GIOVEDÌ SANTO AL NOTTURNO: L’UFFICIO DELLE TENEBRE
[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Paoline ed. Alba, impr. 1957]
Carattere di tale Ufficio.
L’Ufficio del Mattutino e delle Lodi dei tre ultimi giorni della Settimana Santa differisce non poco da quello degli altri giorni dell’anno. Giovedì, Venerdì e Sabato la Chiesa tralascia quelle esclamazioni di gioia e di speranza con cui suole cominciare la lode di Dio. Non si sente il recitativo del « Domine, labia mea aperies: Signore, sciogli le mie labbra, affinché possa annunziare la tua lode »; nè il “Deus, in adjutorium meum intende”: O Dio, vieni in mio soccorso; nè il Gloria Patri alla fine dei Salmi, dei Cantici e dei Responsori. Negli Uffici rimane solo ciò ch’è loro essenziale nella forma, scomparendo tutte quelle vive aspirazioni che i secoli vi avevano aggiunte.
Il Nome.
Si dà comunemente il nome di Tenebre ai Mattutini ed alle Lodi degli ultimi tre giorni della Settimana Santa, perché vengono celebrate al mattino presto, prima del levar del sole.
Il Triangolo dei quindici ceri.
Un rito imponente e misterioso, esclusivo di questi Uffici, conferma tale appellativo. Nel tempio, presso l’altare, si colloca un grande candeliere di forma triangolare, dove si dispongono quindici ceri. Questi ceri, come pure i sei dell’altare, sono di cera gialla, come quelli degli Uffici dei Defunti. Al termine d’ogni Salmo, o Cantico, si spegne successivamente uno dei ceri del grande candeliere; alla fine ne rimarrà acceso uno solo, quello posto al vertice del triangolo. Ora spieghiamo il senso di queste diverse cerimonie. Siamo nei giorni in cui la gloria del Figlio di Dio rimane eclissata sotto le ignominie della sua Passione. Egli era la « luce del mondo », potente in opere ed in parole, poco fa accolto dalle acclamazioni di tutto un popolo; ed ora eccolo spogliato di tutte le sue grandezze e divenuto « l’uomo dei dolori, un lebbroso », dice Isaia; « un verme della terra, e non più uomo », dice il Re Profeta; « un motivo di scandalo per i suoi discepoli», dice egli stesso. Tutti s’allontanano da lui: Pietro stesso nega d’averlo conosciuto. Tale abbandono e tale defezione pressoché generale sono appunto figurati nell’estinzione successiva dei ceri che stanno sul Triangolo e di quelli dell’altare.
Un antico rito.
Secondo un’usanza di origine franca, che ci è confermata da Amalario e ch’ebbe vita fino alla recente riforma, essendo stati spenti i ceri dell’altare durante la recita del Benedictus, il cerimoniere prendeva l’unico cero rimasto acceso sul candeliere e lo teneva appoggiato sull’altare durante il canto dell’antifona che si ripete dopo il Cantico. Poi andava a nascondere questo cero, senza spegnerlo, dietro l’altare. E lo conservava così, lontano da tutti gli sguardi, per tutta la recita del Miserere e della sua orazione conclusiva. Terminata la quale, si faceva un po’ di rumore contro gli scanni del coro fino all’apparire del cero ch’era stato nascosto dietro l’altare. [Simile rito viene officiato a Sessa Aurunca (CE), con il nome di “terremoto”] Con la sua luce sempre conservata annunciava la fine dell’Ufficio delle Tenebre. In realtà, la luce misconosciuta del Cristo non s’era mai spenta. Si metteva per un momento il cero sull’altare per indicare ch’esso era là come il Redentore sul Calvario dove soffriva e moriva. Poi, per significare la sepoltura di Gesù, si nascondeva il cero dietro l’altare e la sua luce scompariva. Allora un brusio confuso si diffondeva nel tempio immerso nelle tenebre per la scomparsa di quell’ultima fiammella. Tale rumore, unito alle tenebre, esprimeva la convulsione della natura nel momento in cui, spirato il Salvatore sulla croce, la terra aveva tremato, le rocce si erano spaccate e s’erano aperti i sepolcri. Ma tutto ad un tratto il cero riappariva nel pieno splendore della sua luce e tutti rendevano omaggio al vincitore della morte.
Le Lamentazioni di Geremia su Gerusalemme.
Le Lezioni del primo Notturno di ciascuno di questi tre giorni sono prese dalle Lamentazioni di Geremia. In esse vediamo lo spettacolo desolante che offrì la città di Gerusalemme, quando il suo popolo fu portato prigioniero in Babilonia, in punizione del peccato dell’idolatria. La collera di Dio è tutta impressa su queste rovine che Geremia deplora con parole così vere e terribili. Però un tale disastro non era che la figura d’un altro ancora più spaventoso. Se Gerusalemme cade in mano altrui ed è condannata alla solitudine dagli Assiri, almeno conserva il proprio nome; del resto, il Profeta che oggi si lamenta sopra di lei, aveva pure predetto un limite alla sua desolazione, che non sarebbe durata più di settant’anni. Ma nella seconda rovina la città infedele perdette anche il nome. Riedificata poi dai vincitori, per più di due secoli portò il nome di Elia Capitolina; e se, ristabilita la pace della Chiesa, tornò a chiamarsi Gerusalemme, non fu in ossequio a Giuda, ma per ricordarsi del Dio del Vangelo che Giuda aveva crocifisso nella sua città. Non è valsa la pietà di S. Elena e di Costantino, né i valorosi sforzi dei crociati a ridare in maniera durevole a Gerusalemme almeno l’ombra d’una città secondaria: la sua sorte è d’essere schiava degl’infedeli, fino alla fine dei tempi. È la maledizione che s’è attirata addosso in questi giorni: ecco perché la santa Chiesa, per farci capire la grandezza del delitto commesso, ci fa rintronare nelle orecchie i pianti del Profeta, che solo ha potuto adeguare le lamentazioni ai dolori. È un’elegia commovente, che si canta su un tono semplicissimo, e risale alla più remota antichità. Le lettere dell’alfabeto ebraico, che separano le strofe, indicano la forma acrostica che questo poema contiene nell’originale; noi le cantiamo perché anche i Giudei le cantavano.
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Officium Tenebrarum
Fidelibus, qui feriis IV, V et VI Maioris Hebdomadæ Officiis, quae vocant, Tenebrarum interfuerint et psalmorum ac lectionum cantum aut devota lectione, aut piis super dominica Passione meditationibus vel orationibus, prò suo quisque captu, secuti fuerint, conceditur:
Indulgentia decem annorum unoquoque ex dictis diebus;
[in ognuno dei tre giorni: 10 anni]
Indulgentia plenaria, si cunctis tribus diebus eidem pio exercitio vacaverint et præterea peccata sua sacramental pænitentia expiaverint, cælesti Epulo enutriti fuerint et ad mentem Summi Pontificis oraverint (S. Pæn. Ap., 16 mart. 1935).
[Ind. Plen. Se espletati tutti i tre uffici, con Comunione, Confessione, e pregh. sec. le intenz. del Pontefice]