2. — Motivo e modalità della prova e della caduta
35. — È Dio che ha posto i progenitori in uno stato privilegiato. Tuttavia è consentaneo alla natura intelligente e libera che essa sia messa a parte dei disegni di Dio a suo riguardo e sia chiamata a sottoscriverli. I progenitori furono così chiamati a prestare il loro contributo alla propria felicità, mediante una decisione libera. Perché un atto sia meritorio e veramente libero si richiede che non sia necessitato dalla conoscenza diretta del sommo bene che è Dio. Se i progenitori avessero conosciuto direttamente l’essenza divina, la loro volontà avrebbe aderito a Dio necessariamente e quindi senza esercizio della libertà e senza alcun merito personale. Dobbiamo perciò ritenere che essi conoscessero Dio indirettamente, com’è proprio dell’uomo, finché resta sulla terra (in statu viæ). – Certo non conoscevano tutto né su Dio, né sul proprio destino, del quale, in particolare come sopra si è detto, erano informati solo tramite la rivelazione divina trattandosi di una verità assolutamente super razionale. I progenitori cioè dovevano credere. – Ora, precisamente nell’atto di fede sussiste più che mai per l’essere intelligente l’esercizio della libertà e quindi il merito, dato che egli resta nella condizione di poter accettare o rifiutare una verità in sè oscura, ma chiaramente insegnata da Dio, da credersi cioè solo sull’autorità di Dio rivelante. Così appunto ci appare la prova dei progenitori nel racconto biblico. Essi devono credere ad una cosa per nulla evidente, che cioè la loro immortalità dipende dall’astensione da un qualche cosa che Dio ha loro vietato. Ed appunto questo qualche cosa si chiama « albero della conoscenza del bene e del male ». Dio, mentre non è stato geloso del dono dell’immortalità, ha invece interdetto all’uomo la conoscenza « del bene e del male ». Pare fuori dubbio che in questo contesto « bene e male » significhi « tutto », « qualunque cosa », « cose di ogni genere ». Conoscenza del bene e del male è la conoscenza universale. – Infatti « bene e male » significa una totalità con l’idea di indeterminatezza e di varietà. « Bene e male » sono due termini estremi, come « grande e piccolo », « trattenuto e lasciato » (Deuteron. XXXII,36; III Re XIV,10; XXI,21), che, usati l’uno accanto all’altro, indicano tutta la gamma di cose possibili tra l’uno e l’altro estremo. Così si spiega la locuzione « dal bene fino al male » (G. LAMBERT, Lier-delier: l’expression de la totalité par l’oppositwn de deux contraires, Vivre et penser 3.e Serie, Paris 1945, p. 91-103, documenta quest’uso letterario, oltre che nella Bibbia, anche presso i tragici greci). Ecco alcuni esempi: « Risposero Labano e Batuele e dissero: Da Jahvè è uscita la cosa, non possiamo parlare a te male o bene » (Genesi XXIV, 50). «Guardati dal parlare a Giacobbe dal bene fino al male» (Gen. XXXI, 24. 29). – « E non parlò Assalonne con Amnon dal bene fino al male, poiché Assalonne odiava Amnon » (2 Samuele XIII,22). Queste espressioni sono tutte negative e le parole « bene e male » si devono tradurre di conseguenza con « nulla » o qualche cosa di simile. – Un esempio dell’uso di « bene e male » in frase affermativa e per di più con un riferimento ad esseri superiori come in Genesi III, si trova in 2 Samuele XIV,17. La donna di Teqoa parla a Davide in questi termini (testo ebraico): « Come un Angelo di Dio così è il mio signore il re, per intendere il bene e il male ». Con questo complimento — a quanto pare dal contesto — la donna voleva esprimere la sua convinzione che il re, data la sua intelligenza superiore, avrebbe compreso che la sua sentenza data in favore del figlio della vedova, si doveva applicare anche al figlio del re. Assalonne. Infatti subito dopo, quando il re dimostra di aver capito che la donna aveva agito per istigazione di Joab, essa ripete il complimento in forma diversa: « ma il mio signore è sapiente come la sapienza di un Angelo di Dio, per conoscere tutto quello che vi è sulla terra » (ibid. v. 20). Ognuno vede che ciò che prima era chiamato « bene e male », ora è reso con un’espressione di totalità: « tutto quello che vi è sulla terra » (Questo senso della coppia « bene e male » si adatta bene a tutti gli altri passi dove occorre (Numeri XXIV, 13; Deuter. I, 3 9 ; 2 Samuele XIX, 35; Ecclesiaste XII,14) sebbene non siano impossibili altre interpretazioni. Citiamo come degna di nota e di meditazione l’interpretazione di R. DEVAUX in Revue Bibl. 56 (1949) 300 – 308, nella recensione dell’opera di J . Coppens da noi citata più avanti. Egli critica l’interpretazione sessuale della frase « conoscere il bene e il male » (solo Deuter. I, 39 e 2 Sam. XIX, 35 potrebbero avere, ma non necessariamente, questo senso) e dà la propria spiegazione: « La conoscenza del bene e del male mi sembra essere la facoltà di decidere personalmente ciò che è bene e ciò che è male e di agire secondo questa decisione. Questo potere è riservato a Dio; l’uomo non l’esercitava prima del peccato e lo esercita mediante il peccato, essendo essenziale ad ogni peccato una inversione del bene e del male ». Spiegazione, come si vede, profonda e seducente. Se non che l’espressione biblica « si aprirebbero i vostri occhi » (Genesi III,5) ci invita a cercare nel campo conoscitivo più che in quello volitivo (decidere e agire) l’esercizio di questa conoscenza del bene e del male. Anche il confronto con le concezioni soggiacenti al racconto di Adapa (scienza divina, vita eterna) favorisce la nostra interpretazione). – Anche in Genesi 3 si tratta dunque di una conoscenza universale, prerogativa divina, e questo concetto è contenuto esplicitamente nella tentazione: «…si aprirebbero i vostri occhi, e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male ». La limitazione imposta da Dio è nel campo della conoscenza. E la tentazione si dirige primariamente contro la fede. Alla dichiarazione della donna: «Dio ha detto: non mangiatene e non toccatelo, per non doverne morire » (v. 3), il tentatore controbatte: « No, che non dovete morire ». Alla fede è strettamente legato l’amore. Noi crediamo a coloro di cui conosciamo l’amore e di cui ci fidiamo. Ed ecco la mancanza di fede generare l’orribile ipotesi: « Dio è geloso delia Sua scienza, è nemico della mia grandezza » (cfr. v. 5). Di qui la decisione: « Voglio arrivare a dispetto di Dio; sfonderò questi limiti del mio sapere, sarò simile a Dio! ». È questo il peccato dei progenitori, non di debolezza, né di sensualità. Ha in sé il carattere diabolico di colui che lo ha suggerito (S. TOMMASO, IIa IIae, q. 163 a. 1, resp. pone il peccato dei progenitori principalmente nel fatto che appetirono disordinatamente un bene spirituale). – Con pochi tratti concreti nella loro primitività e d’una profondità che tanto più stupisce quanto più ne è semplice l’espressione, l’autore ispirato ci pone dinanzi la psicologia del libero arbitrio, della tentazione e del peccato, segnando un immenso progresso della coscienza morale dell’umanità con la conquista delle idee basilari dell’etica umana. L’uomo è posto di fronte ad un bivio: o credere a Dio, fidandosi della Sua parola ed accettando da Lui la felicità, o non credere a Dio ed illudersi di raggiungere la felicità a dispetto di Dio, rivendicandosi una eccellenza indipendente da Lui. È questa seconda alternativa che l’uomo primitivo ha scelto, perdendo così la possibilità di quella effettiva somiglianza con Dio, che la Redenzione di Cristo avrebbe assicurato ancora una volta al fedele, come caratteristica del premio nel paradiso celeste. « Carissimi, siamo figli di Dio… e a lui saremo simili, perché lo vedremo com’è » (1 Giovanni III,2). Dopo questo rilievo, ci domandiamo se il peccato fu soltanto in questo atteggiamento della volontà, o se non ci fu anche qualche elemento esterno in cui si concretò la ribellione. Rinviando ai paragr. 40-44 l’analisi dei particolari descrittivi del racconto biblico, vogliamo qui sottolineare come questo eventuale fattore esterno non sembra si possa identificare con un disordine sessuale. Non vediamo cioè come sia possibile esegeticamente sostenere quell’opinione (nota 1) largamente diffusa nel popolo, indipendentemente dall’insegnamento della Chiesa, che il peccato dei progenitori sia stato l’uso del matrimonio. (nota 2)
(nota 1) (P. MARHOFER, in « Theologie und Glaube » 28 (1936) 133-162, diede una sistemazione teologica a questa opinione, supponendo che Dio, per fare notare l’importanza della generazione come strumento di trasmissione della Grazia, abbia comandato un’astensione temporanea. L’umanità sarebbe così generata in modo soprannaturalmente illegittimo, senza la grazia santificante, che avrebbe dovuto ricevere per generazione da Adamo, se questi non avesse anticipato l’uso del matrimonio. – J . COPPENS, La connaissance du Bien et du Mal et le Péché du Paradis, Bruges-Paris 1948, basandosi sulle rappresentazioni antico-orientali del serpente, suppone un peccato contro la santità del matrimonio per l’appello alle divinità della vegetazione e della fecondità, presentate dal racconto biblico mediante il loro simbolo, il serpente. Si tratta tuttavia più del modo con cui l’autore sacro ha pensato il peccato, che non della modalità del peccato dei progenitori – J. GUITTON, Le developpement des idées dans l’Ancien Testament, Aix-en-Provence, 1947, pag. 102: nel pensiero dell’autore biblico la natura della colpa aveva una relazione oscura col corpo; i progenitori dovevano essere in età adolescente e saggiamente Dio aveva comandato una riserva totale per un certo tempo. Per la confutazione della tesi di Mayrhofer cfr. J . MIKLIK, Der Fall des Menschen, Biblica 18 (1939) 387-396.)
(nota 2) (Cfr. F. ASSENSIO, Tradicion sobre un pecado sexual en el Paraiso?, Gregorianum 31 (1950) contesta precisamente l’affermazione del Coppens sull’esistenza di una Tradizione, documentata negli scritti dei Padri, sull’interpretazione sessuale del peccato originale)
Una simile interpretazione nasce da una valutazione erronea dell’attività genetica, e non concorda con quanto di essa è detto proprio in questo contesto biblico. Essa è voluta da Dio e consacrata fin dal primo istante dalla benedizione divina: « Crescete e moltiplicatevi;… per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua donna e i due diventeranno una sola carne » (Genesi I,28; II,25). L’abuso dell’attività sessuale, non deve gettare una luce sinistra sull’uso legittimo. Anzi è la dignità particolare dell’uso legittimo che rende tanto più ripugnante ogni abuso. D’altra parte nessun indizio vi è nel testo biblico che faccia sospettare qualche abuso dei progenitori degno di castigo. Inoltre, in nessun testo biblico l’espressione « conoscere il bene e il male » è sicuramente sinonimo di scienza sessuale. Né vediamo come satana possa presentare e i progenitori riconoscere quale caratteristica divina (« diventereste come Dio conoscitori del bene e del male ») una scienza di questo genere, dato il contesto prossimo e remoto, in cui Dio figura nettamente come unico, spirituale, trascendente. La tentazione, pur essendo menzogna, per costituire una sollecitazione al male, deve rispettare i limiti di un’aliquale verosimiglianza. – Gli autori che recentemente hanno sostenuto trattarsi di una colpa nella sfera sessuale fanno notare l’insistenza con cui il racconto biblico accenna a fattori di quest’ordine tra le conseguenze della colpa. L’autore sacro come aveva sottolineato che prima del peccato la nudità non creava imbarazzo per i progenitori, così avverte che immediatamente dopo la colpa essi sentirono la necessità del vestito. E’ stato pure rilevato che il castigo riservato alla donna è precisamente nell’ambito della vita generativa. – Tutto questo è innegabile, ma non ci sembra legittimo dalla natura delle conseguenze, senz’altro inferire sulla natura del peccato. La ribellione degli istinti è sufficientemente spiegata dallo stato di disordine interiore indotto dall’uomo con la sua ribellione a Dio. Non è tutto questo perfettamente consentaneo alla natura umana, che cioè la carne si ribelli allo spirito, quando lo spirito si è ribellato a Dio? Del resto non mette in risalto l’autore sacro, tra le conseguenze del peccato, la morte ancor più della concupiscenza? Eppure, dalla natura di questo castigo, nulla si può ricavare per fissare i contorni dell’azione esterna, in cui si sarebbe concretata la colpa dei progenitori. Riteniamo invece più oggettiva la constatazione di un altro accostamento sintomatico: quello tra la morte e l’attività genetica. Ci sembra che l’agiografo abbia intuito e insinui nel suo racconto che la trama dolorosa ed espiatoria della storia dell’umanità decaduta sia in parte costituita dal rapporto profondo che intercorre tra morte e attività genetica, le quali sono in natura due entità biologiche complementari (nota 3). –
(nota 3) (Tra gli animali bruti l’individuo è in funzione della specie e conta in quanto veicolo per la trasmissione dei germi vitali. C’è infatti una provvidenza ferrea che regge la vita di ogni specie animale e che sembra riassumersi nella preoccupazione che i germi viventi si comunichino via via a nuovi individui e vengano così continuamente rinnovati e ringiovaniti, senza che mai venga a morire il plasma vivente formato dal loro complesso. L’animale quando ha reso alla specie il suo servizio e, in particolare, quando ha adempito al suo compito di generatore, è logico che muoia, per lasciare il posto ad altri individui. Anche nell’uomo c’è prepotente l’istinto della generazione, come c’è pure l’infierire della morte. Ma l’uomo, essendo persona, e cioè un essere irripetibile, non è esclusivamente in funzione della specie e per questo, anche quando ha dato alla specie quanto era in grado di offrire, non è legittimo sopprimerlo e la sua morte si sente come qualche cosa di stridente colle aspirazioni più profonde. Infatti, pur sussistendo dell’uomo la parte migliore, lo spirito, che attraverso la morte anzi raggiunge il suo destino definitivo, resta per la speculazione puramente razionale, l’enigma di questa scissione violenta tra anima e corpo, violenta i n quanto l’uomo è per natura sua un composto di ambedue gli elementi. A questo enigma risponde il dogma della risurrezione della carne, che c i assicura della ricomposizione a perfetta unità e della glorificazione di tutto l’uomo (cfr. S. THOMAS, Summa contra Gentes 1. 4, c. 79-81). – Notiamo inoltre come l’istinto della generazione crei nell’uomo un duplice conflitto particolarmente acuto. Se infatti l’uomo si abbandona irrazionalmente all’istinto della generazione, procreando al di fuori del retto ordine, pecca contro la dignità della propria persona: se invece al contrario sfrutta l’istinto della generazione solo per la propria soddisfazione personale, pecca contro la natura. La soluzione di questo conflitto si ha o nel celibato casto, che rappresenta la sublimazione e una affermazione eroica della personalità, ovvero nella castità coniugale, in cui la finalità dell’istinto diventa una funzione ragionevole e nobile della persona. Ma l’una e l’altra soluzione costituiscono una conquista difficile, uno stato di equilibrio perennemente instabile, impossibile senza l’aiuto della Grazia Divina).
3. — Il tentatore
36. — Un elemento dottrinale fuori discussione di Genesi 3 è pure la presenza e l’opera di Satana. In qualunque modo si voglia intendere il « serpente » (cfr. paragr. 43), esso indubbiamente va identificato con satana. Già il contesto esclude che si tratti della personificazione di una tentazione nata spontaneamente nell’uomo. Infatti Dio, mentre non maledice direttamente l’uomo (cfr. v. 17), lancia una maledizione senza riserva né rimedio contro il « serpente », appunto perché seduttore (cfr. v. 14). Dio cioè si schiera in certo modo dalla parte dell’uomo contro il « serpente », riconoscendo nella scusa addotta dalla donna: « il serpente mi ha ingannata » (v. 13), un’attenuante e supponendo perciò un responsabile distinto dai progenitori. – La tentazione è dunque qualche cosa che proviene dall’esterno, da un essere intelligente e maligno, tanto più intelligente dell’uomo da essere in grado di sedurlo, tanto più maligno, in quanto dimostra di avere un interesse particolare a suscitare nell’uomo la ribellione contro Dio e la conseguente catastrofe. Iddio inoltre dichiara aperto un lunghissimo periodo di ostilità tra il genere umano e quello stesso « serpente » che viene dunque pensato sussistere per tutto il corso della storia umana, fino ad essere totalmente sconfitto. Naturalmente si tratta di una lotta e di una vittoria morale, come di ordine morale è stato il primo intervento del «serpente» e la ribellione dell’uomo a Dio. I libri più recenti della Bibbia non esitano a identificare esplicitamente il « serpente » con Satana: « Per invidia del Diavolo la morte è entrata nel mondo » (Sapienza II,24); « Voi avete per padre il Diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Fin dal principio egli è stato omicida e non restò fermo nella verità, perché in lui non è verità » (Giovanni VIII,44) ; « il Dragone, il Serpente antico, che è il Diavolo e Satana » (Apocalisse XII, 9,20,2). – Se l’antichissimo racconto della Genesi si esprime su questa identificazione in modo piuttosto velato, è soltanto per evitare uno scoglio pericolosissimo per la primitiva mentalità ebraica, l’introduzione cioè di un essere superiore, intelligente, capace di rovinare i disegni di Jahvè. Era troppo facile che fosse considerato un’altra divinità, capace di far concorrenza a Jahvè. Per la stessa ragione nel racconto della creazione non si parla di esseri angelici. Essi sono introdotti poi alla chetichella, senza presentazione, né spiegazione, in circostanze tali da evitare ogni equivoco. Il monoteismo è così salvaguardato. Il richiamo all’esistenza e all’azione di satana, presentato come causa prima della rovina dell’umanità, costituisce inoltre uno dei principali elementi risolutori del problema dell’origine del male, sul quale s’innesta spontaneamente una delle più ardue difficoltà contro il monoteismo stesso. Come mai da un unico Principio, buono per essenza e quindi fonte di ogni bene, può derivare il male, il cui dominio nel mondo è pure tanto vasto? Se il male non è e non può essere da Dio, come spiegarne l’esistenza? Il dualismo rappresentò sempre una delle più seducenti tentazioni metafisico-religiose, appunto come risposta ovvia e, a prima vista, soddisfacente a sì grave interrogativo. – Il racconto biblico, con profondità e originalità senza precedenti, non soltanto esclude da Dio una qualsiasi responsabilità per l’origine del male, ma ci presenta, oltre l’uomo, un altro essere libero e per natura sua peccabile, che, levatosi contro Dio, rende comprensibile non solo l’origine del male, ma anche le gigantesche sue proporzioni. Non ha forse il male proporzioni sovrumane? – Unico, dunque, Dio e infinitamente buono; colpevole, ma in parte scusabile, l’uomo come qualsiasi vittima; perverso satana, nemico di Dio e dell’uomo, ma soggetto ad ambedue nella lotta e soprattutto nella sconfitta finale (cfr. v. 15). Il male cessa così di essere una difficoltà metafisica nell’ambito degli attributi divini, e si riduce ad un mistero di ordine psicologico: coma mai l’essere libero, pur essendo peccabile, diventa di fatto peccatore, operando così coscientemente la propria rovina? In altri termini è il mistero del peccato, il quale però s’illumina sufficientemente tenuto conto della natura stessa del libero arbitrio dell’uomo, e soprattutto di satana.
4. — Propagazione della colpa originale
37. — L’antico autore ispirato presenta l’intero genere umano soggetto alla morte, al dissidio interiore e al dolore, per il fatto di essere discendente da un capostipite ribelle al suo Creatore. S. Paolo (Romani V,12) e la definizione del Conc. Tridentino (v. nota 12) parlano non solo di trasmissione delle conseguenze del peccato, ma del peccato stesso che, come precisa l’Humani generis: « commesso da Adamo individualmente e personalmente… trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio » (Acta Apost. Sedis 42 (1950) 576; Civiltà Catt. 101 (1950) 471).
(nota 12) Sessione V, Can. I e II, DENZINGER, 788-789: Can. I. « Se alcuno non professa che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito il comandamento di Dio nel paradiso, subito perdette la santità e la giustizia nella quale era stato costituito, e per l’offesa di tale prevaricazione incorse l’ira e l’indignazione di Dio e perciò la morte, che Dio gli aveva prima minacciata, e con la morte la prigionia sotto il potere di colui che poi ebbe l’impero della morte, cioè del diavolo, e che tutto Adamo per l’offesa di quella prevaricazione fu mutato in peggio quanto al corpo e quanto all’anima, sia anatema ». – Can. II. « Se qualcuno asserisce che la prevaricazione di Adamo abbia nociuto solo a lui e non alla sua progenie, e che la santità e la giustizia ricevuta da Dio e poi perduta, la perdette solo per sé e non anche per noi; o che Adamo inquinato per il peccato di disobbedienza, abbia trasfuso in tutto il genere umano solo la morte e le penalità del corpo, e non anche il peccato che è morte dell’anima, sia anatema, poiché contraddice all’Apostolo che dice: Per un sol uomo entrò il peccato nel mondo, ecc. » (Rom. V, 12)).
Ma perché la colpa dei protoparenti diventa la colpa di tutti? L’antico israelita il quale sentiva fortemente la solidarietà anche morale tra i congiunti per vincolo di sangue, non era assillato da questo problema, dimostrando così d’intuire una realtà che il nostro individualismo può discutere, ma non distruggere: l’interdipendenza strettissima cioè degli individui nel loro essere fisico e psichico. La nostra personalità è il punto di incontro d’infiniti raggi di influenza, che vanno dalla volontà dei nostri genitori, fino alle radiazioni cosmiche; sicché, è per l’incalcolabile risultanza di innumerevoli cause, che noi siamo quel che siamo, pure nell’inconfondibile ed irripetibile unità della persona umana. – Tra queste cause, ci dice la Bibbia, c’è anche il peccato del nostro più antico antenato. – Dio avrebbe potuto farci come monadi assolutamente chiuse ad ogni influsso estraneo. Ma allora non saremmo uomini, saremmo esseri d’altra struttura. La nostra struttura è invece di essere centri d’interferenza personalizzati da un’anima immortale. – Il concetto cattolico di Chiesa potrà meglio farci comprendere i disegni di Dio riguardo ai singoli uomini. Dio ha messo a disposizione dell’uomo l’elevazione allo stato soprannaturale, il dono cioè della grazia santificante che maturerà nella gloria. Ora, sono i singoli uomini che raggiungono questo stato e tuttavia il dono appare fatto in modo collettivo. I singoli cioè arrivano alla Grazia solo per il fatto di essere inseriti, almeno virtualmente, in un organismo sovrapersonale, la Chiesa, a cui la Grazia appartiene in proprio. I cristiani non formano una Chiesa per il fatto di essere uniti a Cristo, ma sono uniti a Cristo per il fatto di formare la Chiesa. I Sacramenti e la Liturgia, in quanto vincoli sociali, in quanto azioni esteriori che costruiscono la compagine della Chiesa, sono per ciò stesso i veicoli della Grazia. L’apporto della volontà personale è senza dubbio indispensabile dal momento in cui diventa possibile (età della ragione), ma non è essenziale, come risulta dal Battesimo dei bambini. L’entrare a far parte della Chiesa, come il sussistere stesso della Chiesa, è la risultante di un complesso di azioni interiori ed esteriori da cui il Cristo fa dipendere il suo influsso redentore e vivificante sulle singole anime. Se Cristo è al primo posto nell’ordine delle cause, tutti gli altri, dalla Gerarchia ai semplici fedeli, hanno la loro responsabilità, e mancando la loro cooperazione, la Chiesa non sarebbe come dev’essere, e molte anime ne resterebbero escluse. Questo conferimento della Grazia come dono collettivo nella umanità redenta da Cristo è del tutto analogo al conferimento della Grazia (e dei privilegi) come dono collettivo a tutta l’umanità, nei suoi primi inizi, nella persona dei progenitori. Essi ricevettero questi doni non a titolo di gratificazione personale, ma a titolo di bene collettivo di tutta la natura. Sarebbe bastato nascere da Adamo per avere per ciò stesso il dono della Grazia, come ora basta essere inserito nella Chiesa mediante il Battesimo per avere la Grazia di Cristo. Il vincolo che avrebbe legato l’umanità intera, la generazione, sarebbe stato nel contempo il canale, la causa della Grazia, il vincolo che avrebbe stretto ogni individuo, non solo coi suoi simili, ma anche con Dio come fine soprannaturale. Ma perché tutto ciò non avvenisse come qualche cosa di fatale, di meccanico, era opportuno che i primi depositari di questo dono liberamente cooperassero alla sua trasmissione, così come a suo tempo i singoli eredi di questo dono liberamente avrebbero ratificato — con la fede e le opere — la fortuna da loro ereditata. La colpa personale dei progenitori implica la distruzione del dono da Dio assegnato come bene collettivo dell’umanità, distruzione fatta liberamente dagli uomini, che avevano la responsabilità di trasmettere tale dono. Così i vincoli della generazione non sono più canali della Grazia, e l’umanità non è più, come doveva essere, una grande unica Chiesa. – In questo modo si comprende perché lo stato di decadenza dell’umanità sia insito nei singoli come « peccato ». Stato di peccato (peccato abituale) è l’essere una creatura estranea alla intimità con Dio (privazione della Grazia) in forza di una colpa commessa con un atto libero di volontà (atto di peccato). La grande famiglia umana nel suo complesso va generandosi in stato di peccato (« peccatum naturæ »), nel senso che nasce priva della Grazia, e questa privazione non è un semplice difetto morale, ma sussiste in forza del peccato personale del progenitore. – La mia anima singola, scevra da qualunque responsabilità individuale, incominciò ad esistere solo (e non prima) come parte di un complesso somatico e psichico unito a sua volta, senza soluzione di continuità, al resto della famiglia umana. Ben lungi dal rompere questa continuità biologica ed etnica, l’anima ne assunse la fisionomia concreta, e con essa la privazione della Grazia e dei privilegi, ed una tale privazione quale è nella collettività dei figli di Adamo, effetto cioè di una colpa, e dunque colpevole. Essa venne così in comunicazione con uno stato di colpevolezza preesistente, così come più tardi venendo inserita nella Chiesa, venne in comunicazione con uno stato di Grazia preesistente nella Chiesa stessa in forza di Cristo Redentore. Così per il peccato di origine passa nel singolo non solo una conseguenza, o una pena della colpa, ma la colpevolezza stessa che pesa sulla natura in blocco. E tuttavia il singolo non contrae una responsabilità individuale, il che sarebbe un controsenso. « Peccato » è il termine che più si adatta ad esprimere questa realtà inerente ad ogni uomo per il fatto stesso della sua origine dal primo uomo, e tuttavia è un termine analogico, che non coincide perfettamente con il senso di questo termine quando è applicato ad un atto personale di colpa. – Rimane ancora una domanda: perché Dio, per conferire agli uomini questi doni di santificazione ha scelto un mezzo collettivo, sia nel caso dell’elevazione della natura in Adamo, come nel caso della santificazione della Chiesa in Cristo? Non avrebbe per ciò stesso scelto un mezzo meno favorevole all’individuo, il quale viene così a dipendere dalla responsabilità degli altri? Rispondiamo che, senza negare la possibilità di altri ordini di provvidenza, quello scelto da Dio sembra più conforme alla natura degli uomini. Una personalità anche eccezionale non può esaurire tutte le possibilità di perfezionamento della natura umana. Ciò che non è realizzato da uno è realizzato da un altro; ed il bene dell’uno diventa anche il bene dell’altro, se due persone sono unite in una comunione d’amore. L’individualismo, come contrapposizione dell’individuo al resto dell’umanità, è anche un impoverimento: l’individuo escluderebbe da sé tutta quella ricchezza di natura che egli non può possedere per intero. Come l’individuo non può venire all’esistenza senza il concorso di altri, così neppure può perfezionarsi da solo. Questa concezione, lungi dal diminuire la responsabilità individuale diluendola nel complesso sociale, l’aumenta grandiosamente, rendendo ciascuno responsabile anche per gli altri. – Se questo piano scelto da Dio ha avuto una conseguenza dolorosa nel peccato d’origine, non è stata tuttavia preclusa l’ascesa dell’umanità verso il suo fine ultimo. Essa si realizza per una via meno gioconda, ma non meno gloriosa. La narrazione biblica lascia uno spiraglio di speranza: il trionfo del serpente seduttore non è definitivo: « Esso (seme della donna) ti schiaccerà il capo » (Genesi III, 15). E questo spiraglio andrà sempre più allargandosi e chiarendosi in successive rivelazioni (« messianismo »), finché verrà Colui che dirà: « Io sono la resurrezione e la vita » (Giovanni XI, 25) e provocherà il grido della gioia cristiana: «Dov’è o morte la tua vittoria?» (1 Corinti XV, 35).
5. — L’ipotesi poligenista
38. — Il Poligenismo è quell’ipotesi scientifica la quale ritiene che i gruppi umani sia fossili che viventi derivino non solo da più coppie, ma addirittura da più specie primordiali. Di conseguenza ad Adamo ed Eva non competerebbe il titolo di progenitori del genere umano. Isacco de la Peyrère (1594-1676) formulò per primo quest’ipotesi nel tentativo di conciliare con la Bibbia i dati cronologici indicati negli antichi documenti caldei ed egiziani, ed in particolare nell’intento di spiegare le differenze tra le razze umane. – Estendendo il campo di osservazione, l’antropologia e in particolare la paleontropologia constatano nelle razze viventi e ancor più in quelle estinte marcate differenze morfologiche, nella forma del cranio, degli occhi, nella dimensione del tronco e degli arti, nel colore della pelle ecc. Si notano pure spiccate diversità fisiologiche (composizione del sangue, età puberale ecc.) e psichiche (diverso tipo e grado d’intelligenza, di emotività ecc.). Si conclude all’impossibilità di ricondurre ad una origine comune gruppi tanto differenziati, le cui caratteristiche sarebbero spiegabili soltanto ricorrendo ad una origine multipla. – Il poligenismo inoltre renderebbe più facilmente ragione dell’incremento poderoso della collettività umana e della sopravvivenza delle razze nella lotta per la vita. Non è nostro compito né esporre, né valutare dal punto di vista scientifico quest’ipotesi. Riferiamo soltanto alcuni giudizi di competenti. Intorno all’argomento principale che è quello tratto dalle differenze morfologiche il Marcozzi (Cfr. V. MARCOZZI, La vita e l’uomo, Milano 1946. p. 362) osserva: « Tali differenze (tra i fossili umani) non sono tali, studiate oggettivamente, da autorizzare uno smembramento della famiglia umana in più specie naturali distinte. Infatti differenze morfologiche anche maggiori si osservano fra le varie razze d’animali tuttora esistenti, che pur discendono certamente da un unico ceppo. Si pensi, per esempio alle enormi differenze morfologiche che passano fra le diverse razze di cani… Eppure appartengono alla medesima specie, ed hanno avuto le medesime origini. Dunque le sole differenze morfologiche non sono sufficienti ad autorizzare lo smembramento d’un gruppo di organismi in tante specie naturali distinte e dalle origini indipendenti. Tanto più che nel caso degli Uomini, si trovano tutte le forme intermedie fra i tipi più differenziati sia viventi sia fossili ». – Tutto questo spiega come quasi tutti i naturalisti presentemente siano monogenisti. « Fra gli altri ricordiamo Dubois, Ellioth, Smith, Giuffrida-Ruggeri, il Keith, il Pilgrim, lo Schwalbe, tutti gi autori italiani che hanno cooperato all’opera: « Razze e popoli della terra » curata dal Biasutti nel 1941 (Cfr. MARCOZZI, O. C, p. 358). – Similmente il Leonardi: « Al momento attuale il poligenismo è assai in ribasso e, almeno nei riguardi dell’Umanità attuale, la quasi totalità degli Autori, per quanto mi consta, tende ad ammettere l’origine unitaria e l’unità specifica, trovandosi così pienamente d’accordo con la Teologia cattolica » (P. LEONARDI, L’evoluzione biologica e l’origine dell’uomo, II ed., Brescia. 1949). Notiamo però che « Monogenismo » per la teologia cattolica non significa soltanto derivazione dell’umanità attuale da una stessa specie naturale, ma da un’unica coppia, fatto questo che la scienza non può confermare, ma neanche contestare, qualora accetti, come si è detto, l’unità specifica. Quale rapporto intercorre tra evoluzionismo e poligenismo? È la seconda ipotesi inseparabile dalla prima come inevitabile conseguenza? È utile sottolineare al riguardo, dal punto di vista scientifico, che la derivazione dell’umanità attuale da più coppie di progenitori è collegata non tanto coll’ipotesi evoluzionista, quanto col modo di concepire e rappresentarsi l’evoluzione. Se infatti si pensa che le stesse cause hanno influito sulle stesse razze di antropoidi per trasformarle gradualmente in razze umane, diventerebbe probabile che tale processo evolutivo sia avvenuto contemporaneamente in luoghi e soggetti diversi. Non appare infatti una ragione speciale che inviti a limitare un processo evolutivo che investe tutta la sfera animale, restringendolo nel caso degli antropoidi soltanto a due individui, che sarebbero così gli unici progenitori dell’umanità attuale. Se invece l’evoluzione è avvenuta per una catena di mutazioni casuali scarsamente probabili, come sembrano ritenere oggi i più, è assai improbabile che tale serie di coincidenze si sia verificata in più casi. L’evoluzionismo mutazionista sarebbe cioè più facilmente conciliabile col monogenismo che col poligenismo. Ma qualunque sia il valore scientifico dell’ipotesi poligenista, ci chiediamo: qual è il pensiero della Bibbia in proposito? – Il racconto del Genesi mentre suppone il poligenismo nella creazione degli animali, presenta i soli Adamo ed Eva quale unica coppia progenitrice dell’intera umanità. Infatti a questa unica coppia primordiale si ricollegano i vari popoli, tramite le genealogie dei Patriarchi antidiluviani e postdiluviani. – Anche il resto della Bibbia non conosce uomini che non discendano da Adamo ed Eva: l’Ecclesiastico (XXV, 24) dichiara: Dalla donna ebbe principio il peccato e per sua cagione si muore tutti. – La Sapienza (X, 1) chiama Adamo: «il primo uomo da Dio formato, il padre del mondo » (cfr. anche VII, 1). – Ma soprattutto il Nuovo Testamento e il Magistero della Chiesa forniscono gli elementi per una decisione in merito. In Romani V, 12, 19 e in 1 Corinti XV, 21-22. 45-49 S. Paolo rende ragione dell’universalità del peccato originale e della morte, ricollegando tutti gli uomini ad Adamo peccatore e supponendo perciò il monogenismo (Cfr. B . MARIANI, Il Poligenismo e S. Paolo, Euntes docete, 4 (1951) 126-145). Il Magistero Ecclesiastico, secondo la stragrande maggioranza dei teologi, si sarebbe già pronunciato in modo definitivo, nel decreto del Concilio di Trento sul peccato originale (Cfr. i canoni del Concilio Tridentino citati alla nota 12). Qualche raro teologo ha pensato invece che il decreto stesso, non avendo di mira una presa di posizione nei riguardi del poligenismo ma solo nei riguardi del peccato originale, parli presupponendo il monogenismo, come cosa comunemente ammessa, ma non intendendo includerlo nella definizione (Su tale questione si vedano: F. CEUPFENS, Le polygénisme et la Bible, Angelicum, 24 (1947) 20-32. M . FLICK, Il poligenismo e il dogma del Peccato originale, Gregorianum, 27 (1947) 558. R. GARRIGOU-LAGRANGE, Le monogénisme n’est il nullement révélé? Doctor Communis, 1 (1948) pag. 198. H. LENNERZ, Quid theologo dicendum de polygenismo? in De hominis creatione atque elevatione et de peccato originali, Roma 1948, p. 81-98. J . B A T A I N L , Monogénisme et polygénisme. Divus Thomas Plac. 52 (1949) 187-201. B. MARIANI, Poligenismo, in Enciclopedia Catt., vol. IX, Città del Vaticano 1952, pag. 1676-1680. Prima dell’Humani generis non escludevano la possibilità di conciliare con la dottrina cattolica il poligenismo i seguenti studiosi cattolici: A. J. BOUYSSONIE, Polygénisme, in Dict. de Theol. Cathol. t. 12, p. I I , col. 2532. J . GUITTON, La pensée moderne et le catholicisme, Aix en Provence, 1936, p. 39; R. BOIGELOT, L’origine de l’homme, Etudes Religieuses, n. 449-450, Liége, 1938, p. 35-38; HRONDET, Les origines humaines et la theologie, in Cité Nouvelle, 1943, p. 961-987). –
L’Enciclica « Humani generis » dopo aver parlato dell’evoluzionismo (cfr. paragr. 31, nota 17) a proposito del poligenismo precisa: « Però quando si tratta dell’altra ipotesi cioè del poligenismo, allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. Poiché i fedeli non possono abbracciare quella opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra dei veri uomini che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come da progenitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l’insieme di molti progenitori; ora, non appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio » (Cfr. nota 13). Notiamo che il documento pontificio, inserendo l’espressione « dopo Adamo », si disinteressa dell’ipotesi che prima di Adamo si siano estinte razze più o meno simili all’umanità proveniente da Adamo. Quello che « non appare in nessun modo conciliabile » con il dogma della trasmissione universale del peccato dei protoparenti è il poligenismo applicato all’umanità attuale. – L’Enciclica dunque mentre lascia la porta aperta all’evoluzionismo, sembra definitivamente chiuderla al poligenismo, pure usando, come qualcuno ha sottolineato con notevole rilievo (Cfr. J. LEVIE, L’Enciclique ” Humani Generis “, in « Nouvelle Rev. 82 (1950), 789), un linguaggio piuttosto misurato e con formulazione negativa (« in nessun modo appare come queste affermazioni si possano accordare »).
[2- Continua ...]