il profeta Baruch: «Non presero la via della sapienza, perciò perirono » — Neque viam disciplinæ invenerunt, propterea perierunt (III, 27). Ecco finalmente come lo Spirito Santo descrive, per bocca di Giobbe, i castighi che seguono una giovinezza colpevole: « Signore, voi mi avete amareggiato sino al fondo dell’anima, e mi avete fatto vittima dei trascorsi della mia adolescenza. Voi avete posto ai miei piedi degli intoppi, e avete notato tutti i mei procedimenti; io sarò divorato come corpo roso da cancro, come veste consumata dalla tignuola » (IOB. XIII, 26-28). – Da queste parole della Scrittura si deduce che Dio minaccia alla gioventù viziosa i seguenti castighi: 1° l a peggiore fra le schiavitù, quella del diavolo; 2° l’amarezza del rimorso; 3° una rovina totale; 4° una morte spaventosa; 5° un giudizio terribile … Che disgrazia perdere l’innocenza, la bella età, la virtù, l’anima e Dio! … Che tremendo castigo essere venduto al vizio e al demonio!…

7. MEZZI PER SERVIRE DIO DALLA GIOVINEZZA. — Sono molti i mezzi che ci conducono a servire Dio e a correggerci dei nostri difetti dalla giovinezza.

L’osservanza della legge divina. « In qual modo può mai la gioventù emendare i suoi costumi? », domanda il Salmista, e risponde: « Con l’osservare i precetti del Signore » — In quo corrigit adolescentior viam suam? in custodiendo sermones tuos (Psalm. CXVIII, 9).

Il ricordo di Dio. « Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza », leggiamo nell’Ecclesiaste: — Memento Creatoris tui in diebus iuventutis tuæ (XII, 1).

Il timore di Dio. Tobia insegnò al suo figliuolo a temere Dio dall’infanzia e ad astenersi da ogni peccato: — Filium ab infantia timere Deum docuit, et abstinere ab omni peccato (TOB. I, 10).

La prudenza. « Uscite dall’infanzia e vivete e camminate per le vie della prudenza », si legge nei Proverbi: — Relinquite infantiam, et vivite; et ambulate per vias prudentiae (IX, 6).

L’istruzione cristiana. « Figlio mio, dice il Savio, ricevi l’istruzione dai tuoi primi anni, e troverai la sapienza fino agli ultimi » — Fili, a iuventute tua excipe doctrinam, et usque ad canos invenies sapientiam (Eccli. VI, 18).

Preporre Dio ad ogni cosa, e ricordarsi che l’anima è il più prezioso tesoro affidato alla custodia dell’uomo…

Amare di cordiale e tenero affetto la Beata Vergine Maria, raccomandarsi a lei tutti i giorni e non lasciarne passare un solo, senza prestarle qualche particolare omaggio.

Non tenere mai sulla coscienza un peccato mortale; ma pentirsi ogni giorno delle colpe commesse e confessarsene al più presto.

Pensare sovente alla morte e considerare che, dopo morte, chi fu morigerato da giovane sarà eternamente felice con Dio e con i santi; che al contrario chi dimentica Dio nell’aurora della sua vita, ha tutta la ragione di temere di perdersi eternamente…

10° Rispettare se medesimo e in pubblico e in privato.

11° Fare tutte le azioni come se fossimo sotto gli occhi di rispettabili persone.

 

SAN TOMMASO D’AQUINO: CONOSCERE, AMARE, SERVIRE DIO.

SAN TOMMASO D’AQUINO
CONOSCERE, AMARE, SERVIRE DIO

[G. COLOMBO: “Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi” Vol. I; Soc. Ed. “Vita e pensiero”, Milano, 1939- impr.]

Aveva appena cinque anni: racchiuso in un abito nero, ricoperto di un nero scapolare, con un cappuccetto a punta che nel traversare i chiostri pieni di silenzio si tirava come uno spegnitoio sul capo, Tommaso già si crucciava dietro a questa domanda: « Chi è Dio? ». – Pronipote a Federico Barbarossa e nel sangue l’audacia e la tenacia dei Normanni suoi avi materni, il cadetto dei signori d’Aquino, come poté far senza della madre e della nutrice, era stato offerto alla badia di Monte Cassino con gran pompa: così l’abito di San Benedetto era venuto a rivestire lui giovanissimo, e la sottile tonsura a rigirargli la piccola testa. – Fosse la profonda religione materna a condurlo là, o fosse invece l’ambizione della famiglia che sognava di vederlo un giorno abate potente dell’abbazia principale delle Puglie col dominio di sette vescovati, è difficile decidere per noi ora; ma è facile invece immaginarci il monacello benedettino assillato dal suo problema: « Dio, chi è? ». – O che pregasse sperduto sotto l’ombrosa navata, o che mirasse il tramonto arrossare i colli in giro e, sopra essi, il torvo castello paterno, o che davanti all’enorme antifonario si levasse in punta di piedi nello sforzo di voltare la pagina, — che tale era il suo compito in coro, — sempre, ce lo attesta Guglielmo di Tocco suo biografo, ripeteva la terribile domanda: « Chi è Dio ? ». – Chi è Dio: non vi sembri strano che questo bambino interroghi così. Iddio, dopo d’avere stampato in lui una più vasta orma d’ingegno e di genio, quasi geloso aveva disposto che in nessun giorno quella poderosa mente avesse gli occhi distratti dal suo lume inaccessibile. Ed ecco dal primissimo uso di ragione, tutta la vita del santo fu un salire di gradino in gradino, di anelito in anelito, di spasimo in spasimo, verso la sublime risposta. E quando l’avrà toccata con la punta della sua anima, — la mattina del 6 dicembre 1273, — spezzerà la penna e dirà: « Reginaldo, ho finito: io muoio ». Chi è Dio: sotto queste parole si sprofonda l’abisso del vero. I suoi, quando lo chiamarono Tommaso, non sapevano che etimologicamente quel nome significa «abisso» e non potevano prevedere che nell’abisso della realtà nessun uomo, forse mai, si sarebbe inoltrato quanto quel loro bambino. – Chi è Dio: rispondere a tale domanda non è come rispondere a tutte le altre, poniamo a questa «che è la luna?». Poiché, dato pure che trovassimo per la luna la risposta esatta, poi lasceremmo ch’ella se ne vada per la sua strada celeste, e noi, senza badarci più, ce ne andremmo per la nostra strada terrestre. Ah no: man mano conoscere Dio vuol dire amarlo man mano ed anche man mano servirlo.

Conoscerlo!
Amarlo!
Servirlo!

Ecco tre parole che sono nel piccolo catechismo per tutti: per questo non crediatele piccola cosa. Conoscerlo, amarlo, servirlo è lo sforzo sublime della piccola trinità ch’è in noi, — intelletto, cuore, volontà, — per assomigliare all’infinita Trinità ch’è in Dio, — Padre, Figliuolo, Spirito Santo. – In queste tre parole è racchiusa la santità di tutti i santi, la quale tuttavia è sempre diversa perché ciascun santo traduce nella vita pratica quelle tre parole in una maniera sempre diversa. S. Tommaso le ha realizzate nello studio. Lo studio fu tutta la sua vita, lo studio è tutta la sua grandezza nei secoli; ma lo studio è anche tutta la sua santità. Infatti: che cos’era per lui studiare? conoscere Dio; quale forza lo spingeva, notte e giorno, a consumarsi sui libri e sulle intricate questioni? l’amore di Dio; che cosa intendeva poi fare della sua miracolosa cultura? servire Dio.
1. CONOSCERE DIO
Camminava un giorno tra i suoi condiscepoli nei querceti e negli uliveti in giro all’abbazia; guidava l’escursione un religioso anziano. La piccola truppa si ferma d’un tratto e tutti si diffondono nel bosco chiassosamente. Tommaso, no: in disparte, poggiato a un tronco è silenzioso. Guarda le gemme nuove prorompere dalla scorza come occhi verdissimi, guarda i vertici ondeggiare nel vento, guarda le foglie dell’anno passato marcire in terra. Donde vengono le gemme e dove vanno le foglie? chi sospinge il vento invisibile a correre?… « Che cerchi, qui, solo? » gli domandò il religioso scorgendolo. « Cerco, — rispose, — di conoscere Dio ». Dunque davanti agli occhi profondi di quel fanciullo si compiva la parola d’Isaia: « Tutta la terra è colma della scienza del Signore ». – La brama di questa scienza che gli svela la faccia dell’Eterno, non che sminuire, crescerà nella sua anima a dismisura. All’Università di Napoli, poi a Colonia, sotto la guida illuminata di Alberto Magno, poi a Parigi, e di nuovo a Colonia, — lui, che quand’era in fasce non smetteva di piangere se non lo lasciavano biascicare un foglio di carta, — divorerà i libri allora più famosi, senza mai placare la sua sete di conoscere Dio. In Italia, per 10 anni, dal 1259 al 1269, senza tregua studierà, scriverà, insegnerà intorno a Dio. O silenziose celle d’Anagni, d’Orvieto, di Roma, di Viterbo, ove, anche quando il convento era sommerso nel buio del sonno, ardeva la vigile lampada di S. Tommaso! voi conoscete i tormenti dell’aspra ricerca e la gioia dell’amplesso con la verità ritrovata; voi conoscete l’affannoso ascendere, passo per passo, nell’analisi del pensiero e la mistica ebbrezza della sintesi contemplata dal vertice dell’idea raggiunta!… – « Le volte che davanti al dubbio l’ho visto lasciare la cella e fuggire in chiesa ed abbracciare i l tabernacolo ed interrogarlo e singhiozzare son più di cento ». Così ha giurato frate Reginaldo che gli viveva d’accanto e dormiva nella cella attigua. Orazione e studio erano per lui una cosa sola, un tendere al medesimo oggetto: Dio. – Cristiani, la vita e la santità di Tommaso d’Aquino è tutta un rimprovero alla società moderna, a ciascuno di noi, forse. Dov’è il desiderio nostro di conoscere Dio? Che cosa facciamo per, sapere le verità eterne? Perché tanto deserto sotto i pulpiti? Di tutto siamo curiosi e informati, eccetto che delle cose necessarie per salvarci. – Ma torniamo a S. Tommaso, il gigante dell’intelligenza, che armato di osservazione di studio di preghiera, ha saputo salire su su, scalare una montagna di questioni, di articoli, di scolii, di dilemmi, in cima alla quale, — come una volta sul Sinai, — sta Iddio nella nube fulgida. E Dio discende incontro a questo mortale, ed anche a lui come a Mosè concede sulla fronte due raggi della sua luce: la Summa contra gentes e la Summa Theologica. Sono le due « Somme » come due fiumi imperiali che entrambi sgorgano da Dio, — nella loro prima parte, — attraversano tutta la creazione visibile ed invisibile, — nelle altre due parti, — e, trascinando nella loro conquista il mondo intero, fanno — nell’ultima parte — ritorno a Dio. A Dio, che si nega ai superbi e si concede ai pargoli, a Dio che si è lasciato trovare da S. Tommaso perché umile. – A lodarvi la sua umiltà non ripeterò più come, diffidando delle sue forze, solo nella preghiera confidasse; né ricorderò con quale semplicità accoglieva le ripetizioni di quel suo compagno di Colonia, il quale capiva poco e faceva da maestro a lui che capiva tutto, e più ancora; dirò soltanto come l’umiltà è la base del suo alto e complesso sistema filosofico e teologico. In quei secoli, quando Roscellino osava applicare al mistero della Trinità la sua dottrina filosofica; e Abelardo e Gilberto della Porretta pretendevano di sgrandire la propria ragione fino a spiegare i domini, quasi a commisurare la loro statura con quella di Dio; in quei secoli, quando pur di non umiliare la ragione si era trovata la teoria della doppia verità, secondo la quale alcuno poteva credere un’asserzione in quanto teologo e cristiano e poi deriderla e negarla in quanto filosofo, sorse Tommaso e sottomise la fragile nostra mente alla infallibile rivelazione di Dio, negò qualsiasi dissidio tra il credo e la scienza, proclamò la teologia regina e la filosofia ancella. In questa limpida distinzione tra i due ordini di verità, quello di fede e quello di ragione, e nella subordinazione di questa a quella, sta la novità del pensiero di S. Tommaso, che è quindi un pensiero di umiltà. « S’incontrano oggi uomini — dice — che studiano filosofia e sostengono opinioni contrarie alla fede: falsi profeti sono, sono falsi dottori ». E prosegue: « La fede vale molto di più della filosofia, perciò se la filosofia è contraria alla fede bisogna rigettarla ». Era giusto allora che da questo umile atleta, che gli prosternava ai piedi la mente d’Aristotele e la propria, Dio si lasciasse conoscere. E amare.
2. AMARE DIO
Nella vita di S. Tommaso d’Aquino, i cilici cruenti, le flagellazioni, gli aspri digiuni con cui molti santi hanno significato a Dio la veemenza del loro amore, invano li cerchereste. Se una cosa straordinaria v’è, anch’essa è soave: il dono delle lagrime. – Quaggiù in hac lacrimarum valle, le lagrime non sembrano cosa rara: lagrime d’odio, lagrime di miseria, lagrime di morte, lagrime di vanità, lagrime di gioia anche; ma le lagrime dell’amor di Dio le versano solo i santi, ed essi pure non tutti. S. Tommaso piangeva d’amore. Quest’uomo alto, grosso, bruno — magnus, grossus, brunus, come dice il suo primo biografo, — che quand’era in viaggio, i contadini dal campo segnavano a dito e stupiti lo guardavano oltrepassare poderosamente, era di una delicatezza materna: confratelli e discepoli se ne meravigliavano. In Napoli, una Domenica di Passione, tutto il popolo lo vide effondersi in pianto, mentre celebrava; ogni giorno, celebrando, piangeva. Ed appena in coro la voce dei frati, in toni melanconiosi, cantava l’antifona Media vita in morte sumus: quem quærimus adiutorem nisi te Domine?… Sancte Deus, Sancte Fortis, Sancte Misericors, Salvator, amaræ morti ne tradas nos! » sempre Tommaso, il volto tra le mani, piangeva come un bambino. – Prima di giungere a questa sublime intimità con Dio, belle prove d’amore aveva saputo dargli. Gli aveva dimostrato che l’amava più della gloria e dell’opulenza tra cui era nato; che l’amava più di suo padre e di sua madre, de’ suoi due fratelli e delle sue due sorelle; che l’amava con tutte le forze. L’amava più della gloria e dell’opulenza: la guerra tra il Papa e l’imperatore aveva fatto fuggire i monaci dalla badia di Montecassino, e Tommaso quattordicenne ritornò in famiglia, lasciando per sempre in convento gli abiti da benedettino. I suoi però, che non avevano deposto il pensiero di farlo abate, lo mandarono all’Università di Napoli: col risveglio culturale di quegli anni intuivano che un monaco non avrebbe potuto figurare dignitosamente da abate, se non fosse stato dottore. A Napoli invece l’aspettava il Signore per dirgli in occulto: « Ti voglio domenicano ». E i sette vescovati che sua madre sognava per lui? e la badia sul colle che suo padre sperava d’avere come baluardo inespugnabile? e la prelatura? « Signore non altro che Te ». – La primavera del 1244, che rivestiva le frondi di nuovo colore, vide Tommaso rivestito di bianco e di nero come le rondini immigranti in quell’aprile. Per fortuna suo padre era già morto. Ma l’imperiosa Teodora da Chieti, sua madre, non era donna d’acquietarsi a quell’umiliazione del casato. Corse a Napoli, e le fu risposto che Tommaso viaggiava per Roma; corse a Roma, e le fu risposto che Tommaso viaggiava per Bologna. Dunque c’era qualcuno che osava prendersi gioco della cugina di Federico II? Le vennero in aiuto gli altri due figliuoli, Rinaldo e Landolfo, luogotenenti entrambi nell’esercito imperiale, che era allora acquartierato nelle terre d’Acquapendente. – Sul mezzodì, quando Tommaso fuggitivo col Maestro generale ed altri frati pellegrini sedeva ad una sorgente per consumare un frugale ristoro, in una nugola di polvere comparvero numerosi cavalieri. Lo accerchiarono. Non intendevano maltrattarlo, ma solo strappargli l’abito domenicano. Tommaso balza in piedi, con la testa alta sopra le messi biondeggianti: si stringe la cappa in giro alla persona e con tutte e due le mani se la preme sul cuore come una bandiera. Tace, ma sta di contro con la sua statura e con la forza de’ suoi vent’anni. Quella veste gli era più cara del blasone colorato sul castello di Roccasecca; era per lui il simbolo di un amore più grande dell’amore per suo padre morto, per sua madre viva, per i fratelli armati, per le dolci sorelle lontane. Per quest’amore era pronto a battersi. Dovettero giurare di lasciarlo vestito com’era. Allora curvò la testa grossa e li seguì. Poi venne l’ultimo tormento. Gielo mandava suo fratello Rinaldo, poeta d’amore alla corte e soldato: giacché non lo si poteva indurre a riprendere l’abito benedettino, piuttosto che domenicano era meglio sopportarlo cadetto nel secolo. Ma quando il prigioniero udì risonare le scale sotto il passo della tentazione veniente, ghermì il tizzone e, come il turbine, si scagliò contro la disonesta faccia. Vinse. In questa vittoria d’amore per Gesù che si pasce tra i gigli, tutte le forze aveva consumate; solo gliene rimase quanto bastò a tracciare una croce sul muro e baciarla. Poi s’addormentò, o svenne. – Eppure la manifestazione più alta della fiamma che dentro gli ardeva, non penso che sia questa, ma un’altra. Una volta, in scuola, sospinto da una segreta forza a lodar Dio, confidò ai suoi scolari che in tutta la vita non aveva mai ceduto coscientemente a un moto di superbia. Il grande Maestro che l’Europa applaudiva, che vivo ancora si sentiva citato al fianco d’Aristotele e d’Agostino, non è mai disceso ad una compiacenza di sè. Quale incendio d’amore doveva avvolgerlo per controbilanciare la tirannia del demone della superbia che, anche per gli uomini mediocri, è implacabile? Dicono che la superbia è l’impudicizia dello spirito: allora S. Tommaso fu purissimo e nella carne e nello spirito, perciò era giusto che Dio si lasciasse amare da lui.
3. SERVIRE DIO
Quando, come tesi dottorale, il laureando Tommaso d’Aquino prendeva a svolgere il passo: Rigans montes de superioribus suis, de fructibus operum tuorum satiabitur terra, non immaginava come si sarebbero avverate per lui quelle parole: acqua che disseta le vette dell’intelligenza e frutto che sazia la brama del cuore riuscì la sua opera nel mondo. E sì che a Colonia, un po’ per quella carnagione pingue e floscia, — che egli credeva confacente allo studio, —- e un po’ per la sua taciturnità, i condiscepoli gli avevano affibbiato il nomignolo di bue muto. È perché parlare se si trattava soltanto di eccellere fra gli altri e accaparrarsi una qualche simpatia dai professori? Aveva un padrone solo da servire, lui; servire ogni altro è schiavitù. Oh, se anche noi lavorassimo solo e sempre per Dio, e non sperdessimo nella vanità, nella sensualità, nell’avarizia, troppe energie, che ci sono date per amare il Signore! – Con la bocca sigillata, dunque, il bue muto scavava intanto i solchi e rivoltava ad una ad una le zolle dell’umano sapere. Appena il servizio di Dio lo richiederà, ecco egli è pronto: volgesi indietro e lancia il suo muggito. – Nell’Università di Parigi s’agitava una rivolta contro i religiosi. Era uscito un trattatello livido di calunnie De novissimorum temporum periculis; gli ultimi tempi dell’anti-Cristo sono giunti, vi si diceva, e i falsi profeti sono i frati domenicani. L’infame libello, come accade per ogni satina d’attualità, clandestinamente prima e poi sfacciatamente, si leggeva da per tutto, perfino a Roma. Gli studenti ne tiravano le chiose più matte e maligne. Il Papa stesso pregava che si trovasse un rimedio per far cessare lo scandalo. Allora ad Anagni si raccolse il capitolo a cui i padri Domenicani più dotti intervennero, accasciati per quella guerra di calunnie. Davanti agli adunati, Umberto di Romans si mosse dal suo stallo, e con un bel gesto mise nelle mani di fra Tommaso il manoscritto paventato. Il giovane dottore lo raccolse come un guanto di sfida: « Padri miei, questo libro l’ho già letto: poggia sulla sabbia ». E facendolo scricchiolare nel suo pugno aggiunse: « Lo confuterò ». Il bue muto comincia a mugghiare. – Nella Chiesa si era da poco istituita la festa del Corpus Domini. Papa Urbano IV- domandò a Tommaso di comporne l’ufficiatura. Che dolce servizio ora gli chiedeva Gesù! E dal cuore del teologo e dell’aristotelico eruppe una vena di poesia prodigiosa. O strofe del Lauda Sion sonanti come angeliche fanfare! O misteriosi accenti del Tantum ergo entro cui fluirono tutte le lagrime ch’egli versava di notte davanti ai silenziosi tabernacoli! O cadenze eteree dell’Adoro te devote ove par di cogliere i respiri commossi dell’anima ! Fra tutti i carmi dei poeti, quelli di Fra Tommaso ebbero la fortuna più grande. Nelle Americhe e nell’Australia, nelle pampas e nelle tundre, sotto le guglie gotiche e sotto il bambù impastato di fango, dai re e dai pezzenti, dai dotti e dagli analfabeti, di notte e di giorno, comprese ed incomprese, ora e sempre fino alla fine del mondo, quei carmi risuoneranno. Il bue muto ha dissuggellato la bocca ed il suo muggito ha riempito la terra davvero. – Ma un altro servizio, più diuturno e scabroso, ha reso a Dio e alla Chiesa e agli uomini di studio e di buona volontà. La diffusione della filosofia aristotelica nel sec. XII e XIII presentava un forte pericolo per la verità cattolica; tanto più che questa dottrina s’avanzava avvelenata dall’interpretazione degli Arabi, e specialmente di Averroé. Per una parte la potenza della sintesi, la profondità dei principi, il rigore delle deduzioni, affascinava i giovani studenti irresistibilmente. Ma per una altra parte, quella nuova filosofia insegnava che le anime degli uomini non sono immortali, che il mondo non ha avuto principio, che la fatalità lo governa, che il premio ed il castigo eterno sono una parabola per i semplici. Per ciò i Papi moltiplicavano le condanne contro lo Staggita e chi l’insegnava, poi che pareva impossibile il mettere una mano in quell’ingranaggio senza esserne stritolati. Ora venne Tommaso, prese nella sua morsa il pensiero della Grecia, gli strappò i pungiglioni velenosi, e lo gettò come uno sgabello ai piedi del Vangelo.
CONCLUSIONE
Sta scritto: « Chi vede Dio, muore ». La mattina del 6 dicembre 1273 mentre celebrava nella cappella di S. Nicola in Napoli, fu rapito in estasi e vide Dio. Doveva morire: non di terrore, ma di amore perché gli occhi che hanno visto la faccia del Signore, trovano così brutta la terra e le sue cose che ormai non possono se non desiderare di chiudersi nella morte, per vedere la Bellezza e l’Amore infinito. Da quella mattina non fu più lui: la gran Somma attendeva le ultime pagine, ma egli non lavorava più. Il medico non ci capiva niente: ma come sono ingenui i medici a voler capir tutto, quasi che l’uomo fosse solo carne ed ossa! Alla prima tappa del viaggio verso Lione, ove il Papa lo voleva per il gran concilio, s’accasciò. Fu trasportato nell’abbazia benedettina di Fossa Nova. Con che occhi riguardava quei neri monaci dalla sottile tonsura che rigirava a loro la testa! con che cuore ascoltava dal suo giaciglio le pacate salmodie, quelle salmodie che l’avevano accompagnato bambino, nei primi passi e che ora l’accompagnavano, non vecchio, all’ultimo passo! – Piangeva di commozione e di gratitudine, vedendo i monaci premurosi che nel rigore di quel febbraio andavano nella foresta a trascegliere i ceppi più belli e più secchi, e se li caricavano sulle loro spalle, poiché stimavano sacrilegio che la legna per riscaldare quel santo dottore fosse portata dalle bestie! Qualche monaco con scaltrezza piena di carità era riuscito a strappare un piccolo segreto a Fra Tommaso: il suo piatto preferito erano le aringhe fresche. Si mandò subito al mare a pescarle. – Tutto era finito. Già il suo pollice, stanco di rivolgere pergamene e fogli s’era fermato sulle pagine di un libro che Dio ha ispirato per le ultime estasi dei suoi santi: la Cantica. Già la sua bocca parlava d’Amore con parole che non si capiscono più in questo mondo. Quando il Viatico entrò nella cella, allargò le braccia e disse una preghiera che ogni cristiano, facendo una Comunione spirituale, dovrebbe ripetere ogni sera nell’addormentarsi:

« Ti ricevo Corpo Santissimo! prezzo del riscatto dell’anima mia… viatico del mio pellegrinaggio. Per amor tuo, Gesù, ho studiato, predicato, insegnato. Per te sono state, Gesù, le mie veglie; per te, Gesù, i miei lavori. Se qualche cosa avessi fatto che ti rincresce, mi sottometto alla correzione della Chiesa ».

Al termine d’ogni nostra giornata, al termine della vita, come sarebbe profondamente consolante ripetere queste parole! Le potremo ripetere soltanto se in tutti i giorni, in tutta la vita non avremo mai trascurato di conoscere, di amare, di servire Dio.

Insegnare agli ignoranti: che cos’è L’ERESIA e l’ERETICO

ERESIA

[G. Bertetti: I Tesori di S. Tommaso d’Aquino”, S.E.I. Ed. Torino, 1918]

1. Che cos’è l’eresia (in ep. la ad Cor., 11, lect. 4; in Ep. ad Tit. 3, lect. 2; S. Th., 2a 2e, q. III, art. 2). — 2. I gravissimi danni dell’eresia (Seni., 4, dist. 13, q. 2; in ep. 2a ad Timoth., 2, lect. 3; in Matth., 13, 26; 8. Th., 2a 2 a e , q. 11, art. 3).

1. Che cos’è l’eresia. — Secondo S. Gerolamo (in ep. ad Gal.), eresia è una parola greca, che significa elezione: ossia è l’eleggersi quella disciplina che ciascuno crede migliore. Di qui si possono ricavare due cose:

1° che l’eresia consiste essenzialmente nel seguire una privata disciplina, quasi per elezione propria, invece della disciplina pubblica dataci da Dio;

2° e insieme consiste nell’aderire pertinacemente ad una disciplina privata; poiché l’elezione importa una ferma adesione; eretico pertanto è detto colui che, sprezzando la disciplina della fede divinamente rivelata, segue con pertinacia il proprio errore.

Una cosa può appartenere in due modi alla disciplina della fede: direttamente o indirettamente. Direttamente come gli articoli di fede che son proposti a credersi di per se stessi: onde l’errore circa essi fa di per sé l’eretico, posto che vi sia la pertinacia; né può alcuno essere scusato da tal errore per ignoranza, principalmente intorno a quelle verità che la Chiesa solennizza e che comunemente sono in bocca dei fedeli, come il mistero della Trinità, la nascita di Gesù Cristo, e simili. Indirettamente spettano alla disciplina della fede quelle verità che non son proposte a credersi di per se stesse, ma, se si negassero, ne deriverebbe qualche cosa di contrario alla fede: così, se si negasse che Isacco fu figlio d’Abramo, ne seguirebbe un errore contrario alla fede, cioè che la Sacra Scrittura contenga qualche cosa di falso. Qui non si può accusar alcuno d’eresia, salvo che sia così ostinato da perseverare nel suo errore, anche quando scorgesse le conseguenze che ne deriverebbero. E dunque la pertinacia che fa l’uomo eretico: la pertinacia per cui nelle cose direttamente o indirettamente di fede non si vuol sapere di sottostar al giudizio della Chiesa. Tal pertinacia procede dalla radice della superbia, che fa preferire l’opinione privata a tutta la Chiesa. Onde l’Apostolo dice: « Se alcuno insegna diversamente e non s’acquieta alle sane parole del Signor nostro Gesù Cristo e alla dottrina ch’è conforme alla pietà, è un superbo che non sa nulla, ma si ammala per dispute e questioni di parole» ( la Tim., VI, 3, 4). Ogni eretico è nell’errore: ma non chiunque si trova nell’errore è eretico. Non è eretico, se il suo errore non è circa il fine della vita umana o circa quello che appartiene alla fede o ai buoni costumi. Eretico è chi erra circa il fine della vita umana (come chi sostenesse gli errori degli Stoici e degli Epicurei), chi erra circa la fede (come chi negasse la Trinità di Dio), circa i buoni costumi (come chi dicesse che la fornicazione non è peccato). Se però non è pertinace nel suo errore, ma è disposto a correggersi secondo la determinazione della Chiesa, e ciò non fa per malizia, ma per ignoranza, non è eretico. – Se poi ci furono dei sacri dottori che talvolta dissentirono circa le cose di fede, ciò accadde perché o si trattava di cose indifferenti per la fede o di cose bensì appartenenti alla fede ma non ancora definite dalla Chiesa: ma dopo che la Chiesa universale con la sua autorità ha pronunciato il suo giudizio, sarebbe eretico chi pertinacemente contraddicesse a tali definizioni. – E l’autorità della Chiesa risiede principalmente nel Sommo Pontefice: perciò S. Gerolamo scriveva a S. Damaso papa (in exposit. Symb.): « Quest’è la fede, o beatissimo padre, che abbiamo imparato nella Chiesa Cattolica; ma se qualcosa di meno esatto o di poco santo fosse stato per avventura esposto, noi desideriamo che sia emendato da te, che tieni la fede e la sede di Pietro. Se poi questa nostra esposizione sarà approvata dal giudizio del tuo apostolato, chiunque mi vorrà incolpare dimostrerà che non io sono eretico, ma è lui un inesperto o un malevole o anche un acattolico ».

2. I gravissimi danni dell’eresia. — L’eresia reca maggior danno che qualsiasi altro peccato, perché sovverte la fede, ch’è il fondamento di tutti i beni e senza di cui più nessun altro bene resta. – L’eresia è un vizio contagioso; degli eretici sta scritto che « molto s’avanzano nell’empietà e il loro discorso va serpendo come cancrena » (2a Tim., II, 16-17). D a principio, dicono cose vere e utili: ma poi quando si accorgono d’essere ascoltati, vi mescolano vomitando cose mortifere. Da principio nascondono la scienza, dicendo qualcosa di bene e predicando ai laici; poi inseriscono delle critiche contro il clero, che son volentieri accolte, e così allontanano il popolo dall’amar il clero, e per conseguenza dall’amar la Chiesa. Allora prendono a insegnare e a spiegare la lor malizia, cominciando da cose leggere e venendo finalmente alla manifestazione aperta di se stessi e della lor dottrina. – Perciò la Chiesa esclude gli eretici dal consorzio dei fedeli, e principalmente quei che corrompono altri, affinché non solo con l’anima ma anche con il corpo siano segregati da loro i semplici, che facilmente possono esser corrotti. Si deve estirpare il vecchio fermento, perché corrompe tutta la massa (la Cor., V, 7); si devono allontanare dal gregge i lupi per opera dei pastori (JOAN., 10); si devono estirpare gli omicidi, che tolgono agli uomini la vita corporale: dunque si devono molto più estirpare gli eretici, che tolgono la vita spirituale. Sì grave è il peccato degli eretici che si meritano non solo d’essere separati dalla Chiesa mediante la scomunica, ma ancor si meritano d’essere esclusi dal mondo mediante l a morte. Poiché è molto più grave corrompere la Fede per cui s’ha la vita dell’anima, che falsare la moneta per cui si provvede alla vita temporale. Laonde, se i falsi monetari e gli altri malfattori son subito mandati giustamente alla morte dai principi secolari, molto più gli eretici, non appena convinti d’eresia, possono non solo essere scomunicati, ma anche essere giustamente uccisi. – La Chiesa usa però misericordia per la conversione degli erranti; e perciò non subito condanna un eretico, ma « dopo la prima e la seconda correzione, » come insegna l’Apostolo (Tit., III, 10); che se poi si mantiene ostinato, la Chiesa, non sperando più della sua conversione, provvede alla salute degli altri, separandolo dalla Chiesa con sentenza di scomunica; poi lo abbandona al braccio secolare, perché con la morte lo levi via dal mondo. « Si devono resecare le carni putride, si deve cacciare la pecora scabiosa dall’ovile, affinché tutto il corpo e tutto l’ovile non imputridiscano e muoiano. Ario fu una sola scintilla in Alessandria: ma poiché non fu subito soffocata, la sua fiamma devastò tutto il mondo » ( S . GEROLAMO, in Galat., 5).

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Su questa questione dell’eresia ci sono alcuni “cani sciolti” che presumono di esprimere pareri liberi e dettati dai loro stati emotivi, non sempre lucidi, spesso isterici, non avendo nessuna cognizione di teologia dogmatica o ancor peggio, di teologia morale. A questi soggetti, di cui il Signore ci aveva a suo tempo parlato (Vangelo sec S. Matteo cap, VII, v. 6), e che San Pietro bene inquadrava nella sua Seconda Lettera al cap. II, v. 22, che si permettono di applicare le loro deliranti idee a chicchessia, non ultimo il Santo Padre Gregorio XVII, (uno che la teologia l’aveva insegnata per decenni ai massimi livelli), non avendo cura della propria anima e della loro salvezza, rispondiamo semplicemente con la dottrina della Chiesa, senza aggiungere nemmeno un trattino o una virgola. A questi “teologi da salotto allo sbaraglio” proponiamo un breve testo dal Compendio di Teologia Morale di E. Ione, un testo con imprimatur che è stato e rimane tuttora un pilastro inattaccabile ed inaccessibile a questi “novelli protestanti” che si credono cattolici tenendo però un piede nel personale “libero pensiero”, il magistero “fai da te”! Ci torna utile al proposito, un pensiero di De Maistre, riportato dal grande abate J. Berthier nel suo Sommario di teologia dogmatica e morale (p. 42): « Non vi è nulla di più infallibile che l’istinto dell’empietà. Guardate ciò che essa odia, ciò che la mette in collera, ciò che essa attacca sempre, ovunque e con furore: è la verità ».

123 § 3 . Infedeltà – Apostasia – Eresia.

I . L’infedeltà è la mancanza di fede in una persona non battezzata. Essa è peccato in quanto è colpevole, e allora si dice incredulità. – L’infedeltà, totalmente involontaria, non è affatto peccato. Chi colpevolmente trascura di conoscere la vera fede, pecca leggermente o gravemente secondo che la sua negligenza è leggera o grave. — Finché, però, uno non ha ancora alcun dubbio ragionevole riguardo alla religione che professa, non ha alcun obbligo grave di investigare oltre. — Quando ad alcuno le verità di fede sono state sufficientemente proposte a credere, l’infedeltà è sempre peccato grave.

124 II. L’apostasia è la completa defezione dalla fede  cristiana da parte di una persona che nel battesimo aveva ricevuta la vera fede (can. 1325, § 2). Si diviene, quindi, apostata, per es. negando l’esistenza di un Dio personale o la divinità di Gesù Cristo. Non è richiesta l’incorporazione ad una setta religiosa. I fedeli che professano la dottrina del comunismo, materialista e anticristiano, e anzitutto coloro che la difendono e se ne fanno propagatori, benché a parole talvolta protestino di combattere la religione, mentre di fatto, sia per la dottrina, sia con l’azione, dimostrano di essere ostili a Dio, alla vera religione e alla Chiesa di Cristo, sono da considerarsi apostati dalla fede cattolica (S. Uff. Decr. 1 luglio 1949, AAS, XLI. 1949, p. 334). Circa la scomunica cfr. n. 437. — Coloro che soltanto si iscrivono o danno appoggio a partiti comunisti o ad organizzazioni dipendenti da essi (Gioventù comunista, Unione Donne Italiane, Associazione Pionieri Italiani, Sindacati propriamente comunisti, ecc.) peccano, ma per questo solo non devono essere considerati apostati. Circa la ammissione ai sacramenti, cfr. n. 462, 3°, 702.

III. L’eresia è un errore dell’intelletto, in seguito al quale un battezzato nega pertinacemente una verità rivelata da Dio e proposta dalla Chiesa a credere, oppure ne dubita soltanto (can. 1325, § 2). Si nega pertinacemente una verità, quando la si nega nonostante si sappia che dalla Chiesa è proposta a credere come rivelata divinamente. Chi non sa questo per ignoranza colpevole, non diventa — è vero — eretico formale, negando tale verità, ma si rende gravemente o leggermente colpevole contro la fede secondo la gravità della negligenza. Lo stesso vale di un eretico che dubita della verità della sua religione, ma per leggerezza colpevole o per negligenza non cerca di investigare oltre la verità. Allora soltanto diverrebbe eretico formale, quando tralasciasse di investigare, perché è risoluto di non farsi cattolico, anche se venisse a conoscere che la religione cattolica è la vera.

Si ha il peccato di eresia, non il delitto punito dal diritto ecclesiastico, quando uno nega una verità che falsamente ritiene sia rivelata da Dio e proposta dalla Chiesa; inoltre, quando colui che nega una verità, è credente, ma non battezzato, per es. i catecumeni; in fine, quando uno nega una verità solo internamente, ma non lo manifesta all’esterno.

Poiché l’eresia, secondo la sua intima natura, è un errore dell’intelletto, colui che solo esternamente finge di negare una verità di fede, ma internamente ne è convinto, non è eretico. Egli non incorre neppure le relative pene, quantunque in foro esterno venga considerato come eretico. Egli, non di meno, pecca gravemente per la negazione della fede.

Benché chi dubiti pertinacemente di una verità di fede sia eretico, pure non è eretico colui che sospende semplicemente il suo giudizio su una verità proposta da credere, senza però dubitarne positivamente; pecca ad ogni modo contro l’obbligo di fare un atto di fede. Chi, in una tentazione contro la fede, vacilla fra la resistenza e il consenso, ma non sospende con piena coscienza il suo assenso, pecca leggermente, perché resiste alla tentazione con negligenza.

Se siano eretici anche i Liberali, i Socialdemocratici o Socialisti, ciò dipende dal grado di adesione ai principi di tali partiti. È eretico per es. chi ritiene che lo Stato cristiano debba essere del tutto indipendente dalla Chiesa o che la Chiesa sia soggetta allo Stato. Similmente è eretico chi, per principio, non vuole riconoscere alla religione nessuna influenza sulla vita pubblica; chi, al posto del matrimonio, vuol sostituire il libero amore; chi afferma che la proprietà privata è un furto. — Tuttavia, per mancanza di istruzione, tali persone si trovano, alle volte, in buona fede. Se sia lecito al confessore di lasciarle così dipende dalla qualità del loro errore e dal maggiore o minore scandalo che danno. In particolare, sono da tener presenti, anche le istruzioni dei singoli vescovi. Poiché l’eresia presuppone una rivelazione divina, non è eretico chi nega una verità che è proposta a credersi dal magistero infallibile della Chiesa, ma che non è rivelata da Dio; pecca però gravemente. — Chi aderisce a una dottrina, la quale fu bensì condannata, ma non dal magistero infallibile della Chiesa, pecca non contro la fede, ma contro l’obbedienza dovuta alla Chiesa, fin tanto che non sia certamente dimostrato il contrario. – L’approvazione, da parte della Chiesa, di rivelazioni private importa soltanto che esse non contengono nulla contro la fede e i buoni costumi. Chi le nega, perché non persuaso che vengano da Dio, non pecca mai gravemente.

Nota: Lo scisma.

Lo scisma è ordinariamente congiunto con l’eresia. In tal caso, vale per gli scismatici quanto si disse degli eretici. — Se si presenta senza eresia, non costituisce peccato contro la fede, ma contro la carità. Per maggiori schiarimenti cfr. n. 43.

– Da: Eribero Jone, O.F.M. Cap.: Compendio di teologia morale, 3a ed. it. dalla 14° tedesca; Marietti ed. 1952. –

 

Prima di aprir bocca, consiglio a coloro cui piace giocare al “piccolo teologo deficiente”, di procurarsi almeno un manuale di teologia, anche un “Bignamino” per essi va benissimo!

Si consulti pure la voce dalla Enciclopedia Cattolica in:

ERESIA

SCUDO DELLA FEDE: -IV- LE PROFEZIE

LE PROFEZIE.

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

Ciò che siano le profezie.-Loro possibilità. — Loro esistenza. — Loro oggetto.—

Loro avveramento. — Le Profezie di Gesù Cristo. — La forza dimostrativa delle profezie.

— Dunque che cosa sono propriamente le profezie?

⁕ Eccomi a dirtelo. Le profezie sono predizioni certe di un avvenimento futuro, che non si può vedere nelle cause naturali. Sono predizioni di un avvenimento futuro, e cioè le profezie devono evidentemente essere anteriori all’avvenimento, che annunziano; sono predizioni certe, cioè devono determinare tale avvenimento specificamente, ossia in termini chiari, precisi, netti, scevri di equivoci; tale avvenimento non deve essere veduto nelle cause naturali, vale a dire, deve essere tale, che non si possa in nessuna causa naturale prestabilire, che umanamente sia impossibile a conoscersi, che solamente Iddio, il quale vede anche il futuro, lo conosca.

— Vuol dire, che un medico, il quale predica le fasi e il termine di una malattia appoggiato a sintomi, che conosce per esperienza, non sarebbe profeta.

⁕ Precisamente. Come non lo sarebbe quell’astronomo, che sottopone a calcoli il cammino regolare degli astri e annunzia le loro fasi diverse, l’epoca precisa, in cui comparirà o ricomparirà quella meteora, e cose simili; perciocché tutte queste cose mercè la scienza si possono in cause naturali prevedere. E neppure non si possono chiamare profeti coloro, i quali dotati di alto buon senso pratico, da certi disordini, che avvengono tra gli uomini in questo o in quell’altro paese, ne predicono delle gravi sventure. Il vero profeta è colui, che predice gli avvenimenti futuri solo perché è Iddio onniveggente che glieli fa conoscere.

— Un profeta allora dovrà essere in comunicazione con Dio? Certamente. Il futuro, che umanamente, in nessuna causa naturale non si può conoscere, è Dio solo, che lo vede e conosce, non essendovi per lui né passato né futuro, ma tutto presente. Perciò, affinché l’uomo conosca questo futuro, bisogna che in qualche modo sia messo in comunicazione con Dio, ossia che Iddio glielo faccia conoscere.

— E in quale modo ciò accade?

⁕ Ciò può avvenire in modi vari e diversi, Iddio può far conoscere all’uomo il futuro facendolo udire direttamente al suo orecchio, o illustrando miracolosamente la sua niente, o dipingendolo al suo sguardo con simboli, segni, figure, immagini, o dandogliene un’intima persuasione, o manifestandoglielo per mezzo degli Angeli, o in altri modi simili come appunto ci apprendono i libri santi.

— Ma è possibile che Iddio riveli a certi uomini il futuro da predire!

⁕ Ascolta. Tutte le religioni, anche false, vantano dei profeti. Ora è certissimo, come meglio rileveremo in seguito, che coloro i quali passano per profeti nelle false religioni, non sono tali. Non di meno questa pretesa, che le stesse false religioni sparse per tutto il mondo hanno, di aver dei profeti non dimostra chiaro, che per tutto il mondo si è sempre ritenuto che la Divinità si ponga talora in comunicazione con l’uomo per rivelargli il futuro da predire? Ora vorresti che sia impossibile ciò, che tutto il mondo ha sempre ritenuto che non solo sia possibile, ma realmente si effettui? Lo so benissimo che i razionalisti dicono impossibile, assurda la profezia, ma per tal guisa si mettono in opposizione alle credenze ed alla storia di tutti i popoli, precisamente come fa l’ateo quando nega Iddio. Del resto ammetti tu che Dio conosca il futuro?

— Ciò sarebbe impossibile il non ammetterlo.

⁕ Vedi: se a Dio si negasse il conoscimento del futuro, bisognerebbe negargli anche la sua provvidenza, che non è altro che prevedere e regolare il presente in ordine al futuro; bisognerebbe dire che tutto il mondo si regge a caso, che Iddio deve subirne gli effetti imprevisti, che Dio è soggetto ad essere giuocato dalle sue creature. E allora non sarebbe minor male negare addirittura l’esistenza di Dio?

— Queste cose sono chiare e non abbisognano di dimostrazioni.

⁕ Dunque se Dio conosce il futuro, perché non potrà a chi, quando e come gli piaccia rivelarlo? Negando a Dio il potere di manifestarci l’avvenire, forse che gli si faccia meno torto che ricusandogli quello di conoscerlo? La profezia perciò è possibile, possibilissima.

— Vi sono dunque stati realmente degli uomini, che abbiano fatto delle vere profezie? Certo. Essi rispondono ai nomi di Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Samuele, Davide, Salomone, Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, Amos, Malachia ed a non pochi altri. Suscitati da Dio essi comparvero sulla faccia della terra, gli uni dopo gli altri lungo il corso dei secoli, che precedettero la venuta di Gesù Cristo. Di essi chi fu semplice pastore, chi legislatore, chi giudice, chi re, chi sacerdote, chi ministro in una qualche corte regale, chi di altra condizione. Tutti con la santità della vita fecero onore alla loro missione, giacché essi menarono tutti una vita austera ed illibata, e se qualche volta taluno di essi commise qualche fallo, lo pianse poscia amaramente. Non cercarono né onori, né ricchezze, ma unicamente la gloria di Dio e la conversione delle anime, e ciò anche a costo della loro vita; difatti Isaia, Geremia, Baruch, Ezechiele e vari altri affrontarono oltraggi, tormenti e sanguinosi supplizi per quella santa ed indomabile libertà, di cui giustamente andarono alteri nella missione, che avevano ricevuta da Dio, di annunziare la verità e profetare altresì terribili castighi a coloro, che non volevano conoscerla e seguirla.

— Sta bene tutto ciò, e mi compiaccio di saperlo. Ma di qual maniera questi veri profeti attestarono di essere tali? Senza dubbio essi dovettero dare delle prove che erano divinamente ispirati in ciò che profetavano, e le prove dovevano essere esterne e certe così da togliere della loro missione ogni dubbio. E tali prove le diedero non solo con l’elevatezza del loro linguaggio, con la convinzione profonda di quel che annunziavano, con l’eccellenza della dottrina che predicavano e con la santità della vita che menavano, ma perentoriamente coi miracoli che andavano operando. Chi a conferma di una profezia che fa, compie altresì dei veri miracoli, dimostra chiaramente che è ispirato, mandato da Dio.

— E che cosa profetarono?

⁕ L’oggetto principalissimo delle profezie fu Gesù Cristo con tutto ciò che a Lui necessariamente si riferiva e congiungeva, e cioè gli Apostoli, la Chiesa, le sue sorti, la sua vita, le sue grandezze, eccetera.

— E questi profeti hanno ciascuno profetato interamente tale oggetto delle profezie? ⁕ Eh! no. Ed è questo appunto, che desta una gran meraviglia al considerarlo. I profeti furono in gran numero e di ogni età, e l’uno predisse una cosa e l’altro un’altra, e con queste predizioni particolari di ciascuno ne risultò un complesso di profezie perfetto ed esatto.

— E ciò non potrebbe essere opera del caso?

⁕ Opera del caso il complesso delle profezie? Ma prendendo tu in mano la Divina Commedia di Dante, anche quando non sapessi nulla affatto del suo autore, oseresti dire che sia opera del caso? Come mai il caso avrebbe potuto mettere insieme quei versi, quelle terzine, quei canti e formarne quell’opera magistrale? E così come potresti credere, che il caso abbia potuto coordinare ad un solo e medesimo oggetto futuro le parole di una bella schiera di uomini diversi lungo il corso di quattromila anni?

— Capisco, ciò è assolutamente impossibile. Ma è poi certo che tutte quante le profezie si siano avverate?

⁕ Certissimo. E per convincersi di ciò non occorrerebbe far altro che confrontare le profezie col santo Vangelo. In questo confronto si vedono come due copie di un medesimo libro. Senza dubbio le profezie essendosi svolte successivamente ed essendo state dette l’una riguardo a un fatto, l’altra riguardo ad un altro, fa d’uopo unirle insieme e metterle ciascuna al suo posto. Ma come quando esistono e si ritrovano i frammenti di un’antica iscrizione, con un lavoro intelligente e paziente si possono mettere assieme ed ordinarli in guisa da riavere tutta intera l’iscrizione, così si può fare e si è fatto riguardo alle profezie, giacché esse e il loro adempimento bisogna che siano considerate non isolatamente, ma nel tutto insieme.

— Amerei di intendere un saggio almeno delle profezie.

⁕ Eccomi ad appagarti. – Il precursore di Gesù Cristo, S. Giovanni Battista, fu profetato da Isaia 750 anni all’incirca, e da Malachia 450 innanzi con queste parole: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i sentieri del Dio nostro. (V. in Isaia, Capo XL, Versetto 3; ed in Malachia, Capo III, Versetto 1 e seguenti). La Madre di Gesù Cristo fu da Isaia profetata così: Ecco che una Vergine concepirà e darà alla luce un Figlio, che si chiamerà l’Emanuele, ossia Dio con noi (V. Isaia, Capo VII, Versetto l4). La città, in cui nacque Gesù Cristo, fu profetata da Michea 750 anni innanzi in questo modo: Da te, o Betlemme, uscirà il dominatore in Israele e la sua uscita è dal principio, dai giorni dell’eternità (V. Michea, Capo V. Versetto 2). Il tempo, in cui nacque il Redentore, fu indicato 1700 anni avanti dal Patriarca Giacobbe, che stando per morire disse: Non sarà tolto lo scettro dal regno di Giuda fino a che venga chi deve essere mandato, ed egli sarà l’aspettazione delle genti (V. Genesi, Capo XLIX, Versetto 10). – I profeti Aggeo e Daniele lo determinarono anche con maggior precisione dicendo, che prima della distruzione del secondo tempio di Gerusalemme doveva venire il Re della pace, e che si dovevano contare circa 490 anni della promulgazione del decreto di riedificazione di Gerusalemme alla venuta del Santo dei Santi (V. Aggeo e Daniele, Capo II). –  I miracoli, che Gesù Cristo avrebbe operati, li predisse chiaramente Isaia in questa guisa: Dio stesso verrà e ci salverà. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi intenderanno. Allora lo zoppo salterà come un cervo, e la lingua dei muti sarà sciolta (V. Isaia, Capo XXXV, Versetti 4, 5, 6). – La passione di Gesù Cristo fu profetata nelle più minute circostanze dell’odio dei maggiorenti di Gerusalemme, del tradimento di Giuda, della fuga degli Apostoli, della flagellazione, dello strappo delle vesti, degli insulti, della crocifissione, eccetera, da Davide 1500 anni prima, con tanti passi, che sarebbe troppo lungo ricordarti. Ma di ciò basti, perché da questo saggio poi arguire esattamente di tutte le altre profezie numerosissime e particolarissime.

— Ma ho inteso dire che Gesù Cristo da giovane apprese le profezie e poi affine di farli avverare si è acconciato alle medesime?

⁕ Già, anche questo si dice da certi pretesi sapienti dei giorni nostri. Ma dimmi un po’ come avrebbe fatto Gesù Cristo per far avverare ad esempio le profezie riguardanti la propria nascita, se egli non era Dio? Hai mai inteso dire che un uomo, sia pure il più sapiente e potente, prima di nascere si sia eletto i genitori, il tempo, il luogo, e le circostanze della propria nascita? Vedi a quali assurdi e stupidezze arrivano certi falsi dottori, che nel loro orgoglio non si vogliono arrendere alla luce della verità.

— È proprio così: non si può disconoscerlo.

⁕ E poi resterebbero a spiegare le profezie? che ha pur fatto lo stesso Gesù Cristo.

Come? Anche Gesù Cristo fu profeta?

⁕ Senza dubbio, e precisamente secondo ché i profeti dell’antica legge avevano annunziato. Basta che tu legga il Vangelo per riconoscere, come Gesù Cristo profetò la sua morte e quasi tutte le circostanze della sua passione, le persecuzioni e la morte violenta cui sarebbero andati incontro i suoi discepoli, la conversione del mondo, la diffusione del Vangelo, lo stabilimento della sua Chiesa e la sua vita immortale, cose tutte che si sono perfettamente avverate o che continuano tuttora ad avverarsi.

— È vero che Gesù Cristo profetò eziandio la totale rovina di Gerusalemme?

⁕ Sì, questa è una delle sue più celebri profezie. Un giorno discendendo egli col popolo il colle degli Olivi, vede da lungi questa sventurata città: l’anima sua si commuove ed esclama: « Gerusalemme, per te verranno giorni, nei quali i tuoi nemici ti accerchieranno con trincee e ti stringeranno d’ogni lato. Essi ti getterano a terra, te, i tuoi figli, e tutti quelli che sono entro le tue mura, e di te non lasceranno pietra sopra pietra, perché tu non hai riconosciuto i l tempo della visita di Dio ». (V. Vangelo di S. Luca, Capo XIX, versetti 43, 44). – I n altra circostanza parlando del tempio disse ai suoi discepoli: « Vedete voi tutte queste cose? Ebbene vi dico in verità, che tutto sarà distrutto e non si lascerà più pietra sopra pietra… e non passerà questa generazione prima che avvenga questa calamità » (V. Vangelo di S. Matteo, XXIV, versetti 2 e seguenti).

— E tutto ciò è avvenuto!

⁕ Ah! il furore del popolo romano giustificò alla lettera queste tristi predizioni, non ostante l’intenzione e gli ordini di Tito. E passati tre secoli dall’eccidio di quella città, Giuliano l’Apostata volle rendere inadempiuta la profezia di Cristo, ch’egli sdegnosamente chiamava il Galileo, e si accinse alla riedificazione del tempio. Ma non appena gli ebrei sotto la direzione del loro capo Alipio ebbero messo allo scoperto le fondamenta del tempio rovinato, la terra orribilmente si scuote, fiamme spaventevoli escono da ogni parte avventandosi contro gli operai e incenerendone un gran numero insieme coi loro strumenti, sicché si dovette abbandonare l’impresa; e rimosse per tal guisa le poche pietre che ancor rimanevano dell’antica casa di Jehovah, si avverava nel modo più preciso e completo la profezia di Gesù Cristo. E nota bene, che il fatto, oltreché dagli storici cristiani contemporanei, è narrato dallo stesso Ammiano Marcellino, ufficiale fidatissimo dell’imperatore Giuliano l’Apostata, il quale avrebbe avuto tutto l’interesse a negarlo, se fosse stato possibile.

— Tutto ciò è di una forza incontestabile. Ma ora vorrei intendere, come mai le profezie siano una prova della verità di quella fede, che la Chiesa cattolica insegna.

⁕ È ciò appunto, cui mirava condurti. Attento bene. Già ti ho detto che Dio solo può conoscere il futuro e comunicarne agli uomini il conoscimento, e che perciò se vi ha tra gli uomini chi abbia profetato, ossia predetto il futuro, che poi si è perfettamente avverato, non è per altra ragione se non perché Dio glielo ha o in un modo o in un altro rivelato, se non perché Dio stesso è intervenuto nelle profezie. – Ma i profeti nel mentre che hanno profetato, hanno pure insegnato una dottrina, hanno profetato ed insegnato i misteri dell’Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, hanno profetato ed insegnato la SS. Eucaristia, la Verginità di Maria, la fondazione della Chiesa, eccetera, eccetera: hanno profetato ed insegnato cioè quanto ha poi insegnato lo stesso Gesù Cristo, quanto hanno insegnato gli Apostoli, quanto insegna presentemente la Chiesa Cattolica. Dunque Iddio con le profezie, col suo intervento nelle medesime, ha dimostrato chiaramente la verità di tale insegnamento; giacché non è possibile, che Egli sia intervenuto per approvare la menzogna. Se fosse così, Dio ci avrebbe ingannati, avrebbe apposto il suo suggello all’errore.

— Ho inteso. Ma appunto perciò; che la Chiesa insegna la stessa dottrina che hanno insegnato i profeti, non si potrebbe pensare, che la Chiesa abbia inventati essa i libri delle profezie?

⁕ Perdona, caro mio, ma mi fai veramente ridere. Tutti i libri sacri, presso dei quali si

trovano le profezie, erano in possesso degli Ebrei molti secoli innanzi la venuta di Gesù Cristo, e 250 anni incirca prima della sua nascita furono tradotti dall’ebraico in greco con la massima fedeltà possibile, d’ordine del re d’Egitto Tolomeo Filadelfo, da settanta dotti, propriamente per accontentare i numerosi Ebrei, che dopo la conquista di Gerusalemme fatta da Nabucodònosor si erano rifugiati nel suo regno, e che desideravano avere in lingua ellenica, divenuta per essi nuova lingua madre, i Libri santi per farne la lettura nel servizio religioso del sabbath e nelle riunioni delle sinagoghe. Anche presentemente gli Ebrei conservano quei libri, i quali alla fin fine sono la condanna della loro ostinazione a non voler riconoscere la venuta di Gesù Cristo. E tutto ciò non dimostra chiaro, chiarissimo, essere assolutamente impossibile che le profezie siano state inventate dalla Chiesa?

— Sono convinto, di quanto ho appreso.

⁕ E se sei convinto, devi conchiudere che la fede cattolica, ossia il complesso di tutti gli insegnamenti della Chiesa, è vera e divina, perché a comprova di tale verità e divinità, ha le profezie perfettamente avverate, le quali hanno per autore lo stesso Iddio.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: IMMORTALE DEI.

Nella precedente domenica abbiamo letto “Diuturnum illud”, l’enciclica di S. S. Leone XIII che prelude ad “Immortale Dei”, lettera Enciclica di fondamentale importanza, come la precedente, per orientare i fedeli cattolici nella vita civile e politica. Si tratta di una lettera molto densa di contenuti, di argomenti cruciali e che merita tutta a nostra attenzione. L’analisi delle situazioni civili e politiche è lucidissima e sempre guidata dal lume della rivelazione contenuta nelle sacre Scritture e nella Tradizione dei Padri. I commenti sarebbero troppo lunghi e complessi, qui ci limitiamo a riportare solo pochissimi righi vergati dal Sommo Pontefice, e per la precisione il momento in cui parla dei punti fermi che devono guidare l’azione politica di un cattolico: “ … a questo proposito, affinché accuse sconsiderate non mettano in forse la concordia degli animi, tutti tengano a mente alcuni punti fermi: che l’integrità della professione cattolica non può in alcun modo conciliarsi con opinioni che si aprano al Naturalismo o al Razionalismo, il cui intento è sostanzialmente quello di distruggere dalle fondamenta la concezione cristiana e di stabilire nella società il primato dell’uomo, dopo aver scalzato quello di Dio. Parimenti non è lecito tenere in privato una linea di condotta e in pubblico un’altra, cioè riconoscere l’autorità della Chiesa nella vita privata e sconfessarla in pubblico.” … Altre indicazioni illuminanti sono però sparse in tutta l’enciclica, che merita veramente la nostra somma attenzione:

Leone XIII


Immortale Dei

Lettera Enciclica

Quell’immortale opera di Dio misericordioso che è la Chiesa, sebbene in sé e per sua natura si proponga come scopo la salvezza delle anime e il raggiungimento della felicità celeste, pure anche nel campo delle cose terrene reca tali e tanti benefìci, quali più numerosi e maggiori non potrebbe se fosse stata istituita al precipuo e prioritario scopo di tutelare e assicurare la prosperità di questa vita terrena. E veramente dovunque la Chiesa abbia posto piede ha immediatamente cambiato l’aspetto delle cose, ha instillato nei costumi dei popoli virtù prima sconosciute e una nuova civiltà: e i popoli che l’accolsero si distinsero per l’umanità, per l’equità, per le imprese gloriose. Eppure resiste quella tradizionale e oltraggiosa accusa secondo cui la Chiesa sarebbe in contrasto con gl’interessi dello Stato e del tutto incapace di dare un contributo a quelle esigenze di benessere e di decoro, cui a buon diritto e naturalmente tende ogni società ben ordinata. Sappiamo che fin dai primi tempi della Chiesa i cristiani erano perseguitati in nome di analogo, iniquo pregiudizio, e che si soleva anche additarli all’odio e al sospetto come nemici dell’impero: allora il popolo amava far ricadere sul nome cristiano la colpa di qualunque sventura si fosse abbattuta sullo Stato, quando invece era la giustizia di Dio che esigeva dai peccatori la dovuta espiazione delle loro scelleratezze. L’atrocità di simile calunnia giustamente armò l’ingegno ed affilò la penna di Agostino, il quale, particolarmente nella Città di Dio, illuminò di tanta luce l’efficacia della dottrina cristiana anche per quanto attiene alla vita sociale, che non sembra tanto aver difeso la causa dei cristiani del suo tempo, quanto aver riportato un trionfo imperituro su tutte le false calunnie. – Non si placò tuttavia la funesta voglia di simili accuse e denigrazioni, e a moltissimi piacque attingere le norme del vivere sociale altrove piuttosto che dalle dottrine approvate dalla Chiesa cattolica. Anzi, in questi ultimi tempi cominciò a prevalere e a farsi dominante ovunque quello che chiamano nuovo diritto, che proclamano essere come il frutto di un secolo ormai adulto, maturato attraverso il progredire della libertà. Ma, per quanto molti si siano cimentati in tanti modi, appare chiaro che non è stato ancora trovato un metodo, per costituire e governare gli Stati, che sia migliore di quello che fiorisce spontaneamente dalla dottrina evangelica. Riteniamo pertanto di grande importanza e del tutto conforme al Nostro Ufficio Apostolico il confrontare le moderne teorie sociali con la dottrina cristiana: in tal modo confidiamo che, mentre si fa strada la verità, vengano meno i motivi di errore e incertezze, sicché chiunque possa facilmente discernere quelle fondamentali norme di condotta cui dovrà attenersi e obbedire. Non è difficile stabilire quali sarebbero l’aspetto e la struttura di uno Stato che fosse governato sulla base dei principi cristiani. Il vivere in una società civile è insito nella natura stessa dell’uomo: e poiché egli non può, nell’isolamento, procurarsi né il vitto né il vestiario necessario alla vita, né raggiungere la perfezione intellettuale e morale, per disposizione provvidenziale nasce atto a congiungersi e a riunirsi con gli altri uomini, tanto nella società domestica quanto nella società civile, la quale sola può fornirgli tutto quanto basta perfettamente alla vita. E poiché non può reggersi alcuna società, senza qualcuno che sia a capo di tutti e che spinga ciascuno, con efficace e coerente impulso, verso un fine comune, ne consegue che alla convivenza civile è necessaria un’autorità che la governi: e questa, non diversamente dalla società, proviene dalla natura e perciò da Dio stesso. Ne consegue che il potere pubblico per se stesso non può provenire che da Dio. Solo Dio, infatti, è l’assoluto e supremo Signore delle cose, al quale tutto ciò che esiste deve sottostare e rendere onore: sicché chiunque sia investito del diritto d’imperio non lo riceve da altri se non da Dio, massimo Principe di tutti. Non v’è potere se non da Dio (Rm 13,1). Il diritto d’imperio, poi, non è di per sé legato necessariamente ad alcuna particolare forma di governo: questo potrà a buon diritto assumere l’una o l’altra forma, purché effettivamente idonea all’utilità e al bene pubblico. Ma in qualsiasi tipo di Stato i principi devono soprattutto tener fisso lo sguardo a Dio, sommo Reggitore del mondo, e proporsi Lui quale modello e norma nel governo della comunità. Così come nelle cose visibili Dio creò le cause seconde perché vi si potessero scorgere in qualche modo la natura e l’azione divina, e perché indicassero il fine ultimo al quale sono dirette tutte le cose, allo stesso modo volle che nella società civile esistesse un potere sovrano, i cui depositari rimandassero in qualche modo l’immagine della potestà divina e della divina provvidenza sul genere umano. L’esercizio del potere deve quindi essere giusto, non da padrone, ma quasi paterno, poiché il potere di Dio sugli uomini è sommamente giusto e permeato di paterna benevolenza; deve essere esercitato in vista dell’utilità dei cittadini, poiché chi detiene il potere governa con quest’unico compito, di tutelare il bene dei cittadini. Né in alcun modo deve accadere che l’autorità civile serva l’interesse di uno o di pochi, una volta che è stata istituita per il bene comune. Ché se i governanti si abbandoneranno ad un ingiusto dominio, se peccheranno di durezza o di superbia, se non provvederanno adeguatamente al bene del popolo, sappiano che dovranno un giorno render ragione a Dio, e con tanta maggior severità, quanto più venerabile ufficio avranno ricoperto e più sublime dignità avranno conseguito. “I potenti saranno puniti duramente” (Sap 6,7). In tal modo il rispetto dignitoso e spontaneo dei cittadini si assocerà alla maestà del comando. Una volta persuasi, infatti, che l’autorità di chi governa proviene da Dio, si convinceranno che è giusto e doveroso seguire i dettami dei Principi e tributare loro ossequio e fiducia con quella sorta di devozione che i figli devono ai genitori. “Ogni anima sia soggetta alle sublimi potestà” (Rm 13,1). Spregiare il potere legittimo, in qualsiasi persona esso s’incarni, non è lecito più di quello che sia l’opporsi alla volontà divina: chi si oppone a questa, precipita in volontaria rovina. “Chi resiste all’autorità, resiste all’ordinamento divino; coloro che resisteranno si attireranno addosso la condanna” (Rm 5,2). Pertanto, rifiutare l’obbedienza, e con la violenza popolare provocare sedizioni, è crimine di lesa maestà non solo umana ma anche divina. – È chiaro che una società costituita su queste basi deve assolutamente soddisfare ai molti e solenni doveri che la stringono a Dio con pubbliche manifestazioni di culto. La natura e la ragione, che comandano ad ogni singolo individuo di tributare a Dio pii e devoti atti d’ossequio, poiché tutti siamo in Suo potere e tutti, da Lui originati, a Lui dobbiamo ritornare, impongono la stessa legge alla società civile. Gli uomini uniti in società non sono meno soggetti a Dio dei singoli individui, né la società ha minori doveri dei singoli verso Dio, per la cui volontà è sorta, per il cui assenso si conserva, dalla cui grazia ha ricevuto l’immenso cumulo di beni che possiede. Perciò, come a nessuno è lecito trascurare i propri doveri verso Dio – e il più importante di essi è professare la religione nei pensieri e nelle opere, e non quella che ciascuno preferisce, ma quella che Dio ha comandato e che per segni certi e indubitabili ha stabilito essere l’unica vera – allo stesso modo le società non possono, senza sacrilegio, condursi come se Dio non esistesse, o ignorare la religione come fosse una pratica estranea e di nessuna utilità, o accoglierne indifferentemente una a piacere tra le molte; ma al contrario devono, nell’onorare Dio, adottare quella forma e quei riti coi quali Dio stesso dimostrò di voler essere onorato. Santo deve dunque essere il nome di Dio per i Principi, i quali tra i loro più sacri doveri devono porre quello di favorire la religione, difenderla con la loro benevolenza, proteggerla con l’autorità e il consenso delle leggi, né adottare qualsiasi decisione o norma che sia contraria alla sua integrità. – È questo il loro dovere anche verso coloro che essi governano. Infatti noi tutti siamo uomini nati e cresciuti in vista di quel supremo ed ultimo bene al quale devono essere rivolti tutti i pensieri, il bene che è posto oltre questa fragile e breve vita, nei cieli. Ora, poiché da ciò dipende la completa e perfetta felicità degli uomini, il conseguire il fine di cui s’è detto è cosa di tale importanza per ognuno, che nulla può essere di maggior momento. È necessario dunque che la società civile, istituita per l’utilità comune, nel perseguire la prosperità dello Stato provveda a che i cittadini, nel loro cammino verso la conquista di quel sommo e immutabile bene al quale naturalmente tendono, non solo non vengano in alcun modo ostacolati, ma siano favoriti con ogni opportunità. La principale di queste è operare perché sia salva e inviolata la religione, i cui obblighi mantengono saldo il legame fra l’uomo e Dio. Quale sia poi la vera Religione, senza difficoltà può vedere chi giudichi con metro sereno e imparziale: poiché è evidente per moltissime e luminose prove, per la verità di indubitabili vaticinî, per la frequenza dei miracoli, per la diffusione straordinariamente rapida della fede anche in mezzo a nemici e fra gravissimi ostacoli, per la testimonianza dei martiri e per altre simili, che l’unica vera è quella che Gesù Cristo stesso ha fondato ed affidato alla sua Chiesa perché la difendesse e la propagasse. Infatti l’Unigenito figlio di Dio istituì sulla terra quella società, che chiama Chiesa, alla quale trasmise, perché la continuasse nei secoli, l’eccelsa e divina missione, che Egli stesso aveva ricevuto dal Padre. “Come il Padre mandò me, anch’io mando voi” (Gv XX,21). “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt XXVIII,20). Dunque, come Gesù Cristo venne sulla terra perché “gli uomini abbiano la vita e ne abbiano in abbondanza” (Gv X,10), allo stesso modo la Chiesa si propone come fine la salvezza eterna delle anime; per questo motivo essa è tale, per sua natura, da offrirsi per abbracciare l’intero genere umano, senza limiti di tempi e di luoghi. “Predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc XVI,15). A una così vasta moltitudine di uomini Dio stesso assegnò magistrati con il potere di governarla: e tra tutti volle che uno fosse il primo, il supremo e infallibile maestro di verità, e a lui affidò le chiavi del regno dei cieli. “A te darò le chiavi del regno dei cieli” (Mt XVI,19). “Pasci gli agnelli… pasci le pecore” (Gv XXI,16-17). “Io pregai per te, perché non venga meno la tua fede” (Lc XXII,32). – Questa società, sebbene sia composta di uomini non diversamente dalla società civile, tuttavia, per il fine al quale tende e per i mezzi di cui si serve per conseguirlo, ha carattere soprannaturale e spirituale, e in questo si distingue e differisce dalla società civile; ciò che soprattutto conta, essa è una società nel suo genere e nel suo assetto giuridico perfetta, dal momento che possiede, per volontà e grazia del suo fondatore, in sé e per se stessa tutti gli strumenti necessari al suo esistere e al suo operare. Come il fine al quale la Chiesa tende è di gran lunga il più nobile fra tutti, così la sua potestà è sopra ogni altra la più eminente, né può essere giudicata inferiore al potere civile, né essere in alcun modo ad esso sottoposta. In verità Gesù Cristo diede ai suoi Apostoli pieni poteri circa la conduzione delle cose sacre, aggiungendo sia la facoltà di emanare vere e proprie leggi, sia la doppia potestà, che da quella deriva, di giudicare e di punire. “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni… insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt XXVIII, 18-20). E altrove: “Se non li ascolterà, dillo alla Chiesa” (Mt XVIII,17). E ancora: “Siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza” (2Cor X,6). E di nuovo: “Agirò con più durezza, secondo il potere che Dio mi diede, per edificare e non per distruggere” (2Cor XIII,10). Pertanto non è alla società civile, ma alla Chiesa che spetta condurre gli uomini verso la meta celeste: a lei fu da Dio assegnato il compito di provvedere e deliberare sulle questioni religiose, di ammaestrare tutte le genti, di allargare quanto più possibile i confini del nome cristiano: in breve, di amministrare liberamente e senza impedimenti, a sua discrezione, il mondo cristiano. E invero questa autorità in sé assoluta e del tutto autonoma (che da tempo viene contestata da quella filosofia che si inchina ai Principi) la Chiesa non ha mai cessato di rivendicare per sé e di esercitare pubblicamente, visto che i primi a battezzarsi per essa furono gli Apostoli, i quali, quando i capi della Sinagoga proibivano loro di predicare il vangelo, rispondevano con fermezza: “È necessario obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At V,29). I Santi Padri della Chiesa si impegnarono a difendere tale autorità con efficaci argomenti quante volte ne ebbero l’occasione, e i Pontefici Romani non trascurarono mai di rivendicarla, con incrollabile fermezza d’animo, contro gli oppositori. Del resto gli stessi principi e capi di Stato, sia in teoria, sia in linea di fatto, l’hanno riconosciuta, dal momento che, stipulando trattati, concludendo transazioni, inviando e ricevendo legati, e con lo scambio di altre relazioni, hanno solitamente trattato con la Chiesa come con una legittima, suprema potestà. Né certamente si deve ritenere che ciò avvenisse senza un preciso disegno provvidenziale e che questa stessa potestà fosse munita di un principato civile, quale sicura garanzia della sua libertà. – Dunque Dio volle ripartito tra due poteri il governo del genere umano, cioè il potere ecclesiastico e quello civile, l’uno preposto alle cose divine, l’altro alle umane. Entrambi sono sovrani nella propria sfera; entrambi hanno limiti definiti alla propria azione, fissati dalla natura e dal fine immediato di ciascuno; sicché si può delimitare una sorta di orbita, all’interno della quale ciascuno agisce sulla base del proprio diritto. Ma poiché l’uno e l’altro potere si esercitano sugli stessi soggetti, e può accadere che una medesima cosa, per quanto in modi diversi, venga a cadere sotto la giurisdizione dell’uno e dell’altro, l’infinita Provvidenza divina, dalla quale sono stati entrambi stabiliti, deve pure aver composto in modo ordinato e armonioso le loro rispettive orbite, poiché “le autorità che esistono, sono stabilite da Dio” (Rm 13,1). Se non fosse così, nascerebbero spesso motivi di contrasti e di conflitti; e non di rado l’uomo dovrebbe restare turbato ed esitante, come di fronte a un bivio, incerto circa la via da scegliere, nel caso in cui gli giungessero ordini contrari da parte delle due potestà, al cui imperio non potrebbe sottrarsi senza venir meno al proprio dovere. – Ora, assolutamente ripugna il pensare questo della sapienza e della bontà di Dio, il quale anche nel campo dei fenomeni fisici, che sono di ordine tanto inferiore, pure conciliò tra loro le forze naturali e le loro leggi con un disegno razionale e quasi con una mirabile armonia di voci, tale per cui nessuna di esse disturbi le altre, e tutte insieme tendano concordemente e nel modo più consono al fine ultimo del mondo. Per questo è necessario che tra le due potestà esista una certa coordinazione, la quale viene giustamente paragonata a quella che collega l’anima e il corpo nell’uomo. Di quale natura e peso essa sia, poi, non si può altrimenti stabilire se non prendendo in considerazione, come s’è detto, la natura delle due potestà e ragionando sull’eccellenza e la nobiltà dei loro fini: come all’una spetti anzitutto ed essenzialmente la cura delle cose terrene, all’altra l’acquisizione dei beni celesti e sempiterni. Pertanto tutto ciò che nelle cose umane abbia in qualche modo a che fare col sacro, tutto ciò che riguardi la salvezza delle anime o il culto di Dio, che sia tale per sua natura o che tale appaia per il fine a cui si riferisce, tutto ciò cade sotto l’autorità e il giudizio della Chiesa: tutto il resto, che abbraccia la sfera civile e politica, è giusto che sia sottoposto all’autorità civile, poiché Gesù Cristo ha voluto che ciò che è di Cesare sia dato a Cesare e ciò che è di Dio a Dio. Accade poi talora che si trovi qualche nuovo modo per garantire la concordia e una tranquilla libertà, ed è quando i governanti e il Pontefice romano raggiungono un accordo su qualche questione particolare. In tali circostanze la Chiesa offre eccelse prove di materna bontà, ed è solita dimostrare la più generosa disponibilità e indulgenza. – Questa – quale l’abbiamo qui sommariamente delineata – è l’organizzazione cristiana della società civile, ideata non a caso o a capriccio, ma dedotta da supremi e verissimi principi che sono altresì confermati dalla stessa ragione naturale. Tale organizzazione sociale inoltre non presenta nulla che possa giudicarsi meno degno o disdicevole per la maestà dei Principi: non solo è ben lontana dallo sminuirne i diritti sovrani ma piuttosto li rende più saldi e augusti. Anzi, se si considera più a fondo, quella organizzazione possiede un grado di perfezione che manca a tutti gli altri sistemi sociali: da essa scaturirebbero certamente notevoli e svariati vantaggi, se ciascuna parte ricoprisse il ruolo che le conviene ed esercitasse pienamente il compito e la missione che le sono demandati. – Veramente, in quella forma di società che abbiamo esposto le cose divine e le umane sono armoniosamente ordinate: sono salvi i diritti dei cittadini, in quanto difesi col patrocinio delle leggi divine, naturali e umane; sono sapientemente definiti i singoli doveri ed è opportunamente regolato il loro adempimento. Ciascun individuo, nel suo incerto e faticoso viaggio verso l’eterna città celeste, sa di disporre di guide che lo sostengono nel cammino e lo aiutano a raggiungere la meta, ed ugualmente comprende che altre guide hanno il compito di procurargli o conservargli la sicurezza, le fortune e tutti gli altri beni sui quali poggia questa nostra vita terrena. La società domestica deriva quella solida stabilità che le conviene dalla santità del matrimonio uno e indivisibile; diritti e doveri sono regolati tra i coniugi con sapiente giustizia ed equità; alla donna è riservato il debito onore; l’autorità del marito è modellata su quella di Dio; la patria potestà è convenientemente temperata in considerazione della dignità della moglie e dei figli; infine si provvede alla giusta tutela, al benessere e all’educazione dei figli stessi. Nell’ambito politico e civile, le leggi hanno per oggetto il bene comune, e sono conformate non alla volontà e al fallace giudizio della moltitudine, ma alla verità e alla giustizia; l’autorità dei Principi riveste un carattere in certo modo sacro e sovrumano, e ha dei limiti perché non si allontani dalla giustizia né trascenda ad abusi nel comando; l’obbedienza dei cittadini si accompagna a decoro e dignità, poiché non si tratta di servitù di uomo ad uomo, ma di osservanza della volontà di Dio, che per mezzo di uomini esercita il proprio dominio. Quando tali concetti saranno stati accolti e assimilati, s’intenderà facilmente come sia unicamente atto di giustizia il rispettare la maestà dei Principi, il sottostare con costanza e lealtà ai pubblici poteri, il rifuggire da azioni sediziose, il preservare intatta la santa disciplina sociale. Similmente si annoverano tra i doveri la reciproca carità, la benevolenza, la liberalità; il cittadino che è anche cristiano non viene a trovarsi in contraddizione con se stesso a causa di precetti contrastanti; sono infine assicurati anche alla comunità e alla società civile quegli inestimabili beni, di cui la religione cristiana di per sé ricolma anche la vita terrena degli uomini: sicché emerge tutta la verità di quel detto: “Dalla religione, con la quale si onora Dio, dipendono le condizioni della società; tra l’una e l’altra intercorrono, per molti versi, un’affinità e una parentela” . Agostino ha parlato mirabilmente in più luoghi delle sue opere, dell’efficacia di questi beni, specialmente là dove si rivolge alla Chiesa cattolica con queste parole: “Tu addestri e ammaestri i fanciulli con mezzi adatti ai fanciulli, i giovani parlando loro con forza, i vecchi con calma, assecondando l’età non solo del corpo ma anche dello spirito. Tu spingi le mogli alla casta e fedele obbedienza verso i mariti non per il soddisfacimento delle passioni ma per la procreazione dei figli e per la salvaguardia della famiglia. Tu poni i mariti in posizione dominante rispetto alle mogli non perché sfruttino il sesso più debole, ma perché accettino il vincolo di un amore sincero. Tu sottoponi i figli ai genitori con una sorta di libera schiavitù, e concedi ai genitori un tenero dominio sui figli… Tu unisci i cittadini ai cittadini, i popoli ai popoli, e tutta l’umanità nel ricordo dei comuni progenitori, e li unisci non solo con vincoli sociali, ma anche con quelli di una certa fratellanza. Insegni ai re ad esser longanimi verso i popoli, e ammonisci i popoli a sottomettersi ai re. Sei sollecita ad insegnare a chi si debba onore, a chi affetto, a chi riverenza, a chi timore, a chi conforto, a chi ammonizione, a chi incoraggiamento, a chi correzione, a chi rimprovero, a chi punizione; mostrando come non a tutti si debbano le stesse cose, e come a tutti sia dovuta la carità, e a nessuno l’ingiustizia” . Lo stesso Agostino così condanna in un altro passo la pseudo sapienza dei filosofi che si atteggiano a politici: “Coloro che affermano che la dottrina di Cristo è nemica dello Stato, cerchino di costituire un esercito composto di soldati quali li vuole la dottrina di Cristo; ci diano governatori di province, mariti, mogli, genitori, figli, padroni, servi, re, giudici, perfino debitori ed esattori del fisco quali la dottrina cristiana impone di formare, e vedremo se oseranno ancora dirla nemica dello Stato, o se piuttosto non giungeranno ad affermare che essa, se attuata, sarebbe un valido sostegno per lo Stato” . – Vi fu un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava la società: allora la forza della sapienza cristiana e lo spirito divino erano penetrati nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in ogni ordine e settore dello Stato, quando la religione fondata da Gesù Cristo, collocata stabilmente a livello di dignità che le competeva, ovunque prosperava, col favore dei Principi e sotto la legittima tutela dei magistrati; quando sacerdozio e impero procedevano concordi e li univa un fausto vincolo di amichevoli e scambievoli servigi. La società trasse da tale ordinamento frutti inimmaginabili, la memoria dei quali dura e durerà, consegnata ad innumerevoli monumenti storici, che nessuna mala arte di nemici può contraffare od oscurare. Il fatto che l’Europa cristiana abbia domato i popoli barbari e li abbia tratti dalla ferocia alla mansuetudine, dalla superstizione alla verità; che abbia vittoriosamente respinto le invasioni dei Maomettani; che abbia tenuto il primato della civiltà; che abbia sempre saputo offrirsi agli altri popoli come guida e maestra per ogni onorevole impresa; che abbia donato veri e molteplici esempi di libertà ai popoli; che abbia con grande sapienza creato numerose istituzioni a sollievo delle umane miserie; per tutto ciò deve senza dubbio molta gratitudine alla religione, che ebbe auspice in tante imprese e che l’aiutò nel portarle a termine. E certamente tutti quei benefìci sarebbero durati, se fosse durata la concordia tra i due poteri: e a ragione se ne sarebbero potuti aspettare altri maggiori, se con maggiore fede e perseveranza ci si fosse inchinati all’autorità, al magistero, ai disegni della Chiesa. Si deve infatti attribuire il valore di legge eterna a quella grandissima sentenza scritta da Ivo di Chartres al pontefice Pasquale II: “Quando regno e sacerdozio procedono concordi, procede bene il governo del mondo, fiorisce e fruttifica la Chiesa. Se invece la concordia viene meno, non soltanto non crescono le piccole cose, ma anche le grandi volgono miseramente in rovina” . – Ma quel pernicioso e deplorevole spirito innovatore che si sviluppò nel sedicesimo secolo, volto dapprima a sconvolgere la religione cristiana, presto passò, con naturale progressione, alla filosofia, e da questa a tutti gli ordini della società civile. Da ciò si deve riconoscere la fonte delle più recenti teorie sfrenatamente liberali, senza dubbio elaborate durante i grandi rivolgimenti del secolo passato e proclamate come principi e fondamenti di un nuovo diritto, il quale non solo era sconosciuto in precedenza, ma per più di un aspetto si distacca sia dal diritto cristiano, sia dallo stesso diritto naturale. Di questi principi, il più importante afferma che tutti gli uomini, dal momento che sono ritenuti uguali per nascita e per natura, così sono effettivamente uguali tra loro anche nella vita pratica; pertanto ciascuno possiede un proprio diritto, tale da sottrarlo totalmente all’autorità altrui, sì da poter liberamente pensare ciò che vuole e agire a suo talento: nessuno ha il diritto di comandare agli altri. In una società basata su tali principi, la sovranità non consiste che nella volontà del popolo, il quale, come possiede da solo tutto il potere, così da solo si governa: sceglie di fatto alcuni a cui delegare il potere, ma in modo tale da trasferire in loro non tanto la sovranità, quanto una semplice funzione da esercitare in suo nome. Si tace dell’autorità divina, come se Dio non esistesse o non si desse alcun pensiero del genere umano; come se gli uomini, né singolarmente né collettivamente, non avessero alcun obbligo verso Dio, o come se si potesse concepire una sovranità, la cui origine, forza e autorità non derivassero totalmente da Dio. Appare evidente che in tal modo lo Stato non sarebbe nient’altro che la moltitudine arbitra e guida di se stessa; e poiché si afferma che il popolo contiene in se stesso la sorgente di ogni diritto e di ogni potere, di conseguenza la comunità non si riterrà vincolata ad alcun dovere verso Dio; non professerà pubblicamente alcuna religione; non vorrà privilegiarne una, ma riconoscerà alle varie confessioni uguali diritti affinché l’ordine pubblico non venga turbato. Coerentemente, si permetterà al singolo di giudicare secondo coscienza su ogni questione religiosa; a ciascuno sarà lecito seguire la religione che preferisce, o anche nessuna, se nessuna gli aggrada. Di qui nascono dunque libertà di coscienza per chiunque, libertà di culto, illimitata libertà di pensiero e di stampa. – Posti a fondamento dello Stato questi principi, che tanto favore godono ai giorni nostri, si comprende facilmente in quali e quanto inique condizioni venga costretta la Chiesa. Infatti, ove l’azione pratica si conformi a queste dottrine, alla religione cattolica viene riconosciuto nello Stato un ruolo uguale o anche inferiore a quello dei culti a lei estranei; non vi sarà alcuna considerazione per le leggi ecclesiastiche; alla Chiesa, che pure per volontà di Gesù Cristo ebbe la missione di insegnare a tutte le genti, sarà negata ogni ingerenza nell’istruzione pubblica. – Anche nelle questioni di diritto misto, le autorità civili deliberano da sé, in totale autonomia, e in tale materia ignorano con arroganza le leggi santissime della Chiesa. Quindi annettono alla propria giurisdizione i matrimoni cristiani, legiferando anche sul vincolo coniugale, sulla sua unità e sulla sua stabilità; alienano le proprietà ecclesiastiche, negando alla Chiesa il diritto di possedere. Insomma, si comportano con la Chiesa disconoscendone il carattere di società giuridicamente perfetta, ponendola sullo stesso piano di tutte le altre associazioni che operano nello Stato: e se le rimane qualche diritto, qualche legittima libertà d’azione, si afferma che li possiede per concessione e benignità dell’autorità civile. Se poi si tratta di uno Stato, nel quale la Chiesa abbia riconosciuti i propri diritti dalle stesse leggi civili, e fra i due poteri esista una convenzione pubblicamente ratificata, sostengono il principio della necessaria separazione della Chiesa dallo Stato; e ciò allo scopo di poter impunemente violare la fede data, e di poter deliberare su tutto liberamente, senza vincoli. E poiché la Chiesa non può tollerare ciò, né può mancare ai suoi sacrosanti e solenni doveri, e quindi pretende che i patti sanciti siano scrupolosamente e integralmente osservati, spesso nascono dissidi tra il potere civile e quello ecclesiastico: dissidi che generalmente vedono soccombere – fra i due contendenti – quello che dispone di minori armi umane di fronte al più forte. – Così in questo tipo di convenzione oggi vagheggiata dai più, ci sono la tendenza e la volontà o di liberarsi del tutto della Chiesa, o di tenerla in ceppi e soggiogata. Gran parte dell’attività di governo mira a questo. Le leggi, l’amministrazione, l’insegnamento laico, la spoliazione e lo scioglimento degli ordini religiosi, la distruzione del potere temporale dei Pontefici, tutto tende a indebolire l’influenza delle istituzioni cristiane, a coartare la libertà della Chiesa, a lederne ogni altro diritto. – Ora, è sufficiente la semplice ragione naturale per dimostrare come siffatte teorie sul governo delle comunità siano assai lontane dalla verità. È la stessa natura che testimonia come qualsiasi potere derivi dalla più alta e augusta delle fonti, che è Dio. La sovranità popolare che si afferma insita per natura nella moltitudine indipendentemente da Dio, se serve ottimamente ad offrire lusinghe e ad infiammare grandi passioni, non ha in realtà alcun plausibile fondamento, né possiede abbastanza forza per assicurare uno stabile e tranquillo ordine sociale. In verità a causa di tali dottrine si è giunti al punto che da molti si sostiene la legittimità della rivoluzione, vista come giusto strumento di lotta politica. È forte infatti la convinzione che i Principi non siano nulla più che semplici delegati ad eseguire la volontà popolare: ne consegue necessariamente che tutti gli ordinamenti sono ugualmente mutabili a discrezione del popolo, e incombe il continuo timore di disordini. – In materia di religione, poi reputare che non vi sia sostanziale differenza tra eterogenee e contrarie forme di confessioni, conduce chiaramente a non volerne accettare né praticare alcuna. E questo atteggiamento, anche se gli si dà un nome diverso, in sostanza non è nient’altro che ateismo. Che infatti è convinto dell’esistenza di Dio, se vuole essere logico e non affermare assurdità, capisce necessariamente che le forme di culto esistenti, così diverse e contrastanti tra loro anche su questioni della massima importanza, non possono essere tutte ugualmente credibili, ugualmente vere, ugualmente accette a Dio. Allo stesso modo una libertà di pensiero e di espressione che sia totalmente esente da vincoli in assoluto non è un bene di cui la società umana abbia ragione di rallegrarsi: è al contrario fonte e origine di molti mali. La libertà, come virtù che perfeziona l’uomo, deve applicarsi al vero e al bene; la natura del vero e del bene non può mutare ad arbitrio dell’uomo, ma rimane sempre la stessa, e non è meno immutabile dell’intima natura delle cose. Se la mente accoglie false opinioni, se la volontà sceglie il male e vi si dedica, l’una e l’altra, lungi dall’operare per il proprio perfezionamento, perdono la loro naturale dignità e si corrompono. Ciò che è contrario alla virtù e alla verità, dunque, non deve essere posto in evidenza ed esibito: molto meno, difeso e tutelato dalle leggi. La sola vita virtuosa apre la via verso il cielo, cui tutti tendiamo: per questo lo Stato si discosta da una norma e da una legge di natura, se consente che una sfrenata e perversa libertà di pensiero e d’azione giunga a distogliere impunemente dalla verità le menti e dalla virtù gli spiriti. – È grande e deleterio errore escludere la Chiesa, che Dio stesso ha fondato, dalla vita pubblica, dalle leggi, dall’educazione dei giovani, dalla famiglia. Non possono esservi buoni costumi in una società cui sia stata tolta la religione: e si sa ormai anche troppo bene in che consista, e a che porti quella filosofia di vita e di costumi che chiamano civile. La Chiesa di Cristo è vera maestra di virtù e custode della buona condotta: essa è colei che mantiene fermi i principi dai quali derivano i doveri, e che, esposti i più efficaci motivi per vivere virtuosamente non solo ammonisce a fuggire le azioni malvagie, ma a controllare altresì i moti dell’animo contrari alla ragione, anche quelli che non sfociano in azioni concrete. – È davvero una grande ingiustizia e una grande sconsideratezza il volere sottoporre la Chiesa all’autorità civile nell’adempimento dei suoi doveri. Con ciò l’ordine viene sovvertito, dal momento che si antepongono le cose naturali alle soprannaturali: si distrugge, o almeno si sminuisce assai la dovizia di beni dei quali, se non ostacolata, a chiesa colmerebbe la vita terrena; per di più si apre la via ad ostilità e conflitti, e fin troppo spesso gli eventi hanno dimostrato quanto danno ciò porti sia alla società civile, sia a quella religiosa. – Siffatte dottrine, che nemmeno dalla ragione umana possono essere approvate, e che tanto peso hanno sull’ordinamento civile, i Pontefici romani Nostri Predecessori, ben comprendendo quale fosse il loro dovere apostolico, non consentirono che potessero circolare impunemente. Così Gregorio XVI nell’Enciclica Mirari vos del 15 agosto 1832 colpì con parole durissime quelle teoriche che già venivano diffondendosi e secondo le quali non è necessario operare una scelta in materia di religione: è diritto di ciascuno professare qualsiasi fede gli aggradi; per ciascuno il solo giudice è la coscienza; inoltre è lecito proclamare qualsiasi opinione, e ordire rivolte contro lo Stato. Circa la separazione della Chiesa dallo Stato lo stesso Pontefice così si esprimeva: “Né più lieti successi potremmo presagire per la Religione e il Principato dai voti di coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno, e troncata la mutua concordia dell’Impero col Sacerdozio. È troppo chiaro che dai sostenitori di una impudentissima libertà si teme quella concordia che fu sempre fausta e salutare al governo sacro e a quello civile”. – Non diversamente Pio IX, ogni volta che ne ebbe l’occasione, annotò molte false teorie che riscuotevano maggior credito, e in un secondo tempo ordinò che esse venissero raccolte tutte insieme, affinché nel dilagare di tanti errori i cattolici avessero una guida sicura . – Dalle citate dichiarazioni dei Pontefici è dunque necessario dedurre che l’origine della potestà civile è in Dio, non nel popolo; che la libertà di ribellione contrasta con la logica; che il non tenere in alcun conto i doveri religiosi, o essere indifferenti alle varie forme di culto, non è lecito né ai singoli individui né agli Stati: che la smodata libertà di pensiero e di espressione non può annoverarsi tra i diritti dei cittadini né in alcun modo tra i privilegi degni di tutela e di protezione. Similmente si deve ritenere che la Chiesa sia una società perfetta nella sua peculiare natura e nel suo assetto giuridico non meno di quella civile, e che al potere statale non deve essere consentito di sottomettere e subordinare a se stesso la Chiesa, o di limitarne l’azione, o di sottrarle uno qualsiasi degli altri diritti che da Gesù Cristo le sono stati conferiti. Nelle questioni di diritto misto, ciò che si conforma alla natura e al disegno divino non è la separazione di un potere dall’altro, e molto meno il conflitto tra loro, ma una piena concordia, coerente con le finalità che sono all’origine di entrambe le società. – Sono queste dunque le norme fissate dalla Chiesa cattolica circa la costituzione e il governo degli Stati. Nondimeno, se si vuole giudicare con obiettività, con tali prescrizioni e decreti non s’intende condannare alcuna delle varie forme di governo, quando esse non abbiano in sé nulla che ripugni alla dottrina cattolica e possano, se applicate con saggezza ed equità, dare un ottimo e stabile assetto alla società. Anzi, non s’intende condannare in sé neppure il fatto che il popolo partecipi, in maggiore o minore misura, alla vita pubblica: il che può rappresentare in certe circostanze e con precise leggi, non solo un vantaggio ma anche un dovere civile. Ancora, non v’è neppure valido motivo per accusare la Chiesa di essere restia più del giusto ad una benevola tolleranza, o nemica di un’autentica e legittima libertà. In realtà, se la Chiesa giudica che non sia lecito concedere ai vari culti religiosi la stessa condizione giuridica che compete alla vera religione, pure non condanna quei governi che, per qualche grave situazione, mirando o ad ottenere un bene, o ad impedire un male, tollerino di fatto diversi culti nel loro Stato. – Così pure la Chiesa vuole assolutamente evitare che chiunque sia costretto, suo malgrado, ad abbracciare la fede cattolica, perché, come saggiamente ammonisce Agostino, “l’uomo non può credere se non spontaneamente” . Similmente la Chiesa non può consentire quella libertà che induce al disprezzo delle leggi santissime di Dio e sopprime la doverosa obbedienza all’autorità legittima. Infatti, questa è piuttosto licenza che libertà; e felicemente viene definita da Agostino “libertà di perdizione” ; dall’Apostolo Pietro “velo di malizia” (1Pt II,16); anzi, essendo irrazionale, diviene vera schiavitù; “poiché chi fa peccato è schiavo del peccato” (Gv VIII,34). Al contrario, la libertà autentica e desiderabile è quella che, nella sfera privata, non permette all’individuo di essere schiavo degli errori e delle passioni, terribili padroni, e che nella sfera pubblica governa saggiamente i cittadini, offre loro con larghezza le opportunità per migliorare la propria condizione, difende lo Stato dalle sopraffazioni altrui. La Chiesa, più di chiunque altro, approva questa libertà onesta e degna dell’uomo, né ha mai cessato di adoperarsi e di lottare perché ai popoli fosse garantita salda e integra. E veramente la storia dei secoli passati testimonia come tutto ciò che più giova alla difesa della società civile, tutti i mezzi più efficaci a difendere il popolo dal dispotismo dei Principi, ad impedire che lo Stato si intrometta pesantemente nelle amministrazioni municipali e della famiglia, tutte le leggi più utili a salvaguardare la dignità, il rispetto della persona, l’uguaglianza dei diritti dei singoli cittadini, tutto ciò è sempre stato voluto, o favorito, o tutelato dalla Chiesa Cattolica. Essa dunque, con perfetta coerenza, se da una parte respinge una libertà smodata, che degenera in licenza o in schiavitù sia per i singoli che per la collettività, dall’altra guarda con favore e accoglie volentieri i progressi che il tempo arreca, se veramente giovano alla felicità di questa vita, la quale è come un percorso che conduce all’altra della durata eterna. – Ciò che si va dicendo, dunque, che la Chiesa sia ostile alle più recenti costituzioni civili, e che rifiuti tutti indistintamente i ritrovati della scienza contemporanea, non è che una vana e meschina calunnia. Certamente essa ripudia le teorie malsane: disapprova le nefaste smanie rivoluzionarie e segnatamente quella disposizione d’animo nella quale si può cogliere l’inizio di un volontario allontanamento da Dio; ma poiché tutto ciò che è vero proviene necessariamente da Dio, così ogni particella di vero che sia scoperta durante la ricerca è riconosciuta dalla Chiesa come impronta della mente divina. E poiché non può esistere alcuna verità naturale che possa ridurre la credibilità delle dottrine rivelate, mentre molte altre l’accrescono, ed ogni scoperta di nuove verità può indurre a conoscere e a lodare Dio, così la Chiesa accoglierà sempre con gioia e diletto qualsiasi progresso giunga ad allargare i confini della scienza, e con l’usato fervore promuoverà e favorirà, come le altre discipline, anche quelle che hanno per oggetto la spiegazione dei fenomeni naturali. A proposito di questi studi, la Chiesa non avversa le nuove invenzioni: non si dispiace che altre se ne ritrovino, in grado di rendere migliore e più piacevole l’esistenza; anzi, nemica dell’ozio e dell’inerzia, si compiace assai che l’ingegno umano, mediante l’esercizio e la cultura, produca i frutti più copiosi; incoraggia ogni specie di arti e di mestieri: e mentre con la sua virtù indirizza tutte queste occupazioni a scopi onesti e benèfici, si adopera ad impedire che l’uomo a seguito dello studio e del lavoro, perda di vista Dio e i beni terreni. – Ma le osservazioni esposte, sebbene tanto ragionevoli e sagge, incontrano scarso favore ai nostri giorni, in quanto le società non solo rifiutano di far riferimento al modello della sapienza cristiana, ma anzi sembrano volersene vieppiù allontanare ogni giorno. Nondimeno, poiché la verità, una volta messa in luce, suole espandersi naturalmente per ogni dove e insinuarsi gradualmente nell’intelletto umano, così Noi, mossi dalla consapevolezza del supremo e sacrosanto ufficio, cioè dalla missione Apostolica che esercitiamo su tutte le genti, proclamiamo, com’è Nostro dovere, la verità; non perché non abbiamo ben presenti le tendenze del nostro tempo, o giudichiamo che si debbano rifiutare gli onesti e utili progressi dell’età nostra, ma perché vorremmo più sicuro dalle insidie il cammino delle società e più solide le loro fondamenta, e ciò senza minare la genuina libertà dei popoli: tra gli uomini, infatti, madre e sicura custode della libertà è la verità: “La verità vi renderà liberi” (Gv VIII,32). – Pertanto, se in così difficili frangenti i cattolici daranno ascolto, com’è loro dovere, alle Nostre parole, si renderanno chiaramente conto di quali siano i compiti di ciascuno, sia nel campo delle idee, sia in quello delle azioni. – Riguardo alle idee, è necessario tenere saldi nella mente, con intima adesione, tutti gli insegnamenti passati e futuri dei romani Pontefici, nonché essere pronti a professarli apertamente ogni volta che appaia opportuno. E particolarmente riguardo a quelle cosiddette libertà alle quali si aspira nei tempi più recenti, conviene che ciascuno si attenga al giudizio della Sede Apostolica e che pensi in totale accordo con essa. Occorre stare attenti a non farsi trarre in inganno dalla loro apparente onestà, tener presente da quali premesse traggono origine e da quali confuse passioni sono rinvigorite e alimentate. Ormai si sa abbastanza, per esperienza, quali effetti esse abbiano sulla società, poiché esse hanno ovunque prodotto frutti, dei quali i saggi e gli onesti a ragione si rammaricano. – Nel caso che esista realmente da qualche parte, o si immagini, una comunità nella quale il nome cristiano sia perseguitato con leggi proterve e tiranniche, se ad essa si paragona il moderno sistema di governo di cui parliamo, questo potrà risultare più tollerabile. Tuttavia i principi su cui si fonda sono certamente di per sé, come abbiamo detto, tali da non meritare che riprovazione. – Quanto all’azione, essa può interessare la sfera privata e domestica, oppure la sfera pubblica. Nell’ambito individuale il primo dovere è di conformare la vita e la condotta, col massimo scrupolo, ai precetti evangelici, senza sottrarvisi nemmeno quando la virtù cristiana esiga qualche più arduo esercizio di pazienza e di sopportazione. Si deve inoltre amare la Chiesa come una madre comune; osservarne fedelmente le leggi, averne a cuore l’onore, e salvaguardarne i diritti; adoperarsi perché sia amata e rispettata con pari devozione da coloro sui quali ci si trovi ad esercitare qualche forma di autorità. È inoltre di pubblico interesse che il singolo dia un saggio contributo all’amministrazione cittadina, e in particolare si adoperi a far sì che la comunità provveda all’educazione religiosa e morale degli adolescenti nel modo più consono ai principi cristiani: condizione dalla quale dipende in gran parte il benessere delle singole comunità. Allo stesso modo, è generalmente utile e opportuno che la partecipazione dei cattolici si estenda da questo campo più ristretto fino a comprendere il più vasto ambito dello Stato. Diciamo generalmente, perché questi Nostri insegnamenti si rivolgono a tutti i popoli. Ora può accadere in qualche luogo che, per cause molto gravi e fondate, non sia affatto conveniente prendere parte alla vita pubblica e assumere incarichi politici. Ma generalmente, come abbiamo detto, l’astenersi del tutto dal partecipare alla vita politica sarebbe altrettanto colpevole quanto negare il proprio contributo operoso al bene comune: tanto più in quanto i cattolici, proprio in ragione della dottrina che professano, sono impegnati ad agire con particolare scrupolo e integrità. Per contro, se essi si tengono in disparte, prenderanno facilmente il potere uomini, le cui opinioni danno ben poco affidamento di poter giovare allo Stato. E ciò sarebbe dannoso anche per la religione, poiché acquisterebbero moltissimo potere coloro che osteggiano la Chiesa, pochissimo quelli che l’amano. È quindi evidente come i cattolici abbiano validi motivi per prendere parte alla vita politica: essi non lo fanno né lo debbono fare per assecondare quanto vi è di riprovevole nei metodi di governo attuali, ma per rivolgere questi stessi metodi, ogni volta che sia possibile, al vero e autentico bene pubblico, con il proposito di infondere in tutte le vene del corpo sociale, come linfa e sangue donatore di vita, la sapienza e la forza benefica della religione cattolica. Non diversamente accadde nei primi secoli dell’era cristiana. I principi e lo spirito dei popoli pagani erano allora quanto mai lontani dallo spirito e dai principi evangelici; tuttavia era dato vedere i cristiani, in mezzo alla superstizione, incorrotti e sempre coerenti con se stessi, introdursi animosamente ovunque intravedessero un varco. Esempio di fedeltà ai principi, obbedienti all’imperio delle leggi fino a che ciò non fosse in contrasto con la legge divina, diffondevano in ogni luogo un mirabile splendore di santità; si impegnavano ad aiutare i fratelli, a convertire tutti gli altri alla sapienza di Cristo, pronti tuttavia a ritirarsi e ad affrontare intrepidamente la morte, qualora non fosse stato loro possibile conservare gli onori, le magistrature e i comandi senza venir meno alla virtù. In tal modo fecero sì che il Cristianesimo penetrasse rapidamente non solo nelle famiglie, ma anche nell’esercito, nel Senato e nello stesso palazzo imperiale. “Siamo nati ieri, ed abbiamo riempito ogni vostro luogo, città, isole, castelli, municipi, assemblee, gli stessi accampamenti, le tribù, le decurie, il palazzo, il Senato, il foro” , sicché la fede cristiana, quando la legge consentì la pubblica professione del Vangelo, apparve non come creatura ai primi vagiti e in culla, ma adulta e già sicura in un considerevole numero di città. – Ora, veramente, i nostri tempi richiedono che tali esempi dei nostri padri siano riproposti. I cattolici, quanti sono degni di questo nome, devono anzitutto essere e manifestarsi apertamente figli amorosissimi della Chiesa, respingere senza esitazione tutto ciò che non possa conciliarsi con tale professione, servirsi delle istituzioni pubbliche, ogni volta che possano onestamente farlo, a difesa della verità e della giustizia, adoperarsi perché la libertà d’agire non travalichi i limiti stabiliti dalle leggi di natura e divine, contribuire a far sì che tutta la società si uniformi a quel modello e a quell’ideale cristiano che abbiamo descritto. Non è facile indicare un metodo certo e valido universalmente per realizzare tali propositi, dovendo esso adeguarsi a circostanze di tempo e di luogo che sono assai diverse tra loro. Nondimeno si dovrà anzitutto aver cura di conservare la concordia nelle volontà e l’uniformità nell’azione. L’una e l’altra si potranno pienamente raggiungere, se ciascuno si proporrà come norma di vita le prescrizioni della Sede Apostolica e se asseconderà i Vescovi, che “lo Spirito Santo pose a reggere la Chiesa di Dio” (At XX,28). La difesa poi del nome cattolico postula la necessità che, nel professare le dottrine tramandate dalla Chiesa, siano in tutti un solo sentire e un’incrollabile fermezza; su questo fronte occorre guardarsi dall’essere in alcun modo conniventi con le false opinioni, o dal resistere ad esse più debolmente di quanto non richieda la verità. Riguardo alle teorie opinabili, si potrà disputare con moderazione e con l’intento di ricercare la verità, evitando peraltro i sospetti ingiuriosi e le reciproche denigrazioni. A questo proposito, affinché accuse sconsiderate non mettano in forse la concordia degli animi, tutti tengano a mente alcuni punti fermi: che l’integrità della professione cattolica non può in alcun modo conciliarsi con opinioni che si aprano al Naturalismo o al Razionalismo, il cui intento è sostanzialmente quello di distruggere dalle fondamenta la concezione cristiana e di stabilire nella società il primato dell’uomo, dopo aver scalzato quello di Dio. Parimenti non è lecito tenere in privato una linea di condotta e in pubblico un’altra, cioè riconoscere l’autorità della Chiesa nella vita privata e sconfessarla in pubblico. Ciò significherebbe coniugare cose turpi e oneste, e accendere nell’uomo un conflitto interiore, mentre è doveroso essere sempre coerenti con se stessi e non allontanarsi mai, in alcuna situazione o scelta di vita, dalla virtù cristiana. – Quando poi ci si interroghi su questioni meramente politiche, quali la miglior forma di governo, oppure i diversi sistemi amministrativi, su simili temi può senz’altro esservi legittima discordanza di opinioni. A coloro dunque di cui siano ben note altrimenti la fede e la propensione ad accogliere devotamente i decreti della Sede Apostolica, non sarebbe giusto muovere accuse per un’opinione discorde sugli argomenti testé accennati; e ancor più ingiusto sarebbe accusarli di lesa o dubbia fede cattolica, com’è accaduto, con Nostro rammarico, più di una volta. Queste raccomandazioni siano tenute bene in mente da coloro che usano affidare ai libri le loro idee e soprattutto dai giornalisti. Nell’attuale conflitto su argomenti di capitale importanza, non v’è posto per discordie intestine o per passioni di parte, ma tutti devono, con unanimità e fervore d’intenti, cooperare a quello che è il proposito comune, cioè agire per la salvezza della religione e dello Stato. Se dunque vi fu qualche dissidio nel passato, occorre sforzarsi di cancellarlo con l’oblio; se vi fu qualche leggerezza, qualche sopruso, a chiunque sia da ascrivere la colpa, si dovrà riparare con la mutua carità, e riscattare con un particolare atto di ossequio da parte di tutti verso la Sede Apostolica. Per questa via i cattolici conseguiranno due preziosi risultati: quello di collaborare con la Chiesa nella salvaguardia e nella diffusione della sapienza cristiana, e quello di esercitare un’azione grandemente benefica sulla società civile, la cui salute è esposta a grave pericolo a causa di dottrine e passioni malvagie. – Ecco, Venerabili Fratelli, quanto abbiamo ritenuto di affidare alla riflessione delle genti cattoliche intorno alla costituzione cristiana delle società, e ai doveri dei singoli cittadini. – Quanto al resto, dobbiamo invocare con ardenti preghiere l’aiuto celeste, e pregare Dio che conduca Egli stesso a felice compimento i Nostri voti e i Nostri sforzi tesi alla sua gloria e alla comune salvezza del genere umano, Egli che può illuminare la mente e dar forza alla volontà degli uomini. Come auspicio dei doni divini e prova della Nostra paterna benevolenza, impartiamo affettuosamente a voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo affidato alle vostre vigili cure nel nome del Signore, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 1° novembre 1885, anno ottavo del Nostro Pontificato.

 

 

 

DOMENICA III DI QUARESIMA (2018)

TERZA DOMENICA di QUARESIMA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam, [A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego. [I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde. [Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes V:1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed., Torino, 1898; vol. II, Om. V – impr.]

“Siate imitatori di Dio, come figliuoli diletti; e camminate in carità, come anche Cristo ci ha amati, e ha dato se stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio di fragranza soavissima. E come si conviene a santi, né fornicazione, né immondezza, né avarizia si nomini pure tra voi. Né disonestà, né stolto parlare, né buffonerie, le quali cose non si convengono; ma piuttosto rendimento di grazie. Perché questo dovete sapere, che nessun fornicatore, od impudico, od avaro, il quale è idolatra, ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. Niuno vi seduca con vani ragionamenti, che per queste cose viene l’ira di Dio sopra gli uomini riottosi. Non vogliate dunque accomunarvi a costoro. Perché un tempo eravate tenebre; ora siete luce nel Signore: diportatevi da figli della luce. Ora il frutto della luce consiste in ogni rettitudine e giustizia e verità „ (Agli Efesini, v. 1-9).

È questa la lezione della epistola, che la Chiesa ci propone a considerare in questa Domenica, tolta dal quinto capo della lettera agli Efesini. Questa lettera di S. Paolo agli Efesini è una delle cinque ch’egli scrisse dalla carcere. Due volte S. Paolo sostenne la carcere: la prima a Cesarea di Palestina , sotto Felice e Festo; la seconda a Roma sotto Nerone, intorno al 66 dell’era nostra. Sembra più che verosimile che questa lettera sia stata scritta nella prima prigionia, a Cesarea di Palestina. Essa consta di sei capi: i primi tre sono un monumento d’altissima dottrina intorno a Gesù Cristo, alla sua redenzione ed alla vocazione dei Gentili: negli altri tre vi sono condensati gli ammonimenti morali più necessari e più comuni ad ogni classe di persone, e di questi è ricco il brano che avete udito e che io verrò svolgendo. — Ascoltateli con tutta l’attenzione, che bene lo meritano. – “Siate imitatori di Dio, come figliuoli diletti, e camminate in carità. „ Nel versetto che precede questo immediatamente, l’Apostolo aveva esortato i fedeli a perdonarsi a vicenda ad imitazione di Dio, che ci perdona in vista dei meriti di Cristo: qual cosa più naturale quanto il venire alla conseguenza: “Imitate dunque Dio, come suoi figli bene amati. „ I figli ricevono la vita dai genitori, e con la vita la loro fisionomia, la loro somiglianza, ed anche le loro tendenze morali; i figli sono la riproduzione e la copia più o meno fedele dei loro genitori. Voi, dice san Paolo, siete figli di Dio, che col battesimo ha posto in fondo ai vostri cuori ed alle anime vostre una vita, troppo più nobile e più preziosa di quella che avete ricevuto dai vostri genitori naturali, la vita spirituale, che è una partecipazione della sua stessa vita divina: voi, che siete figli di Dio, imitate Dio… È  gloria dei figli imitare i genitori, e tanto più quanto i figli sono buoni ed amorosi e i genitori virtuosi: gloria vostra adunque sia il rendervi simili a questo gran Padre che è nei cieli. E in che cosa vi studierete d’essere simili a Dio? In tutto, perché Egli è l’eterno modello, sul quale dobbiamo formare la nostra vita, ma particolarmente nella carità: Ambulate in dilectione. Nessuna virtù è più spesso ricordata ed inculcata dal grande Apostolo nelle sue lettere quanto la carità, che ad ogni tratto e nelle più svariate forme, compare sotto la sua penna, ed a ragione, perché in essa si compendia tutto l’insegnamento della legge dei profeti. – Ben è vero che al giorno d’oggi taluni abusano di questo nome sì caro e sì santo di carità, e vorrebbero che per essa si sacrificasse la verità, pareggiandola all’errore; ma perché taluni abusano della carità e ne stravolgono il senso, facendola complice dell’errore, cesseremo noi dal predicarla come regina di tutte le virtù? Saremmo simili a coloro che sbandissero l’oro perché vi è l’orpello e rigettassero le pietre preziose perché ve ne sono di false. Perciò non operano saggiamene alcuni, anche buoni cattolici, che diffidano di chi predica la carità e quasi ne mettono in canzone il nome sì augusto e sì sacro. Noi la predicheremo sempre questa carità benedetta, unita alla verità, e la praticheremo, imitando Iddio, che è carità e insieme verità — Deus charitas est — Ego sum via, veritas. Il nostro modello supremo è Dio; ma non è facile salire a tanta altezza e noi, povere creature sensibili, abbiamo bisogno d’un modello più vicino a noi: abbiamo bisogno che la sovrana perfezione ci sia presentata sotto forma sensibile, ed eccola brillare vivissima nell’Uomo-Dio, Gesù Cristo. Il perché san Paolo, dopo aver detto: ” Camminate nella carità, „ soggiunge subito: ” Come Cristo ci ha amati. „ E l’amore di Gesù Cristo verso di noi si manifestò nelle opere, e quali opere, o dilettissimi? Egli per noi non spese soltanto parole, non diede soltanto le cose sue, non sostenne soltanto fatiche e dolori, ma diede se stesso, la sua stessa vita: la diede qual prezzo di riscatto per strapparci di mano al nostro crudele nemico: la offrì quale sacrificio al Padre suo. Tradidit semetipsum prò nobis, oblationem et hostiam. A chi non torna gradita la fragranza dei fiori, degli aromi, dei profumi? Essa ci rallegra e ci diletta. Similmente, dice l’Apostolo, il sacrificio, che Gesù Cristo per amor nostro e per la gloria del Padre offerse sulla croce, esalò, a nostro modo di dire, una fragranza soavissima, che rallegrò il cuore di Dio: Hostiam Deo in odorem suavitatis. – Non è egli vero, che se noi vediamo una persona faticare e soffrire per noi, ci sentiamo commossi, e un sentimento dolcissimo di gratitudine ricrea tutte le fibre del nostro cuore non già per il faticare e soffrire di quella persona (del che ci duole), ma sì per l’amore che in quel faticare e soffrire ci si fa manifesto? È una immagine della gioia che Dio prova, contemplando il sacrifìcio da Gesù Cristo consumato sulla croce e di quelli, che per amor suo si compiono ogni giorno da noi. I nostri sacrifici sono dinanzi a Dio come fiori che olezzano, come profumi, che spandono intorno soave fragranza, perché sono frutti dell’amore, e l’amore è un profumo che sale gradito a Dio. – Qui S. Paolo, come suole in quasi tutte le sue lettere, da conoscitore perfetto delle miserie umane, viene alla pratica, ed enumera di volo le ree abitudini e gli atti malvagi, dai quali con ogni cura dovevano guardarsi i suoi fedeli di Efeso, di fresco convertiti, e viventi in mezzo alla corruzione pagana. “La fornicazione tra voi neppure si nomini — Fornicatio autem… nec nominetur in vobis. „ Grande Iddio! l’Apostolo dai suoi neofiti esigeva tanta illibatezza di vita, che non permettesse nemmeno il pronunziare la brutta parola di fornicazione, che significa la colpa d’uomo libero con donna libera. Che accade ora nella nostra società tutta cristiana? Che vediamo ed udiamo noi, o carissimi? Oh quanti disordini! quanti scandali! quante relazioni colpevoli e tresche vergognose! Donde poi discordie, separazioni, odi, scialacqui e rovine di intere famiglie. E chi potrebbe narrare tutte le dolorose conseguenze di questa malnata passione, vero carnefice dell’uomo? Volgete intorno gli occhi, udite le grida di dolore, che si levano d’ogni parte e comprenderete che cosa sia questa passione. Fratelli e figli miei! che questo bruttissimo tra i vizi non si nomini nella nostra parrocchia. Né qui si arresta l’Apostolo nella sua esortazione, e vuole che similmente non si conosca né si nomini tra gli Efesini qualsiasi impudicizia, o cupidigia, come si conviene ai santi. „ Non pure voi, così in sentenza l’Apostolo, dovete tenervi lontani dalla fornicazione, che è peccato esternamente consumato; ma dovete conservarvi netti da qualunque immondezza od impudicizia, che può sfuggire all’occhio degli uomini, ma non si nasconde all’occhio di Dio. Allude non oscuramente a tutte quelle sozzure, delle quali l’uomo può imbrattarsi da solo, e che il tacere è bello, e che sventuratamente sono sì frequenti anche tra cristiani. Ohimè! quanti peccati si commettono contro la modestia, che sono noti soltanto a Dio ed alla coscienza di chi se ne rende colpevole! Io mi guarderò bene dal nominarli, perché offenderei le vostre orecchie. Solo vi dirò: Guardatevi dal fare anche da soli, ciò di cui arrossireste innanzi agli uomini, agli amici, ai compagni. Non vi vedono gli uomini, ma vi vede Iddio!… Chi può intendere intenda. – La cupidigia od avarizia, che S. Paolo vuole sbandita di mezzo ai cristiani, che sono chiamati alla santità, più innanzi e più fortemente è sfolgorata dall’Apostolo, e perciò qui me ne passo. Proseguendo nella sua enumerazione, san Paolo scrive: ” Così non si nomini tra voi né disonestà, né parlare da stolto, né buffonerie, le quali cose non si convengono. „ Altri facilmente potrebbe credere che con la parola “disonestà — turpitudo, „ si ripeta ancora ciò che sopra si volle significare con le parole “fornicazione ed impudicizia; „ ma evidentemente sono cose distinte, e se con le due parole di fornicazione e di impudicizia il sacro testo indicò i peccati di incontinenza esterna con altri e quelli di incontinenza con se stessi, con la parola disonestà intese fulminare l’oscenità del parlare, come spiega il massimo degli interpreti (Cornelio Alapide): Obscœnitas verborum. Che dire, o miei cari, di quest’altro male che l’Apostolo segnalava ai suoi figliuoli di Efeso? Ne siamo noi immuni? Me ne appello a voi. Ohimè! come anche in mezzo a noi fa strage il turpiloquio e i malvagi discorsi corrompono i buoni costumi! Nelle case, nelle conversazioni, nelle vie, nelle piazze, nei crocchi e perfino in mezzo al lavoro dell’officina e del campo, la parola turpe, lubrica, insozza la lingua di tanti cristiani e scandalizza i loro fratelli. Hanno il cuore corrotto, e da esso, come miasmi pestilenziali d’una palude, procedono i discorsi osceni. Pur troppo la trista abitudine del parlare osceno toglie il ribrezzo al peccato, e non è raro udire taluni, che dicono: Che male c’è a dire certe cose? Lo facciamo per ridere e stare allegri. In fine non facciamo male a persona. Come! Non sapete che la parola è come una scintilla, che appicca l’incendio all’anima e suscita il fuoco della libidine? La parola tua può uccidere l’anima del fratello, che per essa pensa e desidera il peccato. Tu uccidi l’anima del fratello e dici: Che male faccio? — Lo fo per eccitare l’allegria? Ah se sapessi ciò che avviene nel cuore del fratello che ti ascolta, inorridiresti! Fine, o dilettissimi, a tanto vituperio: Nec nominetur in vobis. – Non si accontenta l’Apostolo di proscrivere tra i cristiani quelle opere e quelle parole, che sono per se stesse malvagie, come la fornicazione, la impudicizia e le oscenità; ma vuole che siano con ogni studio fuggite anche quelle cose che, quantunque per se stesse non peccaminose, pure sembrano rasentare il peccato e facilmente ad esso spianano la strada, e perciò proseguendo, dice: ” Né vi sia tra voi parlare da stolto e buffoneria — Aut stultiloquium, aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet. „ L’uomo, come uomo e più assai come Cristiano, deve sempre in ogni cosa regolarsi secondo ragione e secondo fede: è questa la sua sapienza, che lo terrà lungi dalla imprudenza, dalla temerità, dalla timidezza, dall’errore e da ogni eccesso, che è sempre riprovevole. Il suo parlare, regolato sempre dalla sapienza cristiana, sarà un parlare retto ed onesto, e lontano dal parlare da stolto, che l’Apostolo flagella, aut stultiloquìum. E naturale nell’uomo la tendenza a quella che si dice piacevolezza o giovialità  e quindi al giuoco, al passatempo, e via dicendo. È questo male per se stesso? No, sicuramente, e per questo a ragione S. Paolo aggiunse: Quæ ad rem non pertinet, parole che significano l’eccesso o sconvenienza. I divertimenti, i giuochi, le piacevolezze devono sempre contenersi entro i confini dell’onesto e relativamente alle persone ed al loro stato, e non eccedere o per ragione del tempo e del modo e delle condizioni speciali, donde poi derivano le facezie mordaci, la rilassatezza del costume ed altri disordini. Il vero cristiano, secondo S. Paolo, conserva sempre in tutto la giusta misura, quella gravità e compostezza che si conviene a chi è padrone delle proprie passioni e sa di camminare sotto gli occhi di Dio, che tutto vede e giudica secondo verità. Invece di tutte queste cose più o meno riprovevoli vuole l’Apostolo, che i fedeli rivolgano le loro menti e i loro cuori a Dio, e lo ringrazino dei benefizi senza numero ricevuti. Tutta la esistenza nostra ed ogni istante della medesima è un beneficio del Signore, e come continuo è il beneficio, così continuo dovrebb’essere da parte nostra il rendimento di grazie: Deo gratias, scrive S. Agostino: hoc nec dici brevius, nec audiri lætius, nec intelligi grandius, nec agi fructuosius potest (Epist. 77). – Dopo aver messo sotto gli occhi dei cristiani i peccati che devono cessare, S. Paolo come spesso suol fare, ricorda la sanzione divina, il castigo riserbato a chi li commette, e in modo solenne esclama: “Perché questo dovete sapere, che nessun fornicatore od impudico od avaro, che vuol dire idolatra, ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. „ Hanno un bel dire certi uomini dotti e che si atteggiano a maestri e pretendono correggere la dottrina cristiana: ” Il male si deve evitare per se stesso, perché è cosa brutta, e non occorre parlare di castigo, di perdita del cielo, del fuoco dell’inferno preparato a chi lo fa. „ Certo il peccato lo si deve fuggire anche perché è cosa brutta ed abbominevole per se stessa; ma questo motivo è desso bastevole e bastevole sempre e per tutti? Sarebbe come dire che noi possiamo chiudere le carceri, abolire i tribunali e i carabinieri e bruciare il codice penale, perché gli uomini possono e devono adempire i loro doveri e vivere virtuosamente senza questi mezzi, che atterriscono e frenano i malvagi. Più che la bruttezza del peccato, a ritrarne l’uomo, assai spesso vale il timore del castigo, la perdita del cielo, e per convincercene basta studiare un poco la natura umana. Non è egli vero, o genitori, che voi stessi per ottenere l’obbedienza dai vostri figliuoli e farli camminare sulla via del dovere, siete costretti non rade volte di ricorrere alla promessa del premio ed alla minaccia del castigo? E ciò stesso fa Paolo, gridando: “Ricordatevelo bene: il cielo, l’eredità che Dio ha promesso a noi suoi figliuoli adottivi per mezzo di Cristo, non sarà dato ai fornicatori, agli impudichi, agli avari. Cessino adunque codesti moderni stoici dal ripeterci che noi cattolici, promettendo il premio ai virtuosi e minacciando il castigo ai malvagi, facciamo un mercato della virtù e la tramutiamo in una merce ed appelliamo all’egoismo. L’uomo non può prescindere da se stesso e non può non volere il proprio bene e la propria felicità, e perciò fuggire il vizio per timore del castigo e praticare la virtù per la speranza del premio, è cosa conforme alla natura. Sarà motivo nobilissimo sopra ogni altro cessare il male e fare il bene per il solo amore di Dio, senza dubbio: ma quanti lo faranno? Lo stesso Apostolo, quell’anima sì sublime, ci grida che aspettava anch’egli il premio delle sue fatiche dal giusto Giudice. Il timore del castigo e la speranza del premio sono due motivi ragionevoli e nobili per vivere virtuosamente: più nobile è l’amore di Dio. – L’avarizia è lo sfrenato amore delle ricchezze, che spinge l’uomo a violare la giustizia o la carità per accumularle, e perciò non si vuol confondere coll’amore del risparmio e col desiderio di accrescere i propri beni con mezzi onesti e legittimi. L’Apostolo, nominato l’avaro, soggiunge: il quale è idolatra. Come ciò, o carissimi? Ogni passione soddisfatta, ogni peccato, non è desso un idolo, a cui l’uomo sacrifica l’amor suo e a cui rende quel culto, che rifiuta a Dio? Sì, è vero: in un senso, ogni peccato grave, è una specie di idolatria, in quanto l’uomo pone in esso quel fine, che dovrebbe porre solamente in Dio. Ma, se bene si considera, negli altri peccati, come nella disonestà, nella gola, nella superbia, il fine, l’oggetto è nell’uomo stesso, nella sua soddisfazione, dove ché nell’avarizia l’oggetto è fuori di lui: è l’oro, oggetto materiale, dinanzi al quale cade, come il pagano si prostra ai piedi del suo idolo. Quale umiliazione, quale vituperio per l’uomo, essere spirituale, fatto per elevarsi al conoscimento del vero, della virtù, di Dio stesso, e Lui solo amare sopra ogni cosa, gettarsi ai piedi d’un po’ d’oro, d’un pugno di materia e porre in esso ogni sua felicità (Jo. Chrys., Hom. 64 in Matth.)? Segue un’altra raccomandazione generale: “Nessuno vi seduca con vani ragionamenti. „ – Allora, come sempre, vi erano i seminatori di false dottrine, e S. Paolo in altre lettere ne nomina alcuni: essi alteravano l’insegnamento della fede, e la loro parola, scrive l’Apostolo, si dilatava come un cancro — Sermo eorum ut cancer serpit. — Egli è contro questi spargitori di false dottrine, contro questi adulteratori del Vangelo che S. Paolo vuol premunire i suoi figliuoli spirituali, dicendo: “Deh! Che nessuno vi seduca con falsi ragionamenti! Tenetevi fermi alle dottrine, che avete ricevute da me. „ – Il pericolo additato dall’Apostolo esiste e grande, e forse non minore che non fosse a quei tempi. O dilettissimi! Non lasciamoci ingannare né dai maestri d’errori, né da tanti libri pestiferi, che corrono per le mani di molti. Teniamoci saldi alla fede della madre nostra amorosissima, la Chiesa, e chiudiamo le orecchie alle parole ingannevoli dei seduttori, e gli occhi ai loro libri e scritti quali che siano. Guai a voi, se ingannati dai seduttori, abbandonate la dottrina di Cristo, vi ribellate al suo Vangelo: lo sdegno di Dio, la sua vendetta verrà sopra di voi — Propter hæc venit ira Dei in filios diffidentiæ. — Separatevi da questi riottosi e da questi uomini di perduti costumi, affinché il loro contagio non si appicchi a voi pure — Nolite effici participes eorum. — Ciò si intende sempre nella maniera che è possibile e in ragione del pericolo, che per noi si corre, usando con questi peccatori, o dello scandalo che altri potrebbe ricevere vedendovi frequentare la loro compagnia. Dalla raccomandazione sì calda fatta ai suoi novelli cristiani: “Non vogliate accomunarvi con questi uomini riottosi, „ era naturale il passaggio alla sentenza che segue: “Un tempo eravate tenebre; ora siete luce nel Signore, „ cioè per opera e bontà del Signore. L’immagine della luce è famigliare a Gesù Cristo nel Vangelo e la ripete spesso S. Paolo: essa tra le create cose è la bellissima e meglio d’ogni altra rappresenta Dio stesso, la verità, la bellezza, la virtù, tutto ciò che è buono e santo. Voi, cosi S. Paolo, pochi anni or sono, eravate immersi negli errori del paganesimo, camminavate nelle tenebre, ignorando il vostro principio ed il vostro fine, anzi eravate tenebre: Dio vi ha tratti fuori di queste tenebre, vi ha trasportati nel regno della sua luce, che è la Chiesa, e vi ha fatto conoscere la verità e siete non più tenebre, ma luce: Nunc autem lux in Domino. Rischiarati da questa luce della verità, camminate, ossia operate, e diportatevi come figli della luce. Questa frase sì viva e brillante del nostro Apostolo è sostanzialmente quella che vi spiegai altrove (Omelia I , vol. 1°), e che si legge nel c. XIII ai Romani. Uditela: ” La notte è passata ed il giorno è vicino: gettiamo via le opere delle tenebre e vestiamo le armi della luce e camminiamo con decoro, come di giorno… e rivestite il Signore Gesù Cristo. ,, – E che cosa importa operare o diportarsi come figli della luce? Ascoltate ancora l’Apostolo: “Il frutto della luce, ossia le opere della verità e della fede, che avete ricevuta, consiste in ogni rettitudine e giustizia e verità, „ che è quanto dire: siate retti, giusti, amanti della verità, sinceri e voi proverete col fatto d’essere figli della luce, e con questa raccomandazione del grande Apostolo io chiudo l’Omelia, o dilettissimi, e vi lascio.

 Graduale

Ps IX: 20; 9:4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo. [Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua. [Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri, [E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis. [Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI:14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

Omelia II

[Ibi, om. VI]

“Gesù stava cacciando un demonio, ch’era muto, e come lo ebbe scacciato, il muto parlò e le turbe si meravigliarono. Ma alcuni tra quelle dissero: Egli scaccia i demoni per Beelzebub, loro capo. Ed altri, tentandolo, chiedevano da lui un segno dal cielo. Ma egli, conoscendo i loro pensieri, disse loro: Ogni regno diviso in se stesso sarà disfatto e cadrà casa sopra casa. Se dunque anche satana è diviso in parti contrarie, come starà in piedi il suo regno? poiché voi dite ch’io caccio i demonii per Beelzebub. S’io  poi caccio i demoni per Beelzebub, per chi mai li cacciano i vostri figli? Per questo essi saranno i vostri giudici. Ma se io caccio i demoni per la potenza di Dio, per fermo è giunto tra voi il regno di Dio. Quando un potente armato custodisce la sua casa, è sicuro quanto egli possiede. Ma se uno più forte di lui sopravenendo lo vinca, gli porterà via tutte le armi, in cui confidava, e spartirà le sue spoglie. Chi non è meco è contro di me; e chi meco non raccoglie, disperde. Quando lo spirito impuro è uscito dall’uomo, si aggira per luoghi aridi, cercando riposo, e non lo trovando, dice: Tornerò nella mia casa, donde uscii. E, venuto, la trova spazzata ed adorna. Allora si parte e prende sette altri spiriti più malvagi di lui, ed entrati, vi abitano, e le ultime condizioni di quell’uomo sono peggiori delle prime „ (Luca, XI, 14-26).

È questo, o carissimi, il tratto evangelico, sul quale oggi fermeremo la nostra attenzione. Esso è alquanto lungo e comprende quattro parti distinte, il miracolo del muto guarito da Gesù, l’orribile calunnia mossa a Gesù, e la sua risposta, e l’ostinazione dello spirito maligno nell’infestare le anime. Risparmiamo il tempo e poniamo mano alla spiegazione. “Gesù stava cacciando un demonio, che era muto, e come l’ebbe cacciato, il muto parlò e le turbe si meravigliarono. ., Questo fatto è narrato brevemente anche da S. Marco e più particolarmente da S. Matteo, il quale dice che il muto era non solo muto, ma eziandio cieco. Non è necessario l’avvertire che quando l’Evangelista dice che il demonio era muto, si deve intendere che il demonio lo rendeva muto. Non ignoro, o dilettissimi, che ai nostri giorni parlare di demoni e di infermità o malattie da loro cagionate, per certa gente che si crede istruita e sciolta da vecchi pregiudizi, è un esporsi al ridicolo od alla men peggio ad un mal dissimulato compatimento. Ma voi comprenderete bene che il Vangelo, anche umanamente parlando, merita maggior fede di questi uomini, se volete, anche istruiti e approfonditi in ogni scienza. Per noi Cattolici credenti, dove parla il Vangelo, parla Dio stesso, ed ogni scienza umana, sia pur somma, deve tacere. D’altra parte chi può negare che, tra noi uomini, composti di spirito e di corpo, e Dio, spirito d’infinita perfezione, possano esistere altri spiriti, a Lui inferiori e superiori a noi? La ragione ne comprende la possibilità, la fede ce ne insegna l’esistenza reale e tutta la storia dell’umanità lo attesta. E chi può negare che tra questi, alcuni siano fedeli a Dio ed altri a Lui siano ribelli, appunto come anche tra gli uomini alcuni sono buoni e virtuosi ed altri cattivi e perversi? E questo pure la ragione naturale intende, la fede proclama e l’umanità tutta conferma. E se vi sono questi spiriti malvagi, ribelli a Dio e nemici dell’uomo, perché immagine di Dio, qual cosa più facile ad intendersi, ch’essi possano produrre nella natura visibile, nell’uomo e nel suo corpo, permettendolo Iddio, effetti malefici, infermità, cecità, mutolezza ed altri somiglianti malanni? Se noi uomini possiamo produrre sulla materia tante modificazioni; se possiamo alterare le condizioni naturali del corpo umano e svilupparvi con tanta facilità dolori e malattie e persino la perdita della ragione, perché ciò non potrebbe con facilità, senza confronto maggiore lo spirito malefico, quando Iddio per i suoi fini lo permettesse? La ragione non ha nulla da opporre. Noi non diremo certamente che le infermità onde gli uomini sono al presente travagliati, siano opera dello spirito maligno, no, per fermo: o solo allora lo diremo che gli uomini della scienza lo affermano, al giudizio dei quali dobbiamo affidarci; ma essi non si offenderanno, né troveranno cosa irragionevole, se ammettiamo e crediamo che un uomo sia reso cieco o muto dallo spirito malvagio, allorché il Vangelo lo dice. Lo spirito malvagio può esistere, come esiste l’uomo malvagio: se esiste può fare il male sopra l’uomo, se Dio non lo impedisce: il Vangelo mi dice che lo fece sul tale e tal altro: con che diritto lo potrei io negare? Il ragionamento non ammette ombra di dubbio. – Ora ritorniamo al testo del nostro Vangelo. Gesù Cristo col solo impero della sua volontà scacciò il demonio, che aveva preso possesso di quel misero, e questo fu immediatatanente guarito, riebbe la vista e la favella. Ponete mente come Gesù Cristo, in questo e in tutti gli altri miracoli, agisca sempre in modo assoluto, con la sola volontà, in un lampo, senza esitare, senza applicare rimedio di sorta e in pubblico, alla presenza delle moltitudini, spesso dei suoi nemici, e l’effetto è istantaneo, infallibile, che sono i caratteri del vero miracolo. Le turbe, alla vista di quel miracolo, furono ripiene di stupore e dovettero prorompere in altissime esclamazioni ed in grandi applausi. Esse, nella loro semplicità, riconobbero il miracolo, non ne ebbero ombra di dubbio. Ma in mezzo a quelle turbe, scrive S. Luca, vi erano “alcuni che dissero: Egli scaccia i demoni per Beelzebub, loro capo. „ Chi erano costoro? S. Luca non ne fa il nome, ma lo fanno S. Matteo e S. Marco. Non era il buon popolo, ma erano gli scribi e i farisei venuti da Gerusalemme, i dotti di quel tempo. Costoro, pieni di superbia, di invidia e di odio contro Gesù Cristo, che smascherava la loro ipocrisia ed era acclamato dal popolo qual profeta e Messia: fieramente indispettiti contro di Lui, perché sconvolgeva e distruggeva interamente le loro false idee intorno al Messia ed alla sua grandezza, idee materiali, non potendo negare i miracoli che operava, li attribuivano a virtù diabolica. — Le passioni acciecano e non vi è eccesso, contraddizione, quanto si voglia enorme, a cui non possano trascinare chi ne è schiavo, e qui ne abbiamo una prova dolorosa. Hanno sotto i loro occhi la vita di Gesù Cristo: essa è modello perfettissimo di tutte le più elette virtù: non cerca che il bene delle anime e la gloria di Dio: conferma la sua dottrina coi miracoli più strepitosi, è impossibile negarli o dubitarne. Si arrendono alla evidenza dei fatti, lo riconoscono per Messia? No, mai: a costo di fare oltraggio al buon senso, di calpestare la ragione, essi dicono: “Costui caccia i demoni per virtù di satana, loro capo”. Il povero popolo conosce la verità e la segue: gli uomini della ricchezza e della scienza d’allora, la disconoscono e la rigettano! Mistero di accecamento e di superbia, che si ripete attraverso tutti i tempi! I farisei chiamano Beelzebub capo dei demoni. I demoni hanno essi un capo? Stando al linguaggio dei Libri santi, sembra fuor di dubbio. Gesù Cristo parla del principe di questo mondo e designa il demonio: S. Paolo lo chiama dio di questo secolo; S. Giovanni descrive il dragone e gli angeli suoi, che pugnano contro Michele e gli angeli buoni: quelle espressioni indicano abbastanza chiaramente che, come gli Angeli buoni hanno i loro duci ed un duce supremo, così li hanno i malvagi. I farisei e gli scribi attribuiscono al demonio il potere di far miracoli. Che dire? Si può ammettere? I demoni, essendo spiriti dotati di intelligenza e di forze di gran lunga superiori a quelle degli uomini, indubbiamente possono far cose superiori alla intelligenza e alla forza degli uomini e tali che agli uomini debbano sembrare miracoli. E Dio li può permettere? Li può permettere finché non traggono in errore gli uomini; ma allorché questi fatti od opere diaboliche, che hanno l’apparenza di veri miracoli, possono indurre in errore gli uomini, allora Dio deve impedirli o dare agli uomini mezzi o segni sicuri per distinguerli dai veri miracoli. Se ciò non facesse, l’errore sarebbe inevitabile, e Dio medesimo ne sarebbe autore. E qui, o fratelli miei, forse più d’una volta avrete letto od udito parlare di risposte date da spiriti; di tavole scriventi, o parlanti, di apparizioni di spiriti, di conoscimento dei pensieri e via dicendo. Mi domanderete: che dobbiamo pensare di tutte queste cose? Mi è impossibile darvi una spiegazione ampia come sarebbe necessario: vi dirò quel tanto, che basti per vostra regola pratica. Anzitutto diffidate della verità di tutti questi fatti: vi hanno gran parte la fantasia, la destrezza e, diciamolo, il ciarlatanismo degli uni e la soverchia buona fede degli altri. In secondo luogo alcuni di questi fenomeni, che sembrano straordinari e quasi miracolosi, si possono spiegare naturalmente mercé l’uso di certi agenti noti agli operatori, che sanno manipolarli. In terzo luogo voi vedrete che siffatti fenomeni non si ottengono con la sola volontà degli operatori, ma si domandano preparazioni più o meno lunghe di luoghi, di strumenti, di tempo, di soggetti, né sempre riescono: tutte cose che mostrano l’arte e l’industria dell’uomo. Poi è chiaro che se fossero veri tutti questi fenomeni che si dicono, e se si conoscessero i pensieri degli uomini, come si afferma, gli autori se ne varrebbero a proprio vantaggio in guisa da diventare ben presto ricchi signori. Finalmente sappiate che la Chiesa riprova questo interrogare gli spiriti e le tavole scriventi o parlanti, perché vi è gran ragione di sospettare, che vi entrino l’inganno, l’impostura e la superstizione, e le risposte che si hanno sono ora ridicole, ora contraddittorie, ora irreligiose od empie. Figli ubbidienti della Chiesa, non sia mai, che prendiate parte a siffatte prove. Non vi è lecito e ciò basti. Non paghi gli scribi ed i farisei dell’orribile ingiuria fatta a Gesù e della esecrabile bestemmia di attribuire al demonio le opere di Lui, opere divine, spinsero l’audacia sacrilega fino a chiedere a Lui stesso un miracolo, ma un miracolo a loro modo, che fosse operato, non in terra, ma in cielo, quasiché fosse più facile verificare i miracoli che avvengono in cielo, che quelli che si operano sulla terra e si possono toccare con mano. Gesù Cristo era padrone delle opere sue e nessuno poteva imporgli il luogo, il tempo, il modo di operare i suoi miracoli. È sempre l’orgoglio dell’uomo che, per sottrarsi alle prove che ha lì presenti, ne domanda altre a suo capriccio; che se queste Iddio le concedesse, altre ancora ne chiederebbe. Costoro non crederebbero, come disse in altro luogo Gesù Cristo, quand’anche uno uscisse dalla tomba e parlasse loro. Quantunque quegli ostinati e superbi non meritassero alcuna risposta, Gesù la diede loro, e tale che avrebbe dovuto conquiderli: “Voi dite ch’Io opero miracoli per virtù del demonio, che scaccio il demonio col demonio istesso, come è avvenuto testé sotto i vostri occhi. Ora se è così, come voi dite, il demonio è in guerra con se stesso e il suo regno va necessariamente in mina e, per conseguenza viene il regno di Dio, quel regno che Io vi annunzio”. È  questa la prima risposta e, come vedete, trionfante, che Gesù dà ai suoi nemici. Che potevano essi rispondere? Nulla, e nulla risposero. Alla prima ne aggiunse una seconda non meno gagliarda. Egli poco prima aveva mandato i suoi Apostoli a predicare il regno dei cieli, quasi per iniziarli alla grande missione, che più tardi avrebbero adempiuto: aveva dato loro potere di guarire gli infermi e di cacciare gli spiriti immondi. Essi avevano compiuta la loro missione, ed erano ritornati narrando con gioia e meraviglia a Gesù stesso, che anche gli spiriti malvagi loro obbedivano: Etiam dæmonia subjiciuntur nobis. La cosa doveva essere pubblica e la fama sparsane dovunque e nota agli scribi ed ai farisei, ai quali Gesù rivolgeva la parola. Egli li stringe nuovamente in questa forma: Voi dite ch’io scaccio i demoni per opera del loro capo, satana (Beelzebub, o Baal-Zebud, era il nome della Divinità dei Filistei, che gli Ebrei davano al capo dei demoni), o Beelzebub. Voi non potete ignorare, che questi miei discepoli, che sono vostri fratelli, filii vestri, li hanno scacciati e scacciano anch’essi. Ditemi dunque, in nome di chi essi scacciano i demoni? Vorreste forse sospettare e dire ch’essi pure ciò fanno in virtù di Beelzebub? Essi sono miei discepoli, e se non vi basta l’animo di affermare che anch’essi sono strumenti di Beelzebub, come lo potete dire di me, loro maestro? Essi, questi miei cari discepoli e vostri connazionali e conterranei, saranno i vostri giudici e la vostra condanna: Ipsi judices vestri erunt. S’Io pertanto e i miei discepoli scacciamo il demonio, lo scacciamo, non per la potenza del demonio, ma per la potenza di Dio, e questa è una prova solenne, irrecusabile che il suo regno cade e che è giunto tra voi il regno di Dio, in altri termini, che è venuto il Messia che aspettate. Son due quelli che si contendono l’impero morale del mondo, il Figlio di Dio fatto uomo, Gesù Cristo, e il maligno, lo spirito delle tenebre: se Gesù volesse usare direttamente il suo potere divino, la lotta finirebbe tosto e il suo regno in un istante sarebbe stabilito e il regno di satana distrutto. Chi può resistere alla sua onnipotenza? Ma Gesù Cristo vuol vincere la lotta e stabilire il suo regno, usando delle cause seconde, conquistando le menti e le volontà, non con la forza, ma con la persuasione e rispettando la libertà umana fino allo scrupolo. Egli non vuole entrare nelle anime se non quando esse volontariamente gli aprono la porta: non vuole nel suo regno che quelli che liberamente vi entrano: di qui la durata della lotta, che rende più grande e più glorioso il trionfo di Cristo e dei suoi figli. È una conquista che Gesù Cristo va compiendo per mezzo dei suoi seguaci, guadagnando a palmo a palmo il terreno, a prezzo di sudori e di sangue, e a mano a mano che il suo regno si allarga, quello di satana si restringe, precisamente a quel modo che il sole, con il suo lento avanzarsi sull’orizzonte, scaccia le tenebre, e quello acquista quel che queste perdono. – Seguitiamo il Vangelo: “Quando un potente armato custodisce la sua casa, è sicuro quanto egli possiede; ma se uno più forte di lui sopravenendo lo vinca, gli porterà via tutte le armi nelle quali confidava, e spartirà le sue spoglie. „ È questa un’immagine o similitudine, con cui Gesù Cristo viene rischiarando e ribadendo le cose dette. Chi è questo forte armato, che custodisce la casa e ciò che nella casa si trova? Indubbiamente è il principe delle tenebre, il demonio, la cui forza è certamente grande. Che casa è questa ch’egli difende, e nella quale sono ammassate grandi ricchezze? È il mondo pagano, e quelli stessi tra i Giudei, che combattevano la verità annunziata da Cristo. Egli, il demonio, da lungo tempo possedeva questa casa, e con tutte le armi della forza, dell’astuzia, della menzogna vegliava alla sua difesa per impedire che gli fosse tolta. Chi è il più forte che sopraviene, che lo vincerà, gli strapperà di mano le armi, nelle quali confidava, e si impadronirà della casa e di tutte le ricchezze in essa raccolte? È manifesto: è Gesù Cristo stesso, che viene a cacciare il demonio dal suo regno usurpato: Princeps hujus mundi ejicietur foras, e poco prima ne aveva dato una prova, liberando l’ossesso sotto gli occhi degli stessi scribi e farisei. – Gesù Cristo, non dimentichiamolo mai, o carissimi, caccerà da ciascuno di noi questo forte armato, se per somma sventura vi fosse entrato, o lo terrà fuori delle anime nostre se, come spero, non vi è penetrato; ma sempre a patto che non solo lo lasciamo operare liberamente in noi, ma cooperiamo alla sua grazia, giacché questa senza la nostra cooperazione, rimarrebbe infeconda e non servirebbe che a nostra condanna. “Chi non è meco è contro di me, e chi meco non raccoglie, disperde. „ Questa sentenza di nostro Signore parrebbe non avere nesso alcuno con le altre che la precedono, ma lo ha e naturale, se a dovere ne penetriamo il senso. “Io, così sembra ragionare il Salvatore, Io vengo per combattere il comune nemico, il demonio; io sono il capitano in questa gran guerra; voi e tutti gli uomini dovete combatterlo con me, sotto la mia bandiera. In questa guerra non v i possono essere uomini indifferenti: tra la verità e l’errore, il principe delle tenebre e me, che sono la luce e il Figlio di Dio, dovete scegliere: o sotto la mia bandiera, o sotto quella del mio nemico, e chi non si schiera sotto la mia, è mio nemico, chi meco non raccoglie, cioè chi non si unisce a me, disperde, da me si allontana. „ Qui non si tratta di cose, intorno alle quali si può dissentire senza pericolo della salute, come là dove Cristo disse: “Chi non è contro di voi, sta per voi — Qui non est adversum vos, prò vobis est „ (Luca, IX, 50), ma sì di cose necessarie, anzi del fondamento stesso della salute, giacché si tratta di seguire Cristo od il suo e nostro nemico, il demonio. Gesù passa a descrivere l’arte, l’odio e l’ostinazione con cui il nemico muove a danno degli uomini. “Quando lo spirito impuro è uscito dall’uomo, si aggira per luoghi aridi, cercando riposo, e non trovandolo, dice: Tornerò nella mia casa, donde uscii. E venuto, la trova spazzata ed adorna. Allora si parte e si prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrati, vi abitano, e le ultime condizioni di quell’uomo sono peggiori delle prime. „ Lo spirito impuro, ossia il demonio, allorché è costretto a partire da un’anima, arde del desiderio di ritornarvi: non si dà pace, e vedendola rifatta bella e stanza di Dio, che vi abita con la sua grazia, “prende altri sette spiriti peggiori di lui, „ cioè raddoppia le insidie e gli sforzi, chiama in suo aiuto altri spiriti molti (il numero sette indica in genere un numero considerevole), e con essi riviene all’assalto, e se l’anima non è ben salda, cade, e allora vi rientra, e il suo stato diventa peggiore. Fors’anche queste parole si riferiscono al popolo d’Israele: esso per lungo tempo fu il popolo eletto, la casa di Dio, mentre tutto il resto del genere umano brancolava nelle tenebre ed era schiavo di satana. Ma questo popolo eletto, ingrato alle grazie ricevute, respingendo e perseguitando i profeti, e sopra tutto, respingendo Cristo e perseguitandolo a morte, doveva cadere sotto la tirannica signoria del demonio e rimanervi fino alla conversione dei Gentili, ondeché la condizione d’Israele, dopo Cristo, sarebbe stata ben peggiore che per lo innanzi. Di questa spiegazione ne persuade ciò che si legge in S. Matteo (XII, 45), il quale, riferite le stesse parole di Gesù Cristo presso S. Luca da noi riportate, conchiude: ” Tale avverrà ancora a questa generazione malvagia. „ Quale che sia la interpretazione di queste sentenze di nostro Signore: sia che le riferiamo al popolo ebreo, sia che le intendiamo dell’anima in particolare che ricade in peccato, la verità che dobbiamo cavarne è questa: che il demonio vinto non lascia nulla di intentato per avere la rivincita; che se può rientrare col peccato in un’anima, da cui fu scacciato, ne fa più crudele governo, e lo stato di quest’anima diventa peggiore, perché le passioni già sopite, si risvegliano più rabbiose, si riaprono le antiche ferite; Dio, offeso dalla ingratitudine diminuisce le sue grazie, e il cuore con il mal uso di queste indura.

Credo

Offertorium

Orémus Ps XVIII:9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea. [I comandamenti del Signore sono retti, rallégrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adémpie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santífichi i corpi e le ànime dei tuoi servi, onde pòssano degnamente celebrare il sacrifício.]

Communio

Ps LXXXIII:4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te. [Il pàssero si è trovata una casa, e la tòrtora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli esérciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che àbitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei sécoli dei sécoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes. [Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

 

 

LA RETTA INTENZIONE

LA RETTA INTENZIONE.

[d. Giacomo della Vecchia: “Albe primaverili”, Libr. G. Galla, VICENZA, 1911]

Revela Domino opera tua, et dirigentur cogitationes tuæ,

[Riferisci al Signore le opere tue, ed i tuoi pensieri avranno buon effetto.]

(PROV. XVI, v. 3)

ESORDIO. — Molti cristiani si lamentano di non sapere lodare e servire il Signore … Dicono: Recito ogni dì le mie preghiere, vado alla santa Messa anche di frequente… Ma poi, lungo il giorno, la mente preoccupata dai doveri, dagl’interessi …, non ricorda il Signore. — Se vi fosse un mezzo pratico di lodare e benedire il Signore; un mezzo di farmi santo, anche fra le mie occupazioni! Miei cari, il mezzo vi è, ed alla portata di tutti…  È la retta intenzione; fare cioè tutte le cose per amore di Dio. Lo insegna lo Spirito Santo: Indirizza al Signore le opere tue, ed i tuoi pensieri (di lodarlo, servirlo, di santificarti) avranno buon effetto… Revela Domino opera tua, et dirigentur cogitationes tuæ.

Voi lo vedete: Il soggetto della nostra considerazione è della massima importanza…

PARTE PRIMA

Retta intenzione vuole dire « indirizzare a lode e gloria di Dio tutto quello che si fa, si dice, si pensa; anche le cose più indifferenti.

(a) E’ un dovere. Dio ti ha creato per la sua gloria; in gloriam suam creavit omnia Deus… Sei al mondo per lodare, servire ed amare il Signore… È il tuo fine… Dio ha tutto il diritto, che le tue azioni siano dirette a Lui solo…; perché Egli ti conserva la vita …, le forze …, la mente … ; ti aiuta …, ti sorregge… : da Lui solo viene la volontà …, la possibilità di pensare, parlare, operare … Senza la sua assistenza resteresti cieco, muto, inerte, inebetito, morresti … Dunque è giusto, è doveroso, che tutte le tue azioni, interne ed esterne, siano indirizzate alla sua gloria. Tibi sacrificabo hostiam laudis et nomen Domini invocabo. (Salmo CXV, 7).

(b) E’ necessario. — Se lavori, fatichi, operi il bene per interesse …, per fini mondani …, per seguire il tuo temperamento …, nulla guadagni per il cielo … Gesù è la vite, noi i tralci… Se stiamo uniti a Lui con la retta intenzione di glorificare il Padre celeste, la nostra vita sarà feconda… per il cielo… Se ci stacchiamo da Lui … per cercare noi stessi nel nostro operare…, per noi l’è finita! — Lavorare, faticare, soffrire per poi, al punto di morte, dover dire: Mi sono affannato tanti anni…, e nulla ho guadagnato! … Non vi pare una cosa stolta? Per totam noctem laborantes, nihil cepimus. (S. Luca V, 5). Senza la retta intenzione, cioè se ti proponi fini terreni, la pietà diventa spesso ipocrisia …, il lavoro è una speculazione, la virtù è una finzione … ; e l’anima muore di anemia e di sfinimento… Dio allora rigetta le tue opere buone … ; e che importa la stima del mondo …; senza quella del Signore?

(c) E’ utilissima. — Ogni opera buona, fatta per amor di Dio, acquista un nuovo merito ed un nuovo grado di grazia… e poi di gloria… Pratiche di pietà, fatiche, privazioni, dolori… — Le stesse azioni più indifferenti…, mangiare, bere, dormire, sollevarsi, se con retto fine, diventano meritorie per il cielo! — Quanti meriti per il Paradiso!

— Le api industriose suggono il nettare dei fiori e lo tramutano in miele dolcissimo. — Così noi dobbiamo cercare, in tutte le occasioni, di praticare l’obbedienza, la mortificazione, le virtù, con atti buoni, con pensieri santi … Ma, perché i nostri sforzi diventino miele soave che nutra l’anima, dobbiamo sempre indirizzare al Signore le nostre industrie spirituali e sante.

— Scrive S. Gregorio: Vale più una cosa piccola fatta per amore di Dio, che molte opere grandi, fatte per scopi terreni. — Per questo Gesù apprezzava i due centesimi della povera donna, e rigettava l’argento di quei signori …

— Gesù tutto accetta, anche una lagrima, un sospiro, che sia diretto a Lui …; altrimenti ti dirà: Nulla ho da darti; che sulla terra hai già ricevuto la tua ricompensa. — recepisti mercedem tuam. – Terminerò con le parole del B. Curato d’Ars: Nel cielo vivremo del patrimonio (di meriti) acquistato sulla terra; è necessario di accrescerlo a tutta possa; e noi lo accresceremo indirizzando tutto a Dio.

PARTE SECONDA

Per avere la retta intenzione, che influisca continuamente e con tanto vantaggio sul nostro operare, non occorre sforzo di mente, né ansietà …; un po’ di buona volontà …, ecco tutto… Veniamo alla pratica.

2. – Il mattino, appena svegliati, offerite al Signore la novella giornata…, con pietà, fervore, con un certo slancio…, dichiarandovi pronti a ricevere ogni cosa dalle sue mani … — Così tutte le vostre azioni giungeranno fino a Dio, che si degna accettare la nostra buona disposizione.

– Prima delle azioni principali fatevi il segno della Croce…, che garantisce il vostro proposito di volere lodare il Signore … Poi compite i vostri doveri con diligenza ed amore, perché già offerti al Signore … Giunge una tentazione? — Pronti rispondete: Vattene, o satana; quest’azione, non l’ho incominciata per te, e per te non voglio guastarla… Vade satana, Dominum Deum tuum adorabis, et Hi soli servies. (Matt. IV, 10).

— Sotto il cocente sol leone del deserto il pio solitario si reca alla lontana sorgente, per attingervi un po’ di acqua: in ispirito di penitenza, offre al Signore i suoi passi, come atti di amore … Nella silente solitudine ode una voce numerare …, uno, due, tre … — Si arresta …; silenzio … Ripiglia il cammino, e la voce misteriosa: quattro, cinque… — Confuso si volge indietro, guarda all’ingiro … Nulla di nulla … Ma, se avanza, la voce continua a numerare … ; se si arresta … ; ella si tace. Sconcertato, teme di un inganno… Ed ecco innanzi a lui un Angelo, che gli dice: Non temere, sono l’Angelo tuo Custode. Io numero i passi, che tu hai offerto al Signore …; li trascrivo nel libro della vita, e li troverai tutti al momento di morire.

— Dunque ripetete spesso con S. Ignazio: Ad maiorem Dei gloriam; tutto alla maggior gloria di Dio.

3. – Dopo le azioni, esaminatevi, se vi siete lasciati vincere dall’amor proprio; al caso, rimediate con un atto di umiltà. — Non parlate delle cose vostre, né in bene, né in male. — Non v’insuperbite del bene che avete fatto, e rigettate pronti e con disprezzo i pensieri di vana compiacenza … Ripetete a voi stessi le parole di S. Paolo: Che cosa hai che non abbia ricevuto (da Dio)? E, se hai (tutto) ricevuto, perché te ne vanti come di cosa tua ? « Quid autem habes quod non accepisti ? si autera accepisti, quid gloriaris, quasi non acceperis? (I Cor. IV.)

— La retta intenzione, ecco il grande segreto dei santi.

— Non badavano alle lodi, ed alle critiche, agli onori ed ai disprezzi. Calmi, imperterriti, diritti, come freccia sprigionata dall’arco, tendevano a Dio. Solo per Lui ed in Lui pensavano, amavano, sostenevano fatiche, persecuzioni, malattie, abbandoni … Rigettavano con sdegno i pensieri di vanagloria, di grandezze, di fini terreni, ed anelanti, ardenti, andavano esclamando: Deus meus et omnia.

— Dio solo, il mio Dio, e tutto possiedo. A questo modo nulla in essi andava perduto; ma accumulavano con un crescendo non interrotto tesori per il cielo. — Ecco i nostri modelli; imitiamoli. Qui ambulat simpliciter, ambulat confidenter. — Opus iusti ad vitam (Parab. c. 10.).

L’AGONIA DI GESU’: TERZO VENERDI’ DI QUARESIMA

TERZO VENERDÌ DI QUARESIMA

 [d. Umberto BANCI: “L’AGONIA DI GESU”; Libr. F. PUSTET, ROMA – 1935]

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

TERZA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Mulier, ecce filius tuus, ... deinde discipulo: Ecce mater tua ! (GIOVANNI, cap. X IX, 26, 27).

Donna, ecco tuo figlio, e al discepolo : Ecco la madre tua!

CONSIDERAZIONE

L’odio implacabile dei nemici di Gesù aveva messo in fuga i suoi discepoli ed i suoi ammiratori, aveva esaurito l’attaccamento dei suoi amici e dei suoi difensori, ma non aveva potuto impedire ad un piccolo gruppo di anime generose di raccogliersi ai piedi della croce ed accompagnare con le loro pietose lacrime l’agonia di Gesù. Accanto alla croce di Gesù, narra infatti l’Evangelista, stavano la sua madre e la sorella di sua Madre Maria di Cleofa e Maria di Magdala [Giov., XIX, v. 25] – Ed è su la Madre sua addolorata, che Gesù rivolge ora i suoi sguardi, e su di Lei, o anima cristiana, richiama la tua attenzione. Leggiamola insieme la narrazione della scena pietosa e sublime che si svolge su quel monte del dolore, e che doveva essere per l’umanità sorgente di nuove grazie. È S. Giovanni l’Apostolo prediletto, che la descrive, egli che ne fu il testimonio oculare ed uno dei protagonisti. Gesù allora, narra l’Apostolo, vedendo la madre e lì presente il discepolo amato da lui, dice a sua Madre: Donna, ecco tuo figlio. Poi dice al discepolo: Ecco la Madre tua. E da quel punto il discepolo se la prese con sé [Giov., cap. XIX, v. 26, 27]. « Vide bonitatem Dei » considera qui, o anima cristiana, la grande bontà del tuo Signore! – Poche ore prima Gesù nel raccomandare ai suoi discepoli che si amassero scambievolmente e si amassero così come Egli li aveva amati, aveva loro detto : Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per ì suoi amici [Giov., cap. XV, v. 15]. Dare la propria vita per la persona amata è senza dubbio l’ultima e più grande prova, che l’amico può dare all’amico del suo amore; ebbene questa grande prova Gesù te l’ha data. Se Egli muore inchiodato in croce, non è perché ha dovuto cedere alla violenza; con una parola sola aveva nel Getsemani gettato a terra tutta la turba armata, che era venuta ad arrestarlo. Ed ora non sono i chiodi che lo tengono sospeso al patibolo. – Gli Scribi ed i Farisei credono che Gesù non sia altro che una vittima del loro odio, ma essi non sanno quello che fanno. Oblatus est quia ipse voluit [Is., cap. LIII, v. 7] ; si è offerto al sacrificio perché lo ha voluto; e lo ha voluto perché ti ama. Sì, è l’amore che ti porta, o anima cristiana, che lo tiene attaccato a quella croce da Lui voluta con tutti i suoi orrori e i suoi dolori. « L’amore uccide l’amante » ha detto S. Pier Crisologo, e Gesù è veramente la vittima illustre del suo grande amore per te. Senonché, o Signore, Voi non avete dato la vita per gli amici ma l’avete data per i vostri nemici, che tali eravamo noi, fatti per il peccato figli di ira e di maledizione. – Ma un’altra prova del suo amore ancora più grande te l’aveva già data Gesù la sera innanzi nel Cenacolo, con l’istituzione della SS. Eucarestia. Se sul Calvario Gesù si esaurì come uomo, nel Cenacolo si esaurì come Dio. Gesù, ha scritto l’Evangelista S. Giovanni, che amava i suoi che erano al mondo, li amò sino alla fine [Giov., cap. X III, v.1].  Sì, Gesù ci ha amato sino alla fine, fino cioè a dar fondo ai tesori della sua divinità. Che cosa infatti avrebbe potuto darci di più Gesù quando in questo augusto Sacramento ci ha dato tutto se stesso, non solo come uomo, ma anche come Dio? Quando ogni giorno, anzi in ogni ora del giorno, discende realmente dal cielo, per offrirsi al Padre in olocausto d’amore, per la salvezza nostra, perpetuando così la rinnovazione dei grandi misteri della nostra redenzione, la sua Incarnazione cioè e la sua Passione e Morte? Ben disse S. Agostino: «Dio, pur essendo onnipotente, non poteva dare di più; essendo sapientissimo, non sapeva dare di più; essendo ricchissimo non aveva da dare di più ». Eppure quel cuore amabilissimo non è ancora soddisfatto, ed ecco che anche tra i tormenti della croce, cerca se possa dare agli uomini una nuova testimonianza del suo amore. Una cosa cara e preziosa gli era rimasta sulla terra: la Madre sua. Ebbene, Gesù che amava Maria come il più caro figlio può amare la più santa delle madri, compie ora l’estremo sacrificio, e ci dà come madre la Madre sua; nella persona di S. Giovanni, presentandoti Maria dice a te, anima cristiana, ed insieme a tutti gli uomini: Ecco la Madre tua. E da quel momento Maria divenne la madre tua. Gesù aveva promesso ai suoi cari di non lasciarli orfani e soli, e prima di salire al cielo dirà loro: Sarò con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo [MATTEO, cap. XXVIII, v. 20] ; ma occorreva dare anche una madre alla famiglia cristiana, e questa madre sarà proprio Lei, la Madre stessa di Gesù. Ma è possibile che la Madre di Gesù sia anche la Madre mia? Sì, è verità di cui non puoi e non devi dubitare; poiché è dottrina dalla Chiesa insegnata ed universalmente accettata che quando Gesù, indicando Maria, rivolse a S. Giovanni quelle parole Ecco la Madre tua, Egli vedeva nell’Apostolo tutta l’umanità, ed a tutti gli uomini la volle dare per Madre. Anche tu dunque, anima cristiana, benché indegna, sei la figlia di quella grande Madre; anche tu, rivolta a Maria puoi dirle: Madre di Dio e Madre mia. Sono veramente inesauribili le ammirabili invenzioni dell’amore di Gesù per te! Ma comprendi tu, anima cristiana, la sublimità di questo dono? Ti sei mai resa conto dei tanti titoli per i quali Maria si impone alla tua venerazione? Rifletti, anima cristiana, come Maria è quella Donna, che Dio preconizzò nel Paradiso terrestre ai nostri infelici progenitori; è quella Donna sublime, che schiacciando col suo piede immacolato la testa del serpente infernale, avrebbe iniziato la nuova èra di grazia. Essa fu il sospiro dei Patriarchi, l’ammirazione dei Profeti, che a Lei nelle sublimi estasi del loro spirito inneggiarono chiamandola: Regina adorna di ogni bellezza [Ps. XLVI, 10]; Tabernacolo purissimo di Dio [Ps. LXXXVI]; bella come la luna; splendente come il sole [Cantico de’ Cantici, cap. V I , v. 9]. Su di Lei, al momento dell’incarnazione, si posarono compiacenti gli sguardi della Triade Santissima e l’Angelo di Dio la salutò la piena di grazia [Lc. I, 28]. Maria insomma è il capolavoro della grazia e dell’onnipotenza divina, che tutte le generazioni, con commossa riconoscenza, hanno chiamato e chiameranno beata [Lc. I, 48]. Ed a tanta bellezza ed a così eccelsa grandezza unisce una potenza senza limiti; Maria è la mediatrice di tutte le grazie. È dottrina universalmente dalla Chiesa riconosciuta, che nessuna grazia ci viene da Dio se non per mezzo di Maria; « Nessuno, dice S. Gennaro vescovo di Costantinopoli, è liberato da un male, se non per te, o Signora Immacolatissima; nessuno riceve un bene se non per te, o Signora misericordiosissima; nessuno consegue la vittoria finale, se non per te, Signora Santissima» [Orazione 91]. Secondo la felice similitudine di S. Bernardo, Maria è il canale benedetto per mezzo del quale le grazie dal cielo discendono in terra: « E il fiume celestiale per cui si versano in grembo ai poveri mortali i flutti di tutte le grazie e di tutti i doni; è il portale d’oro del Paradiso, per cui speriamo di potere un giorno entrare nella pace e nella felicità eterna » [BENEDETTO XIV, Bolla Gloriosæ Dominæ]. – E nella sua eccelsa grandezza ha per i suoi figli una sollecitudine veramente materna. Come nel giorno memorando delle nozze di Cana, così ora dal cielo è provvidenzialmente vigile, ed incredibilmente sollecita nel soccorrere alle nostre necessità, tanto che S. Bernardo, il sublime cantore di Maria, poté scrivere: « Non si è mai inteso dire al mondo che alcuno ricorrendo alla sua protezione, implorando il suo aiuto e chiedendo il suo patrocinio sia rimasto abbandonato». E come queste parole corrispondano a verità tu stessa, anima cristiana, non ne hai fatto tante volte una felice esperienza? Anche tu nelle circostanze tristi della tua vita hai esperimentato quanto giustamente la pietà riconoscente dei fedeli rivolge a Lei quei bei titoli di Madonna delle grazie, Salute degli infermi, Consolatrice degli afflitti, Aiuto dei Cristiani. Ecco il grande dono che ti ha fatto Gesù dalla croce, mentre bevendo le ultime gocce del calice di amarezza realizzava il sospiro di tutta la sua vita. E tu, anima cristiana, come hai corrisposto a tanto dono? Saresti anche tu per caso tra coloro, meritevoli forse più di compassione che non di condanna, i quali ardiscono oltraggiare Maria con la bestemmia? Sarebbe abominevole la tua condotta; vilipendere così la Creatura più eccelsa; straziare così la Madre tua, a cui costi tutte le sue lacrime, è cosa orrenda, è ingratitudine inqualificabile. Gli stessi Giudei che nel loro odio cieco non risparmiarono insulti a Gesù, pure non osarono insultare la Madre del Crocifisso; anzi con pietosa riverenza le permisero di accostarsi e rimanere ai piedi della croce. E tu vorrai essere peggiore di loro? Lungi dunque da te un tale linguaggio d’inferno e risuoni invece sulle tue labbra una lode perenne a Maria; e sappiti rendere degno di tanto cara Madre, così come se ne seppe rendere degno S. Giovanni. A lui, perché puro, Gesù affidò la sua Vergine Madre. Coltiva anche tu nel tuo cuore il giglio della purezza; questa virtù, che è creatrice di Angeli in terra, ti meriterà le predilezioni di Gesù e l’amore di Maria. Che se il tuo passato avesse a rimproverarti qualche disordine, gettati con confidenza ai piedi di Maria; Ella non è soltanto la mediatrice benefica dei buoni, è anche il rifugio dei peccatori, che Ella persegue con tutte le arti della sua materna passione. Ed in ogni circostanza della tua vita, sia lieta o triste, volgi fiducioso il tuo sguardo a questa stella del mare, a questo porto di salute, e troverai in Lei la tua pace e la tua salvezza, perché a Lei la Chiesa applica quelle parole della scrittura: In me e ogni speranza di virtù e di vita [Ecclesiastico, cap. XXIV, v. 25].

Breve pausa, poi si reciti la seguente:

PREGHIERA

O Gesù mio amabilissimo, chi mai potrà rimanere indifferente dinanzi ai prodigi, che per me ha operato la vostra eccessiva carità? Per me le vostre carni, per me tutto il vostro sangue, ed anche tra i tormenti del vostro martirio io fui l’oggetto delle vostre premure, poiché mi assegnaste come madre la vostra stessa Madre. Come sono meravigliose le opere vostre, o Dio di misericordia! Grazie, o Signore, di tanta vostra bontà; siate benedetto ora e sempre, in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Purtroppo però tanta è la nostra cecità, che il vostro amore non è corrisposto; i vostri doni non sono apprezzati. Voi vi umiliate ed io non vi comprendo; Voi mi cercate ed io mi nascondo; Voi mi amate ed io vi disprezzo; dei vostri stessi doni mi servo per offendervi. No, o Signore, non sia più così. Fate che io veda, vi ripeterò con il cieco di Gerico; che io comprenda una buona volta che Voi solo siete veramente degno di essere amato, seguito e servito, Voi,  via, verità e vita, che siete venuto al mondo per ricolmarci di tutti i beni di grazia e di gloria. Per quello stesso amore dunque, che vi fece operare sì grandi cose per me, dissipate le tenebre che mi circondano, affinché conoscendo ed apprezzando i doni del vostro amore, possa cantare in eterno le vostre misericordie. – E Voi, Vergine addolorata, divenuta ai piedi della croce Madre di tutti coloro che soffrono e piangono in questa valle di lacrime, degnatevi rivolgere su di me i vostri sguardi misericordiosi. Voi che nell’esempio di Gesù imparaste ad amare i peccatori, Voi, che nel vostro cuore, prima ancora di esserlo solennemente proclamata, eravate Madre dei peccatori e che con le vostre preghiere, accompagnate dall’offerta dei vostri dolori, contribuiste alla conversione del buon ladro ed al ravvedimento di tutti quelli che, percuotendosi il petto, confessarono il loro delitto; Voi, che aveste il cuore sempre aperto alle nostre miserie, impetrate anche a me, figlia del vostro dolore, di piangere, nell’amarezza del mio cuore, tutte le mie colpe, ed accoglietemi, o Madre pietosa ed amorosa, sotto il vostro patrocinio e mostratevi ora e sempre, ma specialmente al momento della mia morte, Madre di misericordia. Così sia. [Pater, Ave e Gloria].

Volgi, deh! volgi

A me il Tuo ciglio,

Madre pietosa;

Poiché amorosa,

Me, qual tuo figlio,

Devi guardar.

Di tanto amore

Degno mi rendi;

Del santo amore

Tu il cor mi accendi.

Né un solo istante,

Freddo incostante

(Ah! mai non sia)

Gesù e Maria

Lasc’io d’amar.

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus,

ad locum supplicii tamquam

ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

10. V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

11. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis affigi,

in cruce levari, inter

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

.2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato;abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la l’ancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

1. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

4. V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

5. V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, testibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine, super hanc familiam

tuam, prò qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit

manibus tradì nocentium, et Crucis subire tormentum.

Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

1. V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

2. V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

3. V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

4. V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]