DOMENICA I DI PASSIONE [2018]

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XLII:1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua. [Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Oratio

Orémus. Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente. [Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX:11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

OMELIA I

[da Nuovo Saggio di OMELIE di mons. Bonomelli – 3^ ed. VOL. II, Omelia IX– Marietti ed. Torino 1898- impr.]

“Venuto Cristo, pontefice dei beni futuri, per un maggiore e più perfetto tabernacolo, non fatto a mano, cioè non di questa creazione, né per il sangue di capri o di vitelli, ma per il proprio sangue è entrato una volta per tutte nel Santuario, avendo compiuta una redenzione eterna. Che se il sangue dei “capri e dei tori ed il cenere di giovenca,, sparso sopra i contaminati, santifica a purità della carne; quanto più il sangue di Cristo, il quale, per lo Spirito Santo, offerse se stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente? E per questo egli è mediatore del nuovo Testamento, acciocché, intervenutavi la morte, a pagamento delle trasgressioni avvenute sotto l’Alleanza prima, i chiamati ricevano la promessa della eredità eterna „ (Agli Ebrei, IX, 11-15).

Sono cinque versetti, tolti dal capo IX della lettera di S. Paolo agli Ebrei, che la Chiesa ci fa leggere nella Messa di questa Domenica, che dicesi di Passione, perché oggi cominciano i grandi misteri della passione di nostro Signore. È la prima volta, che devo spiegarvi alcune sentenze di questa lettera agli Ebrei, e trovo conveniente premettere alcune avvertenze, che chiariranno alquanto il senso dei versetti che avete uditi. – Questa lettera fu scritta dall’Italia, come si fa manifesto dal penultimo versetto dell’ultimo capo, forse da Roma, dove l’Apostolo era stato in carcere, di recente uscitone tra la prima e la seconda sua prigionia, circa sei anni prima della distruzione di Gerusalemme e quattro circa prima della sua morte. La lettera è scritta ai Cristiani di Palestina, che prima erano stati Giudei. Questi credevano che Gesù Cristo era il Messia, il Figliuol di Dio e tutto ciò ch’Egli aveva insegnato e comandato; ma, nati e cresciuti nel giudaismo, non sapevano staccarsi dalle sue leggi, dai suoi riti, dai suoi sacrifici, dalle sue grandezze, e male sapevano entrare nello spirito del Cristianesimo, tutto fede, vita interna, speranze future, rinnegamento di se stessi, insegnamento della croce. L’antico Patto, iniziato dagli Angeli, proclamato da Mosè, imperniato nel sacerdozio di Aronne, la magnificenza del tempio, le memorie del tabernacolo, dell’arca, delle tavole della legge e via dicendo, esercitavano un fascino incredibile sui loro animi, che noi oggi non possiamo abbastanza comprendere; non sapevano rinunciarvi e alla men peggio essi volevano che il mosaismo dovesse mantenersi per sempre anche nel Cristianesimo. S. Paolo nella sua lettera, si propone di dissipare questi pregiudizi dei Giudei convertiti, che di mente e di cuore erano in gran parte ancora Giudei. Perciò nella lettera toglie a dimostrare la sovrana eccellenza del nuovo sull’antico Patto, del Cristianesimo sul mosaismo, della Chiesa sulla sinagoga, specialmente per tre capi, cioè in quantoché Cristo, Figlio di Dio, di infinito intervallo sovrasta agli Angeli, a Mosè, ad Aronne, ed è il mediatore per eccellenza e l’eterno Pontefice. È questo lo scopo di tutta la lettera, per chi bene la considera. Nel breve tratto recitato e che ora devo spiegare, l’Apostolo dimostra che Cristo, per ragione del suo sacerdozio, sta sopra l’antico, perché Egli è entrato nel santuario vero, cioè il cielo, non nel sangue altrui, nel sangue delle vittime immolate, ma nel proprio sangue, avente efficacia per se stesso. Ora svolgiamo l’alto insegnamento dell’Apostolo e voi, o cari, raddoppiate l’attenzione, perché il soggetto ne è ben degno. “Venuto Cristo, pontefice dei beni futuri, per un maggiore e più perfetto tabernacolo, non fatto a mano, cioè non di questa creazione, né per il sangue di capri o di vitelli, ma per il proprio sangue, è entrato una volta per tutte nel Santuario, avendo compiuta una redenzione eterna. „ Affinché possiamo capire ciò che S. Paolo insegna in questo luogo, occorre accennare brevemente a ciò che dice nei versetti precedenti, e che riguarda le cose principali spettanti al culto dell’antica legge. Le cose del culto nella legge mosaica erano minutamente determinate e tutte e ciascuna avevano un significato proprio. Il popolo ebraico aveva un sol tempio in Gerusalemme, al quale tre volte all’anno si recavano tutti i figli d’Israele giunti all’età di dodici anni. In quel tempio vastissimo tutto era ordinato: nel centro era il luogo destinato ai sacerdoti: nel mezzo il grande altare destinato agli olocausti, ossia al bruciamento delle vittime: oltre l’altare degli olocausti era il vestibolo od atrio: dopo l’atrio c’era il tabernacolo anteriore, o primo tabernacolo, o luogo santo, e finalmente il Santo dei santi, o Santissimo, o secondo tabernacolo, separato dal Santo dei santi, o Santissimo, mediante un velo. Nel primo tabernacolo, o luogo santo, erano il candelabro con le sette lucerne sempre accese, la mensa coi dodici pani, uno per ciascuna tribù d’Israele, e che si rinnovavano ogni sette giorni. Nel Santo de’ santi, o Santissimo, si conservavano il turibolo d’oro, l’arca del Testamento, ed in essa, rivestita d’oro, l’urna d’oro racchiudente la manna, la verga d’Aronne e le tavole della legge. Nel luogo santo, o primo tabernacolo, i sacerdoti entravano due volte al giorno per gli uffici sacri; ma nel secondo tabernacolo, o Santo dei santi, entrava il solo sommo pontefice ed una volta all’anno per offrirvi il sangue della vittima in espiazione dei peccati suoi e del popolo. – Tutto questo significava, dice S. Paolo, che non era ancora venuto il tempo nel quale tutti potessero entrare nel Santo de1 santi, e che dovevano limitarsi a sacrifici, abluzioni e riti materiali, che non avevano forza di santificare la coscienza, e che tutto quel culto doveva durare finché venisse il raddrizzamento (usque ad tempus correctionis), cioè finché venisse Colui che compisse la legge e schiudesse il Santo de’ santi e vi introducesse tutti i redenti. Ora, continua S. Paolo: “È venuto Cristo,, pontefice dei beni futuri; „ al pontefice dell’ordine di Aronne è sottentrato Cristo, il sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec, alla figura è sottentrata la realtà. A quelli che vivevano sotto il sacerdozio mosaico, cioè ai figli d’Israele, se osservavano la legge, era promessa principalmente una mercede temporale: ma Cristo, Pontefice della nuova legge, promette e a suo tempo darà beni celesti, ricompense incomparabilmente più nobili: Christus… Pontifex futurorum honorum. Voi, carissimi, non ignorate l’economia e il carattere dell’antica legge: a chi la trasgrediva erano minacciate pene temporali, e non rare volte inflitta perfino la morte: a chi la osservava erano promessi beni temporali, vittorie sui nemici, abbondanza dei frutti della terra, pace ed ogni prosperità. Ben è vero, che, oltre i castighi e le ricompense terrene, ai trasgressori ed agli osservatori della legge, erano riserbati altresì castighi e premi nella vita futura; ma in generale nei Libri santi si parla più assai di castighi e premi temporali che degli eterni, attesa la natura grossolana del popolo ebraico. La legge nuova, per contrario, ai suoi seguaci non parla che dei premi e dei castighi della vita futura: ai credenti, ai virtuosi quaggiù sulla terra non promette mai la mercede dovuta, ma la mostra aldilà della tomba; anzi va più oltre: ai credenti, ai virtuosi, qui sulla terra annunzia persecuzioni, dolori, travagli, e l’apostolo S. Paolo non teme di proclamare altamente “… che tutti quelli che vogliono vivere piamente secondo Cristo, soffriranno persecuzione — Omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur. „ È questo il carattere proprio della dottrina di Cristo, che in ciò si differenzia dal mosaismo e di gran lunga si innalza sopra di esso. Nondimeno, bisogna confessarlo, non mancano anche tra i Cristiani alcuni, che, malamente applicando alla nuova legge le parole dei Libri santi, che si riferiscono soltanto alla mosaica, e seguendo un cotale spirito giudaico, promettono alla virtù ricompense terrene e al vizio denunziano terrene vendette (Talvolta Iddio può ricompensare la virtù e punire il vizio anche sulla terra ; ma non è economia regolare come nel mosaismo, e noi non possiamo dire ciò in particolare se non quando vi sono argomenti chiari ed evidenti.), e  tutto questo in modo ordinario ed a nome di Dio. Ah! no, carissimi. Noi dobbiamo vivere di fede, come vuole l’Apostolo: la nostra vita deve essere la copia della vita di Cristo, che in terra patì ogni maniera di umiliazioni e dolori: la nostra speranza, la nostra mercede non è quaggiù, ma lassù in cielo: noi siamo discepoli di un Pontefice che promette beni futuri: Poritifex futurorum honorum. Il pontefice ebraico, una sola volta all’anno entrava nel Santo dei santi, ch’era opera degli uomini: Gesù Cristo, scrive l’Apostolo, il Pontefice nostro, è entrato in un tabernacolo, nel vero Santo dei santi, raffigurato dal primo, che è il cielo dei cieli, non opera degli uomini, ma di Dio stesso. Il pontefice ebraico entrava nel Santo dei santi, offrendo il sangue di due vittime per i peccati propri e del popolo; Gesù Cristo è entrato in cielo, non col sangue delle vittime, ma per il sangue proprio, e offerto non per i peccati suoi, che non poteva averne, Lui sacerdote santo, innocente, immacolato, non avente parte alcuna con i peccatori (Capo VII, 26). Il pontefice ebraico entrava nel Santo dei santi una volta sola all’anno, ma tutti gli anni, ripetendo gli stessi sacrifici. Pensano alcuni interpreti, anche assai autorevoli, che in quel tabernacolo, maggiore e più perfetto, nel quale dicesi entrato Cristo, sia rappresentata la Chiesa militante, o l’Umanità santa di Cristo. Ma non so come Cristo debba passare per la Chiesa militante e molto meno possa passare per la sua Umanità. — L’una e l’altra sentenza parmi strana, è entrato in cielo una volta sola, e questa non si ripete, perché vale per tutte; e vale per tutte, perché la espiazione da Lui compiuta con il suo sangue è eterna, cioè bastevole per tutti e per tutti i secoli. Gli antichi sacrifici, quelli stessi offerti solennemente una volta all’anno dal sommo pontefice, si dovevano ripetere: ora la stessa necessità del dover ripetere quei sacrifici, grida in altro luogo l’Apostolo, vi dimostra la loro poca efficacia, la loro impotenza di santificare gli uomini (Capo X, 2). Penso che, udendo questa dottrina dell’Apostolo, si affacci alla vostra mente una difficoltà, che è bene sciogliere. Se dal ripetersi i sacrifici nell’antica legge, S. Paolo arguisce la loro poca efficacia e la loro impotenza di santificare le anime, altri potrebbe alla stessa maniera argomentare contro il Sacrificio stesso di Cristo sulla croce, che ogni giorno si ripete senza numero sulla faccia della terra nel sacrificio dell’altare. Ma la risposta è facile e perentoria, o carissimi figliuoli. I sacrifici dell’antica legge erano diversi e distinti tra loro, in guisa che ciascuno era vero sacrificio da se stesso. La cosa va ben altrimenti quanto al Sacrificio di Cristo consumato sulla croce e rinnovato sui nostri altari in ogni Messa che si celebra. Noi teniamo per fede, che il Sacrificio della nuova legge è un solo, quello della croce, al quale nulla si può aggiungere, nulla levare, e sovrabbonda a tutti i bisogni nostri. Nella Messa abbiamo un vero e proprio Sacrificio, ma non è altro che quello stesso della croce: l’unica differenza che corre tra l’uno e l’altro è accidentale, ossia di modo: quello della croce fu sanguinoso, questo della Messa è incruento e si compie sotto le specie del pane e del vino. La vittima che si offre, è la stessa, l’Uomo-Dio, Gesù Cristo; sul Calvario sparse visibilmente il suo sangue e morì: sull’altare sparge il sangue e muore misticamente in quantoché sotto le specie eucaristiche rappresenta veramente ciò che fece sulla croce. Sulla croce offerse e compì il suo Sacrificio, sull’altare lo ripete, e quasi direi, lo prolunga e lo applica agli uomini attraverso lo spazio e il tempo. Un fiume sgorga dai fianchi delle Alpi, e scorrendo per valli e per pianure volge al mare l’ampio volume delle sue acque: esso è un solo fiume, sempre quel solo e medesimo fiume, che scaturisce dalle Alpi, che bagna le valli, che tocca le borgate e le città che trova sulle sue sponde, che irriga le pianure, che sbocca nel mare. Così è il sacrificio del Calvario, un solo, sempre lo stesso, che sotto altra forma continua in tutti i punti dello spazio e del tempo fino all’ultimo giorno dei secoli. Ecco perché san Paolo più innanzi (X, 14) pronuncerà questa sublime sentenza: “Cristo con un solo Sacrificio in perpetuo fece perfetti i santificati — Una oblatione consummavit in sempiternum sanctificatos. „ Ora torniamo al nostro commento là dove  l’abbiamo lasciato. Dopo aver detto che Cristo, eterno Pontefice, entrò nel vero Santuario, che è il cielo, una sola volta per tutte, e vi entrò con il proprio sangue, offrendo a tutti per tutti i secoli una compiuta espiazione, prosegue e così ragiona: “Che se il sangue di capri e di tori ed il cenere di giovenca sparso sopra i contaminati (Nel Levitico e nei Numeri, particolarmente al c. XIX, Mosè parla a lungo di quelle che si dicono immondezze della carne od esterne. Era immondo il lebbroso e chi lo toccava: immonda la puerpera, chi toccava un cadavere, ecc. ecc. Erano immondezze materiali, non morali, ma che non permettevano a chi n’era macchiato, il consorzio civile e religioso, se non si purificava con le abluzioni o con i sacrifici prescritti, che erano molti e gravosi), santifica a purità della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, per lo Spirito Santo, offerse se stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente! „ È un argomento semplicissimo e calzante usato con gli Ebrei divenuti Cristiani. Voi tenete che il sangue delle vittime e le purificazioni stabilite da Mosè vi nettino dalle immondezze legali e vi rendano possibile il consorzio civile e la partecipazione delle cose sacre, e sta bene: ora come potrete voi, dice S. Paolo, dubitare che il sangue della Vittima divina, pura ed immacolata, che è Gesù Cristo, che si offerse a Dio con atto d’amore ardentissimo, prosciolga le coscienze, le anime vostre da ogni sozzura di peccato e vi renda atti a servire debitamente a Dio? Qui l’Apostolo mette in rilievo la profonda differenza che passa tra l’efficacia dei sacrifici antichi e il Sacrificio di Cristo. Quelli, per se stessi, non producevano che una purificazione esterna, legale, materiale, e se producevano anche la interna, spirituale, dinanzi a Dio, era unicamente in quanto risvegliava la fede nel futuro Messia e nel suo Sacrificio, doveché questo monda l’anima per virtù propria, la rende bella agli occhi di Dio, liberandola dalle opere morte, cioè dai peccati. E perché i peccati si dicono opere morte? Perché come le cose morte, i cadaveri, sono brutti a vedersi, fanno ribrezzo, gettano lezzo, e nell’antica legge rendevano immondo chi li toccava; così i peccati fanno l’anima brutta e schifosa a Dio, e a così dire lo costringono a torcere altrove gli sguardi. Purificata dai peccati, l’anima è atta a servire al Dio vivente, dice l’Apostolo, mettendo in rilievo il passaggio di stato, d’essere prima soggetta alle opere morte, e poi di poter servire a Dio vivente. “E per questo, conchiude S. Paolo il suo ragionamento, e per questo è mediatore del Testamento nuovo, acciocché, intervenutavi la morte a pagamento delle trasgressioni avvenute sotto l’Alleanza prima, i chiamati ricevano la promessa della eredità eterna. „ – L’Apostolo spiega perché Cristo è l’autore e mediatore del nuovo Testamento, e qui lasciate, o cari, che spieghi un po’ diffusamente il valore di queste parole “testamento” e “mediatore”. Si parla assai spesso di patto, di alleanza, di testamento antico, e di patto, di alleanza e testamento nuovo. Che vogliono dire queste parole? Qual è la ragione del loro uso nel linguaggio sacro? Dio fece promesse solenni a Noè, ad Abramo, ad Isacco, a Mosè: promesse di protezione, di beni temporali e spirituali, e soprattutto fece la gran promessa del futuro Salvatore, che sarebbe venuto dalla progenie di Abramo e dalla famiglia di Davide. Le promesse dei beni temporali, come sapete, erano legate alla condizione che i figli di Abramo e di Giacobbe sarebbero stati fedeli alla osservanza della legge. Le promesse divine furono accettate dai patriarchi e dal popolo registrate nei Libri santi. Era un patto, un’alleanza stretta tra Dio ed il suo popolo, una specie di contratto giurato e consacrato con il sangue delle vittime immolate. L’osservanza del patto con Dio da parte del popolo portava naturalmente il diritto di avere i beni da Dio promessi, e da parte di Dio l’obbligo di darli: ecco perché; i chiamò alleanza o patto, si disse poi anche testamento, perché al possesso dei beni spirituali e della vita eterna che ne è il termine ultimo, non sarebbero giunti che per la morte di Cristo. Ben è vero che gli Ebrei ebbero i beni temporali prima della morte di Cristo: ma quei beni temporali erano figura degli spirituali, e poiché questi non si potevano ottenere che per la morte di Cristo, così anche per ragione dei primi l’economia mosaica meritamente fu detta testamento. In una parola: la disposizione che dicesi testamento, ha vigore dopo la morte del testatore, e solo dopo questa l’erede riceve il possesso della eredità: ora tutte le promesse fatte da Dio agli uomini, quanto ai beni spirituali, erano tutte necessariamente legate alla morte di Cristo, come causa meritoria, e solo alla sua morte si sarebbero dischiuse le porte dei cieli ed avuto il possesso della vita eterna, ed è perciò che Cristo si chiama mediatore del Testamento nuovo, che completa il vecchio imperfetto. S. Paolo in questo luogo e in altri chiama Cristo mediatore in termini, implicitamente poi, dovunque nei Libri santi, è rappresentato come mediatore. La parola mediatore per se stessa importa l’idea d’uno che sta tra due e si adopera a conciliarli tra loro. A chi meglio che a Cristo si addice la dignità di mediatore? Egli primieramente è mediatore tra Dio e l’umano genere per natura, come avvertono i Padri. Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo: in Lui è perfetta la natura umana non meno della divina e unica la persona, e questa è divina. In Lui pertanto si congiungono la natura umana e la divina per guisa ch’Egli è veramente infinito e finito, eterno e temporario, immutabile e mutabile, in una parola Dio e uomo: Egli è, come scrisse S. Gregorio Nisseno, il punto che congiunge le due sponde del finito e dell’infinito, pel quale passano tutti i doni di Dio agli uomini, e per il quale gli uomini e gli Angeli stessi, dei quali ancora è capo, vanno a Dio. In questo senso Gesù Cristo è mediatore naturale. Egli poi adempie con sovrana perfezione gli uffici tutti di mediatore. Egli, in quanto uomo, paga per noi non solo, ma alla giustizia divina offre se stesso qual vittima espiatrice e propiziatrice in modo perenne, e salva da una parte tutti i diritti della giustizia eterna, pagando della sua stessa Persona in misura infinita, e dall’altra spiegando le magnificenze della sua carità, col patire e morire per gli uomini colpevoli, ond’Egli è la nostra conciliazione e la nostra pace, come insegna l’Apostolo. Carissimi! Gesù Cristo è il Figlio di Dio e di Maria: in Lui il Padre trova tutte le sue compiacenze: in Lui ama ed abbraccia tutti quelli che per fede ed amore a Lui sono uniti e somiglianti: a Gesù Cristo adunque, fratel nostro secondo la carne, stringiamoci per fede viva, per salda speranza, per ardente carità: a Lui facciamoci simili nelle parole e nelle opere, e dov’Egli è, noi pure saremo.

Graduale Ps CXLII:9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII:48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

Tractus Ps CXXVIII:1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea. [Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres. V. [Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]

Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum. [Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et júdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

Omelia II

 [Idem om. X]

“Chi di voi mi convince di peccato? S’io dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non ascoltate, perché non siete da Dio. Allora i Giudei risposero e gli dissero: Ora non diciamo noi bene, che tu sei un Samaritano, e che hai addosso il demonio? Gesù rispose: Io non ho addosso il demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate. Ma io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca e ne giudica. In verità, in verità vi dico: Se alcuno osserva la mia parola, non vedrà morte in eterno. Laonde i Giudei gli dissero: Ora conosciamo che hai addosso il demonio. Abramo e i profeti son morti: e tu dici: Chi osserva la mia parola non vedrà morte in eterno! Sei forse da più di Abramo, padre nostro, che morì? E dei profeti, che morirono? Che pretendi di essere? Gesù rispose: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è nulla; quegli che mi glorifica è il Padre mio, il quale voi dite essere vostro Dio. Eppure non l’avete conosciuto; ma Io lo conosco: e se dicessi di non lo conoscere, sarei bugiardo simile a voi; ma lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, il padre vostro, giubilando, desiderò vedere il mio giorno: lo vide, e se ne rallegrò. A1lora i Giudei gli dissero: Non hai ancor cinquant’anni e hai veduto Abramo? Gesù disse loro: I n verità, in verità vi dico: Prima che nascesse Abramo, io sono. Essi allora diedero di piglio alle pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio „ (S. Giov. VIII, 46-59).

Era il mese di settembre dell’anno precedente la morte di Gesù Cristo, e in Gerusalemme si celebrava la festa solenne della Seenopegia, ossia dei Tabernacoli, che ricordava i quarant’anni vissuti dal popolo sotto le tende nel deserto. Quella festa durava otto giorni e chiamava al tempio tutti i Giudei che non erano dispensati. Gesù vi andò con i suoi discepoli, e nel tempio stesso, o forse nell’atrio. ebbe molte e lunghe discussioni con i dottori o maestri della legge, presenti, com’era naturale, molti del popolo. Queste discussioni tra Gesù e i principi del popolo e i maestri della legge, versavano quasi interamente sulla sua missione divina, e si trovano compendiate nei capi settimo e ottavo di S. Giovanni, e i quattordici versi sopra riportati ne sono una piccola parte. La spiegazione è piana e facile ma, non posso dissimularlo, mi torna grave e molesto il darvela, perché vi si incontrano le più atroci ingiurie e le più orribili bestemmie lanciate in faccia a Gesù Cristo stesso. Ma se i nostri cuori proveranno una stretta dolorosa, udendo quei vituperi e quelle bestemmie esecrabili scagliate contro il Figlio  di Dio fatto uomo, ne riceveranno anche lume e conforto, ammirando la bontà di Chi le sofferse con tanta mansuetudine, e meditando l’alta lezione, che ci è data.“Chi di voi mi convince di peccato? „ Nei versetti che precedono Cristo aveva rimproverato ai Giudei il disegno già da loro concepito di ucciderlo, nel che mostravano di seguire il demonio, che fin da principio fu omicida, trascinando i progenitori nel peccato e sottoponendoli alla morte, e bugiardo e padre di bugia, ingannandoli. Per mostrare che dovevano credere alle sue parole, soggiunge: “Chi di voi mi convince di peccato ? „ S’Io violassi la legge, se fossi in qualche cosa colpevole, avreste ragione di rifiutarmi fede: ma voi non trovate, né potrete mai trovare colpa alcuna in me: perché dunque resistete alla mia dottrina? Perché non mi credete? Questa solenne sfida di Gesù Cristo fatta ai suoi nemici “Chi di voi mi convince di peccato, „ non poteva uscire che dalle sue labbra. Egli francamente afferma d’essere immune d’ogni colpa: e come poteva essere altrimenti? Egli era Uomo-Dio; l’umana natura sussisteva nella Persona del Verbo, e se l’umana sua natura avesse potuto peccare, Dio stesso avrebbe peccato, che è assurdo e bestemmia orrenda. Ma Io so, continua Cristo, Io so perché voi non credete alle mie parole: “Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; „ cioè chi ha lo spirito di Dio, chi ama Dio, chi è inchinevole ad ubbidire a Dio, ascolta volentieri le sue parole e crede ad esse: voi non avete lo spirito di Dio, voi non lo amate, perciò non ascoltate le parole mie, che sono quelle di Dio stesso. È ciò che avviene anche tra gli uomini. Se noi abbiamo stima d’una persona, se l’amiamo, se abbiamo comunanza di idee, ci sentiamo inchinevoli a porgere orecchio benevolo alle sue parole, le accogliamo facilmente e non ci permettiamo nemmeno di esaminarle o discuterle. Il figlio ascolta volentieri le parole del padre, la sposa quelle dello sposo, l’amico quelle dell’amico, perché hanno comune lo spirito, e l’amore unisce misteriosamente i loro cuori e le loro menti. Ecco perché le anime pie ascoltano docilmente la parola di Dio, e le anime tristi e malvagie ne provano noia e dispetto. Ciascuno ne può fare in se stesso la prova: si ascolta con piacere ciò che si ama, ciò che risponde ai bisogni del nostro cuore: amiamo Dio ed ascolteremo volentieri le sue parole. I Giudei compresero il rimprovero di Cristo, che in sostanza diceva loro che non avevano lo spirito di Dio, e pieni d’ira, con mal piglio gli dissero: “E non diciamo bene noi che tu sei un Samaritano ed hai addosso il diavolo? „ Insulto più bestiale e più empia e scellerata ingiuria non si poteva gettare in viso al Figliuol di Dio, al Santo dei santi! E ponete mente che l’orrida ingiuria era fatta a Gesù nel tempio, alla presenza dei suoi discepoli e d’una gran folla, e fatta con un’aria di cinica beffa, che la rende ancor più cocente. “E non diciamo noi bene che tu sei un Samaritano ed hai il demonio addosso? „ Qui si fa chiaro che altra volta, anzi poco prima gli avevano scagliato contro l’orrendo insulto, ancorché il Vangelo non lo riporti, ed ora freddamente lo riconfermano, e per giunta dicono: “Sì, noi diciamo bene, né punto ci inganniamo,, . – Due titoli, l’uno più ingiurioso dell’altro, appongono a Cristo: lo chiamano Samaritano e posseduto dal demonio. Per i Giudei i Samaritani erano doppiamente nemici, degni di disprezzo e d’odio: essi erano nemici nel senso nazionale e patriottico e più ancora nel senso religioso, come disertori dell’antica fede. L’astio tra i due popoli era profondo e comune in tutte le classi sociali, a talché la donna samaritana rifiutò a Cristo un po’ d’acqua, che le aveva chiesto, unicamente perché era giudeo, e altra volta gli abitanti d’un castello gli chiusero in faccia le porte, perché se ne andava a Gerusalemme. I Giudei forse avevano saputo delle escursioni di Cristo nella Samaria, della conversione di molti tra di loro, e nominatamente della donna al pozzo di Sichem; fors’anche avevano udito della parabola da Lui recitata, in cui il Samaritano dava una terribile lezione al sacerdote ed al levita, e si proponeva quale modello di carità: perciò era venuto in voce di amico dei Samaritani, di questi nemici della patria, del culto e della fede pura dei Giudei, e per dirgli una villania gravissima, rispondono a Gesù: “E non diciamo noi bene che tu sei un Samaritano,„ cioè amico dei nemici della patria nostra e disertore della nostra religione? – E non basta, aggiungono ancora: “Ed hai addosso il demonio. „ Un uomo posseduto dal demonio, che agisce sotto l’impulso del demonio, che è schiavo del demonio, valeva dire del padre della bugia e autore del male, è l’uomo peggiore che si possa immaginare, il più sciagurato di tutti gli esseri. Ebbene: questo atrocissimo insulto fu detto a Gesù Cristo: “Tu hai addosso il demonio! „ Oh scelleraggine che non ha nome! Oh orrore! E Gesù che disse? che fece? Ah! noi avremmo voluto che in quell’istante avesse lasciato trasparire la luce, che lo avvolgeva sul Tabor, che avesse armata la destra di fulmini, che sotto il peso della sua gloria avesse schiacciati quei miserabili e copertili di vituperio: ma queste sono le idee nostre, affatto umane, ben diverse dai consigli della sapienza e della misericordia di Dio. Gesù, udita quella orribile contumelia, con tutta calma e con sovrana dignità, rispose: “Io non ho addosso il demonio. „ Egli lascia cadere la prima ingiuria, “Tu sei un Samaritano, „ perché trattavasi di uomini erranti, sì, ma che potevansi ravvedere, e tra i quali molti erano pur retti e buoni. Quanto alla seconda e più sanguinosa ingiuria, risponde semplicemente: “Io non ho addosso il demonio. „ Quanta dignità! qual piena signoria di se stesso! quanta grandezza d’animo! Figliuoli carissimi! Allorché altri vi offende, vi ingiuria, vi vitupera, fosse anche brutalmente, vi stia dinanzi agli occhi l’esempio di mansuetudine, di dolcezza, di pazienza inalterabile di Gesù Cristo. Le ingiurie, che voi riceverete, non potranno mai pareggiare quelle ricevute da Gesù Cristo, e pensate, ch’Egli è Dio e voi povere creature! Dopo aver respinta dignitosamente la brutale ingiuria, Gesù aggiunse: “Io onoro il Padre mio e voi mi disonorate. „ Io l’onoro, annunziando la verità, adempiendo in mezzo a voi la missione che tengo, e facendo in ogni cosa il voler suo, “e voi mi disonorate. „ In questa espressione si semplice e sì piena di dignità si sente il dolore, quasi il gemito d’un’anima crudelmente ferita. “Io non cerco, continua Cristo, la mia gloria, „ come non cerco di fare la mia volontà, come uomo; ma cerco solo la gloria del Padre mio e di fare la sua volontà. Tutto Io son pronto a sacrificare, anche la mia vita ed il mio stesso onore, purché ne venga gloria a Colui che mi ha mandato. Io non penso a me ed all’onor mio: a questo penserà il Padre mio e a Lui totalmente me ne rimetto. E ciò che dovremmo far tutti noi Cristiani, adempire i nostri doveri e cercare e procurare, nella loro osservanza, la gloria di Dio, sicuri che Iddio penserà a noi, e a suo tempo ci renderà la promessa mercede. “Tu pensa a me, diceva Cristo a S. Caterina da Siena, ed io penserò a te. „ E qui Cristo, quasi in atto di rivolgersi a quelli tra i suoi uditori che credevano alle sue parole e confortarli a star saldi nella fede in onta alla incredulità, agli insulti ed all’odio dei Giudei, assumendo quell’accento pieno di autorità e maestà, che gli si addiceva, disse: “In verità, in verità vi dico: Se alcuno osserva la mia parola, non vedrà morte in eterno. „ Che fu un dire: Chiunque crederà alle mie parole, non basta, e le metterà in pratica, non soggiacerà a quella morte che sola è vera morte, la morte eterna. Una sentenza sì solenne, sì perentoria e sì inaudita in bocca d’un uomo, contro del quale erano pieni di mal animo e di disprezzo, doveva naturalmente irritare i Giudei e provocarli a nuove ingiurie. E in vero, guardandosi forse gli uni gli altri in aria di scherno e scrollando dispettosamente il capo, gli risposero: “Ora conosciamo che hai addosso il demonio. „ Sì, non ci siamo ingannati quando poco fa te l’abbiamo detto; se avevamo ancora qualche dubbio, tu ce lo togli con le tue parole. Come osi tu dire che chi osserva le tue parole non vedrà la morte in eterno? Abramo e i profeti sono morti. Sei tu forse da più di Abramo nostro padre, che morì? E dei profeti, che morirono anch’essi? Chi pretendi di essere? Evidentemente i Giudei fraintesero le parole di Cristo e, secondo l’uso loro, le pigliarono nel senso materiale e non nello spirituale. Cristo aveva detto: “Chi osserva le mie parole non sarà soggetto alla morte eterna dell’anima”, e i Giudei le intesero della morte del corpo, quasiché avesse voluto dire che chi osservava le sue parole sarebbe stato affrancato, come già fu promesso ad Adamo, dalla morte naturale del corpo. Ecco il perché della loro risposta, della rinnovata ingiuria, “tu hai addosso il demonio, „ e della difficoltà che muovono e che si chiude con quell’insolentissima domanda: “Chi pretendi di essere?„ Gesù, sempre inteso ad illuminare quelle menti ostinate, dissimulando le nuove e più gravi ingiurie, con imperturbabile mansuetudine risponde: “Se io glorifico me stesso, la gloria mia è nulla; quegli che mi glorifica, è il Padre mio, il quale voi dite essere vostro Dio. „ – “Vi ho detto – tale è il significato della risposta di Cristo – vi ho detto che chiunque osserva la mia parola, non vedrà mai la morte eterna dell’anima; voi ne argomentate ch’Io mi levo sopra tutti, anche sopra i profeti ed Abramo stesso; voi mi accusate di cercare la mia gloria, mi accusate di orgoglio intollerabile. No, Io non cerco la mia gloria, Io non sono un orgoglioso: se cercassi, Io, la mia gloria, sarebbe una follia con voi e dinanzi a tutti gli uomini. La gloria non la dà l’uomo a se stesso, ma la riceve dagli altri, gli deve esser resa da testimoni degni di fede, da giudici competenti. S’Io parlassi per conto mio e non avessi una testimonianza pubblica, irrecusabile, che conferma la mia parola, voi avreste ragione di respingere la mia parola; ma vi è chi mi glorifica, chi conferma la mia parola, è il Padre mio. Egli ha confermato la mia parola, mi ha glorificato sulle rive del Giordano, in modo strepitoso, mi ha glorificato con la testimonianza del Battista e con la prova dei miracoli: sono le opere, ch’Io faccio, opere divine, che voi non potete negare, quelle che mi danno gloria e mostrano la verità della mia missione. Queste opere non sono opere di me, uomo povero e debole, ma opere del Padre mio. — E chi è, o Figlio di Maria, questo Padre, di cui sì spesso parlate, che vi glorifica e che Voi glorificate? Egli certamente non può essere Giuseppe, povero operaio e già disceso nel sepolcro. Chi è dunque questo Padre vostro, o Gesù benedetto? Gesù non esita a dirlo nettamente : “Il Padre mio è Colui, che voi dite essere vostro Dio: il Padre mio è Dio. „ Osservate che Gesù non dice: Dio è padre nostro, accomunando la propria dignità a quella di tutti gli uomini, figli di Dio per adozione; ma dice: Dio è Padre mio, chiaramente indicando che Egli non è figlio di Dio come gli altri uomini, figlio per grazia, per benigna adozione; ma è Figlio di Dio in altro modo ben più alto e perfetto, che non può essere che Figlio di Dio per generazione naturale. Gesù Cristo pertanto si dice solennemente, in faccia alle turbe ed ai suoi stessi nemici, Figlio vero e naturale di Dio, eguale al Padre. “Voi, prosegue Gesù Cristo, non conoscete Dio, il Padre mio: non ponete mente alla sua testimonianza, alle opere ch’Io fo nel suo nome e mostrano, ch’Io sono suo Figlio; ma se non lo conoscete voi, lo conosco Io e lo proclamo; se non lo dicessi, mentirei e sarei menzognero come siete menzogneri voi, i quali dite ch’Io sono un Samaritano ed un posseduto dal demonio, ed affermate di conoscere Dio e ricusate fede al Figliuolo suo, che vi parla. Ma Io non verrò meno alla mia missione, e l’adempirò fedelmente. Voi dite d’essere figli di Abramo, e ve ne gloriate: Abramo è morto da duemila anni: ebbene, sappiatelo, “Abramo, il padre vostro, giubilò, pensando di vedere il mio giorno: lo vide, e ne gioì. „ Gesù Cristo in queste parole manifestamente insinua la sua preesistenza ad Abramo e fa meglio conoscere che cosa intenda significare, affermando d’essere Figlio di Dio. Abramo, a cui fu fatta ripetutamente la promessa, che dalla sua progenie sarebbe venuto il Salvatore del mondo, si rallegrò, esultò in questa speranza: vivendo con gli altri patriarchi e profeti e santi nella serena aspettativa della futura redenzione, Abramo dalla bocca di Simeone, di Zaccaria, di Elisabetta, di Giuseppe, di Giovanni e d’altri poté udire che il Figlio di Dio fatto uomo era nato, che il giorno del riscatto era vicino: Abramo, attraverso alle ombre del Limbo poté vedere il giorno, ossia la venuta di Cristo, e ne fu ricolmo di gioia. I Giudei, intendendo sempre le parole di Cristo alla maniera umana e non ravvisando in Lui, che un semplice uomo, credettero di coglierlo in fallo, e in aria di compatimento e di beffa gli dissero: “Non hai ancora cinquant’anni e tu vedesti Abramo? „ Veramente Cristo non aveva detto d’aver veduto Abramo, ma che Abramo aveva veduto la sua venuta e ne aveva gioito, ma la sostanza era la stessa. Allorché Gesù Cristo tenne questo discorso nel settembre o nell’ottobre precedente la Pasqua, in cui morì, era presso ai 34 anni; ma i Giudei, per modo di dire e per scherno, dissero : “Non hai ancor cinquant’anni ed hai veduto Abramo? Tu parli da scherzo o sei un dissennato. „ Gesù li colse in parola, e senza velo affermò chi Egli era, e dicendo con la sua forma solita della massima osservanza: “In verità, in verità vi dico: Prima che nascesse Abramo, Io sono. „ Ponete mente alla forma di dire di assoluta autorità e della massima chiarezza usata da Cristo: Abramo visse ventitré secoli or sono, così il divino Maestro: voi vedete in me un uomo, che non tocca i cinquant’anni; eppure vi dico, ch’Io sono prima che Abramo nascesse: non sono fatto, non creato, ma sono prima di Abramo. L’affermazione della propria esistenza prima di Abramo e con quella parola sono, che s’addice solo a Dio e richiama l’oracolo mosaico, io “sono quel che sono”, metteva in tutta luce il pensiero di Cristo: Io sono il Figlio di Dio naturale, Io sono eterno. E i Giudei pigliarono veramente in questo senso le parole di Gesù Cristo, vi ravvisarono l’affermazione precisa della propria divinità e tosto diedero di piglio alle pietre per scagliargliele ed ucciderlo. Mosè nel Levitico (Capo XXIV, 16) aveva comandato, che il bestemmiatore fosse tosto lapidato dalla moltitudine; ora la dichiarazione esplicita e formale di Cristo, ch’Egli era il Figlio di Dio e Dio, per loro era la più enorme bestemmia, e sarebbe stata tale quando realmente non lo fosse stato. E fu, pochi mesi dopo, precisamente questa stessa dichiarazione di Gesù Cristo, che provocò il grido di Caifa e del gran Consiglio: “Egli ha bestemmiato, è reo di morte. „ E non vi è dubbio, quei furibondi, afferrate le pietre, che erano loro alle mani, perché il tempio era allora in fabbrica, l’avrebbero ucciso sullo stesso luogo, come più tardi uccisero Stefano; ma Gesù si nascose, probabilmente mescolandosi nella folla, protetto altresì dai discepoli e da parecchi della folla stessa, che credevano in Lui, e così usci dal tempio, perché l’ora da Lui stabilita non era venuta, né quello era il modo con cui voleva consumare il suo sacrificio. Con ciò volle anche insegnarci, che se dobbiamo animosamente affrontare qualunque più grave pericolo, anche della vita, per la difesa della verità, dobbiamo prudentemente scansarlo, allorché la manifesta necessità del dovere non lo esige. Due grandi verità Gesù Cristo ci insegna nel Vangelo, che vi ho spiegato: la prima è l’esempio di pazienza e mansuetudine meravigliosa in soffrire le orribili ingiurie, delle quali fu fatto segno pubblicamente dai Giudei; la seconda è la divinità della sua Persona, la sua origine per generazione eterna dal Padre, proclamata apertamente in faccia ai suoi stessi nemici; verità, che è il fondamento principale della nostra fede.

Credo …

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII:17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine. [Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient. [Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

 Communio 1 Cor XI:24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem. [Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis. [Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

LA FESTA

LA FESTA

Videte, ut Sabbatum meum custodiatis”; ,

Badate di custodire il mio sabato.

(Exodo XXXI, 13)

ESORDIO. — Sul Sinai la voce di Dio, echeggiante nell’ etra scossa da folgori e tuoni, intimava al popolo eletto, a tutta l’umanità: Memento, ut diem sabbati sanctifices (Esodo XX., 8), Ricordati di santificare il giorno di sabato, giorno di festa. — Quel Ricordati attestava quanto premeva all’Altissimo, che gli uomini non avessero a violare il suo comando. — Più tardi il Signore ordina a Mosè, il fedele suo servo, d’ insistere su questo punto: « Dirai ai figliuoli d’ Israele (Esodo XXXI, 13) : Badate di custodire il mio sabato, cioè il giorno a me consacrato. Videte, ut sabbatum meum custodiatis. » — Per i trasgressori la pena di morte. — Morte morietur (XXXI, 14). Come si osserva adesso questo comando? Lo vedete: i negozi aperti, i mercati clamorosi, il rullo delle macchine là nelle officine, i colpi dei pesanti martelli, con immane frastuono sembrano gettare un grido di sfida all’Eterno: Spazziamo via dalla terra tutti i giorni del Signore; quiescere faciamus omnes dies festos Dei a terra. (Salmo LXXIII). — E questo; per sostituirvi il lunedì. Eppure la festa è il giorno del Signore, il giorno del cristiano, il giorno dell’ uomo… ; deve essere santificata… – Ecco l’argomento di questo giorno, che deve interessarvi per il vostro bene individuale e sociale.

PARTE PRIMA

Gli Ebrei furono scrupolosi nell’ osservare il giorno del Signore; i pochi, che osarono trasgredire il divino comando, furono lapidati. — La Chiesa al sabato sostituì la domenica in memoria dei grandi misteri della nostra Redenzione, avvenuti in questo giorno… Che cosa è la domenica? — L’empio sorride a questa domanda; sprezziamo il beffardo soghigno, e veniamo a noi.

1° – E’ il giorno del Signore. — Dio è padrone di tutti i nostri giorni…, come di tutte le cose… Se ha il diritto, che gli doni i fiori…, il denaro con l’elemosina, le primizie…, ha tutto il diritto che tu consacri al suo servizio almeno un giorno per settimana…

(a) Dio impiegava sei giorni nel creare l’universo…» ma, il settimo giorno, riposò dalle opere delle sue mani; lo benedisse, e lo santificò. (Esodo XX, 11). — Dunque su tutto il creato leggi l’invito di riposare nel dì del Signore; e la festa ti ricorda l’immenso beneficio della creazione…

(b) In giorno di sabato il Signore aveva liberato gl’Israeliti dalla tirannia di Faraone; per questo lo impose loro come giorno santo. — Gesù ci liberava tutti dal giogo ben più crudele del demonio, in cui da quaranta secoli gemeva 1’umanità… All’alba della domenica Egli risorgeva dal sepolcro, glorioso trionfatore della morte e dell’inferno, iniziando così un’era muova di grazia, di celesti benedizioni. Hæc est dies, quam fecit Dominus. — (Salmo CXVII, 23).

(c) In questo giorno benedetto lo Spirito Santo scendeva nel Cenacolo, dove si trovava allora riunita la Chiesa bambina…, e rinnovellava gli animi dei primi seguaci del Nazareno.

— In una parola, la domenica ricorda il Padre che ci ha creati ; il Figlio che ci ha redenti; lo Spirito Santo che ci ha santificati. E’ il giorno della SS. Trinità; il segno che Dio ha posto in mezzo alle umane generazioni, perché tutti sappiano, che egli solo è il Signore che ci santifica. — Signum est inter me et vos in generationibus vestris, ut sciatis, quia ego Dominus, qui sanctifico vos (Esodo XXXI, 13).

2° — E’ il giorno del cristiano. — Il cristiano ha i suoi doveri di religione … ; deve adempierli … Ma quando ? — Lungo la settimana, deve lavorare … , non ha un momento… La sera, ritorna a casa affranto … ; il mattino, deve sollecitare … — Solo di festa può esercitare i suoi atti di culto, ed adorare con maggiore tranquillità il suo Dio… Adorabis Dominus Deum tuum, et Illi soli servies (Matteo IV). Il Cristiano ha un’anima da salvare. — Negli altri giorni l’operaio, il contadino suda nell’officina e sulle zolle del campo…, per procurarsi un pane… Ma nel giorno di festa smette il duro lavoro, può pregare … , andare alla chiesa … , accostarsi ai sacramenti, ascoltare la divina parola … , saziare l’anima della manna celeste, irrorarla dì benefica rugiada … Così fortificato sarà più pronto al lavoro, al patire, alla virtù. Chi non rispetta la festa, perde l’innocenza; la sua fede vacilla … ; e fra breve sarà cristiano solo di nome. —

Nomen inane, crimen immane. (S. Ambrogio).

3° — E’ il giorno dell’uomo. — Il Signore, dandoti la ragione, ti ha fatto il re del creato. Omnia subiecisti sub pedibus eius. (Salmo CXV). Ma quando mostri la tua reale dignità? Forse in quell’opificio, in quel negozio, su quel campo? — Ma allora tu sei soggetto al padrone; le tue mani annerite, la faccia aspersa di sudore, la bella tua fronte curva su quel legno …, sull’incudine … Forse invidi al fiore che innalza la corolla ai baci del sole… ; all’augelletto che si bea nei campi immensi dell’aria . .. Giunge la festa: ritta la fronte, col sorriso sul labbro, le mani candide, coi vestiti più belli ti avvii alla chiesa. Ti accoglie il suono gaio dei sacri bronzi:.. Entri nella casa del Signore… Le melodie dell’organo, i canti lenti e soavi…; la voce del tuo parroco…; l’incenso, le faci risplendenti, le solermi cerimonie. — Qui ti senti grande…, qui sei Re.

— Si predica tanto l’eguaglianza sociale; ma ricchi e poveri, padroni e servi, principi e sudditi ve ne saranno sempre… — Vuoi trovare davvero questa eguaglianza?

— Vieni, la domenica, alla chiesa: Uno è l’altare, uno per tutti il Sacrificio… ; ricchi e poveri genuflessi innanzi al Crocefisso, che a tutti senza distinzione stende le braccia… Tutti piegano la testa alla mano del sacerdote, che con lo stesso segno benedice la fronte cinta di diadema, e quella che s’incurva oppressa dagli stenti… Qui siamo tutti eguali; qui si sente, che uno solo è il Padrone dei meschini e dei possenti.

4° — È il giorno del riposo. — I1 tuo corpo non può lavorare sempre; il riposo del settimo giorno ti è necessario…; lo esigono anche le bestie… È indispensabile alla tua salute… ; nei luoghi dove si lavora anche di festa gli organismi accennano ad un progressivo deperimento…

— Lavori di festa? — A breve andare la debolezza, l’anemia…; steso sul letto del dolore…, nella sala di un ospitale e, prima del tempo, nel sepolcro… Riposa la festa; ti sentirai più allegro, più pronto, più energico alla fatica… Memento, dunque, ut diem sabbati sanctifices.

5° — Ma, dirai, il riposo della domenica è un danno alla società; ed un danno specialmente per chi, con ll’industria ed il lavoro, deve procurarsi un pane… — Un danno alla società? Le grandi repubbliche di Venezia, Genova, Firenze, rispettavano il giorno del Signore; in forma ufficiale accorrevano agli Uffici divini…, ed erano floride, potenti, ricchissime… — Londra protestante, nella domenica, tace in assoluto riposo…, eppure fa invidia per il suo commercio a tutto il mondo… — Inoltre il bene della società sta anche nell’obbedienza alle legittime autorità costituite… Quando il popolo, nel giorno festivo, invece di andare alla chiesa, rimane nelle botteghe, nelle officine, questo popolo che non rispetta il comando di Dio, non obbedirà neppure le leggi dei governi; non rispetterà più l’autorità umana. Eccovi i furti, le rapine, le violenze, le ribellioni, l’anarchia …, lo sfacelo della società…

— Un danno all’individuo? — Se il Signore non benedice la tua famiglia, indarno ti adoperi per il suo benessere… Nisi Dominus ædificaverit domum, in vanum laboraverunt qui ædificant earnSe il buon Dio non ti protegge nel lavoro, nell’industria, a nulla ti giova sorgere vigilante di buon mattino per faticare fino a sera. (Salmo CXXVI). E Dio ti benedirà, se non rispetti il giorno a Lui sacro? — Oggi si lavora dovunque nel dì del Signore, ed oggi la miseria più accasciante dilaga per le nostre contrade … ; i fallimenti si moltiplicano con un crescendo vertiginoso… Che non sia forse un castigo per la profanazione delle feste?

6° — Ma io non so che fare tutta la festa… Non sai che fare? — Assisti alla santa Messa…, accostati ai sacramenti; ascolta la parola di Dio; va alle sante funzioni … ; esercita le opere di carità…, leggi qualche libro che t’istruisca sui tuoi doveri… — Poi godi degli affetti santi della tua famiglia, cerca di conoscerne i bisogni, renditi conto del suo vero stato… ; consiglia, correggi, provvedi… Insieme ai tuoi cari prendi un onesto sollievo… E la festa sfuggirà senza che te ne avveda; ricca però di opere buone e quindi di meriti…

— Dunque riposa, santifica la festa: è il giorno del Signore. Egli ti dice: o uomo, dopo sei giorni di fatica, cessa dal lavoro nel dì consacrato al tuo Dio… Verrà il momento in cui, dopo avere faticato quaggiù per vivere da buon cristiano, lo Spirito divino ti dirà: Dopo i lavori e le pene dell’esilio è giunto anche per te il giorno del riposo, e del premio… Seguito allora dalle tue opere buone, entrerai nella pace e nella beatitudine del Signore…

Amodo iam dicit Spiritus, ut requìescant a laboribus suis; opera enim illorum sequuntur illos (Apocalisse XIV, 15). — Le feste del cristiano sono un’immagine, un preludio dell’eterna domenica del cielo… Videte, sì,

videte, ut sabbatum meum custodiatis.

L’AGONIA DI GESU’: QUINTO VENERDI’ DI QUARESIMA

QUINTO VENERDÌ DI QUARESIMA

[Don U. Banci: L’AGONIA DI GESU’, F. Pustet ed. Roma, 1935 – impr.]

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

QUINTA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Sitio. Ho sete. (GIOVANNI, cap. XIX. v. 28) .

CONSIDERAZIONE

Avevano predetto i Profeti che Gesù sarebbe stato, per mano dei suoi nemici, abbeverato di aceto [Salmo LXVIII, v. 22] – La divina tragedia sta ormai per volgere al suo termine, e Gesù che fino allora non aveva mai domandato sollievo alcuno ai suoi lunghi ed acerbi dolori, ora, negli ultimi momenti della sua agonia, abbassa lo sguardo su quanti stanno presso la croce e dalle sue labbra riarse erompe un gemito: Ho sete! E quanto intensa non doveva essere la sua sete! Nel Getsemani aveva sudato sangue; di sangue aveva bagnato le aule di Caifas e del pretorio, di sangue erano segnate le vie di Gerusalemme e la strada del Calvario, e dopo tante effusioni, causate dai flagelli e dalle spine, ecco che i chiodi, squarciando le sue mani ed i suoi piedi, aprono l’uscita a quel poco sangue, che ancora era rimasto nelle vene. Aggiungi tutti gli strapazzi sofferti, il sudore versato lungo il penoso e faticoso viaggio al Calvario, la febbre ardente che lo tormenta, e poi dimmi, o anima cristiana, se la sete, che è stata sempre uno dei più grandi tormenti dei crocifissi, non abbia dovuto Gesù soffrirla nella sua massima intensità! Ma Colui che riempie di acqua i mari, che fa scaturire le sorgenti dai monti, che fa scorrere fiumi e torrenti e fa dal cielo scendere piogge benefiche, non avrà il refrigerio di una sola goccia d’acqua! Uno di quei soldati, che lo aveva accompagnato al Calvario e che era rimasto di scorta, a quel grido corre ad inzuppare una spugna nell’aceto, e postala in cima ad una canna, l’appressa alla sua bocca [GIOVANNI, cap. XIX, v. 29]. – O avventurato soldato, che nel compiere questo pietoso ufficio verso Gesù che muore, senza saperlo ti facesti istrumento di Dio per il compimento della profezia, non avrà certo lasciato di compensarti del tuo atto generoso Colui, che aveva detto che nemmeno un bicchiere di acqua fresca dato ad un sofferente sarebbe lasciato senza ricompensa. Sì, ti avrà Egli ricompensato della tua pietà dischiudendoti la fonte dell’acqua che infonde la vita; e i credenti di tutti i secoli ti saranno grati di quest’atto con cui soccorresti, anche solo per un istinto di pietà naturale, il tuo Signore, senza forse conoscerlo. Pensi tu, anima cristiana, che se Gesù solo ora, pochi istanti cioè prima di morire, si decise a palesare la sua sete ardente, che pure da lunghe ore lo bruciava, lo facesse per chiedere sollievo al suo tormento? No. Quando appena giunto al Calvario sudato e sfinito stava per essere crocifisso, gli fu offerta quella bevanda gustosa e profumata fatta di vino generoso, misto a mirra ed incenso, che per un senso di umanità si soleva dare ai condannati a morte, affinché come inebriati sentissero meno i dolori del supplizio, Gesù, appena l’ebbe gustata, non la volle bere [MATTEO, cap. XXVII, v. 34]. E ricusò questo ristoro, che gli era stato preparato dalle mani pietose di quel gruppo di donne, che addolorate e piangenti incontrò sulla via del Calvario, appunto perché nella pienezza delle sue facoltà mentali, e nella sua completa sensibilità volle sostenere i tormenti della crocifissione. No, anima cristiana, se ora Gesù esce in quelle parole ho sete non è per invocare un qualunque sollievo; il desiderio di soffrire, non venuto meno in Lui nemmeno sotto l’eccesso dei suoi dolori, glielo avrebbe vietato; ma è solo per farti sempre meglio conoscere i sentimenti ed i desideri del suo amabilissimo cuore. La febbre che lo tormenta è febbre di amore; la sete ardente che lo divora non è tanto sete di acqua, quanto sete di anime. È quella sete, che aveva esperimentato sempre durante tutta la sua vita e che già aveva manifestato alla Samaritana, quando presso il pozzo di Giacobbe le aveva chiesto: Dammi da bere [GIOVANNI, cap. IV, v. 8]. –  « Sitis mea salus vestra » dice S. Agostino. La mia sete è la vostra salvezza, è la sete della gloria del Padre suo che lo consuma, è la sete di te, anima cristiana, della tua felicità che lo tormenta. Come il fiore ha bisogno di umore, e languisce quando gli viene a mancare, così Gesù sembra non possa vivere senza il tuo amore, Egli che pur essendo Dio ha riposto la sua delizia nello stare tra i figli degli uomini; e quando l’umana ingratitudine lo ferisce, esce nei più commoventi lamenti. Ascolta quello che disse un giorno alla sua diletta discepola S. Margherita Alacocque, tenendo in mano il suo Cuore circondato di fiamme e trafitto dalla lancia: « Ecco, disse, quel Cuore che ha tanto amato gli uomini, che non potendo più contenere in sé le fiamme della sua ardente carità, per tuo mezzo è costretto a diffonderle ». Ed in un altro dei suoi intimi colloqui aggiunse: « Se gli uomini rendessero qualche compenso al mio Cuore, stimerei nulla quanto per essi ho sofferto nella mia passione, e sarei pronto a soffrire anche di più; ma ciò che mi strazia è vedere che pochi sono coloro che mi compatiscano e mi consolino». – Quella sete dunque, che lo tormentò sulla croce, è tuttora così ardente in Lui che lo spinge a ripetere continuamente il grido sitio (ho sete); ma questa sete non è soddisfatta; Egli è ancora abbeverato di fiele Ah! sì, anima cristiana, se la passione del suo corpo ebbe termine con la sua morte, non così la passione del suo Cuore; S. Caterina da Genova vide questo Cuore divino tuttora grondante di sangue per i peccatori. E tu, anima cristiana, rimarrai fredda, insensibile a questo grido appassionato del tuo Gesù? Ah! no; non voler essere da meno di quel soldato, che nel rude suo cuore provò un senso di compassione per il povero Crocifisso, e non avendo altro da dargli, inumidì le sue aride labbra con un po’ di aceto. – Rientra per un momento in te stessa e guarda come anche tu bruci di sete. Ma la tua è sete di ricchezze, di onori, di soddisfazioni del senso; ed è questa una sete che soddisfatta produce la morte. Gesù dalla sua croce vide la povera umanità tormentata sempre da questa sete per lei fatale, e perciò con quel grido volle ancora una volta ripetere quell’invito già rivolto al suo popolo per bocca del Profeta Isaia: O voi che siete assetati, venite tutti alle acque [ISAIA, cap. IV, v. 1]; da Lui stesso rinnovato a Gerusalemme, quando in una grande festa, levandosi in piedi e con voce alta, nella quale vibrava tutta la forza del suo ardente amore, esclamò: Chi ha sete venga a me e beva [GIOVANNI, cap. VII, v. 37]. E sai quale è la virtù prodigiosa di quest’acqua che Gesù ti offre ? Chi beve dell’acqua che gli darò io, ha detto Gesù, non avrà più sete in eterno; anzi l’acqua che gli darò diventerà in lui fontana d’acqua zampillante in vita eterna [GIOVANNI, cap. IV, v. 13, 14]-. E quest’acqua così preziosa, scaturita dal cuore di Gesù, è la grazia divina, quella grazia che non si compera con oro o con argento, ma si acquista solo seguendo Gesù per la via dei suoi precetti. Se dunque, anima cristiana, non vuoi rimanere bruciata dalle fiamme della tua concupiscenza, di’ a Gesù con la Samaritana: Signore, dammi di quest’acqua affinché non abbia più sete [GIOVANNI, cap. IV, v. 15]. E avvicinati a Lui, fonte di acqua viva e bevi di quest’acqua discesa dal cielo; essa darà refrigerio alle tue ardenti passioni, ed inebrierà il tuo cuore e la tua mente di santi ardori; così, calmando la tua sete, darai refrigerio a Gesù. E nel dì finale, accogliendoti tra i suoi eletti, ti dirà: «Vieni, poiché ebbi sete e sete di anime, e tu mi hai dato da bere».

* * *

Ma un’altra cosa ancora devi leggere in quel grido di Gesù. Se in questo momento, da quella croce, Gesù ti rivolgesse quella domanda che un giorno rivolse a S. Pietro Mi ami tu? tu certamente gli risponderesti con l’Apostolo: Sì, o Signore, io ti amo; ma Egli, che tuttora si sente consumare dalla gloria di Dio e dal desiderio della salvezza delle anime, soggiungerebbe: Se mi ami, pasci le mie pecorelle [GIOVANNI, cap. XXI, v. 15 e segg.]. Chiede a te insomma quello che chiese alla sua discepola di Paraj-le-Monial, quando le disse che la forza del suo amore lo costringeva a scegliere lei come mezzo per diffondere la sua carità fra gli uomini. Anche tu ti devi fare apostolo per versare sull’umanità assetata quest’acqua di vita; «chi non ha zelo non ha amore » dice S. Agostino. Non vedi quanto male vi è nel mondo; non vedi come Gesù è sconosciuto e bestemmiato; come il vizio è portato in trionfo, la virtù perseguitata, l’innocenza calpestata? Guarda intorno a te quante anime vittime dei pregiudizi e dell’ignoranza; quanti bambini, tanto prediletti da Gesù, che chiedono il pane della verità, ma non v’è chi loro lo spezzi; quanti peccatori, che sentono il bisogno di uscire dall’abisso nel quale sono caduti, ma non v’è chi loro indichi la via della salvezza! Nella tua stessa famiglia non v’è qualche cieco che brancola nell’errore? Felice te, anima cristiana, se spinta dal tuo amore per Gesù, vorrai accendere intorno a te quel sacro fuoco che Egli ha portato in terra. – Lo so, talvolta il lavoro sarà faticoso, perché il terreno è ingrato; troverai forse le difficoltà proprio là dove meno te lo saresti aspettato; ma non perderti di coraggio; al di sopra di tutto e di tutti sta il grido di Gesù: Ho sete. Prendilo questo grido, come un comando. Charitas Christi urget nos [Epistola II ai Corinti, cap. V , v. 14], ha detto S. Paolo, l’amore di Cristo ci sprona. Come dunque nulla arrestò Gesù nella sua missione di amore, né l’ostinatezza, né l’ingratitudine del suo popolo, ma sfidando le potenze dell’inferno, congiurate tutte contro di Lui, corse a passi di gigante per la via del sacrificio e con la sua divina costanza giunse alla vittoria, così tu, anima cristiana, sii forte nella fede, costante nell’operare il bene. Ricordati che il premio sarà proporzionato non al frutto, ma alla fatica, e solo i volenti potranno raggiungere la meta; lavora dunque, anima cristiana, e grande sarà la tua mercede.

Breve pausa, poi si reciti la seguente

PREGHIERA

O mio amabilissimo Redentore, comprendo come la sete, che vi tormentava sulla croce, non era tanto quella causata dalla febbre, dal sudore e dal sangue versato, quanto quella accesa nel vostro cuore dal vostro ardente ed inesauribile amore. Voi avevate sete di anime; avevate sete dell’anima mia. O mio Gesù, sento che se mi fossi trovato sul Calvario, ai piedi della croce, avrei fatto di tutto per darvi un refrigerio. E perché dunque dovrò rimanere indifferente ora a quel grido che Voi vivente nella SS. Eucarestia, con amorevole insistenza andate ripetendo? Che io l’ascolti, o Signore, la vostra voce! Purtroppo fino ad ora il mio cuore ha cercato di calmare la sua sete nelle acque limacciose del peccato, senza però trovar mai quel refrigerio a cui anelava, e che solo Voi potete dare. Per i meriti di quella sete che Voi, o mio Salvatore, avete sofferto sulla croce, spegnetela nel mio cuore questa sete terrena con le acque della vostra grazia, ed accendetevi la sete di Voi, del vostro amore; poiché questo mio cuore è fatto per Voi e solo in Voi troverà riposo. Voi stesso l’avete detto: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati [MATTEO, cap. V, v. 6]. – Il profeta Zaccaria aveva predetto che nella nuova Gerusalemme, nella vostra Chiesa, sarebbe scaturita una fontana mistica aperta a tutti, ogni ora per ristoro e delizia del popolo eletto. Concedetemi che come cervo assetato mi appressi a questa sorgente di acqua viva e non aneli ad altro che a Voi, o mio Dio, fonte di vita. E poiché Voi lo volete, cercherò di farmi in mezzo ai miei fratelli, apostolo della vostra gloria; insegnerò ai peccatori le vie che conducono alla sorgente di ogni consolazione e della vera felicità, in modo che la vita mia si consumi tutta nell’ardore del vostro amore. Sì, o mio Redentore, voglio essere vostro, tutto vostro, soltanto vostro. O Madre addolorata Maria, quanto non dovette soffrire il vostro cuore, non potendo dare sul Calvario il refrigerio di un sorso di acqua a Gesù assetato. Potete però ben ora appagare il suo che è anche il desiderio vostro; con la vostra materna intercessione ottenetemi la grazia che io possa alleviare a Gesù la sua sete con le lacrime del mio pentimento e che in questa terra arida non brami altro che dissetarmi alle acque purissime, scaturite dal cuore del vostro e mio Dio. Così sia.

Pater, Ave e Gloria.

Qual giglio candido

Allor che il Cielo

Nemico negagli

Il fresco umor,

Il capo languido

Sul verde stelo

Nel raggio fervido

Posa talor;

Fra mille spasimi

Tal pure esangue

Di sete lagnasi

Il mio Signor.

Ov’è quel barbaro,

Che mentre Ei langue,

Il refrigerio

Di poche lacrime

Gli neghi ancor?

 

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus,

ad locum supplicii tamquam

ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

10. V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

11. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis afFigi,

in cruce levari, inter

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato;abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la lancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

1. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

4. V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

5. V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, testibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine, super hanc familiam tuam, prò qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit manibus tradì nocentium, et Crucis subire tormentum.  Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

1. V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

2. V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

3. V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

4. V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]

 

IL PECCATO ORIGINALE (3)

C.— LE CONCEZIONI DELL’ANTICO ORIENTE

40. — Una rassegna delle concezioni dell’antico Oriente, portando il lettore a rintracciare eventuali affinità o divergenze di concetto o di linguaggio, lo mette in grado di meglio valutare il testo sacro, inquadrato nell’ambiente in cui vide la luce e di fissarne con maggior esattezza il genere letterario. Dovunque gli uomini hanno portato la loro riflessione sulle tristi condizioni della vita umana, si sono posti due domande: « È sempre stato così? Perché è così? ». Alla prima di queste due domande rispondono le tradizioni di un’era primitiva di felicità, di cui è classico esempio l’età dell’oro descritta da Esiodo ne « Le opere e i giorni » (vv.109-126). Anche alcuni documenti dell’antico Oriente parlano di una età remota in cui la vita era diversa da quella attuale, senza tuttavia presentarla come particolarmente felice e desiderabile:

« In Dilmun il corvo non ancora gracchiava,

il nibbio non emetteva il suo grido.

Il leone non colpiva a morte,

lo sciacallo non rapiva gli agnelli…

L’occhio malato non diceva: io sono un occhio malato,

il capo malato non diceva: io sono un capo malato…

L’ispettore dei canali non ancora comandava di dragare,

il sorvegliante non ancora si aggirava nel suo distretto.

Il potente non imponeva lavori gravosi,

nel distretto della città non risuonavano grida di lamento »

(G. RINALDI, Il mito sumerico di « Enki e Ninhursag in Dilmum », e Gen. 2-3, Scuola Catt. 76 (1948) 36-50. — M. WITZEL, Texte zum Studium Sumerischer Tempel und Kultzentren, Roma, 1932, 9-11).

Precisamente queste espressioni del poema sumerico En-eba-am possono indurre il lettore a credere che vi si tratti di una specie di paradiso terrestre. In realtà il senso di questo e simili testi è ben diverso: è la quiete uniforme e sterile di una vita senza civiltà. È segnalata l’assenza di alcuni inconvenienti della civiltà, per descrivere la non esistenza della civiltà stessa, la quale dal contesto (Cfr. il poema sulla fondazione di Eridu, ibid. p. 38 ss.) è presentata come dono divino e sommamente desiderabile. Dunque nessuna vera età dell’oro è segnalata nei documenti più vicini alla letteratura israelitica. Quanto alla seconda delle domande surriferite « Perché è così?» il pensiero babilonese non ha che una risposta: «Gli dei hanno voluto così: il destino dell’uomo è ineluttabile ». Una nebbia triste di pessimismo avvolge tutta la concezione babilonese sul destino dell’uomo.C’è tutto un poema che sembra destinato principalmente a tradurre in forma plastica l’aspirazione dell’uomo verso una vita che non finisca mai, è il famoso poema di Ghilgamesh. Questo eroe, considerato dalla tradizione sumerica come quinto re di Uruk dopo il diluvio, compie grandi imprese con l’amico Enkidu. Senonchè Enkidu viene a morire. Di fronte al cadavere dell’ amico, Ghilgamesh non sa capacitarsi dell’ ineluttabilità della morte:

« Enkidu, l’amico mio che amavo, è diventato simile al fango

ed io, non mi coricherò come lui? Non mi rialzerò mai più? ».

Ed allora intraprende un lungo viaggio, per dove nessun mortale è mai passato, in cerca del suo antenato Ut-napishtim, il Noè babilonese, che dopo il diluvio era stato divinizzato. La moglie di Ut-napishtim, da lui finalmente trovato, intercede per il povero Ghilgamesh, ma si sente rispondere:

« E’ cattiva l’umanità, ti farà del male! ».

Tuttavia, Ut-napishtim prima di congedare l’eroe gli indica la « pianta della vita » che quello riesce a strappare dal fondo del mare:

« Ghilgamesh disse a Ur-shanabi, il battelliere:

Ur-shanabi, questa pianta è una pianta famosa,

grazie a cui l’uomo riottiene il suo soffio di vita.

L a porterò entro le mura di Uruk e ne farò mangiare,

distribuirò la pianta!

Il suo nome è: il vecchio diventa giovane;

Io ne mangerò e ritornerò allo stato della mia giovinezza… ».

Ma la gioia dell’eroe dura poco: durante il viaggio di ritorno

« Ghilgamesh vide un pozzo la cui acqua era fresca;

vi discese dentro e si lavò con l’acqua.

Un serpente sentì l’odore della pianta,

… salì e portò via la pianta…

Allora Ghilgamesh si siede e piange

sulla sua guancia scorrono le sue lacrime… » .

La conclusione è questa: la vita è irraggiungibile, se neppure Ghilgamesh ha potuto riuscire. E in un frammento del poema scritto al tempo di Hammurapi (sec. XVIII a. C.) troviamo tale conclusione espressa in termini assai espliciti: è il risultato delle indagini filosofiche dell’antico Oriente:

« O Ghilgamesh, perchè corri da ogni parte?

La vita che tu cerchi, non la troverai!

Quando gli Dei crearono l’umanità,

la morte posero per l’umanità,

la vita ritennero nelle loro mani.

Tu, o Ghilgamesh, riempi il tuo ventre,

giorno e notte rallegrati, tu;

ogni giorno organizza una festa.

Considera il piccolo che ti afferra la mano,

la sposa si rallegri sul tuo cuore… »

(Cit. dal P. DHORME, Choix de textes religieux assyro-babyloniens, Paris, 1907, 183-316. Cfr. J . B. PRITCHARD, O.C, p. 96 e p. 90).

Questa specie di epicureismo ha tuttavia un fondo di grande amarezza, che appare anche da un’altra composizione babilonese: il mito di Adapa (P. DHORME, O. C, p. 148-157. J. B. PRITCHARD, O. C, pp. 101-102. Si noti che Adapa non è presentato dal mito come il primo uomo: non ha niente a che fare con Adamo.). Adapa è intimo del dio Ea, il quale:

« A lui la scienza gli diede, la vita eterna non gli diede! ».

Adapa tuttavia, come Ghilgamesh, fu in procinto di avere anche la vita eterna, ma non vi riuscì. Infatti, avendo in un momento di dispetto rotte le ali al vento del sud, fu chiamato dal dio supremo Anu a rendere conto del suo operato. Ea si preoccupa del suo protetto e, temendo qualche sinistro, gli consiglia:

« Un cibo di morte ti presenteranno — non mangiare!

Acqua di morte ti presenteranno — non bere! ».

Senonchè Anu pensò che Adapa sapeva troppe cose per lasciarlo tra gli uomini:

« Perché Ea a un uomo non puro le cose del cielo e della terra ha rivelato?

un cuore ( = mente) grande gli ha posto, un nome gli ha fatto!

Noi che cosa gli faremo?

Il cibo della vita offritegli — e che egli ne mangi!

Il cibo della vita gli offrirono — ed egli non ne mangiò,

l’acqua della vita gli offrirono — ed egli non bevve… ».

Anu si meraviglia molto della cosa, ma la triste conclusione è inesorabile:

« Prendetelo e conducetelo nella sua terra ».

Notiamo che parte di questo mito fu trovato in Egitto, con le famose tavolette di El-‘Amarna (sec. XV-XIV) (Cfr. G. RICCIOTTI, La storia d’Israele, voi. I , paragr. 43-57). Ciò significa che tali concezioni non erano solo il frutto di speculazioni ristrette alla cerchia dei sapienti babilonesi, ma circa il tempo di Mosè si erano già diffuse in tutto l’Oriente, insieme con gli altri elementi culturali della civiltà mesopotamica. Al nostro scopo è interessante rilevare come in questi racconti a sfondo filosofico il pensiero non sia espresso in termini astratti, ma attraverso un linguaggio concreto, che richiama cose notissime nell’ambiente in cui vennero alla luce questi scritti: cioè: — la pianta della vita, simbolo dell’irraggiungibile vita eterna.

— la scienza in senso magico, che pure non giova a colmare l’aspirazione umana.

— il serpente, forse più come genio che presiede alla vita e alla vegetazione, che non come essere malefico.

La pianta della vita, come « simbolo letterario », appare anche al di fuori di un contesto filosofico, come puro modo di dire. Così in una lettera assira leggiamo: « Noi eravamo dei cani morti, ma il re mio signore ci ha reso la vita presentando alle nostre nari la pianta della vita » (Altri esempi nell’artic. di J . PLESSIS, Babylon et la Bible, Suppl. au Dict. de la Bible, t. I, c. 738.). Asarhaddon re dell’Assiria dice: « il mio regno sarà salutifero per la carne degli uomini quanto la pianta di vita » (Cfr. A. DEIMEL, Genesis, cc. 2-3 monumentis assyriis comparata, Verbum Domini 4 (1924) 285). In un inno religioso Marduk è celebrato come « (il donatore) della pianta di vita » (Cfr. A. DEIMEL, ibidem.).P. Deimel enumera almeno dieci raffigurazioni in ceramica o pietra di tale pianta, con accanto una divinità custode (Cfr. A. DEIMEL, O. C, p. 386-387).In conclusione nell’ambiente culturale più vicino al mondo biblico troviamo una filosofia dei destini umani, concretata in esemplificazioni atte ad inculcare l’idea dell’assoluta inanità delle aspirazioni umane ad una sorte migliore. È una visione nettamente pessimistica e sconfortata, dalla quale esula il minimo accenno ad una speranza in un avvenire migliore, quella speranza che forma invece l’epilogo di Genesi III. Così l’umano soffrire, che si condensa nella morte, oltre non avere rimedio, neanche ha una spiegazione plausibile. Non si parla affatto di una colpa dell’uomo e di un meritato castigo, sicché tutta la responsabilità della triste sorte dell’umanità ricade sugli dei. Per questo certi passi del poema di Ghilgamesh costituiscono un atto di accusa contro la divinità, per il suo comportamento nei riguardi dell’uomo.Una filosofia dunque oltreché pessimistica, oltremodo assurda e mostruosa, che il racconto biblico del peccato originale pone proprio (coincidenza casuale?) sulle labbra del « serpente » seduttore, il quale insinua precisamente alla prima donna il sospetto della gelosia e della malevolenza di Dio verso gli uomini.E fu proprio questo dubbio intorno all’amore del Signore, il primo passo verso la caduta che segnò la rovina dell’umanità. La narrazione biblica del peccato originale ci appare ora sotto una nuova luce. Anche qui c’è una filosofia sul destino umano, ma tale da risultare come un’apologia di Dio. È dunque ispirata da una concezione di Dio totalmente nuova: Dio saggio e buono non è la causa della triste sorte dell’umanità. La causa è un fatto colpevole da parte dell’uomo. Anche questa connessione con un fatto, tale da rispondere alla domanda: « Fu sempre così? » — estranea alla problematica babilonese — e all’altra: «Perché è così?», e tale da costituire il presupposto dell’attuale condizione umana, è totalmente nuova e proviene dalla Rivelazione.

D. — IL GENERE LETTERARIO DI GENESI III

40. — Dopo quanto si è detto nei paragrafi precedenti, il genere letterario di Genesi III è ormai, nelle sue linee essenziali, sufficientemente definito. – L’intenzione del narratore biblico e quindi di Dio ispiratore, nello stendere il racconto del primo peccato, è storico-dottrinale. Altrettanti fatti storici sono dunque: lo stato privilegiato dei protoparenti, elevati all’amicizia e all’intimità con Dio, atti all’immortalità corporale, immuni dalla concupiscenza e dal dolore, dotati di scienza sufficiente; la prova della loro sudditanza a Dio; la tentazione di satana; la caduta e la perdita dei privilegi; la promessa della futura redenzione; la trasmissione all’intera umanità della triste eredità.

– Questo patrimonio storico dottrinale è, come si è detto (cfr. paragr. 34), troppo chiaramente disegnato dal testo sacro e ancor più chiaramente illustrato dal Magistero della Chiesa, perché sia possibile avanzare dubbi. Ciò che è consentito porre in prudente discussione ed indagare ulteriormente, non è dunque il genere letterario del nucleo centrale del racconto sacro, ma soltanto il significato preciso dei singoli elementi della presentazione plastica e cioè: l’albero della vita, l’albero della scienza del bene e del male, il serpente tentatore, il giardino-paradiso. – La giustificazione autorevole di questo metodo esegetico e di questa distinzione, la ritroviamo nelle seguenti dichiarazioni del Segretario della P. C. B. nella lettera al Card. Suhard: « … i primi undici capitoli della Genesi … riferiscono in un linguaggio semplice e figurato, adattato alle intelligenze di un’umanità meno progredita, le verità fondamentali presupposte all’economia della salvezza e in pari tempo la descrizione popolare delle origini del genere umano e del popolo eletto » . Lo stesso pensiero è chiarito, con un richiamo alla prudenza nell’applicazione, nell’Enciclica « Humani generis » (cfr. paragr. 49). Si tratta dunque nel nostro caso di precisare la portata « del linguaggio semplice e figurato, adattato alle intelligenze di un’umanità meno progredita », con cui l’autore sacro ha narrato il fatto storico del peccato originale.

Al riguardo osserviamo:

a) Il racconto biblico, interpretato a dovere, nulla contiene di fiabesco o d’infantile e quindi di storicamente inaccettabile. – I dettagli della narrazione vanno intesi cioè, com’è logico, alla luce delle idee dottrinali che effettivamente vogliono esprimere e che formano la trama più profonda del grande dramma. Né l’albero della vita, né quello della scienza, né il serpente tentatore, né il giardino-paradiso risultano per se, come tosto vedremo, elementi inverosimili, tali da esigere che dal senso letterale-proprio si passi a quello metaforico.

b) Le ragioni che potrebbero suggerire questo passaggio sono soltanto di carattere letterario e riguardano soltanto la forma e non il contenuto. Cioè in concreto si tratta di constatare eventuali affinità tra le espressioni (tra i concetti già abbiamo rilevato non ne esistono) usate nel testo sacro e analoghe formule, fatti o idee correnti nell’antico Oriente, capaci di suggerire all’agiografo un racconto e un linguaggio figurato di quel tipo.

c) Al punto attuale delle ricerche non si dispone ancora di dati sufficienti, tali da permettere conclusioni solidamente probabili sul preciso genere letterario dei dettagli di Genesi III, quali ad es. invece risultano per il racconto della creazione di Genesi Passiamo ora in rassegna i singoli particolari.

1. — L’albero della vita

41. — Nulla, ripetiamo, per sé si oppone alla piena storicità di questo dettaglio. Infatti, come Dio ha dato al cibo comune la possibilità di reintegrare nell’uomo le energie, sopperendo alla consunzione quotidiana dell’organismo umano, nulla vieta di pensare che l’onnipotenza divina abbia conferito al frutto di una pianta una virtù preternaturale, sì da renderlo un cibo capace di strappare perennemente l’uomo alla morte. Nessuna assurdità in tutto questo, sicché un atteggiamento negativo sarebbe un preconcetto aprioristico. Non ha Dio, in un altro ordine di realtà, s’intende, affidato ad elementi altrettanto modesti e caduchi (vino, pane, acqua, olio), il potere di conferire nel rito sacramentale, addirittura la vita eterna? Ci sono tuttavia indizi di carattere letterario che suggeriscono una certa cautela nell’interpretazione strettamente letterale del testo sacro. Dai rilievi del paragr. 39 risulta che nell’antico Oriente l’idea di immortalità è spesso, con sfumature diverse, concretamente tradotta coll’espressione: pianta di vita, erba di vita. – Non è impossibile che questa concezione dell’antico Oriente abbia suggerito all’autore ispirato di tradurre in un simbolo letterario strutturato con elementi a tutti noti, un fatto storico ed un concetto a tutti ignoto: poter vivere sempre! Mentre Ghilgamesh insegue inutilmente la pianta di vita (e ciò significa: questa è una speranza chimerica, perché gli dei non vogliono che gli uomini abbiano questo dono) il primo uomo ebbe a sua disposizione il famoso albero della vita; ciò che significa: Dio non fu geloso dell’immortalità, ha dato all’uomo di poter vivere sempre (L’immagine dell’albero della vita ritorna ancora come simbolo letterario nei seguenti passi biblici: Prov. III, 18; XI, 3 0; XIII, 12; XV, 4; Apoc. II, 7 ; XXII, 2 ; XXII, 14).Ma dopo il peccato il grande dono ritorna ancora una volta una chimera : « i Cherubini e la fiamma della spada guizzante » (v. 24) precludono ormai per sempre l’accesso alla pianta della vita. Stando al tenore del testo originale, non sembra si debba pensare a Cherubini armati di spada, ma piuttosto a due soggetti ben distinti e autonomi: i Cherubini da una parte e « la fiamma della spada » dall’altra.L’ambiente mesopotamico offre riscontri assai significativi. I Cherubini richiamano, nel nome e nel compito, i kàribu assirobabilonesi, che, raffigurati come leoni o tori alati con testa umana, venivano posti come custodi all’ingresso dei palazzi, scolpiti su colossali blocchi di pietra (Cfr. DHORME et VINCENT, Lei Cherubins, Revue Bibl. 35 (1936) 328 ss., 481 ss.). Un testo pubblicato da Thureau-Dangin sembra portare un po’ di luce anche per l’identificazione « della fiamma della spada guizzante » , rimasta per lungo tempo un elemento piuttosto enigmatico. Circa il 1100 il re Tiglat-Pileser I dichiara riguardo a una città conquistata: « ho fatto un fulmine di bronzo e ho scritto sopra il bottino conquistato coll’aiuto del mio dio Assur; vi ho pure scritto sopra la proibizione di occupare la città e di ricostruirla. In quel luogo ho edificato una casa e vi ho posto sopra il fulmine di bronzo » (Cfr. F. CEUPPENS, Quæstiones selectæ ex historia primaeva, II ediz. Torino 1948, p. 225.). – Veramente, come nota Heinisch (Das Buch Genesis, Bonn 1930, p. 131), il testo biblico non parla di « fulmine » , ma di « spada »; ci sembra però che tra i due oggetti sussista una notevole affinità. Date queste analogie, il P. Ceuppens (O. c., p. 226) ammette in forma dubitativa che, sia i Cherubini, sia « la fiamma della spada », possano considerarsi dei simboli, introdotti ad indicare in forma plastica la proibizione di accedere al paradiso e all’albero della vita.

6.L’albero della scienza del bene e del male

42. — Nel paragr. 35 abbiamo concluso che « scienza del bene e del male » è sinonimo di « onniscienza » È dunque chiaro l’obiettivo della tentazione e del peccato dei progenitori. Anche in questo caso, di per sé, nessuna ripugnanza che l’oggetto della fede e della soggezione a Dio si potesse concretare nell’astensione da un frutto, il quale è chiamato « della scienza del bene e del male » in quanto il non mangiarne o il mangiarne implica da parte dell’uomo l’accettazione dei propri limiti, o il tentativo di superarli. Anzi, quanto più è arbitrario l’atto di ossequio richiesto da Dio, tanto più è effetto e indizio di fede l’ossequio stesso. Notiamo tuttavia come la relazione così concepita tra la « scienza » e « l’albero » risulti piuttosto indiretta. L’albero si dovrebbe in tal caso denominare più propriamente « dell’ubbidienza », mentre l’autore, con ogni insistenza, lo presenta in rapporto diretto con la «scienza del bene e del male». Trattandosi di due oggetti piuttosto eterogenei: un albero reale e la scienza, non è facile pensarne in concreto la mutua relazione diretta, sicché l’interpretazione metaforica sembra presentarsi come più ovvia: « l’albero della scienza » altro non sarebbe che la scienza stessa sotto figura di un albero. Tanto più che in realtà la manducazione del frutto non diede la scienza ambita. Dio stesso constata amaramente con ironia, che, dato il contesto, è ispirata solo da compassione: « Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto al conoscere il bene e il male » (III, 23) (nota 37). Riconosciamo tuttavia che non sempre l’interpretazione più ovvia e comoda è anche la più vera e plausibile. Le ragioni di carattere letterario, tali da insinuare il senso metaforico, sono nel nostro caso assai scarse. Infatti « l’albero della conoscenza del bene e del male » pare non abbia riscontro nella letteratura mesopotamica. Si nomina tuttavia « l’albero della verità »: una divinità sumerica porta il nome di Ningish-zi-da che significa: « signore dell’albero della verità » (38). Ora non è impossibile che l’autore ispirato, pur non disponendo di alcun prototipo mesopotamico, avendo sfruttato l’immagine di un albero per concretizzare il concetto di vita eterna, per analogia e simmetria, non abbia trovato di meglio che prendere un altro albero per incarnarvi il concetto di una scienza divina. – Ancora una volta il testo sacro, con un linguaggio accessibile ai contemporanei, inculcherebbe un concetto completamente nuovo: che mentre Adapa ebbe dal suo dio protettore la scienza dei segreti del cielo, ma non la vita eterna, il primo uomo, favorito di quest’ultimo privilegio, doveva riconoscere i propri limiti, rendendo a Dio il tributo di un atto di fede.

(37) J. COPPENS, A propos d’une nouvelle version de Gen. III, 22, Ephem. Theol. Lovan. 24 (1948) 413-429; propone una nuova traduzione di questo verso: « Voici qu’Adam, comme chacun à naitre de lui, apprendra à connaitre le bien et le mal ». L’intento di Coppens, come risulta dalla citata monografia: La connaissance du bien e du mal, è di ovviare ad una difficoltà capitale contro la sua interpretazione sessuale del peccato originale; ma la nuova traduzione del v. 22 non sembra filologicamente plausibile (cfr. R . DEVAUX, Revue Bibl. 56 (1949) 303).

(38) Cfr. P. DHORME, L’arbre de la viriti et l’arbre de la vie, Revue Bibl. 7

  1. — Il serpente tentatore
  2. — Il serpente di Genesi III non è, come si è detto, un animale parlante (ciò che sarebbe inverosimile e fiabesco), ma è il Demonio. Che il Demonio, essere spirituale, per mettersi in comunicazione con l’uomo, si serva di elementi sensibili, è più che naturale. Satana poté o invasare un serpente reale e usarne come strumento o maschera, ovvero produrre nella fantasia, o sotto gli occhi della donna, un’immagine fantomatica di serpente. – Qualora rifiutassimo la verosimiglianza di questo procedimento, dovremmo pure rifiutare in blocco tutte le manifestazioni demoniache sensibili, solidamente documentate in molti casi, p. e. nelle vite dei Santi. Si pensi alle infestazioni che afflissero per tanti anni il S. Curato d’Ars. Anche se nell’Antico Oriente il serpente non figura mai come seduttore dell’uomo e istigatore alla colpa, tuttavia frequentemente è messo in relazione con la vita e la fecondità, che è considerata come suo dominio. Anche presso i Cananei, i Fenici, gli Egiziani, gli stessi Greci ha questa funzione specifica (39).

Come si è visto al paragr. 39, è precisamente un serpente a rapire all’incauto Ghilgamesh l’erba della vita. Ora nel racconto biblico ha in parte un compito analogo: il serpente strappa ai progenitori l’immortalità. Non solo in Genesi III s’insiste su questo rapporto serpente-morte, ma nella Sapienza XII,24 si pone in evidenza che « per l’invidia del Diavolo (serpente) la morte è entrata nel mondo ». – Ancora una volta, non sembra impossibile che gli elementi ricordati abbiano suggerito all’autore sacro di servirsi di un simbolo noto per illustrare il concetto nuovo: che l’immortalità è stata sottratta all’uomo da un essere malefico, nemico di Dio e dell’uomo, presentato come « serpente », per rendere più accessibile, con la debita cautela (cfr. paragr. 36), la narrazione ai suoi contemporanei (nota 40).

(39) [Cfr. K. GALLING, Biblisches Reallexikon, p. 458 ss.; J. COPPENS, La connaissance du bien et du mal et le péché du paradis, Louvain 1948, p. 92 – 117 con ampia documentazione letteraria ed archeologica (non sempre però del tutto

pertinente alla tesi dell’autore sul carattere sessuale del primo peccato) e ricca bibliografia; P. HEINISCH, Problemi di storia primordiale biblica, Brescia 1950, 113.]

(40) Per il decreto della P. C. B. sul serpente cfr. paragr. 49 nota 42. pp. 112-

 

  1. — Il giardino-paradiso
  2. — In Genesi II,8-14 si ha la descrizione e l’ubicazione del Paradiso Terrestre. Esso si trova in Eden ed è attraversato da un corso d’acqua, dal quale nascono quattro fiumi, due a noi noti: Tigri ed Eufrate, due ignoti: Phison e Gehon. Troppo lungo, per non dire impossibile, sarebbe passare in rassegna le diverse interpretazioni di questi versi: basti ricordare che il Paradiso Terrestre dall’estremo Oriente (Coppens) lo si è trasferito al polo Nord (!) (Warren-Gruhn) o addirittura fuori della

terra (Ungnad) (Cfr. P. HEINISCH, O. C, p. 76). La questione al momento non è solubile e forse mai lo sarà neanche in avvenire.Che l’uomo in uno stadio assolutamente primitivo di civiltà abbia soggiornato in un giardino delizioso non è affatto inverosimile. Tuttavia si potrebbe rilevare che l’autore sacro, e ancor più la Tradizione Cattolica, considera il giardino come un paradiso. Ora è chiaro che in concreto un giardino come tale è soltanto un coefficiente modesto di felicità e che potrebbe considerarsi più agevolmente con la Tradizione come somma di tutti gli elementi capaci di far l’uomo felice, qualora lo si pensasse anche come un simbolo. Allo stesso modo in cui nella Apocalisse XXI ci si descrive la Gerusalemme celeste con muri delle più svariate pietre preziose, per indicare simbolicamente la felicità degli eletti, la quale attinge indubbiamente a fattori ben più nobili. Nella letteratura mesopotamica, inoltre, anche se non vi è traccia di un Paradiso Terrestre per breve tempo aperto all’uomo, il regno di Siduri è tuttavia pensato precisamente come una regione con piante di pietre preziose che portano frutti « belli a vedersi e magnifici a considerarsi » (cfr. le stesse espressioni in Genesi II).Tutto questo diciamo, non per mettere in dubbio la realtà del giardino-paradiso (dato che i progenitori dovettero ben soggiornare sulla terra e godere com’era naturale della delizia della vegetazione), ma per rilevare che probabilmente nella mente dell’agiografo il giardino è anche sfruttato simbolicamente, per inculcare l’idea della perfetta felicità dei primi uomini.

Conclusione

Come si vede, presentemente l’identificazione del genere letterario dei particolari descrittivi del racconto biblico del peccato originale si basa (già è stato rilevato al paragr. 33), soltanto su congetture. Il complesso narrativo però è congegnato in tal modo che, constatato il valore metaforico di un elemento (p. es. albero della vita) resta in gran parte decisa anche la interpretazione degli altri particolari. Le osservazioni che precedono vogliono soltanto essere indicative del metodo da seguire nella ricerca, qualora un’ulteriore indagine sul testo e contesto sacro e le letterature dell’antico Oriente fornissero più abbondante materiale di studio. La congettura — come ognuno ha potuto constatare — verte sempre e soltanto su elementi di secondaria importanza e non sfiora neanche da lontano il nucleo storico-dottrinale, già sopra illustrato e precisato dal decreto della P.C.B. (cfr. paragr. 49). Avremmo così un genere letterario particolare, nel quale la realtà storica è presentata sotto forma di una narrazione intessuta mediante simboli letterari, secondo quanto esponemmo al par. 16 ed in armonia con i fatti accertati nei paragrafi 13-15. Ci piace ancora una volta richiamare il luminoso contrasto tra la semplicità popolare del racconto, probabilmente influenzato nell’espressione da elementi dell’ambiente orientale, e lo splendido patrimonio di idee religiose che non hanno riscontro in nessuna letteratura e che l’autore biblico non può aver attinto se non dalla divina rivelazione.

IL PECCATO ORIGINALE (2)

2. — Motivo e modalità della prova e della caduta

35. — È Dio che ha posto i progenitori in uno stato privilegiato. Tuttavia è consentaneo alla natura intelligente e libera che essa sia messa a parte dei disegni di Dio a suo riguardo e sia chiamata a sottoscriverli. I progenitori furono così chiamati a prestare il loro contributo alla propria felicità, mediante una decisione libera. Perché un atto sia meritorio e veramente libero si richiede che non sia necessitato dalla conoscenza diretta del sommo bene che è Dio. Se i progenitori avessero conosciuto direttamente l’essenza divina, la loro volontà avrebbe aderito a Dio necessariamente e quindi senza esercizio della libertà e senza alcun merito personale. Dobbiamo perciò ritenere che essi conoscessero Dio indirettamente, com’è proprio dell’uomo, finché resta sulla terra (in statu viæ). – Certo non conoscevano tutto né su Dio, né sul proprio destino, del quale, in particolare come sopra si è detto, erano informati solo tramite la rivelazione divina trattandosi di una verità assolutamente super razionale. I progenitori cioè dovevano credere. – Ora, precisamente nell’atto di fede sussiste più che mai per l’essere intelligente l’esercizio della libertà e quindi il merito, dato che egli resta nella condizione di poter accettare o rifiutare una verità in sè oscura, ma chiaramente insegnata da Dio, da credersi cioè solo sull’autorità di Dio rivelante. Così appunto ci appare la prova dei progenitori nel racconto biblico. Essi devono credere ad una cosa per nulla evidente, che cioè la loro immortalità dipende dall’astensione da un qualche cosa che Dio ha loro vietato. Ed appunto questo qualche cosa si chiama « albero della conoscenza del bene e del male ». Dio, mentre non è stato geloso del dono dell’immortalità, ha invece interdetto all’uomo la conoscenza « del bene e del male ». Pare fuori dubbio che in questo contesto « bene e male » significhi « tutto », « qualunque cosa », « cose di ogni genere ». Conoscenza del bene e del male è la conoscenza universale. – Infatti « bene e male » significa una totalità con l’idea di indeterminatezza e di varietà. « Bene e male » sono due termini estremi, come « grande e piccolo », « trattenuto e lasciato » (Deuteron. XXXII,36; III Re XIV,10; XXI,21), che, usati l’uno accanto all’altro, indicano tutta la gamma di cose possibili tra l’uno e l’altro estremo. Così si spiega la locuzione « dal bene fino al male » (G. LAMBERT, Lier-delier: l’expression de la totalité par l’oppositwn de deux contraires, Vivre et penser 3.e Serie, Paris 1945, p. 91-103, documenta quest’uso letterario, oltre che nella Bibbia, anche presso i tragici greci). Ecco alcuni esempi: « Risposero Labano e Batuele e dissero: Da Jahvè è uscita la cosa, non possiamo parlare a te male o bene » (Genesi XXIV, 50). «Guardati dal parlare a Giacobbe dal bene fino al male» (Gen. XXXI, 24. 29). – « E non parlò Assalonne con Amnon dal bene fino al male, poiché Assalonne odiava Amnon » (2 Samuele XIII,22). Queste espressioni sono tutte negative e le parole « bene e male » si devono tradurre di conseguenza con « nulla » o qualche cosa di simile. – Un esempio dell’uso di « bene e male » in frase affermativa e per di più con un riferimento ad esseri superiori come in Genesi III, si trova in 2 Samuele XIV,17. La donna di Teqoa parla a Davide in questi termini (testo ebraico): « Come un Angelo di Dio così è il mio signore il re, per intendere il bene e il male ». Con questo complimento — a quanto pare dal contesto — la donna voleva esprimere la sua convinzione che il re, data la sua intelligenza superiore, avrebbe compreso che la sua sentenza data in favore del figlio della vedova, si doveva applicare anche al figlio del re. Assalonne. Infatti subito dopo, quando il re dimostra di aver capito che la donna aveva agito per istigazione di Joab, essa ripete il complimento in forma diversa: « ma il mio signore è sapiente come la sapienza di un Angelo di Dio, per conoscere tutto quello che vi è sulla terra » (ibid. v. 20). Ognuno vede che ciò che prima era chiamato « bene e male », ora è reso con un’espressione di totalità: « tutto quello che vi è sulla terra » (Questo senso della coppia « bene e male » si adatta bene a tutti gli altri passi dove occorre (Numeri XXIV, 13; Deuter. I, 3 9 ; 2 Samuele XIX, 35; Ecclesiaste XII,14) sebbene non siano impossibili altre interpretazioni. Citiamo come degna di nota e di meditazione l’interpretazione di R. DEVAUX in Revue Bibl. 56 (1949) 300 – 308, nella recensione dell’opera di J . Coppens da noi citata più avanti. Egli critica l’interpretazione sessuale della frase « conoscere il bene e il male » (solo Deuter. I, 39 e 2 Sam. XIX, 35 potrebbero avere, ma non necessariamente, questo senso) e dà la propria spiegazione: « La conoscenza del bene e del male mi sembra essere la facoltà di decidere personalmente ciò che è bene e ciò che è male e di agire secondo questa decisione. Questo potere è riservato a Dio; l’uomo non l’esercitava prima del peccato e lo esercita mediante il peccato, essendo essenziale ad ogni peccato una inversione del bene e del male ». Spiegazione, come si vede, profonda e seducente. Se non che l’espressione biblica « si aprirebbero i vostri occhi » (Genesi III,5) ci invita a cercare nel campo conoscitivo più che in quello volitivo (decidere e agire) l’esercizio di questa conoscenza del bene e del male. Anche il confronto con le concezioni soggiacenti al racconto di Adapa (scienza divina, vita eterna) favorisce la nostra interpretazione). – Anche in Genesi 3 si tratta dunque di una conoscenza universale, prerogativa divina, e questo concetto è contenuto esplicitamente nella tentazione: «…si aprirebbero i vostri occhi, e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male ». La limitazione imposta da Dio è nel campo della conoscenza. E la tentazione si dirige primariamente contro la fede. Alla dichiarazione della donna: «Dio ha detto: non mangiatene e non toccatelo, per non doverne morire » (v. 3), il tentatore controbatte: « No, che non dovete morire ». Alla fede è strettamente legato l’amore. Noi crediamo a coloro di cui conosciamo l’amore e di cui ci fidiamo. Ed ecco la mancanza di fede generare l’orribile ipotesi: « Dio è geloso delia Sua scienza, è nemico della mia grandezza » (cfr. v. 5). Di qui la decisione: « Voglio arrivare a dispetto di Dio; sfonderò questi limiti del mio sapere, sarò simile a Dio! ». È questo il peccato dei progenitori, non di debolezza, né di sensualità. Ha in sé il carattere diabolico di colui che lo ha suggerito (S. TOMMASO, IIa IIae, q. 163 a. 1, resp. pone il peccato dei progenitori principalmente nel fatto che appetirono disordinatamente un bene spirituale). – Con pochi tratti concreti nella loro primitività e d’una profondità che tanto più stupisce quanto più ne è semplice l’espressione, l’autore ispirato ci pone dinanzi la psicologia del libero arbitrio, della tentazione e del peccato, segnando un immenso progresso della coscienza morale dell’umanità con la conquista delle idee basilari dell’etica umana. L’uomo è posto di fronte ad un bivio: o credere a Dio, fidandosi della Sua parola ed accettando da Lui la felicità, o non credere a Dio ed illudersi di raggiungere la felicità a dispetto di Dio, rivendicandosi una eccellenza indipendente da Lui. È questa seconda alternativa che l’uomo primitivo ha scelto, perdendo così la possibilità di quella effettiva somiglianza con Dio, che la Redenzione di Cristo avrebbe assicurato ancora una volta al fedele, come caratteristica del premio nel paradiso celeste. « Carissimi, siamo figli di Dio… e a lui saremo simili, perché lo vedremo com’è » (1 Giovanni III,2). Dopo questo rilievo, ci domandiamo se il peccato fu soltanto in questo atteggiamento della volontà, o se non ci fu anche qualche elemento esterno in cui si concretò la ribellione. Rinviando ai paragr. 40-44 l’analisi dei particolari descrittivi del racconto biblico, vogliamo qui sottolineare come questo eventuale fattore esterno non sembra si possa identificare con un disordine sessuale. Non vediamo cioè come sia possibile esegeticamente sostenere quell’opinione (nota 1) largamente diffusa nel popolo, indipendentemente dall’insegnamento della Chiesa, che il peccato dei progenitori sia stato l’uso del matrimonio. (nota 2)

(nota 1) (P. MARHOFER, in « Theologie und Glaube » 28 (1936) 133-162, diede una sistemazione teologica a questa opinione, supponendo che Dio, per fare notare l’importanza della generazione come strumento di trasmissione della Grazia, abbia comandato un’astensione temporanea. L’umanità sarebbe così generata in modo soprannaturalmente illegittimo, senza la grazia santificante, che avrebbe dovuto ricevere per generazione da Adamo, se questi non avesse anticipato l’uso del matrimonio. – J . COPPENS, La connaissance du Bien et du Mal et le Péché du Paradis, Bruges-Paris 1948, basandosi sulle rappresentazioni antico-orientali del serpente, suppone un peccato contro la santità del matrimonio per l’appello alle divinità della vegetazione e della fecondità, presentate dal racconto biblico mediante il loro simbolo, il serpente. Si tratta tuttavia più del modo con cui l’autore sacro ha pensato il peccato, che non della modalità del peccato dei progenitori – J. GUITTON, Le developpement des idées dans l’Ancien Testament, Aix-en-Provence, 1947, pag. 102: nel pensiero dell’autore biblico la natura della colpa aveva una relazione oscura col corpo; i progenitori dovevano essere in età adolescente e saggiamente Dio aveva comandato una riserva totale per un certo tempo. Per la confutazione della tesi di Mayrhofer cfr. J . MIKLIK, Der Fall des Menschen, Biblica 18 (1939) 387-396.)

(nota 2) (Cfr. F. ASSENSIO, Tradicion sobre un pecado sexual en el Paraiso?, Gregorianum 31 (1950) contesta precisamente l’affermazione del Coppens sull’esistenza di una Tradizione, documentata negli scritti dei Padri, sull’interpretazione sessuale del peccato originale)

Una simile interpretazione nasce da una valutazione erronea dell’attività genetica, e non concorda con quanto di essa è detto proprio in questo contesto biblico. Essa è voluta da Dio e consacrata fin dal primo istante dalla benedizione divina: « Crescete e moltiplicatevi;… per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua donna e i due diventeranno una sola carne » (Genesi I,28; II,25). L’abuso dell’attività sessuale, non deve gettare una luce sinistra sull’uso legittimo. Anzi è la dignità particolare dell’uso legittimo che rende tanto più ripugnante ogni abuso. D’altra parte nessun indizio vi è nel testo biblico che faccia sospettare qualche abuso dei progenitori degno di castigo. Inoltre, in nessun testo biblico l’espressione « conoscere il bene e il male » è sicuramente sinonimo di scienza sessuale. Né vediamo come satana possa presentare e i progenitori riconoscere quale caratteristica divina (« diventereste come Dio conoscitori del bene e del male ») una scienza di questo genere, dato il contesto prossimo e remoto, in cui Dio figura nettamente come unico, spirituale, trascendente. La tentazione, pur essendo menzogna, per costituire una sollecitazione al male, deve rispettare i limiti di un’aliquale verosimiglianza. –  Gli autori che recentemente hanno sostenuto trattarsi di una colpa nella sfera sessuale fanno notare l’insistenza con cui il racconto biblico accenna a fattori di quest’ordine tra le conseguenze della colpa. L’autore sacro come aveva sottolineato che prima del peccato la nudità non creava imbarazzo per i progenitori, così avverte che immediatamente dopo la colpa essi sentirono la necessità del vestito. E’ stato pure rilevato che il castigo riservato alla donna è precisamente nell’ambito della vita generativa. – Tutto questo è innegabile, ma non ci sembra legittimo dalla natura delle conseguenze, senz’altro inferire sulla natura del peccato. La ribellione degli istinti è sufficientemente spiegata dallo stato di disordine interiore indotto dall’uomo con la sua ribellione a Dio. Non è tutto questo perfettamente consentaneo alla natura umana, che cioè la carne si ribelli allo spirito, quando lo spirito si è ribellato a Dio? Del resto non mette in risalto l’autore sacro, tra le conseguenze del peccato, la morte ancor più della concupiscenza? Eppure, dalla natura di questo castigo, nulla si può ricavare per fissare i contorni dell’azione esterna, in cui si sarebbe concretata la colpa dei progenitori. Riteniamo invece più oggettiva la constatazione di un altro accostamento sintomatico: quello tra la morte e l’attività genetica. Ci sembra che l’agiografo abbia intuito e insinui nel suo racconto che la trama dolorosa ed espiatoria della storia dell’umanità decaduta sia in parte costituita dal rapporto profondo che intercorre tra morte e attività genetica, le quali sono in natura due entità biologiche complementari (nota 3). –

(nota 3) (Tra gli animali bruti l’individuo è in funzione della specie e conta in quanto veicolo per la trasmissione dei germi vitali. C’è infatti una provvidenza ferrea che regge la vita di ogni specie animale e che sembra riassumersi nella preoccupazione che i germi viventi si comunichino via via a nuovi individui e vengano così continuamente rinnovati e ringiovaniti, senza che mai venga a morire il plasma vivente formato dal loro complesso. L’animale quando ha reso alla specie il suo servizio e, in particolare, quando ha adempito al suo compito di generatore, è logico che muoia, per lasciare il posto ad altri individui. Anche nell’uomo c’è prepotente l’istinto della generazione, come c’è pure l’infierire della morte. Ma l’uomo, essendo persona, e cioè un essere irripetibile, non è esclusivamente in funzione della specie e per questo, anche quando ha dato alla specie quanto era in grado di offrire, non è legittimo sopprimerlo e la sua morte si sente come qualche cosa di stridente colle aspirazioni più profonde. Infatti, pur sussistendo dell’uomo la parte migliore, lo spirito, che attraverso la morte anzi raggiunge il suo destino definitivo, resta per la speculazione puramente razionale, l’enigma di questa scissione violenta tra anima e corpo, violenta i n quanto l’uomo è per natura sua un composto di ambedue gli elementi. A questo enigma risponde il dogma della risurrezione della carne, che c i assicura della ricomposizione a perfetta unità e della glorificazione di tutto l’uomo (cfr. S. THOMAS, Summa contra Gentes 1. 4, c. 79-81). – Notiamo inoltre come l’istinto della generazione crei nell’uomo un duplice conflitto particolarmente acuto. Se infatti l’uomo si abbandona irrazionalmente all’istinto della generazione, procreando al di fuori del retto ordine, pecca contro la dignità della propria persona: se invece al contrario sfrutta l’istinto della generazione solo per la propria soddisfazione personale, pecca contro la natura. La soluzione di questo conflitto si ha o nel celibato casto, che rappresenta la sublimazione e una affermazione eroica della personalità, ovvero nella castità coniugale, in cui la finalità dell’istinto diventa una funzione ragionevole e nobile della persona. Ma l’una e l’altra soluzione costituiscono una conquista difficile, uno stato di equilibrio perennemente instabile, impossibile senza l’aiuto della Grazia Divina).

3. — Il tentatore

36. — Un elemento dottrinale fuori discussione di Genesi 3 è pure la presenza e l’opera di Satana. In qualunque modo si voglia intendere il « serpente » (cfr. paragr. 43), esso indubbiamente va identificato con satana. Già il contesto esclude che si tratti della personificazione di una tentazione nata spontaneamente nell’uomo. Infatti Dio, mentre non maledice direttamente l’uomo (cfr. v. 17), lancia una maledizione senza riserva né rimedio contro il « serpente », appunto perché seduttore (cfr. v. 14). Dio cioè si schiera in certo modo dalla parte dell’uomo contro il « serpente », riconoscendo nella scusa addotta dalla donna: « il serpente mi ha ingannata » (v. 13), un’attenuante e supponendo perciò un responsabile distinto dai progenitori. – La tentazione è dunque qualche cosa che proviene dall’esterno, da un essere intelligente e maligno, tanto più intelligente dell’uomo da essere in grado di sedurlo, tanto più maligno, in quanto dimostra di avere un interesse particolare a suscitare nell’uomo la ribellione contro Dio e la conseguente catastrofe. Iddio inoltre dichiara aperto un lunghissimo periodo di ostilità tra il genere umano e quello stesso « serpente » che viene dunque pensato sussistere per tutto il corso della storia umana, fino ad essere totalmente sconfitto. Naturalmente si tratta di una lotta e di una vittoria morale, come di ordine morale è stato il primo intervento del «serpente» e la ribellione dell’uomo a Dio. I libri più recenti della Bibbia non esitano a identificare esplicitamente il « serpente » con Satana: « Per invidia del Diavolo la morte è entrata nel mondo » (Sapienza II,24); « Voi avete per padre il Diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Fin dal principio egli è stato omicida e non restò fermo nella verità, perché in lui non è verità » (Giovanni VIII,44) ; « il Dragone, il Serpente antico, che è il Diavolo e Satana » (Apocalisse XII, 9,20,2). – Se l’antichissimo racconto della Genesi si esprime su questa identificazione in modo piuttosto velato, è soltanto per evitare uno scoglio pericolosissimo per la primitiva mentalità ebraica, l’introduzione cioè di un essere superiore, intelligente, capace di rovinare i disegni di Jahvè. Era troppo facile che fosse considerato un’altra divinità, capace di far concorrenza a Jahvè. Per la stessa ragione nel racconto della creazione non si parla di esseri angelici. Essi sono introdotti poi alla chetichella, senza presentazione, né spiegazione, in circostanze tali da evitare ogni equivoco. Il monoteismo è così salvaguardato. Il richiamo all’esistenza e all’azione di satana, presentato come causa prima della rovina dell’umanità, costituisce inoltre uno dei principali elementi risolutori del problema dell’origine del male, sul quale s’innesta spontaneamente una delle più ardue difficoltà contro il monoteismo stesso. Come mai da un unico Principio, buono per essenza e quindi fonte di ogni bene, può derivare il male, il cui dominio nel mondo è pure tanto vasto? Se il male non è e non può essere da Dio, come spiegarne l’esistenza? Il dualismo rappresentò sempre una delle più seducenti tentazioni metafisico-religiose, appunto come risposta ovvia e, a prima vista, soddisfacente a sì grave interrogativo. – Il racconto biblico, con profondità e originalità senza precedenti, non soltanto esclude da Dio una qualsiasi responsabilità per l’origine del male, ma ci presenta, oltre l’uomo, un altro essere libero e per natura sua peccabile, che, levatosi contro Dio, rende comprensibile non solo l’origine del male, ma anche le gigantesche sue proporzioni. Non ha forse il male proporzioni sovrumane? – Unico, dunque, Dio e infinitamente buono; colpevole, ma in parte scusabile, l’uomo come qualsiasi vittima; perverso satana, nemico di Dio e dell’uomo, ma soggetto ad ambedue nella lotta e soprattutto nella sconfitta finale (cfr. v. 15). Il male cessa così di essere una difficoltà metafisica nell’ambito degli attributi divini, e si riduce ad un mistero di ordine psicologico: coma mai l’essere libero, pur essendo peccabile, diventa di fatto peccatore, operando così coscientemente la propria rovina? In altri termini è il mistero del peccato, il quale però s’illumina sufficientemente tenuto conto della natura stessa del libero arbitrio dell’uomo, e soprattutto di satana.

4. — Propagazione della colpa originale

37. — L’antico autore ispirato presenta l’intero genere umano soggetto alla morte, al dissidio interiore e al dolore, per il fatto di essere discendente da un capostipite ribelle al suo Creatore. S. Paolo (Romani V,12) e la definizione del Conc. Tridentino (v. nota 12) parlano non solo di trasmissione delle conseguenze del peccato, ma del peccato stesso che, come precisa l’Humani generis: « commesso da Adamo individualmente e personalmente… trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio » (Acta Apost. Sedis 42 (1950) 576; Civiltà Catt. 101 (1950) 471).

(nota 12) Sessione V, Can. I e II, DENZINGER, 788-789: Can. I. « Se alcuno non professa che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito il comandamento di Dio nel paradiso, subito perdette la santità e la giustizia nella quale era stato costituito, e per l’offesa di tale prevaricazione incorse l’ira e l’indignazione di Dio e perciò la morte, che Dio gli aveva prima minacciata, e con la morte la prigionia sotto il potere di colui che poi ebbe l’impero della morte, cioè del diavolo, e che tutto Adamo per l’offesa di quella prevaricazione fu mutato in peggio quanto al corpo e quanto all’anima, sia anatema ». – Can. II. « Se qualcuno asserisce che la prevaricazione di Adamo abbia nociuto solo a lui e non alla sua progenie, e che la santità e la giustizia ricevuta da Dio e poi perduta, la perdette solo per sé e non anche per noi; o che Adamo inquinato per il peccato di disobbedienza, abbia trasfuso in tutto il genere umano solo la morte e le penalità del corpo, e non anche il peccato che è morte dell’anima, sia anatema, poiché contraddice all’Apostolo che dice: Per un sol uomo entrò il peccato nel mondo, ecc. » (Rom. V, 12)).

Ma perché la colpa dei protoparenti diventa la colpa di tutti? L’antico israelita il quale sentiva fortemente la solidarietà anche morale tra i congiunti per vincolo di sangue, non era assillato da questo problema, dimostrando così d’intuire una realtà che il nostro individualismo può discutere, ma non distruggere: l’interdipendenza strettissima cioè degli individui nel loro essere fisico e psichico. La nostra personalità è il punto di incontro d’infiniti raggi di influenza, che vanno dalla volontà dei nostri genitori, fino alle radiazioni cosmiche; sicché, è per l’incalcolabile risultanza di innumerevoli cause, che noi siamo quel che siamo, pure nell’inconfondibile ed irripetibile unità della persona umana. – Tra queste cause, ci dice la Bibbia, c’è anche il peccato del nostro più antico antenato. – Dio avrebbe potuto farci come monadi assolutamente chiuse ad ogni influsso estraneo. Ma allora non saremmo uomini, saremmo esseri d’altra struttura. La nostra struttura è invece di essere centri d’interferenza personalizzati da un’anima immortale. – Il concetto cattolico di Chiesa potrà meglio farci comprendere i disegni di Dio riguardo ai singoli uomini. Dio ha messo a disposizione dell’uomo l’elevazione allo stato soprannaturale, il dono cioè della grazia santificante che maturerà nella gloria. Ora, sono i singoli uomini che raggiungono questo stato e tuttavia il dono appare fatto in modo collettivo. I singoli cioè arrivano alla Grazia solo per il fatto di essere inseriti, almeno virtualmente, in un organismo sovrapersonale, la Chiesa, a cui la Grazia appartiene in proprio. I cristiani non formano una Chiesa per il fatto di essere uniti a Cristo, ma sono uniti a Cristo per il fatto di formare la Chiesa. I Sacramenti e la Liturgia, in quanto vincoli sociali, in quanto azioni esteriori che costruiscono la compagine della Chiesa, sono per ciò stesso i veicoli della Grazia. L’apporto della volontà personale è senza dubbio indispensabile dal momento in cui diventa possibile (età della ragione), ma non è essenziale, come risulta dal Battesimo dei bambini. L’entrare a far parte della Chiesa, come il sussistere stesso della Chiesa, è la risultante di un complesso di azioni interiori ed esteriori da cui il Cristo fa dipendere il suo influsso redentore e vivificante sulle singole anime. Se Cristo è al primo posto nell’ordine delle cause, tutti gli altri, dalla Gerarchia ai semplici fedeli, hanno la loro responsabilità, e mancando la loro cooperazione, la Chiesa non sarebbe come dev’essere, e molte anime ne resterebbero escluse. Questo conferimento della Grazia come dono collettivo nella umanità redenta da Cristo è del tutto analogo al conferimento della Grazia (e dei privilegi) come dono collettivo a tutta l’umanità, nei suoi primi inizi, nella persona dei progenitori. Essi ricevettero questi doni non a titolo di gratificazione personale, ma a titolo di bene collettivo di tutta la natura. Sarebbe bastato nascere da Adamo per avere per ciò stesso il dono della Grazia, come ora basta essere inserito nella Chiesa mediante il Battesimo per avere la Grazia di Cristo. Il vincolo che avrebbe legato l’umanità intera, la generazione, sarebbe stato nel contempo il canale, la causa della Grazia, il vincolo che avrebbe stretto ogni individuo, non solo coi suoi simili, ma anche con Dio come fine soprannaturale. Ma perché tutto ciò non avvenisse come qualche cosa di fatale, di meccanico, era opportuno che i primi depositari di questo dono liberamente cooperassero alla sua trasmissione, così come a suo tempo i singoli eredi di questo dono liberamente avrebbero ratificato — con la fede e le opere — la fortuna da loro ereditata. La colpa personale dei progenitori implica la distruzione del dono da Dio assegnato come bene collettivo dell’umanità, distruzione fatta liberamente dagli uomini, che avevano la responsabilità di trasmettere tale dono. Così i vincoli della generazione non sono più canali della Grazia, e l’umanità non è più, come doveva essere, una grande unica Chiesa. – In questo modo si comprende perché lo stato di decadenza dell’umanità sia insito nei singoli come « peccato ». Stato di peccato (peccato abituale) è l’essere una creatura estranea alla intimità con Dio (privazione della Grazia) in forza di una colpa commessa con un atto libero di volontà (atto di peccato). La grande famiglia umana nel suo complesso va generandosi in stato di peccato (« peccatum naturæ »), nel senso che nasce priva della Grazia, e questa privazione non è un semplice difetto morale, ma sussiste in forza del peccato personale del progenitore. – La mia anima singola, scevra da qualunque responsabilità individuale, incominciò ad esistere solo (e non prima) come parte di un complesso somatico e psichico unito a sua volta, senza soluzione di continuità, al resto della famiglia umana. Ben lungi dal rompere questa continuità biologica ed etnica, l’anima ne assunse la fisionomia concreta, e con essa la privazione della Grazia e dei privilegi, ed una tale privazione quale è nella collettività dei figli di Adamo, effetto cioè di una colpa, e dunque colpevole. Essa venne così in comunicazione con uno stato di colpevolezza preesistente, così come più tardi venendo inserita nella Chiesa, venne in comunicazione con uno stato di Grazia preesistente nella Chiesa stessa in forza di Cristo Redentore. Così per il peccato di origine passa nel singolo non solo una conseguenza, o una pena della colpa, ma la colpevolezza stessa che pesa sulla natura in blocco. E tuttavia il singolo non contrae una responsabilità individuale, il che sarebbe un controsenso. « Peccato » è il termine che più si adatta ad esprimere questa realtà inerente ad ogni uomo per il fatto stesso della sua origine dal primo uomo, e tuttavia è un termine analogico, che non coincide perfettamente con il senso di questo termine quando è applicato ad un atto personale di colpa. – Rimane ancora una domanda: perché Dio, per conferire agli uomini questi doni di santificazione ha scelto un mezzo collettivo, sia nel caso dell’elevazione della natura in Adamo, come nel caso della santificazione della Chiesa in Cristo? Non avrebbe per ciò stesso scelto un mezzo meno favorevole all’individuo, il quale viene così a dipendere dalla responsabilità degli altri? Rispondiamo che, senza negare la possibilità di altri ordini di provvidenza, quello scelto da Dio sembra più conforme alla natura degli uomini. Una personalità anche eccezionale non può esaurire tutte le possibilità di perfezionamento della natura umana. Ciò che non è realizzato da uno è realizzato da un altro; ed il bene dell’uno diventa anche il bene dell’altro, se due persone sono unite in una comunione d’amore. L’individualismo, come contrapposizione dell’individuo al resto dell’umanità, è anche un impoverimento: l’individuo escluderebbe da sé tutta quella ricchezza di natura che egli non può possedere per intero. Come l’individuo non può venire all’esistenza senza il concorso di altri, così neppure può perfezionarsi da solo. Questa concezione, lungi dal diminuire la responsabilità individuale diluendola nel complesso sociale, l’aumenta grandiosamente, rendendo ciascuno responsabile anche per gli altri. – Se questo piano scelto da Dio ha avuto una conseguenza dolorosa nel peccato d’origine, non è stata tuttavia preclusa l’ascesa dell’umanità verso il suo fine ultimo. Essa si realizza per una via meno gioconda, ma non meno gloriosa. La narrazione biblica lascia uno spiraglio di speranza: il trionfo del serpente seduttore non è definitivo: « Esso (seme della donna) ti schiaccerà il capo » (Genesi III, 15). E questo spiraglio andrà sempre più allargandosi e chiarendosi in successive rivelazioni (« messianismo »), finché verrà Colui che dirà: « Io sono la resurrezione e la vita » (Giovanni XI, 25) e provocherà il grido della gioia cristiana: «Dov’è o morte la tua vittoria?» (1 Corinti XV, 35).

5. — L’ipotesi poligenista

38. — Il Poligenismo è quell’ipotesi scientifica la quale ritiene che i gruppi umani sia fossili che viventi derivino non solo da più coppie, ma addirittura da più specie primordiali. Di conseguenza ad Adamo ed Eva non competerebbe il titolo di progenitori del genere umano. Isacco de la Peyrère (1594-1676) formulò per primo quest’ipotesi nel tentativo di conciliare con la Bibbia i dati cronologici indicati negli antichi documenti caldei ed egiziani, ed in particolare nell’intento di spiegare le differenze tra le razze umane. – Estendendo il campo di osservazione, l’antropologia e in particolare la paleontropologia constatano nelle razze viventi e ancor più in quelle estinte marcate differenze morfologiche, nella forma del cranio, degli occhi, nella dimensione del tronco e degli arti, nel colore della pelle ecc. Si notano pure spiccate diversità fisiologiche (composizione del sangue, età puberale ecc.) e psichiche (diverso tipo e grado d’intelligenza, di emotività ecc.). Si conclude all’impossibilità di ricondurre ad una origine comune gruppi tanto differenziati, le cui caratteristiche sarebbero spiegabili soltanto ricorrendo ad una origine multipla. – Il poligenismo inoltre renderebbe più facilmente ragione dell’incremento poderoso della collettività umana e della sopravvivenza delle razze nella lotta per la vita. Non è nostro compito né esporre, né valutare dal punto di vista scientifico quest’ipotesi. Riferiamo soltanto alcuni giudizi di competenti. Intorno all’argomento principale che è quello tratto dalle differenze morfologiche il Marcozzi (Cfr. V. MARCOZZI, La vita e l’uomo, Milano 1946. p. 362) osserva: « Tali differenze (tra i fossili umani) non sono tali, studiate oggettivamente, da autorizzare uno smembramento della famiglia umana in più specie naturali distinte. Infatti differenze morfologiche anche maggiori si osservano fra le varie razze d’animali tuttora esistenti, che pur discendono certamente da un unico ceppo. Si pensi, per esempio alle enormi differenze morfologiche che passano fra le diverse razze di cani… Eppure appartengono alla medesima specie, ed hanno avuto le medesime origini. Dunque le sole differenze morfologiche non sono sufficienti ad autorizzare lo smembramento d’un gruppo di organismi in tante specie naturali distinte e dalle origini indipendenti. Tanto più che nel caso degli Uomini, si trovano tutte le forme intermedie fra i tipi più differenziati sia viventi sia fossili ».Tutto questo spiega come quasi tutti i naturalisti presentemente siano monogenisti. « Fra gli altri ricordiamo Dubois, Ellioth, Smith, Giuffrida-Ruggeri, il Keith, il Pilgrim, lo Schwalbe, tutti gi autori italiani che hanno cooperato all’opera: « Razze e popoli della terra » curata dal Biasutti nel 1941 (Cfr. MARCOZZI, O. C, p. 358). –  Similmente il Leonardi: « Al momento attuale il poligenismo è assai in ribasso e, almeno nei riguardi dell’Umanità attuale, la quasi totalità degli Autori, per quanto mi consta, tende ad ammettere l’origine unitaria e l’unità specifica, trovandosi così pienamente d’accordo con la Teologia cattolica » (P. LEONARDI, L’evoluzione biologica e l’origine dell’uomo, II ed., Brescia. 1949). Notiamo però che « Monogenismo » per la teologia cattolica non significa soltanto derivazione dell’umanità attuale da una stessa specie naturale, ma da un’unica coppia, fatto questo che la scienza non può confermare, ma neanche contestare, qualora accetti, come si è detto, l’unità specifica. Quale rapporto intercorre tra evoluzionismo e poligenismo? È la seconda ipotesi inseparabile dalla prima come inevitabile conseguenza? È utile sottolineare al riguardo, dal punto di vista scientifico, che la derivazione dell’umanità attuale da più coppie di progenitori è collegata non tanto coll’ipotesi evoluzionista, quanto col modo di concepire e rappresentarsi l’evoluzione. Se infatti si pensa che le stesse cause hanno influito sulle stesse razze di antropoidi per trasformarle gradualmente in razze umane, diventerebbe probabile che tale processo evolutivo sia avvenuto contemporaneamente in luoghi e soggetti diversi. Non appare infatti una ragione speciale che inviti a limitare un processo evolutivo che investe tutta la sfera animale, restringendolo nel caso degli antropoidi soltanto a due individui, che sarebbero così gli unici progenitori dell’umanità attuale. Se invece l’evoluzione è avvenuta per una catena di mutazioni casuali scarsamente probabili, come sembrano ritenere oggi i più, è assai improbabile che tale serie di coincidenze si sia verificata in più casi. L’evoluzionismo mutazionista sarebbe cioè più facilmente conciliabile col monogenismo che col poligenismo. Ma qualunque sia il valore scientifico dell’ipotesi poligenista, ci chiediamo: qual è il pensiero della Bibbia in proposito?Il racconto del Genesi mentre suppone il poligenismo nella creazione degli animali, presenta i soli Adamo ed Eva quale unica coppia progenitrice dell’intera umanità. Infatti a questa unica coppia primordiale si ricollegano i vari popoli, tramite le genealogie dei Patriarchi antidiluviani e postdiluviani.Anche il resto della Bibbia non conosce uomini che non discendano da Adamo ed Eva: l’Ecclesiastico (XXV, 24) dichiara: Dalla donna ebbe principio il peccato e per sua cagione si muore tutti.La Sapienza (X, 1) chiama Adamo: «il primo uomo da Dio formato, il padre del mondo » (cfr. anche VII, 1).Ma soprattutto il Nuovo Testamento e il Magistero della Chiesa forniscono gli elementi per una decisione in merito. In Romani V, 12, 19 e in 1 Corinti XV, 21-22. 45-49 S. Paolo rende ragione dell’universalità del peccato originale e della morte, ricollegando tutti gli uomini ad Adamo peccatore e supponendo perciò il monogenismo (Cfr. B . MARIANI, Il Poligenismo e S. Paolo, Euntes docete, 4 (1951) 126-145). Il Magistero Ecclesiastico, secondo la stragrande maggioranza dei teologi, si sarebbe già pronunciato in modo definitivo, nel decreto del Concilio di Trento sul peccato originale (Cfr. i canoni del Concilio Tridentino citati alla nota 12). Qualche raro teologo ha pensato invece che il decreto stesso, non avendo di mira una presa di posizione nei riguardi del poligenismo ma solo nei riguardi del peccato originale, parli presupponendo il monogenismo, come cosa comunemente ammessa, ma non intendendo includerlo nella definizione (Su tale questione si vedano: F. CEUPFENS, Le polygénisme et la Bible, Angelicum, 24 (1947) 20-32. M . FLICK, Il poligenismo e il dogma del Peccato originale, Gregorianum, 27 (1947) 558. R. GARRIGOU-LAGRANGE, Le monogénisme n’est il nullement révélé? Doctor Communis, 1 (1948) pag. 198. H. LENNERZ, Quid theologo dicendum de polygenismo? in De hominis creatione atque elevatione et de peccato originali, Roma 1948, p. 81-98. J . B A T A I N L , Monogénisme et polygénisme. Divus Thomas Plac. 52 (1949) 187-201. B. MARIANI, Poligenismo, in Enciclopedia Catt., vol. IX, Città del Vaticano 1952, pag. 1676-1680. Prima dell’Humani generis non escludevano la possibilità di conciliare con la dottrina cattolica il poligenismo i seguenti studiosi cattolici: A. J. BOUYSSONIE, Polygénisme, in Dict. de Theol. Cathol. t. 12, p. I I , col. 2532. J . GUITTON, La pensée moderne et le catholicisme, Aix en Provence, 1936, p. 39; R. BOIGELOT, L’origine de l’homme, Etudes Religieuses, n. 449-450, Liége, 1938, p. 35-38; HRONDET, Les origines humaines et la theologie, in Cité Nouvelle, 1943, p. 961-987).

L’Enciclica « Humani generis » dopo aver parlato dell’evoluzionismo (cfr. paragr. 31, nota 17) a proposito del poligenismo precisa: « Però quando si tratta dell’altra ipotesi cioè del poligenismo, allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. Poiché i fedeli non possono abbracciare quella opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra dei veri uomini che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come da progenitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l’insieme di molti progenitori; ora, non appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio » (Cfr. nota 13). Notiamo che il documento pontificio, inserendo l’espressione « dopo Adamo », si disinteressa dell’ipotesi che prima di Adamo si siano estinte razze più o meno simili all’umanità proveniente da Adamo. Quello che « non appare in nessun modo conciliabile » con il dogma della trasmissione universale del peccato dei protoparenti è il poligenismo applicato all’umanità attuale.L’Enciclica dunque mentre lascia la porta aperta all’evoluzionismo, sembra definitivamente chiuderla al poligenismo, pure usando, come qualcuno ha sottolineato con notevole rilievo (Cfr. J. LEVIE, L’Enciclique ” Humani Generis “, in « Nouvelle Rev. 82 (1950), 789), un linguaggio piuttosto misurato e con formulazione negativa (« in nessun modo appare come queste affermazioni si possano accordare »).

[2- Continua ...]

 

IL PECCATO ORIGINALE (1)

Siamo in un tempo in cui tutti si sentono teologi, esegeti, canonisti, ma in modo tutto particolare, cioè senza averne titolo alcuno, in violazione del decreto Officiorum ac munerum di Leone XIII che fulmina con una pesante scomunica latæ sententiæ specialmente riservata, chiunque discuta in pubblicazioni varie di temi religiosi, biblici, o renda pubbliche rivelazioni private non approvate, senza permesso dell’Ordinario, cioè senza nihil obstat ed imprimatur. E questo per ovviare a ciò che San Paolo già diceva a Timoteo:  “… lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, [I Tim. IV, 1] … Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà, costui è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. [I Tim. VI, 3-4], …Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole [II Tim. IV, 3-4].” Ultimamente si stanno diffondendo delle “favole” nei riguardo del peccato originale, favole scaturite da presunte rivelazioni, sogni annebbiati, di un sacerdote apostata della setta modernista del “novus ordo”. Queste fantasie si sono caricate poi ancor più delle allucinazioni e dei deliri che alcuni allegri “esegeti” fai da te, che per il prurito di dir qualcosa di nuovo, e per una mal celata smania di protagonismo, sono disposti a dar credito ad innovazioni che la Chiesa non ha mai fatto proprie, possedendo Essa una chiarezza dottrinale robusta e ben strutturata. A tal fine portiamo alla conoscenza dei Cattolici veri, da non confondere con i pseudo-tradizionalisti eretici o scismatici (i lefebvriani, i sedevacantisti diversamente deliranti, esagitati ed isterici), o i modernisti del novus ordo, la posizione più corretta propria della Chiesa Cattolica, mediante un capitolo tratto dal libro di E. Galbiati e A. Piazza: “Pagine difficili della Bibbia”, pubblicato a Milano nel 1954, con nihil obstat ed imprimatur, rispettando quindi tutti i canoni delle pubblicazioni cattoliche.

 [E. Galbiati-A. Piazza:

Pagine difficili della Bibbia” –

[Bevilacqua & Solari Genova – Ed. MASSIMO, Milano, 1954 – impr. ]

Cap. IV.

IL PECCATO ORIGINALE

Analogamente a quanto abbiamo fatto per le narrazioni bibliche della creazione distinguiamo anche nel capo III della Genesi:

– una dottrina sull’origine dell’attuale situazione penosa dell’umanità;

– un fatto storico incluso nella dottrina stessa;

– un racconto che plasticamente presenta il fatto e concretamente traduce la dottrina. Sarà un compito quanto mai delicato, in questo terzo punto, tracciare la linea di demarcazione tra il contenuto storico-dottrinale e l’eventuale involucro letterario.

LA NARRAZIONE BIBLICA (Genesi III)

— Prima di passare ad un esame più dettagliato del pensiero biblico in materia, è indispensabile rileggere nel suo tenore più primitivo il testo di Genesi III.

« 1. E il serpente era il più astuto di tutti gli animali della campagna, che aveva fatto Jahvè Dio. E disse alla donna: « Ha proprio detto Dio: non mangiate di nessun albero dell’orto? ».

2. E disse la donna al serpente: « Del frutto degli alberi dell’orto noi

3. possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che è in mezzo all’orto disse Dio: non mangiatene e non toccatelo, per non doverne morire ».

4. E disse il serpente alla donna: « No, che non dovrete morire! ma sa

5. bene Dio che quando ne mangiaste, si aprirebbero allora i vostri occhi, e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male ».

6. Allora la donna considerò che l’albero era buono come cibo e che era bello agli occhi e appetibile era quell’albero per avere conoscenza; così prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al suo marito insieme con lei, ed egli mangiò.

7. Allora si aprirono gli occhi di ambedue e si accorsero di essere nudi; e intrecciarono il fogliame di un fico e se ne fecero delle cinture.

8. Poi sentirono il rumore di Jahvè Dio che passava per l’orto alla brezza del giorno, e si nascosero l’uomo e la sua donna dalla faccia di Jahvè Dio in mezzo all’orto.

9. Allora Jahvè Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei? ».

10. E disse (quello): « Ho sentito il tuo rumore nell’orto, ed ho avuto paura, perché sono nudo, così mi sono nascosto ».

11. E disse (Dio): « Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Dell’albero di cui ti ho comandato di non mangiare hai dunque mangiato? ».

12. E disse l’uomo: « La donna che tu hai messo con me, lei mi ha dato dell’albero, ed io ho mangiato ».

13. E disse Jahvè Dio alla donna: «Che è ciò che hai fatto?». E disse la donna : « Il serpente mi ha ingannato, e così ho mangiato ».

14. Allora Jahvè Dio disse al serpente: « Perché hai fatto questo tu sii maledetto tra ogni animale e tra ogni bestia della campagna: sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai tutti i giorni della tua vita.

15. E inimicizia metterò tra te e la donna e fra il seme tuo e il seme di lei: esso ti schiaccerà al capo e tu lo stringerai al calcagno ».

16. Alla donna disse: « Farò assai grave il tuo travaglio e la tua gravidanza: con doglia partorirai figli, e verso il tuo marito sarà la tua passione ma egli ti dominerà ».

17. E all’uomo disse: « Poiché hai ascoltato la voce della tua donna e hai mangiato dell’albero su cui t’avevo comandato dicendo: non ne mangiare, maledetto il terreno per causa tua, con travaglio ne mangerai tutti i giorni della tua vita;

18. e triboli e spine ti produrrà; e mangerai l’erba della campagna,

19. e col sudore del tuo volto mangerai pane; finché tornerai al terreno — perché da esso sei stato tratto, perché tu sei polvere — e alla polvere tornerai ».

20. Poi l’uomo chiamò il nome della sua donna Havvà (vita) perché essa fu la madre di tutti i viventi.

21. E Jahvè Dio fece all’uomo e alla sua donna delle tuniche di pelle, e li vestì.

22. Poi disse Jahvè Dio: « Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto al conoscere il bene e il male; ed ora ch’egli non stenda la sua mano e prenda anche dell’albero della vita e ne mangi e viva in eterno!… ».

23. E Jahvè Dio lo mandò via dall’orto di Eden per lavorare il terreno da cui era stato tratto.

.24. E scacciò l’uomo, e collocò ad oriente dell’orto di Eden i Cherubini e la fiamma della spada guizzante per custodire la via all’albero della vita. »

È in questa forma semplice e popolare, che l’insegnamento divino s’incise nella mente di un popolo amante della concretezza, e che, attraverso i secoli, arrivò fino a noi, a presentarci la chiave del mistero del nostro destino. Abbiamo detto forma popolare, ma non vorremmo per questo fosse sottovalutata, oltre la profondità e originalità del pensiero, la bellezza artistica e letteraria, con la quale, nella semplicità delle pagine veramente grandi, è resa impareggiabilmente soprattutto la psicologia della tentazione e della prima colpa. Passiamo ora a considerare il contenuto teologico del racconto, affinché sia tosto messo in evidenza il complesso di quegli elementi assolutamente sottratti a discussione, perché parte integrante del deposito della fede, e suggeriti dall’intenzione storico-dottrinale dell’autore sacro. Notiamo tuttavia che per cogliere con esattezza l’intenzione dell’autore sacro e raggiungere così adeguatamente il senso del racconto biblico, non solo è legittimo, ma doveroso profittare della luce che su queste pagine antichissime proietta lo sviluppo della Rivelazione successiva. Infatti i diversi libri biblici anche i più distanziati nel tempo, come la Tradizione e il magistero vivo della Chiesa rispecchiano il pensiero dell’unico Dio rivelatore.

B . — DOTTRINA TEOLOGICA E CONTENUTO STORICO DI GENESI III

34 — Il racconto della caduta originale appare come una apologia di Dio, e in questo senso è il seguito naturale della narrazione della creazione. Dio ha creato ogni cosa bella e buona. Il dolore che ci rattrista, la morte che ci spaventa, non entrarono nel suo disegno primitivo, ma furono conseguenza di una infedeltà dei primi uomini: infedeltà liberamente voluta e tanto grave da esigere l’applicazione di un castigo sanzionato in antecedenza. Questa soluzione al problema del male suscita ulteriori problemi, che approfondiremo basandoci su di un esame più minuzioso del testo biblico e sugli apporti della Rivelazione del Nuovo Testamento. [Per uno studio più approfondito della teologia dell’elevazione dell’uomo allo stato soprannaturale e del peccato originale cfr. oltre ai noti manuali: A. VERRIELE. Il soprannaturale in noi e il peccato originale, Milano 1936; M. J. SCHEEBEN, I Misteri del Cristianesimo, Brescia 1949, capitolo III-IV.]

1. — Lo stato dei progenitori

a) L’immortalità corporale. L’uomo, in forza della sua costituzione naturale è mortale : « tornerai al terreno, perché da esso sei stato tratto; perché tu sei polvere e alla polvere tornerai » (v. 19). Poiché l’applicazione del castigo è presentata precisamente come un lasciare libero corso alle forze naturali, tendenti a disintegrare ogni organismo vivente, l’immortalità corporale dei progenitori risulta evidentemente un privilegio, un dono preternaturale, chiaramente indicato nell’albero della vita. – I progenitori erano sottratti all’impero della morte, non nel senso che già possedessero l’immortalità per costituzione naturale, com’è proprio dei puri spiriti, ma nel senso che avevano la possibilità di non morire. – E quale sarebbe stata la sorte finale loro e dei discendenti, in caso che la fedeltà a Dio li avesse preservati dal tremendo castigo? Possiamo pensare, per analogia con la dottrina della risurrezione (1 Corinti XV, 35-58), che, dopo un certo numero di anni, il corpo di ogni singolo uomo sarebbe stato sottratto alle leggi biologiche mediante un’intima trasformazione, e trasferito in un mondo migliore. Dopo la colpa è preclusa all’uomo la via all’albero della vita e ciò coerentemente significa che l’uomo non ha più la possibilità di vivere sempre e, ad inculcare più efficacemente il carattere di assoluta irrevocabilità della sentenza divina, è segnalata la presenza dei « Cherubini e della fiamma della spada guizzante » (v. 24) incaricati di vegliare contro qualsiasi tentativo di rivalsa da parte dell’uomo. – I Cherubini nell’Antico Testamento (qualunque sia il rapporto etimologico e raffigurativo coi Kàribu mesopotamici) sono esseri sovrumani (Angeli) ministri di Jahvè (cfr. III Re VI,23-27; Ezechiele 1,5-14 e soprattutto 28,14, che richiama chiaramente il nostro testo) e la fiamma della spada guizzante ha certo un significato, almeno generico, di minaccia o di punizione (cfr. Isaia XXXIV,5; Geremia XLVI,10; Ezechiele XXI, 13). È facile riscontrare come il privilegio dell’immortalità e il castigo della morte abbiano nel racconto sacro un risalto eccezionale rispetto al resto: se ne parla, direttamente o indirettamente, sette volte nel corso di due capitoli: II,9.17; III,3.4.19.22.24. È la spiegazione della tristissima e ineluttabile sorte che attende ormai ogni uomo, sintesi e confluenza di tutte le pene: la disintegrazione del proprio essere con la morte, che dissolve il corpo e, solo così, come precisa la Rivelazione successiva, dischiude allo spirito la porta della vita eterna.

b) L’integrità. Naturalmente il genere umano si sarebbe propagato per generazione (L’opinione contraria di alcuni padri orientali (S. ATANASIO, PG. 27, 240; S. GREG. NISSENO, PG44, 185-189; S. Giov. DAMASCENO, PG 94, 976; MOSE’ BAR KEPHA, PG 111, 515) che escludono l’attività generativa dell’umanità, se non fosse intervenuto il peccato originale, non fu mai generale nella Chiesa ed è pressoché sconosciuta presso i Latini). Tuttavia, in questo àmbito appare il secondo privilegio: la sottomissione alle leggi biologiche è tale da non creare un conflitto con l’attività spirituale, perché il meccanismo degli istinti non si scatena, non entra in azione, né prima, né eventualmente contro la decisione della volontà illuminata dalla ragione. L’antico autore biblico aveva intuito questo dissidio, almeno nella sfera sessuale, e a modo suo insiste nell’escluderlo dallo stato primitivo. I progenitori non sono affatto imbarazzati dalla nudità (II,25), ma soltanto dopo il peccato si accorgono di essa come di qualche cosa di nuovo e di pericoloso, e due volte si parla della necessità di coprirsi (III,7; III,21). – Inoltre, sono messi in rilievo, tra le conseguenze del peccato, non solo i pericoli della gravidanza e i dolori del parto, ma anche la passione della donna ad abbandonarsi all’uomo e l’istinto di conquista dell’uomo sulla donna (III,16), il che crea una visione pessimistica dell’amore, in contrasto con la presentazione idilliaca del matrimonio come istituzione divina prima del peccato (II,23-24). – Questo privilegio viene comunemente denominato « integrità » e « immunità della concupiscenza » per indicare positivamente e negativamente lo stato di perfetto equilibrio interiore, per cui l’uomo sentiva nel suo intimo solo la spinta verso il bene ed era sottratto allo spasimo lancinante di quel perenne urto interiore tra bene e male, vita e morte, messo a fuoco con arte inarrivabile da S. Paolo al capo VII dell’epistola ai Romani.

c) L’immunità dal dolore. I protoparenti vengono collocati in un giardino-paradiso, quasi teatro e coefficiente di una felicità, che, nell’incontro e utilizzazione delle cose da parte dell’uomo, bandiva ogni sforzo ed ogni pena. L’uomo per natura sua è un lavoratore (cfr. II,15), cioè un creatore di nuovi rapporti tra le cose, capace d’indurre perciò e inserire nell’universo un nuovo ordine, che potenzia all’indefinito le incommensurabili attitudini insite nelle creature. Ora, solo dopo il peccato, il lavoro per la vita viene esplicitamente presentato come fatica: « col sudore del tuo volto mangerai il pane » (III,17-19). – Così pure solo dopo il peccato vengono assegnate ad Eva, come castigo, le pene inerenti alla convivenza coniugale e alla maternità:

« Farò assai grave il travaglio e la tua gravidanza:

con doglia partorirai figli,

e verso il tuo marito sarà la tua passione

ma egli ti dominerà» (III,16).

I teologi denominano lo stato di felicità dei progenitori prima della colpa: immunità dal dolore, estendendola a tutte le manifestazioni della vita umana. Notiamo come questo privilegio sia in parte frutto e complemento dei precedenti, in quanto l’immortalità è per l’uomo la liberazione dalla prova esteriore più dura e l’immunità dalla concupiscenza la preservazione dalla lotta interiore, spesso più penosa della stessa morte.

d) La scienza. I progenitori risultano dal testo sacro in possesso di un patrimonio di nozioni riguardanti la loro posizione rispetto a Dio, l’umanità futura e, in generale, ciò che era necessario al retto governo della loro vita, sia materiale che morale. Si tratta, come si vede, di un corredo di concetti in gran parte caratteristici dell’età matura o addirittura di misteri. Dal testo non risulta che i protoparenti abbiano compiuto il penoso e lungo tirocinio dello studio e della riflessione, sicché si può concludere che Dio stesso abbia infuso anche nozioni di ordine naturale oltre alla rivelazione di quelle verità superiori alla ragione (entità della prova castigo, ecc.), indispensabili ad una partecipazione cosciente allo stato soprannaturale, cui l’uomo era elevato. Questo privilegio si denomina comunemente: « dono della scienza » .

e) L’elevazione allo stato soprannaturale. Si comprende come in uno stadio così primitivo della Rivelazione l’autore si limiti a mettere in evidenza ciò che vi è di più concreto e sperimentabile nello stato dei progenitori e nelle conseguenze del peccato; solo oscuratamente lascia intendere (È sintomatico in questo senso p. es. il risalto in cui è posta la fuga dal cospetto di Dio, dopo la colpa (III, 8-11). Evidentemente si suppone prima del peccato una familiarità con Dio, di per sé non dovuta alla natura umana) che vi era, oltre quei privilegi, una particolare relazione di amicizia tra Dio e l’uomo, la quale è invece l’elemento principale per la teologia cattolica, anzi per il dogma stesso. Questo dogma, secondo cui i progenitori erano costituiti in stato di giustizia e santità, si deduce dal Nuovo Testamento (specialmente Colossesi III,9-10; Romani V,10-19) ed è la chiave di volta per intendere l’essenza del peccato originale e la perdita degli altri privilegi. Questi si comprendono bene come una base di perfezionamento dello stato naturale reso in tal modo più adeguato al destino sovrumano, alla dignità soprannaturale di figlio di Dio, conferita all’uomo. Avendo il peccato distrutto questa amicizia con Dio, si capisce come sia crollato tutto ciò che ne era come un abbellimento complementare: l’esenzione dalla morte e dalla tirannia degli istinti. Per questo, nella visione simbolica dell’umanità rinnovata (Apocalisse 22,2), ricompare « l’albero della vita », in relazione con la santità riconquistata: « Beati quelli che lavano le loro vesti nel sangue dell’Agnello, essi avranno potere sull’albero della vita » (ibid. 22,14).

[1- Continua …]

About Article VI of Papal Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”

About Article VI of Papal Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO” *

An answer to a question of a reader:

 Question:

“I think I have a bad understanding of the “Cum Ex Apostolatus Officio” Bull by Paul IV and I just like to get a correct interpretation, so maybe can you explain in details this to me?

“At the beginning it seemed to be clear to me, but now I can’t find anything about the nullity of orders received by an heretic, unless he is publicly under censorship or hit of irregularity”.

Answer:

Well, let’s look at Article VI of the mentioned Papal Bull.

By Article 6 of “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”

Pope Paul IV teaches about the invalidity of the heretical “sacrament of consecration”.

“6. Adding that if at any time it will be found that some bishop, even conducting himself as an archbishop or patriarch or already mentioned cardinal of the Roman Church, even, as shown, a legate, or even a Roman Pontiff, before his promotion or assumption as cardinal or as Roman Pontiff had deviated from the Catholic Faith or fallen into some heresy, before his promotion or assumption as Cardinal or as Roman Pontiff, that promotion or assumption concerning him, even if made in concord and from the unanimous assent of all the cardinals, is null, void and worthless; not by the reception of consecration, not by the ensuing possession of the office and administration, or as if, either the enthronement or homage of the Roman Pontiff, or the obedience given to him by all, and the length of whatever time in the future, can be said to have recovered power or to be able to recover power, nor can (the assumption or promotion) be considered as legitimate in any part of it, and for those who are promoted as bishops or archbishops or patriarchs or assumed as primates, or as cardinals or even as Roman Pontiff, no faculty of administration in spiritual or temporal matters may be thought to have been attributed or to attribute, but may all things and each thing in any way said, done, effected and administered and then followed up in any way through them lack power and they are not able to attribute any further power nor right to anyone; and they themselves who are thus promoted and assumed by that very fact, without any further declaration to be made, are deprived of every dignity, place, honor, title, authority, function and power; and yet it is permitted to all and each so promoted and assumed, if they have not deviated from the Faith before nor have been heretics, nor have incurred or excited or committed schism”. (Papal Bull CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO Promulgated February 15, 1559 by POPE PAUL IV, 23 May 1555 – 18 August 59)

The Bull, promulgated by Pope Paul IV, followed Pope Leo X’s Bull of Excommunication of Martin Luther and his followers (DECET ROMANUM PONTIFICEM, January 3, 1521), when Luther’s heresy caused the incredibly, terrible disaster in the Catholic Church in Germany and throughout Europe. Furious followers of the fallen Luther seized and occupied thousands of churches and monasteries. More than ten million souls fell into Lutheran heresy and nearly 50,000 people were killed, during the so-called Peasant war in Germany that was provoked by Luther.

Through Luther’s preaching, divorces and impure cohabitation began to be a “norm” for Germans. This destructive process increased and many former Catholic clergy became secret heretics. They appeared to be outwardly Catholic and continued to occupy Cathedrals and village parishes, however, they used their church pulpits for spreading Lutheran heresy in such a way that they continued to destroy and to devastate the Catholic Church.

So, in order to stop this catastrophic process of the destruction caused by the invasion of Lutheran heretics, and thus to save millions of souls, Pope Paul IV issued the Bull “Cum Ex Apostolatus Officio”.

Catholic teaching on the validity of Sacraments is that each Sacrament that is doubtful cannot be taken as valid, and thus it should to be repeated conditionally or absolutely. Sometimes the Sacrament of Matrimony and Orders cannot be repeated in cases where there are specific prohibitive and diriment impediments that exist, which cannot be dispensed.

Every “sacrament”, administered by a heretic can be doubtful. This can take place by any or all of the following ways 1) Intention, 2) Form, 3) Matter, and can be doubtful from the side of a minister and/or to the side of a recipient.

It is commonly known that Luther essentially changed teaching about Sacraments and particularly his heretical conception of “priesthood” was that every man is a “priest”. Such “common priesthood” nullified the sacrament for him and his followers, therefore, the Catholic Church recognizes Lutheran “orders” to be totally invalid.

Of course the Pope did what was right, when he issued the Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”.

There are two essential details in it:

“is null, void and worthless; not by the reception of consecration”

“without any further declaration to be made”

The same principle, which the Catholic Church applied to Lutheran “priesthood”, is still working towards the “priesthood” of Vatican II today “without any further declaration to be made”, because Vatican II has the conception of “priesthood” that is an exact copy of Luther’s conception of it.

One more word can be said about the Papal Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”; it is infallible teaching that does not need any further approval. Everyone can see it in Article IX and Article X:

“9. Moreover, in order that the present letter be read to the knowledge of all those whom it concerns, We desire that it or a copy (to which, written underneath with the hand of the public notary and furnished with the seal of some person constituted in ecclesiastical dignity, We determine that full faith is to be shown thereto) be published and posted on the doors of the basilica of the Prince of the Apostles and of the Apostolic Chancery and on the edge of the Campo Flora by some of our runners and that a posted copy of it be left, and that the publication, posting and the notification of the posted copy in this manner suffice and be held as solemn and lawful, nor that another publication be obliged to be required or respected.

10. Therefore, it is permitted to no one to impair this page of Our approval, renewal, sanction, statute, wills of repeal, of decrees, or to go contrary to it by a rash daring deed. If anyone moreover will have presumed to attempt this, he will incur the wrath of almighty God and of the blessed Apostles Peter and Paul.”

Therefore, This Papal infallible declaration is very simple and clear and does not need any further, “more clear” declaration. Any “consecration” administered by heretics of Vatican II “is null, void”, “without any further declaration to be made”.

Fr. UK

The CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO is still the Pontifical Document of binding force for all baptized persons. Its Legislator, Pope Paul IV and his successors never revoked this Bull. The Code of Canon Law of 1917 did not terminate CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO. Although this Papal Document is the Ecclesiastical Law **, it touches Faith. Particularly the Pope stated that it applies to the putative acceptation by heretics of the Sacrament of Holy Orders, after they have been promoted to be bishops and even after their putative enthronement as Roman Pontiff. Article VI specifically speaks about that. The promotion or elevation of the heretical bishops even if it has been uncontested and promoted by the unanimous assent of all the Cardinals, shall be null, void and worthless, It shall not be possible for them to acquire validity through the acceptance of the office, or through consecration etc. – the Pope states.

That means that the Pope did not recognize consecrations of the heretical bishops, who have fallen into heresy before their elevation to any bishopric dignity. If the Pope said that the heretical bishops would try to validate themselves through consecration, it is evident that he did not recognize the previous consecrations of these heretics, who clandestinely supported Luther’s false teaching about “common priesthood”, or at least, the Pope viewed those “consecrations” as very doubtful.

A couple of words about Luther’s false conception of the “universal priesthood of all believers”. In his address to the Nobility of the German Nation (1520), Luther taught: “For whoever comes out of the water of baptism can boast that he is already a consecrated priest, bishop, and pope”. Also in another place he said, “That the pope or bishop anoints, makes tonsures, ordains, consecrates, or dresses differently from the laity, may make a hypocrite or an idolatrous oil-painted icon, but it in no way makes a Christian or spiritual human being. In fact, we are all consecrated priests through Baptism”.

The Church condemned this obviously wrong and heretical teaching. This condemnation was made because throughout the whole history of the Church, the Priesthood as a Sacrament of the New Testament was administered only for men. Only men were ordained priests and consecrated bishops; that is a permanent and unquestionable practice of Catholic Tradition, which Luther attempted to destroy.

By Bull EXSURGE DOMINE, of June 15, 1520, Pope Leo X condemned all the false teachings of Luther and specifically the heretical error by which Luther insisted that even women and children could forgive sins in confession. By Bull DECET ROMANUM PONTIFICEM, of January 3, 1521, Pope Leo X excommunicated Martin Luther and all of his followers.

When many clergy, especially those of highest ranks, as bishops, appeared as crypto-Lutherans, the Church in the person of Pope Paul IV, promulgated the Pontifical Document CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO, condemning those clerics, who were secret followers of Luther’s heresy. These heretical clerics not only believed in Luther’s false teaching, they also intended to usurp the office of the Holy See.

Particularly by Article VI the Pope spoke not only about the nullity of the promotion and elevation of heretical bishops, but also about the nullity of their consecrations as priests to begin with. Crypto-Lutherans kept the false heretical Luther’s idea of the “universal priesthood of all believers”, and by that very fact, their previous and eventual consecrations would be considered invalid.

The Church had to react to this new dangerous threat, which was no less of a danger than Luther’s heretical revolt itself. While Luther was a heretic outwardly and acted openly, the crypto-Lutheran clergy were clandestine heretics, and thus they were even more dangerous. The Church has reacted to this threat in the person of Pope Paul IV.

Pope Paul IV promulgated the Document concerning Faith and Discipline against the heretical party of “Spirituali” who were in reality, crypto-Lutherans. Some of these crypto-Lutherans even attempted to be elected to the Roman Pontificate. Between the 30s and 50s of the 16th century, (these were the years of the spreading of the “fruits” of Luther’s revolution), heretical tendencies were being spread in the Roman ecclesiastical world.

The party of “Spirituali” had come into existence, represented by crypto-Lutherans, such as Cardinals Reginald Pole, Gasparo Contarini and Giovanni Morone. The “Spirituali” intended to propose the reconciliation of Lutheranism with the Roman Church. They intended to promulgate the crypto-Lutheran “double justification”, rejected by the Council of Trent in 1547. Step by step they moved closer to the moment when they would be able to preach Lutheran heresy openly, and try to destroy the Catholic Church, specifically by means of the annihilation of the Christian Priesthood.

Why did the Pope avoid mentioning heretics by name and why did he use temperate and cautious sentences in his Bull?

Because the heretics were quite powerful and of high rank, and thus they could provoke chaos and anarchy in the whole Roman Church. So the Pope acted very wisely and prudently both spiritually and intellectually. The Bull CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO can be a perfect example of the fulfillment of Our Lord Jesus Christ’s commandment: “Behold, I send you as sheep in the midst of wolves. Be ye therefore wise as serpents and simple as doves” (St. Matthew 10:16).

What could have happened if Pope Paul IV was not able to promulgate CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO?

In a word, the destructive “Vatican II” could have started 400 years earlier.

** “Ecclesiastical Law obliges all baptized persons who have attained the use of reason and are seven years of age, and also children under seven years of age when the Church explicitly so rules. Therefore, even the excommunicated as well as heretics and schismatic’s are obliged by the laws of the Church” (Moral Theology).

Fr. UK
[Questo articolo è stato pubblicato in italiano: https://www.exsurgatdeus.org/2018/02/15/cum-ex-apostolatus-officio-una-breve-precisazione/ ]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: DE-DOGMATIZZAZIONE NELLA CHIESA

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO:

DE-DOGMATIZZAZIONE NELLA CHIESA

[«Renovatio», VIII (1973), fasc. 4, pp. 531-533]

Esiste il tentativo di abolire gradualmente i dogmi, ossia le verità definite che fissano la rivelazione divina, e quanto ne consegue? Dobbiamo rispondere affermativamente. Il pericolo verrà certamente superato, perché il divin Fondatore ha garantito l’indefettibilità alla sua Chiesa. Ma tentativo e pericolo esistono in forma preoccupante. Nel numero di «Le Monde» del 29 dicembre 1973, Henry Fesquet, un commentatore religioso ascoltato nel mondo cattolico francese, scrive: «Pio XII aveva ragione. L’ondata di protestantesimo, di cui egli aveva avvertito i primi effetti, ha invaso la Chiesa Cattolica nel suo complesso quattro secoli dopo la Riforma … Difendere la purezza della dottrina è un compito sempre più ingrato, persino impossibile». – Difendere la verità è un compito sempre grato e sempre possibile. Tuttavia riportiamo i giudizi del Fesquet perché sono una palinodia di quegli ambienti, ecclesiastici e laici, i quali non scorgevano nel corso degli anni sessanta altro che luce in tutto ciò che nella Chiesa si poneva sotto l’insegna del mutamento. Ora Fesquet ci dice che invece di mutamento spesso si è trattato di rottura e, anzi, di negazione. – I fatti parlano: eccone alcuni. Sono comparsi dei catechismi, in taluni dei quali qualche verità è svanita (e si tratta di verità fondamentali), come quella del peccato originale, senza cui si cancella la logica di tutta la Redenzione. Le titubanze, i rallentamenti nella redazione di taluni catechismi sono significativi. I discorsi teologici (e nulla si fa oggi, anche di banale, senza preporre delle «ragioni teologiche») diventano sempre più vaghi e sfuggenti dalle verità concrete, chiare, rese in semplicità di termini, accettati e capiti. Si è adottato un vocabolario diffuso, ma per il quale nessuno ha inequivocamente fissato il valore dei singoli termini. Questi termini hanno viceversa il risultato di permettere vari inconvenienti: quello di capire ciò che si vuole o, meglio, ciò che piace, quello di introdurre postulati di vario genere, hegeliano, freudiano, sociologistico, che apertamente non si enuncerebbero. Evanescenze, sfumature, lungaggini inconcludenti spingono i termini chiari della verità nel porto delle nebbie. Ciò appare a chi anche soltanto sfogli l’enormità di scritti poligrafati che siamo condannati a ricevere e, spesso, per dovere, a leggere. – L’acrimonia verso la teologia speculativa è ormai endemica. Appare non solo dal disprezzo che presso non pochi essa raccoglie, ma dalla sostituzione, anche in recenti opere notevoli, di un puro metodo storico (meglio sarebbe dire storicistico), al metodo teologico (pur se la teologia ricostruisce l’interpretazione della Bibbia e della Tradizione servendosi di elementi storici od aventi un carattere anche storico). – C’è di più. In molta predicazione ed in molta saggistica è rimasto un Cristo che si rassomiglia assai a quello del «Jesus festival» o al «Christ superstar», mentre se ne diluisce o se ne nasconde la divinità. Il tentativo di «de-dogmatizzazione» tenta di assumere un volto scientifico, alterando il metodo teologico, che è indicato dalla stessa rivelazione divina. Si tacciono gli interventi del Magistero, dimenticando magari quelli solenni (il Concilio di Trento è particolarmente colpito); si elencano i placita dei «teologi» moderni che divengono criteri di verità. – Ma i teologi non possono cambiare la teologia: al contrario, se si pongono sulla strada di un metodo sbagliato, non possono non uscire dalla comunione della verità. L’amore per il prossimo diviene la lotta di classe. E l’amore stesso, del resto, cessa di essere spirito per ridursi a eros. Riecheggia, ininterrotta, la dossologia alla fraternità, all’eguaglianza e, soprattutto, alla libertà (di fare quel che piace). Non pochi, anche tenendo conto degli atteggiamenti concreti e personali, stanno facendo la sostituzione del Cristianesimo col sociologismo. La gravissima ignoranza teologica fa sì che molti applaudono ad esibizioni apostoliche, solo per non sembrar da meno degli altri. – Si parla di fede: certo, ma senza dottrina. Ossia senza verità precise, senza proposizioni, senza formule. Abbiamo letto sulla rivista «Concilium» questa citazione di E. Durkheim: «C’è qualcosa di eterno nella religione che è destinato a sopravvivere a tutti i simboli particolari nei quali il pensiero religioso si è progressivamente sviluppato». Così, con un pizzico di simbolismo e di evoluzionismo, si arriva ad una religione senza attributi e senza manifestazioni. Le spogliazioni delle chiese ne sono il segno precorritore. Sparito il sole, restano le nebbie. Il tentativo di «de-dogmatizzare» la Chiesa comincia dall’odio alle formule ed alle proposizioni precise. Quando si delinea questo andazzo, le conclusioni sono scontate sin dai primi segni, quali l’apatia per le definizioni dei concetti, dei termini e delle cose. – La Chiesa ha sempre difeso la Rivelazione con proposizioni precise. Non che queste abbiano creato la verità, l’hanno solo posta  in risalto per renderla inequivocamente chiara. La fede nell’Assunzione esisteva prima della definizione del 1950. L’Immacolata era nella fede della Chiesa prima del 1854, così come la divinità di Cristo era tenuta con una certezza tenacissima, fino al martirio, prima del Concilio di Nicea. – “Generalmente le definizioni sono venute dopo le eresie, ossia dopo gli attacchi, ed hanno costituito la linea di sbarramento. In tal modo si è salvata la Chiesa delle verità certe dal mercato delle opinioni. Le proposizioni sono state redatte talvolta in forma positiva, talvolta in forma negativa, ossia di condanna. Le due forme hanno avuto lo stesso risultato. La stima e la gratitudine degli uomini va alla Chiesa di Dio, perché è attrice di certezze, non propalatrice di dubbi eterni.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: RERUM NOVARUM (1).

La “Rerum Novarum” è una pietra miliare del sacro Magistero della Chiesa che affronta la questione sociale in modo mirabile e che suscita uno stupore mozzafiato per la profondità di dottrina e la lucidità dell’analisi sociale a tutto campo operata da S. S. Leone XIII. La sostanza dell’enciclica è con il tempo ancor più valida alla luce degli avvenimenti storici del secolo passato, e maggiormente attuale oggi che si vive in tempi di marasma dottrinale teologico, filosofico, sociologico, economico, nonché di confusione politica che ha superato il limite dell’assurdo. S. S. Pecci aveva già delineato alcuni pilastri essenziali di questa questione, nelle encicliche che abbiamo letto nelle due scorse domeniche. Essa costituisce inoltre il documento base, come per altre problematiche vitali, (ad esempio il matrimonio, la lettura e la pubblicazione di libri e giornali corrotti e corruttori, il pericolo del massonismo, l’interpretazione “novatrice” della sacra Scrittura, la necessità di riscoprire ed approfondire la teologia speculativa onde arginare il modernismo già in agguato in quei tempi, solo per citarne alcune tra le tante), per ulteriori encicliche e documenti dei Papi successivi. Il testo della lettera merita tutta la nostra attenzione e va meditato senza distrazioni. Per semplicità di lettura lo abbiamo pertanto suddiviso in due parti. I commenti hanno fatto versare nei decenni passati una marea di inchiostro da parte di autori tra i più qualificati. Noi, nella nostra pochezza, ce ne asteniamo assolutamente anche perché l’Enciclica è talmente chiara e luminosa che deve essere semplicemente letta ed impressa nella propria mente, sperando che un giorno, quando piacerà a Dio, e quando ai suoi occhi noi lo avremo meritato, possa trovare finalmente applicazione pratica nell’interesse dei singoli e dei popoli tutti.

RERUM NOVARUM
LETTERA ENCICLICA DI


S.S. LEONE XIII  

-I-

INTRODUZIONE

Motivo dell’enciclica: la questione operaia

1. L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo. Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla questione operaia. Trattammo già questa materia, come ce ne venne l’occasione più di una volta: ma la coscienza dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora, di proposito e in pieno, al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia ed equità, si deve risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli.

.2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile.

PARTE PRIMA

IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO

La soluzione socialista inaccettabile dagli operai

3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale.

4. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l’artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d’investire come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l’accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione.

5. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una aperta ingiustizia, giacché la proprietà prenata è diritto di natura. Poiché anche in questo passa gran differenza tra l’uomo e il bruto. Il bruto non governa sé stesso; ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra terminano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l’istinto della conservazione propria, e l’istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini, basta al bruto l’uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell’uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua pienezza, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, si deve concedere all’uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di quelle che l’uso non consuma.

La proprietà privata è di diritto naturale

6. Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente nell’umana natura. Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre il presente, anche l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso. Egli deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni futuri. Giacché i bisogni dell’uomo hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la natura deve aver dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile fecondità. Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso.

7. L’aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché quel dono egli lo fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò nessuna parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all’industria degli uomini e al diritto speciale dei popoli. La terra, per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da essi. Chi non ha beni propri vi supplisce con il lavoro; tanto che si può affermare con verità che il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro, impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare un’arte, la cui mercede in ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra e in essi viene commutata. Ed è questa un’altra prova che la proprietà privata è conforme alla natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, e in cui lasciò come impressa una impronta della sua personalità, sicché giustamente può tenerla per sua ed imporre agli altri l’obbligo di rispettarla.

La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine

8. Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali, rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all’uomo l’uso del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la proprietà. Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a defraudare l’uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo dissodato dalla mano e dall’arte del coltivato non è più quello di prima, da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse a goderne i frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi contraddittori e con l’occhio fisso alla legge di natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni; e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente consona alla natura dell’uomo e alla pacifica convivenza sociale, l’ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli. E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano la propria autorità ed efficacia dalla stessa legge naturale (Cfr. S. Th. I-I, q. 95, a. 4), confermano tale diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui: Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l’asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono(Deut 5,21).

La libertà dell’uomo

9. Questo diritto individuale cresce di valore se lo consideriamo nei riguardi del consorzio domestico. Libera all’uomo è l’elezione del proprio stato: Egli può a suo piacere seguire il consiglio evangelico della verginità o legarsi in matrimonio. Naturale e primitivo è il diritto al coniugio e nessuna legge umana può abolirlo, né può limitarne, comunque sia, lo scopo a cui Iddio l’ha ordinato quando disse: Crescete e moltiplicatevi (Gen 1,28). Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all’individuo va applicato all’uomo come capo di famiglia: anzi tale diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa e completa è nel consorzio domestico la sua personalità.

Famiglia e Stato

10. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere nei figli una immagine di sé e quasi una espansione e continuazione della sua persona, egli è spinto a provvederli in modo che nel difficile corso della vita possano onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa impossibile a ottenersi se non mediante l’acquisto dei beni fruttiferi, ch’egli poi trasmette loro in eredità. Come la convivenza civile così la famiglia, secondo quello che abbiamo detto, è una società retta da potere proprio, che è quello paterno. Entro i limiti determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e l’uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla sua legittima indipendenza, diritti almeno eguali a quelli della società civile. Diciamo almeno eguali, perché essendo il consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri. Che se l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare.

Lo Stato e il suo intervento nella famiglia

11. È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in si gravi strettezze che da sé stessa non le è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra i membri di una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciascuno il suo, poiché questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma assicurarli e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre. La patria potestà non può lo Stato né annientarla né assorbirla, poiché nasce dalla sorgente stessa della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, una espansione, per così dire, della sua personalità e, a parlare propriamente, essi entrano a far parte del civile consorzio non da sé medesimi, bensì mediante la famiglia in cui sono nati. È appunto per questa ragione che, essendo i figli naturalmente qualcosa del padre… prima dell’uso della ragione stanno sotto la cura dei genitori. (S. Th. II-II, q. 10, a. 12) Ora, i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia naturale e disciolgono la compagine delle famiglie.

La soluzione socialista è nociva alla stessa società

12. Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e quale dura e odiosa schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria. Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio.

PARTE SECONDA

IL VERO RIMEDIO: L’UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI

A) L’opera della Chiesa

13. Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno diritto; giacché si tratta di questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo problema richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall’azione della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo d’illuminare la mente, ma d’informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse leggi e l’autorità dello Stato.

1 – Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso

14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen III,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.

2 – Necessità della concordia

15. Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. In vece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.

3 – Relazioni tra le classi sociali

a) giustizia

16. Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l’opera propria. Quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell’anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e con il sesso.

17. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco, la mercede degli operai… che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti (Giac 5,4). Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l’operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza. L’osservanza di questi precetti non basterà essa sola a mitigare l’asprezza e a far cessare le cagioni del dissidio ?

b) carità

18. Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall’esempio di Cristo, mira più in alto, cioè a riavvicinare il più possibile le due classi, e a renderle amiche. Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se l’animo non si eleva ad un’altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi l’intera creazione diventa un mistero inspiegabile. Quello pertanto che la natura stessa ci detta, nel cristianesimo è un dogma su cui come principale fondamento poggia tutto l’edificio della religione: cioè che la vera vita dell’uomo è quella del mondo avvenire. Poiché Iddio non ci ha creati per questi beni fragili e caduchi, ma per quelli celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo, ciò all’eterna felicità non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa. Le varie tribolazioni di cui è intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha redenti con redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha convertite in stimolo di virtù e in maniera di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può giungere al cielo se non segue le orme sanguinose di Lui. Se persevereremo, regneremo insieme (2 Tim 2,12). Accettando volontariamente sopra di sé travagli e dolori, egli ne ha mitigato l’acerbità in modo meraviglioso, e non solo con l’esempio ma con la sua grazia e con la speranza del premio proposto, ci ha reso più facile il patire. Poiché quella che attualmente è una momentanea e leggera tribolazione nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura smisurato peso di gloria (2Cor 4,17). I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono (Cfr. Mat 19,23-24); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo (Cfr. Luc 6,24-25); che dell’uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice.

c) la vera utilità delle ricchezze

19. In ordine all’uso delle ricchezze, eccellente e importantissima è la dottrina che, se pure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga pura speculazione, ma discenda nella pratica e informi la vita. Il fondamento di tale dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si suole distinguere il possesso legittimo dal legittimo uso. Naturale diritto dell’uomo è, come vedemmo, la privata proprietà dei beni e l’esercitare questo diritto é, specialmente nella vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. E’ lecito, dice san Tommaso, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni (S. Th. III-II, q. 66, a. 2). Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, per questo rispetto, l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all’altrui necessità. Onde l’Apostolo dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e comunicare facilmente il proprio (Ivi). Nessuno, Certo, é tenuto a soccorrere gli altri con le cose necessarie a sé e ai suoi, anzi neppure con ciò che è necessario alla convivenza e al decoro del proprio  stato, perché nessuno deve vivere in modo non conveniente (S. Th. II-II, q. 32, a. 6). Ma soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi. Quello che sopravanza date in elemosina (Luc 11,41). Eccetto il caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana il cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso e insegna: E’ più bello dare che ricevere (At 20,35), e terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei fratelli, a me lo faceste (Mat 25,40). In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della divina provvidenza a vantaggio altrui: Chi ha dunque ingegno, badi di non tacere; chi ha abbondanza di roba, si guardi dall’essere troppo duro di mano nell’esercizio della misericordia; chi ha un’arte per vivere, ne partecipi al prossimo l’uso e l’utilità (S. Greg. M., In Evang. hom 9, n. 7).

d) vantaggi della povertà

20. Ai poveri poi, la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che rechi vergogna né la povertà né il dover vivere di lavoro. Gesù Cristo confermò questa verità con 1’esempio suo mentre, a salute degli uomini, essendo ricco, si fece povero (2Cor 8,9) ed essendo Figlio di Dio, e Dio egli stesso, volle comparire ed essere creduto figlio di un falegname, anzi non ricusò di passare lavorando la maggior parte della sua vita: Non è costui il fabbro, il figlio di Maria? (Mar 6,3) Mirando la divinità di questo esempio, si comprende più facilmente che la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio dell’eterna beatitudine. Diciamo di più per gli infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione poiché Gesù Cristo chiama beati i poveri (Cfr. Mat 5,3); in. vita amorosamente a venire da lui per conforto, quanti sono stretti dal peso degli affanni (Mat 11,28); i deboli e i perseguitati abbraccia con atto di carità specialissima. Queste verità sono molto efficaci ad abbassar l’orgoglio dei fortunati e togliere all’avvilimento i miseri, ad ispirare indulgenza negli uni e modestia negli altri. Così le distanze, tanto care all’orgoglio, si accorciano; né riesce difficile ottenere che le due classi, stringendosi la mano, scendano ad amichevole accordo.

e) fraternità cristiana

21. Ma esse, obbedendo alla legge evangelica, non saranno paghe di una semplice amicizia, ma vorranno darsi l’amplesso dell’amore fraterno. Poiché conosceranno e sentiranno che tutti gli uomini hanno origine da Dio, Padre comune; che tutti tendono a Dio, fine supremo, che solo può rendere perfettamente felici gli uomini e gli angeli; che tutti sono stati ugualmente redenti da Gesù Cristo e chiamati alla dignità della figliolanza divina, in modo che non solo tra loro, ma con Cristo Signore, primogenito fra molti fratelli, sono congiunti col vincolo di una santa fraternità. Conosceranno e sentiranno che i beni di natura e di grazia sono patrimonio comune del genere umano e che nessuno, senza proprio merito, verrà diseredato dal retaggio dei beni celesti: perché se tutti figli, dunque tutti eredi; eredi di Dio, e coeredi di Gesù Cristo (Rom 8,17). Ecco 1’ideale dei diritti e dei doveri contenuto nel Vangelo. Se esso prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?

4 – Mezzi positivi

a) la diffusione della dottrina cristiana

22. Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio, l’applica ella stessa con la materna sua mano. Poiché ella é tutta intenta a educare e formare gli uomini a queste massime, procurando che le acque salutari della sua dottrina scorrano largamente e vadano per mezzo dei Vescovi e del Clero ad irrigare tutta quanta la terra. Nel tempo stesso si studia di penetrare negli animi e di piegare le volontà, perché si lascino governare dai divini precetti. E in quest’arte, che é di capitale importanza,  poiché ne dipende ogni vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera a muovere gli animi le furono dati a questo fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; si che essi soli possono penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far si che gli uomini obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano coraggiosamente tutti gli ostacoli che attraversano il cammino della virtù.

b) il rinnovamento della società

Basta su ciò accennar di passaggio agli esempi antichi. Ricordiamo fatti e cose poste fuori di ogni dubbio: cioè che per opera del cristianesimo fu trasformata da capo a fondo la società; che questa trasformazione fu un vero progresso del genere umano, anzi una risurrezione dalla morte alla vita morale, e un perfezionamento non mai visto per l’innanzi né sperabile maggiore per l’avvenire; e finalmente che Gesù Cristo è il principio e il termine di questi benefizi, i quali, scaturiti da lui, a lui vanno riferiti. Avendo il mondo mediante la luce evangelica appreso il gran mistero dell’incarnazione del Verbo e dell’umana redenzione, la vita di Gesù Cristo Dio e uomo si trasfuse nella civile società che ne fu permeata con la fede, i precetti, le leggi di lui. Perciò, se ai mali del mondo v’è un rimedio, questi non può essere altro che il ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È un solenne principio questo, che per riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’essere, la perfezione di ogni società è riposta nello sforzo di arrivare al suo scopo: in modo che il principio generatore dei moti e delle azioni sociali sia il medesimo che ha generato l’associazione. Quindi deviare dallo scopo primitivo è corruzione; tornare ad esso è salvezza. E questo è vero, come di tutto il consorzio civile, così della classe lavoratrice, che ne è la parte più numerosa.

c) la beneficenza della Chiesa

23. Né si creda che le premure della Chiesa siano così interamente e unicamente rivolte alla salvezza delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla vita morale e terrena. Ella vuole e procura che soprattutto i proletari emergano dal loro infelice stato, e migliorino la condizione di vita. E questo essa fa innanzi tutto indirettamente, chiamando e insegnando a tutti gli uomini la virtù. I costumi cristiani, quando siano tali davvero, contribuiscono anch’essi di per sé alla prosperità terrena, perché attirano le benedizioni di Dio, principio e fonte di ogni bene; infrenano la cupidigia della roba e la sete dei piaceri (Cfr. 1Tim 6,10), veri flagelli che rendono misero l’uomo nella abbondanza stessa di ogni cosa; contenti di una vita frugale, suppliscono alla scarsezza del censo col risparmio, lontani dai vizi, che non solo consumano le piccole, ma anche le grandi sostanze, e mandano in rovina i più lauti patrimoni.

24. Ma vi è di più: la Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari col creare e promuovere quanto può conferire al loro sollievo, e in questo tanto si è segnalata, da riscuoter l’ammirazione e gli encomi degli stessi nemici. Nel cuore dei primi cristiani la carità fraterna era così potente che i più facoltosi si privavano spessissimo del proprio per soccorrere gli altri; tanto che non vi era tra loro nessun bisognoso (At 4,34). Ai diaconi, ordine istituito appositamente per questo, era affidato dagli apostoli l’ufficio di esercitare la quotidiana beneficenza e l’apostolo Paolo, benché gravato dalla cura di tutte le Chiese, non dubitava di intraprendere faticosi viaggi, per recare di sua mano ai cristiani poveri le elemosine da lui raccolte. Tertulliano chiama depositi della pietà le offerte che si facevano spontaneamente dai fedeli di ciascuna adunanza, perché destinate a soccorrere e dar sepoltura agli indigenti, sovvenire i poveri orfani d’ambo i sessi, i vecchi e i naufraghi (Apolog, 2.39). Da lì poco a poco si formò il patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con religiosa cura come patrimonio della povera gente. La quale anzi, con nuovi e determinati soccorsi, venne perfino liberata dalla vergogna di chiedere. Giacché, madre comune dei poveri e dei ricchi, ispirando e suscitando dappertutto l’eroismo della carità, la Chiesa creò sodalizi religiosi ed altri benefici istituti, che non lasciarono quasi alcuna specie di miseria senza aiuto e conforto. Molti oggi, come già fecero i gentili, biasimano la Chiesa perfino di questa carità squisita, e si è creduto bene di sostituire a questa la beneficenza legale. Ma non è umana industria che possa supplire la carità cristiana, tutta consacrata al bene altrui. Ed essa non può essere se non virtù della Chiesa, perché è virtù che sgorga solamente dal cuore santissimo di Gesù Cristo: e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa.

B) L’opera dello Stato

25. A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati debbono concorrervi ciascuno per la sua parte: e ciò ad esempio di quell’ordine provvidenziale che governa il mondo; poiché d’ordinario si vede che ogni buon effetto è prodotto dall’armoniosa cooperazione di tutte le cause da cui esso dipende. Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello Stato. Noi parliamo dello Stato non come è sostituito o come funziona in questa o in quella nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, quale si desume dai principi della retta ragione, in perfetta armonia con le dottrine cattoliche, come noi medesimi esponemmo nella enciclica sulla Costituzione cristiana degli Stati (enc. Immortale Dei).

[1 – Continua … ]

 

 

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2018)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2018)

Introitus Is LXVI:10 et 11.

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI:1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Amen Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV:22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli, “Nuovo saggio di Omelie” vol. II, omel. VII, Marietti ed. Torino, 1898]

“Sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava, l’altro dalla libera. Ma il figlio della schiava nacque secondo la carne; il figlio poi della libera nacque in virtù della promessa. Le quali cose contengono una figura; perché quelle due donne figurano due Testamenti: l’uno sul monte Sinai, che genera a servitù, e questo è Agar. Perché Sina è un monte in Arabia, che risponde all’odierna Gerusalemme, e serve coi suoi figli. Ma la Gerusalemme in alto è libera, ed essa è la madre nostra. Perciocché sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorivi: tripudia ed esclama tu, che non sentivi doglie di parto: perché sono più assai i figli della deserta, che non di colei che ha marito. Ora noi, fratelli, alla maniera d’Isacco, siamo figli della promessa. Ma siccome allora, quello che era generato secondo la carne, perseguitava il generato secondo lo spirito, così anche avviene al presente. Ma che cosa dice la Scrittura?  Caccia via la schiava e il suo figlio; perché il figliuolo della serva non sarà erede col figliuolo della libera. Il perché, o fratelli, noi siamo figli, non della schiava, ma della libera, della libertà, onde Cristo ci ha affrancati „ (Gal. IV, 22-31).

L’apostolo S. Paolo aveva annunziato il Vangelo e stabilita la Chiesa nella Galazia, provincia romana, posta quasi nel centro dell’Asia Minore, come sappiamo dagli Atti apostolici (XVI, 6). Quella Chiesa era composta per la maggior parte di pagani, ma non vi doveva mancare un gruppo di Ebrei, i quali a quell’epoca erano sparsi in tutte le città principali d’Oriente per ragione dei loro traffici, come appare dagli stessi Atti apostolici, scritti da S. Luca. Questo gruppo di Giudei disseminati per la Galazia turbarono fortemente la pace di quella Chiesa: essi volevano che i nuovi convertiti al Vangelo osservassero tutta la legge mosaica, considerando il Cristianesimo come una giunta fatta al mosaismo; e poiché S. Paolo riprovava altamente questo errore, che restringeva la Chiesa di Cristo nelle fasce del mosaismo, presero a combattere lo stesso Apostolo, negando o mettendo in dubbio la sua missione divina. Per ribattere questa calunnia, stabilire la propria autorità e mostrare che la sinagoga era cessata per dar luogo alla Chiesa di Cristo, l’Apostolo, l’anno 52 o 53 dell’era nostra, scrive la sua lettera, della quale avete udita or ora una piccola parte, che si legge nella S. Messa. Nelle poche righe riportate S. Paolo sotto la figura di Agar e di Sara, d’Ismaele e d’Isacco, ci mostra adombrata la sinagoga e la Chiesa, il carattere passeggero e ristretto di quella e il carattere stabile e universale di questa. L’argomento è profondo ed elevato, ed è degno di tutta la vostra attenzione. – “Sta scritto, che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava, l’altro dalla libera. „ È  questo un richiamo alla storia e all’origine del popolo ebreo. Abramo ebbe due mogli, Agar, la schiava, e Sara, la libera. Non occorre farvi osservare che allora era permessa, per ragioni specialissime, la pluralità delle donne, come era tollerata la schiavitù e tollerato il divorzio. Era una società in sul suo formarsi, si mettevano le basi del mosaismo, preparazione lontana del Cristianesimo, e nessuna meraviglia che in quello vi fossero gravi imperfezioni, che dovevano cessare in questo. La casa nel suo primo sorgere presenta appena le linee principali, rozza, non è abitabile o assai difficilmente; solo in seguito si compie la fabbrica, si abita, si pulisce, si adorna; cosi avvenne del mosaismo: le sue istituzioni imperfette rispondevano alla natura di quel popolo, ma dovevano finire alla venuta di Cristo, che protestò d’essere venuto a compire la legge mosaica: Non veni solvere legem, sed adimplere. – Abramo dalla schiava Agar ebbe Ismaele, che fu il padre delle genti idumee. Egli dicesi nato secondo la carne, che è quanto dire, secondo il corso naturale delle cose; da Sara ebbe Isacco, e dicesi nato secondo la promessa, cioè fuori del corso della natura, per effetto della divina promessa, in altri termini, per miracolo o virtù sovraumana. Da Isacco trae origine il popolo ebraico, eletto da Dio ad essere il depositario delle promesse divine, e da lui doveva venire l’aspettato Salvatore. Tutto questo sappiamo dalla storia, narrata nel libro sacro della Genesi. Accennando questo fatto di Abramo e delle due mogli, Agar, la schiava, e Sara, la libera, e dei due figli da loro avuti, l’uno in modo naturale, l’altro per divina promessa, S. Paolo, con quella sicurezza che gli veniva dalla sua missione, annunzia questa sentenza: “Queste cose contengono una figura — Qua sunt per allegoriam dicta. „ Che cosa è la figura, della quale qui parla l’Apostolo e che suppone conosciuta dai fedeli? Sarebbe disonore e colpa che i Cristiani d’oggi non conoscessero ciò che conoscevano i primi Cristiani, “ai quali era indirizzata la lettera dell’Apostolo. Eppure non credo di offendervi, o dilettissimi, dicendo che molti tra voi non sanno che cosa sia la figura od allegoria, sì frequente nei Libri sacri, di cui in questo luogo favella S. Paolo. Non vi sia grave pertanto ascoltarmi con tutta l’attenzione. – Allorché nei Libri santi noi leggiamo i fatti che avvennero, dobbiamo tenere che avvennero veramente come sono narrati. Leggiamo per modo d’esempio che Noè fabbricò l’arca e che in essa egli e i suoi figli furono salvi dalle acque dell’universale diluvio? Noi dobbiamo tenere per indubitato questo fatto, che Noè costruì veramente l’arca, che veramente venne il diluvio, e che Noè con i suoi figli trovò in quella la sua salvezza. Leggiamo che Abramo condusse sul monte il figlio Isacco, che portava le legna per il sacrificio? Leggiamo che nel deserto cadde la manna e che di essa si nutrì per tanti anni il popolo ebreo? Leggiamo che Mosè nel deserto levò in alto un serpente di bronzo e che quelli che erano morsicati dai serpenti, riguardandolo, guarivano? Leggiamo ancora che prima della Pasqua il popolo doveva mangiare l’agnello sacrificato? Ebbene: noi dobbiamo tenere che tutte queste cose si fecero precisamente come sono descritte. Ma, seguendo l’insegnamento dei Libri santi e dei Padri, dobbiamo anche tenere, che quei fatti sono simboli o figure di altri fatti, che dovevano più tardi avvenire nella nuova legge. Così l’arca, in cui Noè con la sua famiglia si salva dal diluvio, è figura del Battesimo, che ci salva dalle acque del peccato originale; Isacco, che carico delle legna, sale sul monte, il serpente innalzato nel deserto, adombrano Cristo, che sale il Calvario, che pende dalla croce; la manna del deserto è simbolo della santa Eucaristia e l’agnello pasquale rappresenta Cristo. Se non tutti, molti fatti dell’antico Testamento, non vi è dubbio, raffigurano altri fatti del Nuovo, e per noi essi sono come altrettante parole, altrettante pagine dei Libri divini, che ci ammaestrano. – Ora tale appunto, per testimonianza di san Paolo, è il fatto di Abramo, di Agar e di Sara, di Ismaele e d’Isacco, ricordato nella lettera che commentiamo. Agar, col figlio Ismaele, rappresenta l’antico Patto e il popolo ebraico; Sara, col figlio Isacco, simboleggia il nuovo Patto e la Chiesa di Gesù Cristo. Hæc sunt duo Testamento. Il primo Testamento, o Patto, Dio lo strinse con Mosè, sul monte Sinai, allorché diede la legge e promise al popolo ebreo la terra di Canaan e la sua protezione, e il popolo accettò la legge e si obbligò ad osservarla. Il secondo Testamento, o Patto, lo fece tacitamente Cristo con gli Apostoli e con tutti i credenti, ai quali diede la nuova legge e promise tutti i beni spirituali e la vita eterna, ed essi accettarono e si obbligarono all’osservanza di tutti i suoi precetti: Testamento o Patto suggellato nella santa Eucaristia e col sacrificio della croce. Il primo Testamento, raffigurato in Agar e dato sul Sinai, “genera a servitù, „ dice san Paolo. Che vuol dire “genera a servitù? „ Agar era schiava e il figlio, perché figlio di schiava, seguiva la condizione della madre e come schiavo dovevasi considerare. La madre e il figlio, schiavi, raffigurano il  primo Testamento, o il popolo ebreo: esso, rispetto alla Chiesa, al popolo del quale Cristo sarà capo, è schiavo: esso è soggetto ad una legge piena di cerimonie e di prescrizioni gravose, come la circoncisione: ad una legge, che per molte trasgressioni infligge pene gravi e per alcune infligge persino la pena di morte. Quella legge, considerata nel suo insieme e specialmente nelle sue pene, è una legge da schiavi, perché è legge non d’amore, come si conviene ai figli, ma di timore e terrore, come è proprio di schiavi. Le sue ricompense, direttamente, riguardano i beni passeggeri e materiali della terra. Ecco perché l’antico Testamento si dice che genera alla schiavitù, ossia forma dei servi, perché s’impone col timore. – L’Apostolo illustra i rapporti tra l’antico e il nuovo Testamento con una osservazione semplicissima, dicendo: “Il monte Sinai, che è in Arabia e su cui fu data la legge, risponde alla odierna Gerusalemme:„ in altre parole, il Sinai e l’odierna Gerusalemme sono congiunti per modo che formano una cosa sola, si trovano nella stessa condizione: la Gerusalemme, o sinagoga odierna, raffigurata da Agar, forma i suoi figli sotto la legge del timore, essa non è che il tipo e la figura della Chiesa e deve cessare, come cessano le ombre al sopravenire della luce. Questa sinagoga, «questa Gerusalemme, madre di schiavi, deve cedere il luogo alla vera Gerusalemme, che è in alto, che è libera, ed essa è madre nostra — Illa autem, quæ sursum est Jerusalem, libera est, quæ est mater nostra. „ Chi è dessa questa madre nostra, che è, o viene dall’alto? che è simboleggiata da Sara? Essa è la Chiesa, fondata da Gesù Cristo e sua sposa fedele, che da Lui non sarà mai reietta, come da Abramo fu reietta Agar. Essa viene dall’alto: Quæ sursum est, perché il suo capo e fondatore è Gesù Cristo  stesso, che viene dal cielo, ed Egli la regge e governa fino alla fine dei tempi; perché riceve dall’alto la verità e la grazia, e perché le sue speranze ed il suo amore sono sempre lassù in cielo, termine fisso del suo pellegrinaggio sulla terra. E perché la Chiesa si chiama Gerusalemme? Perché la parola Gerusalemme significa Visione della pace, e per la Chiesa l’uomo ottiene la pace vera con Dio, e perché il Vangelo, il codice della pace, fu promulgato per la prima volta in Gerusalemme, dove nacque la Chiesa il dì della Pentecoste. – E perché la Chiesa si chiama libera? Perché volge tutte le sue cure e tutti i suoi sforzi a liberarci dal peccato, dalle passioni, dall’errore e dal supremo di tutti i mali, l’eterna perdizione. Essa dicesi libera, perché è sciolta da tutti gl’impacci della sinagoga e conduce alla virtù con la persuasione e con l’amore più che col timore, e perciò essa è raffigurata in Sara, ch’era moglie di Abramo, non schiava, ma libera. E finalmente perché la Chiesa si chiama madre e madre feconda e più feconda della sinagoga? Perché essa col Battesimo genera i figli a Dio, e con gli altri Sacramenti, con la parola e con tant’altri mezzi li nutre e li cresce. La sinagoga fu e doveva sempre rimanere ristretta al solo popolo d’Israele: la Chiesa per contrario doveva raccogliere nel suo seno non solo i figli d’Israele, ma i Gentili, e crebbe rapidamente, allargò dovunque le sue tende, e mentre pareva condannata alla sterilità, condannata a perire in mezzo ai nemici, Ebrei e Gentili, soverchiò la sinagoga, ed i figli di quella sono di questa senza confronto più numerosi. – L’Apostolo viene alla conclusione e pratica applicazione del simbolo o figura, che sopra ha esposto, e dice: “Ora noi, fratelli, siamo figli alla maniera di Isacco, figli della promessa.„ Voi, o Galati, non appartenevate alla sinagoga: voi eravate Gentili; ma, avendo creduto in Cristo e ricevuto il suo Battesimo, diventaste figli di Abramo, non secondo la carne, ma secondo lo spirito, a somiglianza di Isacco, che nacque ad Abramo, non per legge naturale, ma solo in virtù della promessa divina. Voi, o Galati, un tempo Gentili, ora siete i veri figli di Abramo, come lo fu Isacco meglio di Ismaele. Qui naturalmente all’Apostolo doveva affacciarsi il fatto, allora quotidiano, dell’odio e della feroce persecuzione, che gli Ebrei movevano dovunque ai Cristiani, e Paolo stesso più che tutti n’era la vittima. Questo fatto gli porge il destro di completare la spiegazione della figura biblica di Agar e di Sara, di Ismaele e d’Isacco: Osservate, così in sentenza l’Apostolo, osservate ciò che narra Mosè nella Genesi. Ismaele nacque da Agar prima di Isacco: Ismaele, il figlio della schiava, maltrattava, perseguitava Isacco, il figlio di Sara, la libera, e avuto per promessa divina. E ciò che avviene al presente. Vedete questa sinagoga, questi Ebrei, veri figli di Agar, perseguitano dovunque i credenti in Cristo, i figli della Chiesa, i figli della promessa divina, adombrati in Isacco. Quale sarà l’esito di questa persecuzione della sinagoga contro la Chiesa? Voi lo potete vedere anticipatamente in Agar ed Ismaele, in Sara ed Isacco. Sara un giorno, visto Ismaele offendere e perseguitare il suo Isacco, indignata disse ad Abramo: “Manda via la schiava ed il figlio suo, perché il figlio della schiava non sarà l’erede col figlio della libera. „ Ed Abramo, benché a malincuore, scacciò Agar ed Ismaele e costituì Isacco suo erede. La sinagoga perseguitò, pose a morte Gesù Cristo, fondatore della Chiesa; perseguitò, flagellò, sbandeggiò ed uccise quanti poté degli Apostoli e dei discepoli di Gesù Cristo. Iddio, benché a malincuore, ripudiò questa sinagoga persecutrice della sua Chiesa. Dissi, a malincuore, perché essa pure, la sinagoga, era opera delle sue mani, sua figlia, come Ismaele era figlio di Abramo: in essa fiorirono i patriarchi ed i profeti: ad essa furono dati i Libri santi e la legge: per essa conservò il culto del vero Dio sulla terra e tenne viva la face della fede e della speranza nel futuro Messia: da essa venne secondo la carne il Figliuolo stesso di Dio, il Salvatore del mondo: ma la sua ostinazione in respingere la verità, in perseguitare Cristo ed i suoi discepoli le trasse in capo la riprovazione e fu reietta co’ suoi figli. – Il ripudio della sinagoga è una terribile lezione per noi, o dilettissimi. È verità certissima di fede, che la Chiesa cattolica-romana, della quale noi siamo figli, sarà sempre la sposa di Gesù Cristo; essa non sarà mai reietta, quasi infedele, come fu reietta la sinagoga; ma se la Chiesa, madre nostra, non sarà mai ripudiata da Gesù Cristo, perché sarà sempre la fedele depositaria delle verità per Lui insegnate, ne segue forse che noi non possiamo essere scacciati dal suo seno? Ohimè! carissimi: ciò pur troppo può avvenire, ed avviene sotto i nostri occhi. Quanti dei nostri poveri fratelli, generati dalla Chiesa a Gesù Cristo, nutriti col cibo della grazia e della parola di Dio per tanti anni, rigettarono la verità, si separarono dalla Chiesa, anzi, volsero contro di lei le mani spietate e la perseguitarono? Ah! costoro imitano pur troppo Ismaele, che molesta e vuol opprimere Isacco, e da Gesù Cristo saranno ripudiati. Non sia mai, che alcuno di noi si tragga sul capo tanta sventura! Siamo all’ultima sentenza dell’Apostolo, che è come l’epilogo dei versetti che avete uditi: “Il perché, o fratelli, noi siamo figli non della schiava, ma della libera, della libertà, onde Cristo ci ha affrancati. „ Noi tutti siamo Ebrei, siamo Gentili, noi tutti che abbiamo creduto in Cristo, non apparteniamo alla sinagoga, ma alla Chiesa, siamo figli di essa, che sola rimane sempre con Cristo, e con essa abbiamo la libertà dei figli di Dio. La libertà, portataci da Cristo e della quale qui parla S. Paolo, è quella stessa di cui dicesi sopra fornita la Chiesa, “La Gerusalemme in alto è libera — Quæ sursum est Jerusalem, libera est, quæ est mater nostra. „ Per una confusione funesta di cose e di parole, quando si pronuncia questa santa e cara parola libertà, comunemente si intende la libertà di fare il bene ed il male, di fare come piace, seguendo la verità o l’errore. Se questa, o dilettissimi, fosse la vera e propria nozione di libertà, i santi e gli Angeli, la Vergine, che sono in cielo, non sarebbero liberi; Cristo, Dio-Uomo, e Dio stesso non sarebbero liberi, perché non possono fare il male, non possono seguire l’errore, e voi sapete che lassù in cielo la libertà è perfetta e che Dio è la fonte della libertà vera. La libertà,, o cari, è la facoltà di scegliere ciò che vogliamo, e dove non c’è scelta, ivi non è libertà: la scelta poi si può fare tra bene e male, oppure tra varie cose tutte buone. La libertà di scegliere tra bene e male, come nell’ordine presente di cose abbiamo noi, è libertà, ma libertà debole, inferma, imperfetta, mentrechè la libertà di poter scegliere solamente tra le cose buone, è libertà perfetta, come quella dei beati e di Dio stesso. La libertà di poter scegliere anche l’errore ed il male, qual è la nostra quaggiù sulla terra, è una vera imperfezione, che un giorno sarà tolta. Ditemi, o cari figliuoli: se voi poteste avere la sanità del corpo in modo da non potervi mai ammalare, vi parrebbe di trovarvi in istato migliore o peggiore di chi può ammalarsi? Senza dubbio preferireste di avere la sanità in guisa da non poterla mai perdere: e chi non la vorrebbe possedere a questo modo? Sarebbe una sanità perfettissima. Or bene: dite lo stesso della libertà di fare il bene e il male. Il poter fare il male è come il potersi ammalare: è una libertà imperfetta; il non poter fare il male, e poter fare soltanto il bene, è come il non potersi ammalare; è la libertà nella sua massima perfezione, è la libertà dei santi e di Dio, i quali possono scegliere ciò che loro piace, ma unicamente tra le cose buone. È questa la libertà che Cristo ha portato sulla terra; la libertà di fuggire l’errore per seguire la sola verità, di combattere e vincere il male per fare unicamente il bene, di respingere il vizio, per esercitare unicamente la virtù. E quanto più noi ci scioglieremo dalle tenebre dell’errore per camminare nelle vie della verità, combatteremo il male ed il vizio e faremo il bene e praticheremo la virtù, tanto più sarà perfetta la nostra libertà e simile a quella di Gesù Cristo: Qua libertate Christus nos liberavìt! O bella e santa libertà dei figli di Dio, che sulla terra ci presentano anticipato lo spettacolo del cielo! Non dimenticatelo mai, o dilettissimi; noi saremo tanto più liberi quanto saremo più lontani dal peccato, più liberi e padroni delle nostre passioni e più fedeli osservatori dei nostri doveri. Ecco la libertà, la vera libertà onde Gesù Cristo ci ha affrancati.

Graduale Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. [V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus Ps. CXXIV:1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem. [Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum. [V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilaeæ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

OMELIA II

[Idem, omel. VIII]

“Gesù se n’andò all’altra riva del mare di Galilea, che è di Tiberiade. E gran moltitudine lo seguitava, perché vedevano i miracoli ch’Egli faceva sopra gl’ infermi. Ma Gesù salì sul monte e quivi rimaneva coi suoi discepoli. Era poi vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Ora Gesù, levati gli occhi e vedendo la grande moltitudine venuta a lui, disse a Filippo: Onde compreremo noi del pane per dar da mangiare a costoro? “Ma lo diceva, tentandolo, perché Egli sapeva ciò che era per fare. Filippo gli rispose: Duecento danari di pane non basterebbe loro, perché ciascun d’essi ne pigliasse un boccone. Uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro, gli disse: ” Vi è qui un fanciullo, che ha cinque pani d’orzo e due pesci: ma questo che è tra tanta, gente? Gesù intanto disse: Fate che la gente si adagi; in quel luogo vi era erba assai. La gente vi si adagiò in numero di cinquemila adulti. E Gesù prese i pani, e rese le grazie li distribuì alla gente, e similmente dei pesci, quanti ne vollero. E poiché furono saziati, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. E raccolsero ed empirono dodici corbelli di avanzi, rimasti a quelli che ne avevano mangiato, dai cinque pani d’orzo. Intanto coloro, veduto il miracolo operato da Gesù dicevano: Questi è veramente il profeta, che deve venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che verrebbero e lo rapirebbero per farlo loro re, si ritrasse di nuovo tutto solo sul monte„ (Giov. VI, 1-15). Voi ora avete udita la narrazione d’uno dei maggiori miracoli operati da Gesù, fattaci dall’evangelista Giovanni, che ne fu testimonio. Esso è riferito anche dagli altri tre Evangelisti, quasi con le stesse parole. Ora tutti sanno che S. Giovanni, il quale fu l’ultimo a scrivere il suo Vangelo, studiosamente omette le cose narrate dagli altri e quelle ricorda che da loro furono omesse: come avvenne dunque che, quasi contro il suo costume, riferisce questo miracolo ch’era già registrato dai tre Evangelisti che lo precedettero? Forse l’indusse a narrarlo la grandezza del miracolo istesso; ma è ragionevole il credere che Giovanni riportasse questo miracolo per aprirsi la via a narrare la promessa della S. Eucaristia che tenne dietro al miracolo, promessa che non si trova nei tre altri Vangeli. Quale che ne fosse la causa, che Dio solo conosce con certezza, mio dovere è quello di darvi la spiegazione del Vangelo recitatovi, e dover vostro è quello di udirla con devota attenzione. – La testa del Precursore era caduta poco prima sotto il ferro del carnefice, per opera del tristo Erode, tenuto nei lacci di rea passione dalla scaltra e scellerata Erodiade. I dodici Apostoli tornavano lieti dalla missione alla quale, quasi a prova, Gesù li aveva mandati, e narravano ciò che avevano fatto ed insegnato. – Gesù era in Cafarnao e la folla senza tregua lo assediava a tal che non aveva pur tempo di prendere il cibo. La morte del Precursore lo avvertiva della sua sì dolorosa e sì prossima: sentì il bisogno di ridursi in luogo più tranquillo con i suoi cari, e disse loro: “Venite in disparte, in luogo solitario, e riposatevi alquanto „ (Marco, VI, 30 seg.). Montò sulla nave con i suoi discepoli e comandò di condurlo sulla riva orientale del lago, e quivi approdato, volse il passo verso il monte che vi sovrasta. Il lago di Tiberiade o mare di Galilea, come lo chiamavano gli Ebrei! Ogni qualvolta leggo questo nome o l’odo pronunciare, ricordo l’impressione inesprimibile, che sentii allorché il 20 di Ottobre del 1894, dalla costa occidentale che sopra di esso si erge alta ed erta, lo vidi per la prima volta. Esso è come incassato tra monti e colli che lo circondano; monti e colli deserti, quasi brulli, desolati. Il lago è senza dubbio il fondo d’un cratere di vulcano spento: le sue rive solitarie, senza alberi che lo rallegrino, senza vie, vi riempiono l’anima d’una tristezza indefinibile. Quel lago liscio, lucido come un cristallo, ma senza una barchetta che lo solchi: quella muraglia di color ferrigno, che dal lato orientale lo serra e gli sta a sopracapo: quel silenzio di morte, che regna su quell’ampia stesa, un dì sì lieta e ridente e coronata da popolosi villaggi, vi pesano sul cuore, vi riempiono di malinconia indicibile, vi invitano a meditare ed a piangere. Evidentemente su quella regione, che dovrebb’essere incantevole, è passata l’ira del cielo e grava la mano punitrice di Dio. O lago di Tiberiade, quante volte io ripenso a te e ti vedo dipinto nella mia mente!… Un anno prima che Gesù consumasse il suo sacrificio sul Calvario, sull’umile barchetta dei suoi apostoli attraversava quel lago e domandava ai luoghi ermi e solitari della sponda orientale un po’ di riposo. Tosto si sparse d’ogni intorno la fama della sua venuta e fu un correre a Lui da tutti i villaggi vicini. Gesù si era ritratto in quei luoghi solitari per avere un po’ di pace, e le turbe gli si affollavano intorno, bramose di udirlo, ed Egli, il pietoso Maestro, le accoglieva con ogni bontà. Il favore popolare che lo seguiva dovunque e che sì facilmente inebria chi lo cerca, lasciava tranquillo Gesù, che né lo coltivava, né lo respingeva. I suoi occhi pieni d’amore e di compatimento si fermavano su questa moltitudine, che lo seguiva e di cui vedeva le miserie morali: era come un gregge senza pastore. Gesù li ammaestrava, risanava gli infermi e con i miracoli confermava le sue parole di vita, e poi “saliva un colle e quivi si fermava con i suoi discepoli. „ Il sole calava dietro i monti della Galilea e dei suoi ultimi raggi vestiva le loro spalle. Qui S. Giovanni avverte che era vicina la Pasqua, la gran festa degli Ebrei: Erat autem proximum Paschat dies festus Judæorum. Gli Apostoli, inquieti per l’ora tarda e perché in quel luogo era impossibile procurarsi il cibo, come sappiamo dagli altri tre Evangelisti, dissero al Maestro: “Il luogo è deserto, l’ora è tarda: rimanda tutta questa gente, affinché se ne vadano nei villaggi e nelle capanne vicine e vi trovino viveri e tetto. „ Gesù rispose loro: “Tutta questa gente mi fa compassione: essa mi segue da tre giorni e non ha di che mangiare se io la mando via digiuna, verrà meno per strada, perché molti di loro son venuti da lontano.„ Fermiamoci qui un istante, o dilettissimi. Vi piaccia considerare la bontà e la tenerezza di cuore che apparisce in quelle parole uscite dalle labbra di Gesù Cristo: “Tutta questa gente mi fa compassione: essa mi segue da tre giorni e non ha di che mangiare, se Io la mando via digiuna, verrà meno per la strada, perché molti son venuti da lontano. „ – In questi accenti sì semplici, sì naturali, sì pieni d’affetto, si sente oscillare tutta l’anima di Gesù Cristo: essi sono come un gemito strappatogli dal cuore alla vista di tanti poverelli che soffrono: l’altrui patire è suo patire. Ora Gesù, salendo al cielo, non ha mutato natura: è sempre quel desso, tutto amore e pietà per chi soffre nel corpo e più assai per chi soffre nello spirito. In Lui dunque collochiamo ogni speranza, a Lui ricorriamo in ogni bisogno e se le turbe, anche senza pregare, furono nutrite da Lui nel corpo, come, pregando, non lo saremo noi, nel corpo e nello spirito? Gesù, voltosi a Filippo, con amabile sorriso, quasi per chiedergli consiglio, gli disse: “E donde compreremo noi pane da dar da mangiare a costoro? „ Egli si volse a Filippo, forse perché gli era più presso, o fors’anche perché, come pensa il Crisostomo, era d’una ingenuità e d’un candore meraviglioso, e ne diede un saggio non dubbio più tardi, allorché nell’ultima Cena disse a Gesù: “Facci vedere il Padre, e questo ci basta. „ – L’Evangelista, riferita la domanda di Gesù a Filippo, s’affretta a soggiungere che lo scopo di essa era di mettere alla prova l’Apostolo e udire che ne pensasse. Nessuno degli Apostoli rispose, com’era sì facile, dopo i tanti miracoli veduti: “Tu solo, o Maestro, puoi dare da mangiare a sì grande moltitudine: tutto è a te possibile. „ Il buon Filippo, sorpreso da quella domanda sì semplice del Maestro, non seppe dare altra risposta di questa infuori: “Duecento danari di pane non sarebbe bastevole loro perché ciascuno ne pigliasse un boccone.„ Il danaro, di cui parla Filippo, rispondeva ad 80 dei nostri centesimi, ond’era come dire: ” Cento sessanta lire non sarebbero sufficienti per comperare tanto pane da darne un frusto solo a tanta gente. „ E non pensava l’ingenuo apostolo che si trovavano in luogo deserto, dove quando pure avessero avuto tesori da profondere, non era possibile avere un po’ di pane. In quella “Andrea, fratello di Simon Pietro, uno dei discepoli, „ si fece innanzi, e udito di che si trattava, quasi a confermare ciò che aveva detto Filippo, disse: “Vi è qui un fanciullo, che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma questo che è tra tanta gente? „ Non è superfluo il far notare la confidenza tutta paterna, con la quale Gesù trattava coi suoi discepoli e la confidenza tutta filiale, con cui essi usavano col divino Maestro. Chiunque tiene autorità sopra gli altri, si specchi in questo sovrano modello e chi è soggetto, veda come gli Apostoli trattavano con Gesù Cristo! L’autorità sia sempre paterna e la dipendenza sia filiale, affinché quella non traligni in dominio e questa non degeneri in servitù. – Il pane d’orzo, che si trovava avere presso di sé quel fanciullo, che il Vangelo non dice chi fosse, era alimento del povero popolo. Parmi evidente che sia la domanda di Gesù e la risposta di Filippo e quella d’Andrea e l’accertamento che erano cinque i pani e due i pesci fossero tutte cose disposte a studio affinché il miracolo della moltiplicazione risplendesse in tutta la sua luce agli occhi degli Apostoli e delle turbe. – S. Giovanni continua il suo racconto: “Gesù intanto disse: “Fate che la gente si adagi; in quel luogo vi era erba assai. „ Queste parole:  “Fate che la gente si adagi, „ sono rivolte da Cristo ai suoi Apostoli, ed essi tosto si sparsero in mezzo a quella moltitudine, disponendo le persone a brigate di cento e cinquanta in cerchio e facendole sedere sull’erba, che abbondava in quel luogo e in quella stagione (doveva essere sui primi del mese di marzo), già calda in quei paesi. Il Vangelo ci fa sapere che il numero approssimativo di quelle turbe poteva salire a circa cinque mila adulti, senza tener conto dei fanciulli e delle donne, come avverte S. Matteo, onde non è esagerazione il dire, che quella moltitudine, compresi tutti, poteva essere di oltre dieci mila persone. “Allora Gesù prese i pani, e rese le grazie, li distribuì alla gente che si era adagiata, e similmente dei pesci, quanto ne vollero.„ – Qui, come altre volte, Gesù Cristo prima di operare il miracolo, ringrazia il Padre suo, e S. Matteo nota che volse gli occhi al cielo: Aspiciens in cœlum, e pregò, benedixit, per far conoscere che l’opera ch’era per fare, veniva dall’alto e dovevasi ascrivere alla virtù divina. Poi prese a distribuire i pani e i pesci agli Apostoli, e questi, a mano a mano li distribuivano alle turbe; particolare questo registrato in Matteo, in Marco e Luca e che non deve passare inosservato. Così il Salvatore, che nel deserto aveva rifiutato di mutare in pani le pietre per soddisfare il suo bisogno personale, come suggeriva il demonio, ancora nel deserto moltiplica il pane per sfamare il povero popolo. Certamente Gesù Cristo poteva far sì che il pane e i pesci moltiplicati nelle sue mani passassero nelle mani di ciascuno di quella moltitudine senza l’opera degli Apostoli; chi ne può dubitare? Ma Gesù volle che quel pane e quei pesci, prodigiosamente moltiplicati, pervenissero a ciascuno in particolare, mercé il ministero degli Apostoli. Perché ciò, o dilettissimi? Primieramente, perché Dio suole usare della sua onnipotenza là dove è impotente l’uomo; ma là dove giunge la forza dell’uomo, all’uomo stesso ne lascia tutta la cura, perché Iddio non vuole sostituirsi all’uomo, né favorire l’inerzia o la pigrizia. Oltreché è da credere che Gesù Cristo volle servirsi dell’opera degli Apostoli nel distribuire il pane e i pesci moltiplicati nelle sue mani benedette, per farci conoscere che i doni celesti della verità e della grazia vengono da Lui, come da fonte prima, ma sono comunicati agli uomini mediante lo strumento dei suoi ministri. Il miracolo operato da Gesù Cristo non poteva essere più solenne ed evidente. Erano nel deserto; tanta provvisione di pane e pesce, quanta se ne richiedeva a saziare dieci mila bocche, dove si poteva avere? E avutala pure in qualsiasi modo, come occultarla a tanti testimoni? La moltiplicazione avveniva nelle mani di Gesù Cristo, sotto gli occhi, non solo degli Apostoli, ma delle turbe, non in un istante, ma continuamente, finché ve ne fu bisogno. E cosa affatto naturale, che a mano a mano si succedevano le distribuzioni di pane e pesce, gli Apostoli e le turbe meravigliassero e aguzzassero gli occhi per vedere donde e come proveniva tanto pane e tanto pesce e quindi rendessero impossibile ogni illusione. Il luogo, la moltitudine dei testimoni, la loro qualità, la natura del miracolo stesso, il modo, con cui fu operato e gli effetti che ne seguirono, mettono il fatto al di sopra d’ogni ombra di dubbio e ne pongono in tutta la luce la certezza assoluta. – So, o cari, che certi uomini, i quali professano di non seguire che la ragione e la sola ragione, tentarono di spiegare naturalmente il fatto. Sapete in qual modo? Udite: Le turbe rapite dalla parola affascinante di Gesù, dimenticarono il bisogno del cibo; saziate nello spirito, non sentirono le necessità del corpo: fu un miracolo di frugalità! O fors’anche ciascuno, quasi senza accorgersene, pose mano alle provvisioni portate seco e se ne nutrì, e reputò miracolo ciò che non era se non l’effetto naturale della gioia e dell’entusiasmo di udire il Profeta e d’una frugalità singolare. Figliuoli miei, se questo è seguire la ragione, la sola ragione, giudicatene voi (Renan). – Quel pane e quel pesce, che a vista d’occhio si moltiplicava nelle mani feconde del Salvatore, donde veniva? Era forse una nuova creazione dal nulla? Anche questo (e chi non lo sa?) il Verbo umanato poteva fare, ma è più comune sentenza che con la sua onnipotente virtù lo traesse dalla natura. – Vi piaccia, o carissimi, por mente a ciò che avviene continuamente sotto i nostri occhi. Voi seminate il grano, e questo per lavoro occulto di natura si scioglie, mette le radici, cresce in stelo, forma la spiga e ve lo dà moltiplicato. Voi pigliate del grano, lo macinate, ne formate la pasta, e cotto, eccovi sul desco il pane. E un lavoro lento di moltiplicazione e di trasformazione, effetto l’una e l’altra delle forze di natura, sparse nella terra, nell’aria, nell’acqua, nella luce, applicate e modificate opportunamente dall’uomo. Ora queste forze, che moltiplicano il grano, e ci danno secondo le leggi di natura il pane, onde ci nutriamo, vengono da Dio e sono totalmente a Lui soggette. Che fece Egli Gesù Cristo nel deserto, allorché moltiplicò il pane ed i pesci? Egli, Dio-Uomo, Causa suprema, in cui si contengono eminentemente tutte le cause ed i loro effetti, abbreviò ogni cosa e produsse in pochi istanti quel pane, che secondo il corso ordinario delle leggi di natura non si sarebbe potuto ottenere che nel volgere di alcuni mesi. Quel Dio che nei campi moltiplica il frumento con pochi granelli, scrive S. Agostino, moltiplicò i cinque pani nelle mani del Figliuol suo fatto uomo (In Jaonn. Tract. 24). E noi, continua il Santo, ammiriamo quel miracolo dei cinque pani moltiplicati una volta, e non badiamo all’incessante opera della Provvidenza, che con pochi grani moltiplica il frumento e nutre l’intera umana famiglia! E perché? Perché quello avvenne una sola volta e questa avviene continuamente sotto i nostri occhi, e per essere comune sembra quasi da meno: Assiduitate viluerunt. Figliuoli carissimi! Avvezziamoci a vedere in tutte le opere, in tutte le leggi della natura, che ci danno e conservano la vita, che rallegrano l’occhio o l’orecchio, la mano di Dio, che tutto prepara e dispone a servizio e diletto nostro, e a Lui rendiamone le dovute grazie. – E poiché furono saziati, prosegue il sacro testo, Gesù disse ai discepoli: “Raccogliete i resti, che non vadano a male.,, E raccolsero ed empirono dodici corbelli di avanzi rimasti a quelli che ne avevano mangiato, dai cinque pani d’orzo. „ Questo comando di Cristo di raccogliere i resti del pane non è senza ragione. Anzitutto quegli avanzi raccolti da quei medesimi che distribuivano il pane, mostravano meglio e facevano toccare con mano la certezza e la grandezza del miracolo: poi insegnava a tutti che non conviene, non è lecito disperdere nulla di quello che, se non è necessario, né utile a noi, lo può essere ad altri. Gli avanzi del ricco possono e debbono essere il nutrimento del povero: se così fosse, che ne sarebbe largamente sfamata tutta la turba dei poverelli! O Epuloni, dalla vostra mensa lasciate cadere almeno le briciole ai Lazzari che languiscono! – Manifestamente poi i dodici corbelli di avanzi raccolti ci indicano i dodici Apostoli, che distribuivano il pane, ond’è a dire che ciascun Apostolo, adempiendo l’ufficio di distributore, si serviva d’un corbello. “Intanto coloro, veduto il miracolo operato da Gesù, dicevano: “Questi è veramente il profeta, che deve venire al mondo.„ Alla vista di quel miracolo, che per molti aspetti fu uno dei maggiori operati da Gesù Cristo, l’ammirazione, l’entusiasmo del popolo non ebbe più freno ed eruppe spontaneo da tutti i cuori il grido: “Questi è il profeta, il Messia promesso, che deve venire.,, E lo era veramente, ma non quale per mala ventura gli Ebrei lo aspettavano, vincitore dei nemici temporali e liberatore dal giogo degli stranieri sotto il quale fremevano, e creatore della grandezza terrena della nazione. I Galilei ardenti e bellicosi erano ancor pieni delle memorie e dei sogni di Giuda Gaulonita. Costui, messosi a capo del popolo, spacciatosi come uomo mandato da Dio a liberare la nazione, aveva eccitata una rivolta assai grave e diede non poco da fare alle soldatesche romane, come attesta Giuseppe Flavio. La passione politica (e gli stessi Apostoli non ne erano affatto immuni, come apparisce dal capo 1° degli Atti Apostolici) infiamma quelle turbe, sì facili per se stesse all’entusiasmo, volete religioso, volete politico. Si eccitano gli uni gli altri! “Questi è il profeta, il Messia, che aspettiamo! egli deve liberare la nazione dal giogo straniero: facciamolo nostro re, mettiamolo alla nostra testa e corriamo sopra Gerusalemme e proclamiamoci il nuovo regno d’Israele.,, Erano questi i discorsi, i propositi di quella folla, agitata dai due sentimenti più gagliardi sul cuore umano, quello della religione e quello della patria, che per essa si confondevano in un solo. Le agitazioni popolari sono terribili: si propagano come un incendio in una foresta e i caratteri più tranquilli, le anime più nobili, sono trascinate in modo pressoché irresistibile! Che fece Gesù in mezzo a quel bollimento della moltitudine? “Conoscendo, dice S. Giovanni! che verrebbero a rapirlo, per farlo loro re, Gesù si ritrasse di nuovo tutto solo sul monte e fece partire gli Apostoli sopra una nave, comandando loro di approdare all’opposta riva del lago (S. Marco, VI, 45; Matt. XIV, 22). Così per sventare gli stolti disegni di quella turba, Gesù si appigliò a tre mezzi, separare i discepoli da quelle turbe fanatiche, affinché loro non si comunicasse il contagio di quel fanatismo, accomiatarsi per bel modo dal popolo, invitandolo a sciogliersi e a ridursi ciascuno alle proprie case, e finalmente col ritrarsi destramente sul monte, sottraendosi agli occhi ed alle ricerche di tutti. – Prima di chiudere questa Omelia permettete un’ultima osservazione della più alta importanza. Gesù Cristo visse sotto gli Erodi usurpatori e sotto la dominazione straniera dei Romani. Questa particolarmente era odiatissima, e perciò frequenti furono le sommosse al tempo di Cristo e più dopo di lui fino all’ultima più tremenda, che trasse in capo ai Giudei lo sterminio della nazione, per opera di Vespasiano e di Tito suo figliuolo. Ebbene: leggete tutti quattro gli Evangeli: molte volte si porse occasione a Gesù Cristo di aprire l’animo suo intorno alle condizioni politiche del paese e a coloro che ne reggevano le sorti: molte volte gli scribi e i farisei, suoi implacabili nemici, e i partigiani di Erode si studiarono di cavargli di bocca qualche dichiarazione che fosse argomento di accusa presso le autorità o valesse a metterlo in mala voce presso il popolo e togliergli o scemargli il suo favore; ma non fu mai possibile strappargli una sola parola che lo mostrasse o nemico delle autorità, o avverso alle legittime aspirazioni del popolo. Con le parole e con le opere si mostrò rispettosissimo a tutte le autorità costituite, Egli che era sopra ogni autorità, e schivando con ogni cura d’immischiarsi nelle questioni politiche, che fervevano ardenti e minacciose intorno a Lui, attese unicamente a predicare le eterne verità, a mostrare la via del cielo, a salvare le anime. E una lezione dataci da Cristo, utile in ogni tempo, utile e necessaria particolarmente nel nostro e più particolarmente a noi Sacerdoti.

CREDO …

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV:3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra. [Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quaesumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

Communio Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine. [Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quaesumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]