GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (9)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(9)

11. La Grazia

Non è possibile pensare a una perfezione cristiana senza un inserimento completo nell’ordine della grazia. L’inserimento nell’ordine della grazia è essenziale per la perfezione, perché è la vita stessa della perfezione. Non ve ne ho parlato prima per evitare un equivoco. L’equivoco che l’inserimento nell’ordine della grazia sia una cosa talmente automatica e talmente passiva da essere paragonata a quando si chiama un’ambulanza sulla quale ci si fa caricare e che poi va per conto proprio. E’ necessario ricordare che se nell’ordine della grazia, sotto un certo aspetto, noi siamo del tutto passivi perché riceviamo sempre, siamo anche completamente attivi perché dobbiamo sempre dare. La grazia coopera con l’uomo e l’uomo coopera con la grazia; e allora era meglio mettere avanti alcuni punti di quello che dobbiamo fare noi per non essere presi dalla facile illusione nella quale cadono certi cristiani per i quali entrare nell’ordine della grazia è entrare in una sorta di vitalizio dove, in fondo, non c’è più da lavorare se non qualche volta, ma beatamente cullarsi in alcuni sentimenti generici, come quelli dell’ inserimento nel Cristo vivente, nel Corpo Mistico ecc. e non fare più nulla. E soprattutto cessare da quel continuo pungolo, da quella continua spinta verso l’attenzione, la diligenza, la rettitudine d’intenzione, l’amor di Dio, l’amor di Dio attivo, il sacrificio, la croce, il distacco; cessare da quelle cose che rimangono ugualmente valevoli anche se noi siamo pienamente assorbiti ed elevati nell’ordine della grazia. Era meglio mettere innanzi quello che noi dobbiamo fare, almeno alcuni punti fondamentali, perché credessimo che, se tutto dobbiamo aspettarci dalla grazia, però alla grazia dobbiamo dare tutta la nostra cooperazione; e se nella grazia noi siamo, sotto un certo punto di vista, passivi, noi con la grazia dobbiamo essere perfettamente attivi. – La grazia è l’essenza del Cristianesimo, perché è l’essenza della ragione per cui Gesù Cristo si è incarnato, ed è questa essenza, questo tesoro, del quale parla lungamente nelle sue parabole, che Egli ha portato alla sua Chiesa, al genere umano e a tutti i singoli uomini purché vogliano a quella arrivare. – Che cosa è quest’ordine della grazia? L’ordine della grazia è composto di due elementi, uno si chiama grazia abituale, l’altro si chiama grazia attuale. L’una e l’altra rappresentano lo scopo principale per cui è venuto Gesù Cristo. Il prologo di S. Giovanni ce ne dà una chiara indicazione: in esso si dice perché il Verbo si è fatto Uomo : « ex Deo nati sunt », perché anche noi diventassimo figliuoli di Dio, avessimo in noi qualche cosa della vita divina. Il prologo di S. Giovanni non parla  affatto della Redenzione; è impressionante questo! – È una grave dimenticanza? No; S. Giovanni ha voluto portare la ragione assoluta e non quella relativa. Della relativa avrebbe parlato dopo, di quella assoluta ha parlato nel suo prologo perché sta in testa a tutto. La ragione assoluta è quella: « ex Deo nati sunt », e sarebbe stata valevole anche se l’uomo non avesse peccato; essa era, in altri termini, indipendente in modo assoluto, per divina iniziativa, dalla iniziativa anche pessima dell’uomo, quella del peccato. Pertanto la ragione assoluta diventa la prima, perché l’assoluto comprende sempre il relativo: Gesù Cristo è venuto perché noi fossimo figli di Dio, cioè per dare a noi quel tanto di vita per cui noi potessimo essere figli di Dio. – Noi non dobbiamo dimenticare, allora, che questa ragione è la prima a giustificare l’Incarnazione del Verbo e anche la prima e la sola, in sede assoluta, a giustificare l’ottimismo cristiano. Se il Verbo si fosse fatto carne per riparare il peccato, e fosse quella la ragione assoluta, l’iniziativa sarebbe del peccato; la prima parte sarebbe stata quella, e in fondo l’ordine divino sarebbe stato determinato dall’aspetto più deteriore dell’ordine umano. Non è questo. L’ordine divino non è stato determinato né dall’ordine umano, né dal suo aspetto deteriore che è la colpa. L’ordine divino è stato determinato dall’amore di Dio che ha voluto espandersi agli uomini dando agli uomini qualche cosa della vita divina. E così è nato l’ordine della grazia, così noi vediamo nella grazia la finalità dell’Incarnazione, la finalità di tutto quello che Gesù Cristo ha fatto. – Sono due gli elementi: la grazia abituale e la grazia attuale. La principale evidentemente è la prima, l’essenza sta nella prima. La seconda è una conseguenza. – La prima, la grazia abituale, che cosa è? È quella dignità che è elargita da Dio agli uomini, per Gesù Cristo. Dignità non morale o giuridica, ma ontologica, che cambia completamente il valore della persona umana; lo cambia elevandola all’ordine divino, all’ordine soprannaturale, cioè a un ordine che supera la capacità e perfino i desideri e le possibilità stesse di desiderio di ogni creatura creata e creabile; dignità ontologica che porta all’uomo una misteriosa partecipazione della vita divina, si capisce per quanto è possibile in una creatura e senza alcuna contaminazione di concetti indegni della divinità e di concetti panteistici. Di tale partecipazione attiva divina noi portiamo il mistero, perché noi possiamo girarle intorno, ma sapere intrinsecamente che cosa essa sia, noi non possiamo ancora quaggiù. Un giorno lo vedremo, quando saremo lassù. Per ora dobbiamo fare un atto di fede in questa partecipazione alla vita divina quale è possibile alla creatura. Tuttavia ne conosciamo alcune conseguenze. Le conseguenze sono queste. Proprio per quella partecipazione si stabilisce una comunione con Dio, e questa è la ragione per la quale noi diventiamo figliuoli adottivi di Dio, tempio vivente dello Spirito Santo, principio di operazioni soprannaturali; gli atti che procedono da noi, atti umani, sono soprannaturali hanno un valore soprannaturale e ad essi è corrisposto un merito soprannaturale: fatti nella grazia, altrettanto essi fondano nella gloria. Questa è la grazia santificante. Ad essa s’allinea la grazia attuale, la quale non è altro che la erogazione soprannaturalizzante di energia, di forza perché noi possiamo vivere in modo adeguato alla dignità che abbiamo, e possiamo sopportare i carichi morali che quella dignità comporta. Possiamo insomma supplire alle nostre debolezze e lacune; possiamo rimediare alle nostre carenze e immettere nelle nostre misere azioni quell’ordine soprannaturale che le rende conformi alla vocazione eterna alla quale noi siamo stati indirizzati. Perché poi potessimo essere preparati a ricevere questa grazia attuale, ci sono i sette doni dello Spirito Santo. Dono di sapienza, di intelletto, di consiglio, di fortezza, di scienza, di pietà e di timor di Dio. Sono tutti doni preparatori all’azione piena della grazia oppure affinché l’ordine fosse completo, affinché non ci fossero scalini insormontabili, affinché non ci fossero abissi aperti che potessero dividere, ma tutto fosse in una perfetta, assoluta gradualità di divina armonia, affinché ci esponesse, ci preparasse, ci completasse nell’ordine della grazia. – Ho richiamato tutto questo perché il quadro doveva essere completo nel suo principio logico, che è la Incarnazione, nella sua finalità assoluta, che è quella indipendente dalla colpa e dal peccato degli uomini, nel suo dipanarsi intrinseco, attraverso la grazia santificante, la grazia attuale e i doni dello Spirito Santo. Questo quadro avvolge la vita, perché la dignità è ontologica, tocca la nostra persona. – Questa dignità quando ci è data nel Battesimo e aumentata nella Cresima, ci imprime anche un carattere che non si cancellerà mai più. Poi la grazia aumenta continuamente, e per sé stessa quando viene data nei Sacramenti, e per le opere buone che con essa compiamo. La si perde completamente con la colpa grave, ma la si riacquista completamente con la penitenza. Questa grazia è data sufficiente a tutti gli uomini attraverso l’orazione e i sacramenti, sorgenti contingenti nel tempo, dispensatrici dell’eterna grazia di Cristo Signore. Questa grazia attuale può avere, proprio attraverso quelle sorgenti, dei meravigliosi, straordinari, munifici ampliamenti, e con essa è possibile superare tutto e arrivare a quei capolavori della santità, con o senza azione esterna, che hanno sempre ingemmato la vita della Chiesa. – Eccovi l’ordine della grazia. In quello noi dobbiamo inserirci. Di quello dobbiamo vivere. La santità essenziale è essere in grazia di Dio ed è alimentare continuamente, con l’orazione, i sacramenti e le opere buone, la grazia di Dio santificante. Quella è la perfezione essenziale; il rimanente si richiede per quella e in ragione di quella; il rimanente si richiede perché diversamente noi avremmo degli elementi contrastanti o addirittura contraddittori con essa. Il rimanente della morale e dell’azione si richiede perché la collaborazione ci vuole, dato che Dio ha disposto nella sua perfetta munificenza verso di noi che la nostra dignità doveva essere intatta, e che tutta la nostra libertà doveva entrare anche in quella, affinché noi non fossimo semplicemente dei ricchi mendicanti, mendicanti di tutto, ma fossimo i collaboratori dell’azione divina, perché la nostra umana dignità, l’autonomia dignitosa dell’umana persona rimanesse salva, glorificata, come si conviene non a mortificati figli adottivi, ma a liberi figli di Dio. – Dobbiamo inserirci in questo ordine. E come si fa a inserirci in questo ordine? Questo è il punto essenziale; non è più il punto teorico, ma il punto essenzialmente pratico. Noi ci inseriamo in questo ordine mediante la fede. Ma la fede, che è atto di adesione, ha una sua applicazione, ha una sua estensione che la corrobora, la rende attuale, la rende attiva e fruttuosa, ed è la meditazione, la contemplazione. – La contemplazione è l’attività raziocinante nostra sulle verità di Dio. Escludo di parlare della contemplazione infusa, quella è un miracolo che avviene per opera dello Spirito Santo. Parlo di questa contemplazione terra terra. Allora la contemplazione terra terra, quella che è applicazione della vita di fede, è proprio la considerazione della verità, di questa verità. – La considerazione fatta nella quiete che sosta e arriva a quella profondità dove non è più tanto il raziocinio che deduce, quanto l’affermazione della verità che rimane, l’entrare in essa guardando, vedendo, lasciandocene penetrare totalmente, lasciandocene impregnare, lasciando che essa si sistemi al fondo della nostra anima e via via aumenti la sua luce, e questa sua luce ci porti a tutti quegli svariati e altissimi effetti che, anche senza essere trasbordati sulle rive della contemplazione infusa, carismatica, miracolosa, possono dare una incredibile serenità, una profonda gioia, una meravigliosa pace, una indistruttibile quiete all’anima. A questo bisogna mirare per entrare veramente e con perfezione nell’ordine della grazia; perché se noi non miriamo a questo, se non arriviamo a questo, non rimaniamo inseriti nell’ordine della grazia. – Ma in quest’ordine della grazia entriamo con la nostra intelligenza e con tutte le facoltà che roteano intorno alla nostra intelligenza. C’entriamo con la spinta motiva della nostra volontà, con la capacità penetrativa del nostro intelletto, con la capacità vorrei dire, passiva del nostro intelletto, che è quella di essere impregnata di una luce, dominata dall’alto, che è la forza della divina grazia elargita a noi dalla suprema munificenza. – Voi vedete che parte abbia la meditazione, la quale deve tendere sempre a diventare contemplazione, e vedete quale parte abbia l’orazione, la preghiera: la meditazione che è la forma più alta della preghiera, l’orazione mentale; ma anche quell’altra orazione che noi impropriamente diciamo vocale, perché non adeguatamente possiamo distinguerla dalla orazione mentale. Tutto il mondo della orazione è strada, via, collegamento necessario, sicuro, grandioso alla grazia, ed è tale da poter riempire tutta la vita degli uomini. Non ci si meravigli quando si sente dire di gente che nella storia, e ancora oggi nella vita, è capace di resistere intere giornate nella orazione. Che cosa è questa, in fin dei conti, se non un cammino nello spazio più reale e più grande, che è quello della verità divina, della luce divina, della quale noi ci lasciamo impregnare? Se si potesse descrivere cosa vuol dire questo lasciarci impregnare dal conoscere anche in profondità di teologia la verità divina, che cosa significa esserne impregnati! E quanti teologi non ne sono affatto impregnati! Perché che s’accenda la luce è una cosa; ma che s’accenda tanto da far accadere in noi quello che accade con certi raggi straordinari che si usano in alcune indagini mediche, così da perdere la opacità e diventare trasparenti, ed essere non più materia, ma essere diventati completamente luce, e tutto questo senza aver varcato i confini della ascesi ordinaria, questa è un’altra cosa. Poterlo descrivere! Ma forse è meglio provarlo. E siccome in questo tutti ci si possono provare, non mi rimane che dirvi: la strada è la meditazione, che tende però a quel punto. Prendetela questa strada, andate avanti, non voltatevi indietro, guardate sempre avanti, e poi state tranquilli, il resto verrà dopo. Così si entra nell’ordine soprannaturale della grazia, e così veramente si cammina per realizzare la perfezione. – Ora c’è un altro elemento per entrare nell’ordine soprannaturale della grazia. Ci vuole la coerenza morale a quell’ordine che la grazia attuale ci aiuta a realizzare; non basta stare al piano terreno, bisogna cercare di arrivare con la coerenza morale al piano sul quale Dio ci ha messo. L’inserimento nell’ordine della grazia avviene col santo Sacrificio della Messa e coi santi sacramenti. Noi potremmo trovarci in questa situazione di spirito: di credere la S. Messa una cosa che è là e noi siamo qui, una specie di spruzzo che parte di là e arriva fin qui. No, non è così. La S. Messa è la prima essenza della nostra vita soprannaturale. È il primo, il più grande strumento della vita soprannaturale del mondo. Perché in essa si rinnova sempre il sacrificio di Cristo che è la sorgente della grazia. Noi possiamo riguardare la S. Messa come una cosa alla quale ci uniamo pregando, cantando, suonando, facendo tutto quello che esternamente si vede, perché è la parte del popolo cristiano. Ma alla S. Messa si assiste come assistono le sedie e i banchi della Chiesa e le lampade che pendono dal soffitto quando noi non facciamo quello che dovremmo fare per unirci alla S. Messa. Badate che la S. Messa è una cosa che deve essere riguardata come essenziale per la vera perfezione cristiana, perché è qui che noi incontriamo tutto Gesù’ Cristo, dato che nella Messa entriamo completamente quando facciamo la S. Comunione, e pertanto c’è proprio una nostra identificazione con Gesù Cristo. – La S. Messa naturalmente termina nella Comunione; la S. Messa lascia sempre qualche cosa di scoperto quando non termina nella Comunione. Il Sacrificio non è nella Comunione, il Sacrificio è essenzialmente nella Consacrazione; ma la Comunione è il termine del Sacrificio, è la integrazione del Sacrificio. Gesù Cristo si è immolato per gli uomini, per arrivare agli uomini, per darsi agli uomini; ed è nella Messa, quando si dà agli uomini, che integra il Sacrificio. La S. Messa e gli altri sacramenti non vanno considerati come locomotori « ab extrinseco », che si mettono davanti al treno e lo tirano; sono locomotori dentro il treno. I sacramenti sono parte essenziale della nostra vita soprannaturale. Senza sacramenti non si resiste, senza sacramenti non abbiamo l’aumento della grazia santificante, in quanto senza di essi siamo dei tronchi senza gambe, non possiamo camminare. Non bisogna vederli come elementi accidentali, rispetto ai quali in fondo la santità ce la costruiamo da soli, con le nostre mani. Noi non costruiamo un bel niente della santità senza i santi sacramenti, e non c’è un uomo che resista a vivere in grazia senza i santi sacramenti. E se lui non ha colpa se non li prende, allora Dio aggiusta le cose coi mezzi suoi, come aggiusta lo stesso sacramento del Battesimo, supplendolo col Battesimo di sangue e col Battesimo di desiderio. Ma bisogna che non ci sia colpa, che l’uomo non sia lui a determinare l’incapacità a ricevere i santi sacramenti. Quando questa capacità c’è, quando questa capacità non è preclusa all’uomo, ricordiamoci che senza sacramenti non regge niente. E allora, vedete, deve essere riattivata, come si riattiva il fuoco in un camino, la fede nel sacramento. – Vi sono delle persone che pensano di non poter risolvere certe questioni. Devono ricordarsi che si risolvono coi santi sacramenti, con la fede nei santi sacramenti. Noi comprendiamo la saggezza della educazione cristiana anche dove non si può fare molta teologia, dove non si possono fare superiori elucubrazioni suggerite dalla teologia. Noi comprendiamo un Don Bosco, il cui metodo educativo è tutto qui: portare a fare la Confessione e la Comunione. Poi hanno dato tanti titoli al suo metodo, hanno fatto tante impostazioni scientifiche: non so se Don Bosco le abbia mai pensate. Questa è stata la tattica, niente affatto nuova, del più grande educatore cristiano del secolo scorso: Confessione e Comunione, fatte bene, non fatte per forza, per abitudine, all’improvviso, senza una preparazione; non fatte senza fede e senza orazione, ma impregnate di fede, di orazione, di pazienza, d’attesa, di atti che graduassero per arrivarci bene. Tutto portava lì: egli faceva giocare per arrivare alla Confessione, faceva divertire e stare allegri per dipanare la serenità dell’anima verso la comprensione della Comunione. Portava in giro i ragazzi, anche con la banda in testa, per i colli del Monferrato per condurli a fare la Confessione e la Comunione, non comunque, ma a un certo modo. Stava qui il suo segreto: a un certo modo. Quando si parla di educazione cristiana riassunta in poche cose, l’educazione cristiana si chiama Confessione e Comunione, con tutto quello che logicamente esse prendono. Purtroppo oggi noi abbiamo insegnato a fare la Comunione come qualche cosa di staccato, fuori della vita, qualche cosa che come atto in sé è bell’e finito, e allora si assiste a una specie di devozione, creata così, attaccata alle cose di Dio non so con quale colla: gente che va a fare la Comunione tutti i giorni e arriva in chiesa affannata, corre fino alla balaustra a fare la Comunione, abbraccia Nostro Signore e se ne dimentica subito, scappa e va a fare altre cose. Fanno pietà. – Capisco che qualche volta si potrà anche scorrazzare così, e capisco anche che a volte si dovrà stare dieci ore fuori e un minuto in chiesa. Dieci ore fuori però saranno fatte, da chi capisce, in preparazione a quel minuto, e le dieci ore che seguono saranno un ringraziamento a quel minuto, saranno vissute in quella dignità, in quell’afflato, con quella inclinazione continua che ha il girasole verso l’astro del giorno, perché le cose siano fatte bene. Ricordatevi, se non c’è un inserimento nella vita dei sacramenti, la perfezione non esiste.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (8)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(8)

10. La Redenzione

La verità che propongo a voi è quella della Redenzione. S’è parlato della Incarnazione; completiamo l’argomento con la Redenzione. Vediamo che cosa questa grande verità dice a noi e come debba entrare nella nostra vita per realizzarvi la fede concreta, illuminante e tale da innervare ogni nostro atto e tutta la nostra vita. Consideriamo un punto: i termini dell’impossibilità degli uomini di salvarsi senza la Redenzione. Voi li conoscete questi termini: il peccato dell’uomo è più grande dell’uomo, e non vi sembri una contraddizione. Perché il peccato dell’uomo, essendo contro Dio, non in ragione della causa che lo pone, l’uomo, ma in ragione della Persona a cui è diretto, Dio, è più grande dell’uomo. Ed è per questo che l’uomo è stato, è e sarà sempre incapace di cancellare il proprio peccato. Di questa incapacità profonda è sostanziata tutta la tristezza del genere umano, il quale, prima di Gesù Cristo ha cercato dei diversivi, e non ne ha mai trovati di concludenti; e talvolta anche dopo Gesù Cristo cerca dei diversivi, non volendo infilare la strada giusta, ma non ne trova mai di concludenti. Sicché esso più apparentemente diventa ricco di possessi terreni, di scoperte, di capacità di assorbirsi le creature, e più diventa annoiato e triste. – Il genere umano ha sempre avuto la sensazione, varia ma profonda, ma lancinante, di questa sua impossibilità a riemergere. In quelle civiltà che hanno avuto maggiore cultura e in cui l’uomo ha affinato lo spirito per affermarne e trattarne i problemi, le espressioni di questo dramma hanno preso tutto l’accento della disperazione. Questo è il primo termine che ci fa riflettere. Noi siamo talmente abituati alla Redenzione e ai frutti suoi che forse non la stimiamo più. Siamo talmente abituati, se il peccato avesse mai qualche volta battuto alla nostra porta, a cancellare la colpa con un Sacramento che è alla portata di tutti, che spesso e volentieri ci dimentichiamo che cosa sia la colpa, che cosa sia costato il toglierla a Colui che ha pagato andando in croce per noi. – Guardate che fa parte del cammino di perfezione scuotere l’indifferenza. Che vale vivere la fede, se non si scuote la indifferenza e se non ci si mette in sintonia con la fede? Noi non sappiamo che cosa voglia dire toglierci il peccato di dosso. Perché appena avvertito il peccato, un altro ce lo ha tolto il peccato di dosso, e noi abbiamo sempre beneficiato del sangue di un altro, del patimento di un altro, e la nostra vita si è arricchita della morte di un altro. – Come possiamo credere di essere su un cammino vero di perfezione, se non ritorniamo all’evidenza di quelle verità che possono essersi attutite nel nostro spirito e più non lo colpiscono? Verità grandi, solenni e che forse abbiamo sostituito coi nostri piccoli problemi e con l’angolosità della nostra testa. Se queste verità non le stimiamo per quello che sono e per quello che valgono e non le lasciamo entrare in noi trionfalmente; se non le lasciamo diventare le dominatrici della nostra vita, come saremmo sulla via della perfezione? Come potrà avvicinarsi a Dio perfettissimo chi nel suo cammino non ha tenuto conto della cosa più grande che Dio ha fatto per noi, completando la Incarnazione del Verbo con la Redenzione, cioè con la passione e la morte di N.S. Gesù Cristo? Ci vorrebbero considerazioni e commozioni che ci sfuggono; perché in fondo non è difficile scrollarsi il peccato di dosso; ma nessuno di noi è dovuto andare nel Getsemani a sudare sangue; nessuno di noi ha avuto un Giuda, in quei termini, in quelle proporzioni, in quell’ambiente e con quella oscura cattiveria; nessuno di noi è dovuto andare in croce e farsi trapassare le mani e i piedi; nessuno di noi ha avuto tenebre tali, le tenebre del Getsemani, che quelle che si addensarono sul Calvario non furono che un piccolo simbolo. Ed è per questo che soltanto molta meditazione, una accurata attenzione e somma diligenza ci possono permettere di rievocare passabilmente i termini della Redenzione operata da Gesù Cristo. – Guai a noi se queste cose non le stimeremo e se non prenderemo di punta le fantastiche costruzioni della nostra anima, i suoi egoistici isolamenti, gli stravaganti indurimenti delle sue preoccupazioni sciocche, per lasciare spazio alle divine considerazioni di quello che Dio ha fatto per salvarci. È così che si vive la propria fede: nella meditazione sulla Redenzione di N. S. Gesù Cristo. E questo per la impossibilità nostra a toglierci il peccato, perché il peccato, che è fatto da noi, è più grande di noi, terribilmente più grande. – La Redenzione. Com’è avvenuta? Ci voleva un prezzo, una riparazione. Il peccato è un piacere illecito, sempre, e il caso contrario è una sottrazione di piacere, è un dolore. E così c’è stato il dolore. La rispondenza del diritto di giustizia è perfetta tra peccato e dolore. Però questo dolore per essere valevole, per poter vincere la colpa, e non quella di un uomo solo ma di tutti gli uomini, doveva essere di una dignità infinita. E come è venuta la dignità infinita a questo dolore? È venuta così: ciò che dà la dignità e il valore all’atto è la persona, il soggetto. Difatti se la mia mano uccide un uomo, non mettono in prigione la mano, mettono in prigione me, perché il valore dell’atto compiuto attraverso la natura dipende dal soggetto che porta la natura e ne è responsabile. È la persona quella che valorizza l’atto, sia da un punto di vista negativo se è colpa, sia da un punto positivo, se è merito. Però se la Persona divina non può soffrire, la natura umana può soffrire. E allora in Gesù Cristo ecco il mistero dell’Incarnazione: la natura umana assunta, ma assunta dalla Persona divina, poteva soffrire. – La valutazione dell’atto di sofferenza in questa umana natura dipendeva dalla dignità della Persona assumente, ed era dignità infinita. Il dolore si arrestava alla natura umana, ma la qualificazione dipendeva da chi sosteneva quella natura, dal soggetto che la portava, ossia dalla divina Persona. – Così il dolore dell’umana natura ha avuto l’infinito valore dalla Persona. Veramente il dolore acquistava quello che era necessario per coprire il gran debito, per superare la colpa e vincerla, per far trionfare un’altra volta la vita. E così Gesù Cristo ha portato il dolore. Ma perché è andato in croce? Bastava meno, oh, infinitamente meno; perché ha fatto tanto? È difficile a noi dire il perché. Ma è evidente, da tutto il comportamento della parola di Dio, che in quella croce Gesù ci ha voluto dare un documento, un documento di compagnia, si è messo accanto a quelli che nel mondo hanno sofferto e avrebbero sofferto di più. Così gli uomini sono in compagnia di Gesù. E ha dato un documento di esempio, perché la grettezza umana doveva essere sfondata in tutte le direzioni. Aboliti i se, aboliti i ma, e perché la grettezza umana, aboliti i se, aboliti i ma, fosse sfondata in tutte le direzioni, l’esempio è stato incredibile. Perché i termini dell’umana nequizia, dell’umano tradimento, dell’umano dolore si sono come concentrati in Gesù Cristo? Tenete presente che si soffre in proporzione dell’intelligenza, gli scemi soffrono molto meno, e nessuna natura, nessuna ha avuto naturalmente l’acutezza d’intelligenza e di sensibilità propria della natura assunta dal Figlio di Dio. I termini storici sono i più tragici, i più gravi, i più complicati, a leggere bene tutta la Passione; ma i termini interiori che danno la valutazione di quel dolore presentano un addendo che copre il mondo. Nessuno al mondo ebbe la sensibilità raffinata, l’intelligenza altissima dell’umana natura assunta dal Verbo Incarnato. E questo è stato documento di esempio perché entrasse negli uomini il superamento della loro grettezza e in questa ampiezza di stile fossero aiutati a imitare il Signore. – E finalmente dalla divina parola questo, che parrebbe a noi un eccesso, si rivela ed è il massimo documento dell’amore: così Dio ha amato gli uomini, da dare, da mettere nelle mani dei traditori il suo Unigenito Figlio. Così Dio ha amato gli uomini. È la documentazione dell’amore. Quando si parla dell’amore di Dio, bisogna sempre parlarne davanti al Crocifisso, perché nessun linguaggio sull’amore che noi dobbiamo a Dio, Padre nostro e Salvatore nostro, ha mai un termine di paragone esatto per poterlo valutare come il divino Crocifisso. » – Un’esagerazione, per noi che siamo piccoli. Ma vi ho detto che cosa la divina parola lascia intravvedere per giustificare pienamente questa esagerazione: Dio è stato il Signore. Quando si pensa che cosa è la redenzione e in che modo è avvenuta, si sente, si deve sentire il bisogno della penitenza, si deve essere in ritmo con quella grande condanna, ma s’impara lo stile di Dio che è stile da Signore, non da gretti. E noi cristiani, se l’abbiamo questo stile, siamo dei signori. E se siamo così, dei signori, siamo dei cristiani. Perché lo stile divino non è quello della miseria, delle piccole linee, dei piccoli lamenti, delle piccole ombre, delle piccole economie fatte sulla nostra generosità, no; davanti al modo con cui Dio ci ha redento si capisce che il cristiano è tanto cristiano quanto è signore anche lui, non un pidocchioso, gretto, miserabile, a lesinare continuamente la quantità del proprio valore e del proprio dono, e lesinarlo a Dio che l’ha salvato a questo modo. Stile da Signore! Guardate che senza di questo non si è in ritmo col nostro Maestro esemplare, che è andato in croce. Noi probabilmente non dovremo andare in croce materialmente; ma se dovremo andarci, non facciamoci pregare troppo, andiamoci e basta. Noi cristiani, se siamo tali, siamo dei signori; altrimenti non siamo cristiani. – La Redenzione dice questo. Però la Redenzione ha vinto: la colpa è stata cancellata virtualmente per tutti gli uomini. A quelli che tra di loro hanno peccato volontariamente, il rispetto che Dio ha per la loro libertà richiede che essi l’accettino, perché a chi ha peccato volontariamente Dio non perdona se non c ‘è il loro benestare: il perdono soggiace a questo benestare. Il benestare si chiama atto di penitenza, che è il rinnegamento della colpa in tutta l’estensione, compresa quella temporale, del passato e del futuro. La Redenzione ha vinto, e allora apre una visione nuova. È possibile vincere su quello che è ineluttabile? Due cose erano ineluttabili, la colpa e la morte. La colpa è stata già vinta del tutto; la morte anche, con la risurrezione di N.S. Gesù Cristo. La nostra morte verrà a suo tempo assimilata a quella e allora sarà compiuta la Redenzione totale; perché anche per i singoli uomini è stata definitivamente vinta la morte, e allora Cristo, tornato giudice, per usare la frase della Sacra Scrittura, « consegnerà il regno al Padre »: solo allora, perché solo allora sarà completata tutta la Redenzione. E questo ordine si chiuderà, questo ciclo sarà salvato, e su di esso nell’eterna gloria di Dio si rifletterà il cantico perenne dei beati, perché la Redenzione darà valore eterno a tutto quello che è servito all’uomo e che è entrato in qualunque modo a essere patrimonio inscindibile dell’uomo. Così la Redenzione si attuerà totalmente nella gloria eterna. Ed è la vittoria di Gesù Cristo. – Guardate ora che cosa riflette la Redenzione sulla nostra vita. E questo è il terzo punto. Per noi che siamo ancora nel tempo, nel cammino, riflette la speranza. Credete voi che sia possibile il cammino della perfezione senza il rispetto assoluto di tutte e tre le virtù teologali, della fede, della speranza e della carità? Il cammino di Dio deve passare per questi tre punti. Se noi credessimo di passare per un altro punto, in sostituzione a uno di questi, noi saremmo nell’errore, saremmo nella morte. La via della perfezione come deve passa attraverso la fede, deve passare attraverso la via della speranza. E perché è possibile la speranza agli uomini? Perché la Redenzione ha vinto. Che cos’è la speranza? E’ il desiderio fiduciale. La speranza è fatta di due pezzi: del desiderio e della fiducia. Se manca il desiderio, non abbiamo più la speranza; se manca la fiducia, non abbiamo più la speranza. La speranza è il desiderio fiduciale. Il desiderio che cos’è? È un movimento dell’anima che si sposta in avanti verso un bene ancora assente; non si desidera quello che si ha, quello che si ha lo si gode ma non lo si desidera più. Il desiderio è il movimento dell’anima che si protende verso un bene assente. Il bene può essere impossibile, e allora il desiderio è sballato; il bene può essere possibile, e il desiderio comincia a diventare ragionevole. – Ma non per questo siamo nella speranza, perché per avere la speranza, al movimento dell’anima e della volontà che tende a qualche cosa si deve unire la fiducia. Che cos’è la fiducia? La fiducia è quell’atteggiamento dell’anima conseguente a un giudizio dell’intelletto. Il giudizio dell’intelletto, documentando, dimostra possibile il bene desiderato e,  documentando, dimostra esserci una fedeltà che si è impegnata, sotto talune condizioni, a darcelo. Sicché quello che è desiderato non è semplicemente un possibile; ma, senza essere una certezza assoluta e infallibile, poggia sul giudizio di una fedeltà che è in causa e, nel caso, è la fedeltà divina che ha promesso, verificandosi le condizioni. Questa è la fiducia. È il giudizio insomma sulla possibilità di un bene desiderato e sulla presenza di una fedeltà capace, e nel caso è quella di Dio, impegnata, di farci conseguire il bene desiderato. E’ chiaro che quando il desiderio si sposa alla fiducia e la fiducia è di questo genere, parliamo della fiducia in Dio, ne viene il sollevarsi dell’anima, l’innervamento dell’anima, ne viene allora l’attesa, il coraggio e, già riflessa, anticipata, la gioia. Queste sono conseguenze della fiducia, cioè conseguenze della speranza che è il desiderio fiduciale. Ora voi capite che la vittoria della Redenzione, con quello che ho anche succintamente rievocato, documenta la fedeltà divina, la promessa di Dio, che è fedele a quello che ha promesso. E allora entra trionfale nella vita, negli uomini, il desiderio fiduciale, la speranza, il cui oggetto è la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla, come si dice nel comune atto di fede. Allora la Redenzione fa entrare nella vita la speranza. Ma è possibile che non entri? Perché se non entrasse, sarebbe un rinnegamento della Redenzione. La mancanza della speranza a proposito della Redenzione si ritorcerebbe in una mancanza di fede. La vita di fede non può esistere, se manca la virtù della speranza. Potrà sussistere l’atto di fede, forse, ma se non c’è la speranza, non si vive di fede. Allora come è necessario per camminare verso la perfezione vivere di fede, vedere queste verità, apprezzare queste verità, farne ogni momento stimolo e ragione e sfondo a quello che si fa, così è necessario che nella vita entri la speranza. – Vi prego di misurare brevemente quello che ciò significa. Che entri la speranza nella vita significa che entra il giusto e cristiano ottimismo; perché quando si ha dalla propria parte la fedeltà divina, impegnata con una promessa, non c’è più la ineluttabilità del male. Il pessimismo è il senso della ineluttabilità del male; non si concilia con la speranza. – Il pessimismo è una mancanza di speranza oppure è una malattia. Nel secondo caso bisogna curarlo come si curano tutte quante le malattie. Ma è certo che la speranza non solo dà l’ottimismo ma dà il coraggio. La speranza dà al momento opportuno la necessaria serenità all’anima che si può abbandonare e distendere in Dio per le infinite ragioni che Dio le manifesta nella sua divina parola e che possono essere pronte a sovvenire in tutte le sue circostanze, purché allora la semplicità e l’umiltà aprano la porta alla parola di Dio. Semplicità e umiltà, e la speranza è inscindibile, almeno per qualche momento, dalla gioia. È la speranza che dipinge chiari gli orizzonti, che non chiude gli orizzonti in limiti angusti e invalicabili. È la speranza che risolve i problemi della nostra debolezza e della nostra incontentabilità. Se non c’è questo abbandono in Dio, se non si fa a Dio, che per darcene un documento è andato in croce, l’onore di aver fiducia in Lui, non si è degni di avvicinarsi a Lui. – Il contrario della speranza è il peccato di disperazione; l’unico peccato che non si può perdonare è quello contrario alla speranza, perché il peccato di disperazione rifiuta di aver fiducia nella bontà di Dio. Tutti gli altri peccati sono remissibili da Dio; questo, fintanto che c’è, è irremissibile. Dio ci chiede l’onore di credere al suo amore, alla sua misericordia, alla sua bontà. La Croce è una esagerazione che rientra nell’equilibrio quando si pensa che a certi uomini, che dalle loro stesse ombre, dalla loro stessa talvolta amara esperienza cadono in pericolo di disperazione, era opportuno che la documentazione dell’amore fosse data senza limiti. E tale documentazione Dio ha dato a noi; e noi non possiamo rifiutare d’avere tale fiducia con pieno, filiale, assoluto abbandono, in ogni momento, in vita e in morte. La Redenzione, così inquadrata in questa esagerazione, è necessaria, perché in certi momenti della vita, se non ci fosse quella esagerazione, noi piccoli uomini quasi incapaci di concepire cose più grandi di noi non troveremmo motivi sufficienti per continuare a sperare. E invece anche il peggiore degli uomini, nella peggiore delle situazioni, nel peggiore dei momenti, di fronte alla morte, può credere nella Misericordia di Dio, credendo alla Croce. Guai se non ci fosse quella esagerazione! Noi siamo abituati a vedere il Crocifisso tutti i giorni, non ci facciamo più caso. Ma perché quelle braccia non si staccano dalla croce? Sono lì, e la Chiesa le vuole lì, non esige per legge nessun’altra immagine sull’altare; quella sì, e se non c’è, non si può dire la Messa. Le braccia aperte, inchiodate, il costato aperto, il capo reclino, sempre così, la divina esagerazione! Se l’abitudine ci ha fatto perdere il senso di che cosa significhi per noi quella divina esagerazione, la meditazione ristabilisca l’equilibrio e ci faccia capire che cosa vuol dire il Crocifisso e guardare il Crocifisso, perché ci sono dei momenti, nella vita di tutti gli uomini, che senza quella divina esagerazione la speranza non reggerebbe.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (7)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(7)

9. La rettifica dell’intenzione

Per mettere delle solide basi alla nostra personale perfezione occorre studiare il metodo di qualunque atto della nostra vita. Perché le nostre azioni siano veramente valevoli e realizzino a poco a poco uno stato perfetto, bisogna che impariamo a farle tutte, senza distinzione, per quanto ci è possibile, con determinate condizioni. L’attenzione nostra, la volontà, la generosità si misureranno qui attraverso una disciplina, un’insistenza, perché noi dobbiamo acquistare l’abitudine di compiere ogni cosa con talune condizioni. – Quali sono dunque le condizioni che dobbiamo porre perché le nostre azioni siano veramente valevoli? Voi sapete che perché le nostre azioni siano veramente valevoli davanti a Dio e meritino, devono essere fatte in stato di grazia di Dio; se manca questo presupposto, essenziale per l’acquisto di qualunque merito, si potrà ottenere dal Signore grazie per la vita presente e grazie anche per la conversione, ma niente si guadagna per la vita eterna. E perciò è molto importante che questa condizione ci sia. E allora vengo alle altre condizioni. La prima di esse già è stata studiata, ma richiamarla mi dà modo di completarla dal punto di vista pratico. – La prima condizione perché le nostre azioni siano valevoli e raggiungano il massimo della perfezione è la rettitudine dell’intenzione: ne ho già parlato. Ma è opportuno il richiamo per venire a parlare dell’aspetto pratico della rettitudine d’intenzione. Vi ho detto che ci vuole la massima cura per renderla quanto ci è possibile attuale; non accontentarci di quella abituale, e nemmeno restare in quella virtuale, ma arrivare a quella attuale. Tuttavia io non vi ho dato alcun consiglio pratico in merito. Il consiglio pratico è questo: bisogna acquistare l’abitudine di formulare esplicitamente l’offerta a Dio di tutte le azioni della giornata, nessuna esclusa. Quando iniziamo la giornata e diciamo con la mente in stato di coscienza le orazioni del catechismo, questo viene fatto perché nelle orazioni del catechismo c’è l’offerta delle azioni della giornata, c’è la formulazione della intenzione rettissima la quale, se poi non avrà altri soccorsi lungo la giornata, potrà da attuale diventare virtuale o soltanto abituale. Ma almeno una intenzione abituale c’è ed è già qualche cosa. Tuttavia questo non è tutto quello che noi dobbiamo desiderare di fare; è un po’ troppo poco per chi vuol vivere veramente una vita spirituale. – E allora è necessario che vi siano nella giornata dei momenti scaglionati, e più se ne metterà e meglio sarà, nei quali si rinnovi la formulazione dell’intenzione che, notate, ha due aspetti: l’aspetto di offrire a Dio e l’aspetto di dare una direzione superiore alle nostre azioni. – Anche il secondo aspetto è importantissimo agli effetti della sincerità, della umiltà e del valore degli atti nostri, quello di rettificare l’intenzione. Qui è il momento di parlare non della rettitudine, ma della rettifica dell’intenzione. Per la vita spirituale e per il cammino di perfezione, la rettifica di intenzione è una delle cose fondamentali. È facilissimo che con tutta la buona volontà nostra, con tutta l’attenzione e con tutta la meditazione, inoltrandoci nel nostro dovere quotidiano, a un certo momento, per un certo incanto o per una certa attrazione o per una certa fantasia o per una certa distrazione, si finisca col compiere quell’azione buona che si sta facendo con uno scopo diverso da quello che era concepito inizialmente, cioè è possibile che lo si cominci a fare perché agli altri piace o perché si riscuote un omaggio di soddisfazione da parte degli altri. Lì comincia il pericolo. La cosa può avere un tale carattere sornione che non ci se ne avvede e a un certo momento ci si trova come inondati dalla dolcezza di fare un’azione buona come se si fosse spalancato il cielo e tutta la luce fosse piovuta giù e ci portasse una grande dolcezza, e se si osserva bene, a un certo momento ci si trova pieni di vana compiacenza. – Credete, chi vuol avere una vita spirituale sul serio, chi vuol camminare speditamente verso Dio, con generosità assoluta, con distacco completo, con dedizione seria all’amore del Signore, deve praticare, se già non lo fa, l’uso della rettifica di intenzione durante la giornata. Al mattino si comincia con la rettitudine d’intenzione, con l’offerta a Dio, ma nel prosieguo la rettitudine, per rimanere tale, ha bisogno di un’altra cosa, ha bisogno della rettifica. Ogni tanto bisogna dire: Signore, qui il mio povero asino sta per andare fuori strada; Signore, io agisco per te; non per me, ma soltanto per te. È una pratica questa che quando fosse consacrata in qualche pia giaculatoria, in qualche cosa che, direi, deve avvenire quasi per regolamento, sarebbe una pratica santissima e del massimo interesse. Per quale motivo tante anime cominciano il mattino benissimo: si levano, pregano, salutano il Signore con la freschezza dei raggi dell’aurora, poi la Comunione, poi tutto bene, l’ardore, la quiete spirituale, la pace, la sicurezza, ma a un certo punto della giornata comincia un dondolio, si comincia a pencolare di qua e di là, per cui alle volte la sera le oche sono lì tutte spennacchiate e hanno bisogno di rifarsi qualche pezzo d’ali perché hanno perduto per la strada metà di sé stesse? Perché è mancata la rettifica d’intenzione. Alle volte si comincia a fare un discorso, e il discorso è giusto, si parla di qualcosa anche di spirituale; ma a un certo momento si deve nominare qualcuno; per la nostra superbia occorre che nel discorso passi qualcuno, siamo come il cacciatore che sta lì da dieci ore ad aspettare che passi un uccello e gli spara subito. Siamo fatti così. La nostra superbia è sempre in agguato; basta che nel discorso passi un nome che, se non si sta proprio attenti, ecco una mossa, una tirata, un giudizio, una schioppettata. – Voi capite, vero, quante volte bisogna fare la rettifica d’intenzione! Ma la rettifica d’intenzione deve essere continua. Concludiamo. La prima caratteristica che rende perfette le nostre azioni è la rettitudine. Ma aggiungo che questa rettitudine d’intenzione, che è da farsi a ogni inizio di giornata, è da rinnovarsi più che si può, legandola a tutte le pratiche di pietà. Bisognerebbe che ogni pratica di pietà cominciasse con la rettifica d’intenzione perché, siccome in una giornata se ne fanno parecchie di pratiche, se si segue la serie di quelle, effettivamente in una giornata si ha la riabilitazione di noi stessi almeno attraverso la rettifica d’intenzione. Se ce la fate fino alla sera, la sera potete cominciare a cantare veramente, perché quando uno è arrivato a mettere insieme in una giornata una perfetta rettitudine d’intenzione in tutto quello che ha fatto, e ciò che ha fatto l’ha fatto perché era il suo dovere, perché lo voleva Dio, perché lo portava a Dio e non per un altro motivo, ed è sempre stato pronto a scacciare anche qualsiasi incosciente sbandamento, arriva alla fine della giornata e può dire: adesso ho diritto di dormire. – Anche quello con rettitudine d’intenzione, e senza essere tenuto a rettificarlo, perché dormendo non si pecca. – La seconda condizione è l’attenzione. Che cosa vuol dire l’attenzione? Vuol dire fare in modo che nell’atto libero umano, umano in quanto c’entra la intelligenza e la volontà, la intelligenza non si offuschi, non si stanchi, cioè inizi con chiarezza; veda quello che fa e poi non s’offuschi, resista tanto quanto occorre per potere in piena chiarezza portare l’atto fino in fondo. L’attenzione è questa. Accendervi la luce sopra, in modo che non se ne vada in crepuscolo, in incoscienza, ma sia chiaro. Siccome il valore dell’atto, a parte la grazia di Dio che è sempre la radice soprannaturale prima delle nostre azioni, inizia da quando c’entra la nostra intelligenza e la nostra volontà, è molto importante che l’intelligenza non si oscuri. E questo si chiama attenzione, fare caso a quel che si fa. Badate che quando si accende l’intelligenza, quella muove la volontà. Ma è la intelligenza che deve essere tenuta accesa contro la forza dell’abitudine che, ripetendo gli atti, può far sì che noi ci dispensiamo dal metterci l’attenzione. Sono le abitudini le tentazioni contro questa seconda caratteristica che rende gli atti perfetti. Come vedete, non occorrono molte disquisizioni per parlare della seconda caratteristica, l’attenzione. Ma è evidentissimo che questa caratteristica decide proprio del valore dell’atto perché tiene accesa la sorgente di luce che, per quanto riguarda noi, dà valore all’atto. E se quella si estingue, a un certo momento si estingue anche il valore dell’atto. – Io non parlo degli effetti buoni che ne vengono in campo umano, perché voi sapete che il lavoro rende in quanto si fa con attenzione. Ma io non sono qui per difendere la dottrina della produttività, a me interessa una dottrina più grande che è quella della santità. Ed è certo che è proprio da questa attenzione che deriva tutta l’efficacia del nostro lavoro. L’abitudine e la fantasia sono due grandi nemici dell’attenzione. – Lasciamo stare la fantasia e parliamo dell’ abitudine. Vi sono degli atti e, manco a farlo apposta, sono i più grandi, i più santi, che vengono ripetuti continuamente nella nostra vita, da farci cascare, nolenti o volenti, in una certa abitudine. E allora la forza dell’attenzione va portata là. Sono gli atti più grandi. Noi sacerdoti diciamo la S. Messa tutti i giorni; e proprio perché la diciamo tutti i giorni, siamo nel pericolo, tutt’altro che lieve, di finire col fare forse bene tutto meno che dire la S. Messa. Perché l’abitudine dispensa dalla attuale attenzione. E se non c’è una ripresa di volontà quanto mai energica, impegnata e assoluta, si finisce col fare tutto sul tapis roulant, senza nemmeno muovere un passo. – Voi avete delle adorazioni, degli atti comuni, delle preghiere da dire, e io osservo che le dite bene, non ve le mangiate, non precipitate; osservo che cantate bene i Salmi, fate bene le genuflessioni. Per carità, difendete quanto potete questo modo di pregare. Lo so che si può fare anche esternamente tutto bene e poi con la testa essere a caccia; però, se anche l’atto esterno è fatto bene, non c’è dubbio è sollecitato anche l’ordine interno. Attenti perché le cose che si fanno tutti i giorni sono quelle che vengono massacrate quando l’attenzione se ne va, perché l’attenzione, andandosene estingue la sorgente del merito. Non che manchi totalmente il merito, perché per quel poco che l’attenzione sarà rimasta accesa, qualche cosa avrà fatto; ma come quella si estingue, dove va a finire il merito? Rimarrà semmai il merito dell’intenzione virtuale, in quanto essa ha spinto all’azione, e la sequenza è ancora sotto la prima spinta; ma è finita con la perfezione. La perfezione domanda l’attenzione. Age quod agis. – La terza è la diligenza. È una cosa diversa dall’attenzione, anche se la può comprendere. Perché, mentre l’attenzione consiste in un fenomeno intellettuale, che tiene accesa la lampadina elettrica e non permette che s’entri in ombra crepuscolare, la diligenza è piuttosto una funzione della volontà. La diligenza sovvenziona continuamente con la forza di volontà, e sovvenziona in modo da arrivare al dettaglio dell’azione, alla sfumatura dell’ azione e, attraverso il dettaglio e la sfumatura, alla perfezione e perfino all’imponderabile dell’azione. – È chiaro che se non c’è un intervento della volontà, le azioni vengono raffazzonate, con grandissima facilità s’accorciano, si rabberciano, si tirano. Ci vuole una erogazione di forza di volontà perché s’arrivi al dettaglio, alla sfumatura, perché si realizzi la precisione, si raggiunga perfino l’imponderabile; allora l’azione è a posto. – Non sto a dire che cosa sia la diligenza nella produttività, di questo si occuperanno gli economisti, non noi. Dico che per la santità ci vuole la diligenza e che la diligenza è l’elemento condizionante la perfezione dell’atto. Sì, perché, a parte la grazia del Signore, le sorgenti del valore dell’azione nostra, sono due: l’intelletto e la volontà. Se si estingue l’attenzione, è dimostrato che se ne va il valore, almeno in parte; se si estingue la volontà, cioè se viene meno la diligenza, parte l’altra sorgente; se poi partono tutte e due, immaginatevi il risultato! – Ora veniamo al quarto punto. Il quarto è l’amor di Dio e con questo va a posto tutto, perché se ogni atto concepito perfetto vale 90, l’amor di Dio lo prende a 90 e lo porta a 100, a 200, a 1000. E qui ci si ferma. Qui la scala non può enumerare gli scalini; chi più ne ha, più ne metta. Il motivo dell’atto lo condiziona l’amor di Dio. È vero che il motivo può ricadere nel fine, cioè nella prima condizione, però è opportuno tenerle distinte allorché si è in sede di trattazione perché, è evidente, non è necessario che motivo e fine coincidano; anche se il fine diventa generalmente il motivo, possono essere distinti. Per questo è opportuno trattarli distintamente. – Fare quel che si fa per amore, ecco. Quanta gente che fatica da mattina a sera è contenta di faticare. Non che fatichi per la santità, no, no; è contenta perché lavora per amore. Ha una famiglia, ha dei piccoli in casa, e guardate come lavora volentieri. Quando il lavoratore non lavora più volentieri, c’è da temere che non ami più del tutto la sua famiglia. L’amore trasforma tutto. Quando le cose si fanno per amore, entrano in una possibilità nuova, in una risurrezione degli atti se fossero morti, in una vivificazione degli atti già vivi, in un potenziamento, in una elevazione ad alta potenza degli atti. – Parliamo dell’amore di Dio. Sentite, ci vuole un certo calore per tenere in piedi tutta sta macchina: rettitudine, rettifica d’intenzione, attenzione, diligenza; ci vuole del calore. La preghiera porterà questo calore e poi porterà la grazia di Dio e sarà erogazione di energia continua. Ma anche noi dobbiamo metterci la nostra parte, perché se questo calore ci viene a mancare, si cadrà in quella rigidità nella quale si cammina a vuoto; viene la tiepidezza, la mancanza del gusto spirituale, la tenebra. E allora non c’è che una cosa che salvi, è l’amor di Dio. L’amore salva anche senza gusto, nella notte oscura. Se non c’è questo, non ci si salva. Quando si passa nella notte oscura, direbbe S. Giovanni della Croce, cade tutto, perché allora arriva quel tale fenomeno che si chiama la spoetizzazione. È un fenomeno che nella vita spirituale va tutt’altro che trascurato. C’è della gente che vibra di santità, ha l’apertura dell’aquila nelle ali, ma fintanto che i termosifoni sono accesi; spegnete quelli e voi vedete che viene la tiepidezza, viene lo choc nervoso, l’interruzione della corrente, del sentimento, cioè viene la spoetizzazione. Fintanto che c’è la poesia, la devozione cola come il miele giù nell’esofago; ma quando non c’è più il miele, si chiude il capitolo. Ci sono dei temperamenti nervosi che quando il tempo si mette sullo scirocco sono a terra, non fan più niente, non han più voglia di fare niente, nemmeno di andare in Paradiso. Come cappe di piombo. E talvolta noi uomini siamo così deboli che siamo proprio, come costituzione fisica, alla mercé dello scirocco o della tramontana. Siamo così, con tutte le arie che ci diamo. Talvolta basta un piccolo choc perché s’interrompa la corrente, non si sente più nulla; una piccola contrarietà, una piccola umiliazione, un piccolo fallimento basta perché lo choc sia tale da inchiodare anche per una giornata, per due, per tre la vibrazione del sentimento, che è quella che aiuta ad amare Dio. Succede che una persona che stravolge gli occhi e va a vedere un bel quadro perché sente l’arte intimamente, se si trova davanti a un quadro di Raffaello, lo guarda come se guardasse il carro della spazzatura, non sente più niente. Si può trovare la persona che si esalta con le magnificenze, mai abbastanza decantate, della divina Liturgia e che dinanzi alla più grande coreografia religiosa seria, vera, profonda, si trova allo stesso livello del banco sul quale si siede. Sono fenomeni che succedono, e quando si parla di vita di perfezione, bisogna tenerli in considerazione, perché se noi trattiamo delle vicende della santità come se di casi avversi non ce ne fossero mai, poveri noi, non arriveremo mai alla santità. – Guardate che i fenomeni della spoetizzazione, chiamateli choc, aridità, tutto quello che volete, vengono con una facilità tale che possono compromettere quello che noi andiamo componendo. Dunque bisogna prendere dei provvedimenti che siano validi. Il più valido è questo: tutti gli atti debbono avere sempre per movente l’amore di Dio. L’amore vero, non l’amore sentimento, non abbracci, baci, dolcezze, quella sarebbe una società di mutuo sfruttamento, non l’amore. L’amore è un’altra cosa, è volontà in atto, è forza. E voi capite quanta necessità ci sia perché l’amore sia veramente forte. Ecco, queste sono le quattro condizioni perché le nostre azioni costruiscano l a perfezione della nostra vita. Non spaventatevi; se farete l’orazione come va fatta, tutte queste cose diventeranno facili, e allora sì che l’abitudine, invece di essere un imbroglio, diventerà un sussidio. E Dio lo voglia!

 

DOMENICA III dopo l’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XCVI:7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]
Ps XCVI:1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII:16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Saggio di omelie, vol. I, Om. XV, Torino, 1899]

“Non riputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia: procurate il bene non solo innanzi a Dio, ma anche innanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. Non vi vendicate da voi, o carissimi, ma date luogo all’ira, perché sta scritto: “A me la vendetta; renderò io la retribuzione, dice il Signore. Se dunque il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare: se ha sete, dagli da bere; facendo così, radunerai carboni accesi sul suo capo. Non ti lasciar vincere dal male, ma col bene vinci il male „

Queste stupende sentenze dell’apostolo Paolo sono la continuazione di quelle che udiste nella penultima Omelia, come quelle erano la continuazione dell’altra penultima. La Chiesa nella epistola di queste tre Domeniche dopo la Epifania ci ha messo sotto gli occhi da meditare l’intero capo XII della lettera ai Romani, vero e sublime compendio della dottrina morale del Vangelo. – Io penso che raccogliendo e ordinando insieme tutto ciò che di bello e perfetto dissero sparsamente nei loro volumi tutti i filosofi di Grecia e di Roma intorno ai doveri morali degli uomini, non avremmo la decima parte delle verità morali che S. Paolo ha condensate in questo solo capo. Quanta differenza tra l’insegnamento incerto, diffuso, manchevole, misto ad errori e senza autorità di quelli, e l’insegnamento preciso, breve, compiuto, scevro d’ogni ombra ed autorevole di S. Paolo! È questa dell’Apostolo una pagina che, anche sola, meditata a dovere, ci fa sentire e conoscere quale abisso corra tra la dottrina morale dei sommi sapienti del paganesimo e quella di Gesù Cristo. Ma veniamo al commento. – “Non reputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia. „ Una delle cause più frequenti e più gravi delle nostre colpe e, dirò anche, dei nostri malanni domestici e pubblici, è la soverchia fiducia che riponiamo nella nostra abilità e nelle nostre forze: essa ingenera la presunzione, l’avventatezza nel parlare e nell’operare e l’imprudenza con tutti i suoi effetti. Perciò S. Paolo grida ai suoi figli spirituali: “Non reputate voi stessi sapienti; „ non appoggiatevi soverchiamente a voi stessi, ma rivolgetevi per lumi ad altri più savi di voi e soprattutto appoggiatevi a Dio, da cui viene ogni lume. “Non rendete male per male a chicchessia: „ è una sentenza, che l’Apostolo, nella foga del dire, ha cacciata qui, ma, che tosto ritorna sotto la sua penna e che svolge più ampiamente, onde è bene rimetterla ai versetti seguenti. – “Curate il bene non solo innanzi a Dio. ma anche innanzi a tutti gli uomini. „ Queste parole l’Apostolo le piglia dal libro dei Proverbi capo III, vers. 4, e qui si vogliono spiegare alquanto diffusamente. Noi dobbiamo sempre fare il bene: ma talvolta può avvenire che quello che è bene in sé e dinanzi a Dio, non lo sia egualmente dinanzi agli uomini che giudicano dalle apparenze, od anche secondo le loro passioni od inclinazioni; e noi allora adoperiamoci a raddrizzare i loro giudizi e mostriamo che ciò che facciamo è veramente bene e avremo tolto lo scandalo. Queste parole possono anche intendersi in altro modo e forse migliore: Dio vede la nostra mente, il nostro cuore e la nostra intenzione, e gli uomini vedono e conoscono soltanto le nostre opere e le nostre parole. Ebbene: vediamo di fare ogni cosa, internamente ed esternamente, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, in modo da piacere a Dio ed agli uomini stessi. Anzi tutto dobbiamo fare il bene dinanzi a Dio. Come? avendo sempre un fine retto, quello di adempire il nostro dovere, di ubbidire a Dio, di procurare la sua gloria, il bene dei prossimi, e scacciando qualsiasi altro fine men degno del cristiano, come sarebbe la vanità, il capriccio, l’interesse e andate dicendo. Nel fine specialmente sta la bontà delle opere nostre e questo Dio solo lo vede. Dobbiamo fare il bene anche dinanzi agli uomini, cioè in guisa che non sia offesa la carità, che non sia male interpretato, che giovi, se è possibile, a tutti e tutti ne ricevano edificazione. – “Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. „ Vuole l’Apostolo che abbiamo pace con tutti, quella pace che Gesù Cristo portò sulla terra e tante volte raccomandò ai suoi Apostoli; ma vi mette due condizioni, che sono naturali. La pace è desiderabile e dobbiamo procurarla con ogni studio, ma salvi sempre i diritti della verità e della giustizia. Se gli uomini per accordarci la pace ci domandano il sacrificio della verità e della giustizia, noi dobbiamo rinunciare alla pace e rassegnarci alla lotta, sia quanto si vuole lunga e crudele. Era in questo senso che Gesù Cristo diceva d’essere venuto a portare, non la pace, ma la spada, ossia la guerra, e questa verità accenna l’Apostolo allorché dice: “Se è possibile, siate in pace con tutti. „ Vi è un’altra condizione ed anche questa non infrequente. Noi possiamo volere, desiderare e procurare, la pace, ma gli altri per animo malvagio, possono ricusarla: in tal caso la pace non è possibile. Allora che dobbiamo fare? Che si richiede da noi? Si richiede e basta, che noi dal canto nostro siamo sempre disposti a fare e mantenere la pace, il che S. Paolo ha espresso chiaramente in quelle parole: ” Quanto è da voi. „ Che altri non voglia la pace o la turbi, è male, ma tal sia di loro; ne risponderanno a Dio; ma voi vogliatela sempre e dal lato vostro non la turbate mai. Seguiamo l’Apostolo nelle magnifiche sue lezioni morali. ” Non vi vendicate da voi, o carissimi. „ Gli altri, cosi in sentenza S. Paolo, potranno turbare la pace, offendervi, manomettere i vostri diritti, farvi ingiustamente ogni male. Che farete voi? Potrete voi da voi stessi rendervi giustizia e vendicarvi dei vostri nemici ed oppressori? No, no, grida il grande Apostolo: ciò non è lecito, non è da cristiano, e nemmeno da uomo. “Date luogo all’ira, „ insegna S. Paolo. E che vuol dire dar luogo all’ira ? Se altri vi odia e rompe in ira con voi e vi copre d’ingiurie, voi tacete pazientemente; lasciate che l’ira sua, a guisa di torrente o di nembo impetuoso passi e si dilegui: l’opporvi potrebbe accrescerne il danno, e bisogna ricordarci che una parola benigna e mansueta ammorza l’ira e che un vento procelloso atterra l’albero che sta ritto e resiste, ma non la molle erbetta che si piega e cede. Oh! quante discordie, quante querele, quante risse sarebbero impedite in casa, per le vie, dovunque, se noi dessimo luogo all’ira, frenassimo la lingua ed al fratello che sbuffa d’ira e getta fuoco dagli occhi opponessimo il silenzio tranquillo e senza fiele! Ricordate sempre le parole di S. Paolo: “Date luogo all’ira. „ “Non vi vendicate da voi. „ Se ciascuno volesse vendicarsi da sé per le offese ricevute, che ne avverrebbe? Manifestamente la società intera andrebbe sossopra, anzi sarebbe distrutta. – Se tu vuoi farti giustizia da te stesso, qualunque altro uomo avrebbe egual diritto, e perciò ogni uomo sarebbe giudice e vindice delle offese che ha ricevute, o crede di aver ricevute, e troppe volte il diritto soccomberebbe alla forza e si scambierebbe con la violenza. Dunque non spetta mai all’individuo fare la vendetta per le offese ricevute. A chi spetta? A Dio, solo a Dio, che rende giustizia quaggiù per mezzo della autorità costituita, che mantiene l’ordine e turbato lo ristora, che può e deve rendere a ciascuno secondo le opere sue. – Non occorre il dirlo: in queste parole di S. Paolo: “Non vi vendicate da voi, „ son vietate non solo tutte le vendette private, ma il duello, del quale sì spesso udite parlare e che in sostanza è una vendetta, che uno si prende da se stesso. Uno è offeso in un modo qualunque e sfida a duello l’offensore e scendono sul terreno per decidere con le armi alla mano le loro ragioni, accompagnati dai medici e da quelli che si dicono padrini o testimoni. Nulla di più irragionevole, o cari, di questi duelli, che si osa chiamare partite d’onore, necessità sociali. Tu sei stato offeso ingiustamente? Eccoti il tribunale, eccoti i giudici, e se meglio ti piace, gli arbitri. A loro esponi i tuoi diritti offesi ed essi ti faranno ragione. Ma tu esigi la riparazione con le armi in pugno. Ma così facendo tu rimetti alla forza il giudizio del diritto. Si può fare ingiuria maggiore al buon senso, alla ragione naturale quanto con l’appellare, non alla ragione stessa, alla legge, ma alla forza e talvolta al caso? Quante volte chi aveva ragione nel duello ebbe la peggio ed alla offesa ricevuta aggiunse il danno delle ferite ed anche della morte e la vergogna di soccombere! Qual differenza tra due villani o facchini,, che offesi a vicenda nell’impeto dell’ira si scagliano addosso, si pestano a pugni o danno di piglio ai coltelli, si feriscono od uccidono? Nessuna, anzi, se v’è differenza, essa sta tutta a danno dei duellanti, perché generalmente più istruiti; e perché si battono a sangue freddo ed in modi determinati e con armi scelte e perciò il loro delitto è più inescusabile. E mettono innanzi l’onore offeso! L’onore si ripara col giudizio di uomini competenti, con la sentenza dei giudici, non mai con l’uso delle armi e con l’offesa fatta alle leggi ed all’onore. Il duello, tenetelo ben fermo, o cari, è cosa indegna di uomini ragionevoli, di buoni cittadini, è un avanzo di barbarie, è il diritto della forza, è il giudizio del caso e tutti i sofismi del mondo non varranno mai a giustificarlo. È un delitto nel senso più volgare della parola. – Alla autorità, che è posta da Dio e lo rappresenta sulla terra, sottomettiamoci, come a Dio stesso. Che se ella non può o non vuole renderci giustizia, leviamo gli occhi in alto, a lui che è il Giudice infallibile, al quale nessuno può sfuggire e che ha detto: “A me la vendetta; io renderò la retribuzione. „ Rimettiamo la nostra causa a Dio; Egli, a suo tempo, punirà i nostri offensori e darà loro la mercede secondo le opere loro. Se noi volessimo fare la vendetta per conto nostro, usurperemmo il diritto, che spetta a Dio solo. Ponete che un padre abbia molti figliuoli e che questi vengano a litigio tra di loro e che l’uno se la pigli con l’altro, lo offenda e lo percuota malamente sotto gli occhi del padre suo. Voi che direste? Certamente voi lo condannereste anche nel caso che avesse ragione contro del fratello, e gli direste: “Tu hai il padre tuo, tuo giudice naturale: a lui devi rimettere ogni giudizio: la vendetta che ti prendi da te stesso è una offesa gravissima al diritto paterno, è una brutta usurpazione d’una autorità che non hai. ,, Noi tutti siamo figli del Padre nostro, che è nei cieli: siamo dunque fratelli: che l’uno dunque non si levi mai contro dell’altro, e ne lasci il giudizio a quelli che Iddio ha posto sulla terra a reggere gli uomini e, se questi vengono meno, ne lasci il giudizio a Dio stesso, a cui tutti dovranno rendere ragione delle opere loro. E tu che devi fare intanto col tuo offensore, col tuo nemico? Guardarlo di mal occhio? Serbargli odio in cuore? Fuggirlo come un nemico? Udite, udite, o cari, l’insegnamento di S. Paolo: ” Se il tuo nemico ha fame, dagli a mangiare: se ha sete, dagli a bere. „ È l’insegnamento stesso di Cristo, in altre parole: ” Amate i vostri nemici, diceva Gesù Cristo nel Vangelo (Matt. V, 44), benedite coloro che vi maledicono, fate bene a coloro che vi odiano, pregate per quelli che vi fanno torto e vi perseguitano. „ La carità non può poggiare a maggiore altezza. “Così facendo, prosegue l’Apostolo, tu radunerai carboni accesi sul suo capo. „ Come ciò? Amando chi ti odia, beneficando chi ti perseguita e fa danno, tu lo costringerai a smettere il suo odio, lo forzerai ad amarti, vincendolo a forza di benefici. ” Radunerai, così commenta S. Girolamo, radunerai carboni accesi sul capo di lui, non già a sua maledizione e condanna, come pensano alcuni, ma a sua correzione ed a suo ravvedimento, sinché vinto dai beneficii e conquistato dalla carità, cessi dall’esserti nemico. „ ” Non ti lasciar vincere dal male, è la conclusione di S. Paolo, ma col bene vinci il male. „ Che vuol dire, fa bene a chi ti fa male, e sarà questa la più bella e la più gloriosa delle tue vittorie. – Sono piene le storie ecclesiastiche e le biografie dei Santi di esempi luminosi di tanta carità e non sono rari nemmeno al giorno d’oggi in quelle anime, nelle quali la dottrina di Gesù Cristo non è una semplice professione di fede, ma operosa realtà. Ho conosciuto un negoziante, sorto dal nulla, ottimo marito e padre eccellente di numerosa famiglia: era un cristiano modello. I suoi negozi prosperavano a meraviglia. Se ne rodeva d’invidia un suo vicino, pur esso negoziante: ne parlava male, gettava sospetti sulla sua onestà e spargeva voci sinistre sul suo conto in modo da cagionargli non solo grave dispiacere, ma non lieve danno, scemandogli il credito. Il pio cristiano soffriva e taceva, né mai rifiutava il saluto al suo vicino invidioso e maledico. Gli affari di questo precipitarono: impotente a pagare certe grosse cambiali, il disastro era imminente ed inevitabile. Lo seppe la vittima innocente della sua invidia e della sua maldicenza: senza farne motto a persona corse dai creditori, pagò i debiti dell’emulo suo e suo nemico e lo salvò dalla catastrofe, limitandosi a fargli tenere in bel modo le cambiali soddisfatte. – L’infelice salvato stupì a tanta generosità, pianse, corse dal suo benefattore, gli gettò le braccia al collo, gli chiese perdono e narrò a tutti l’eroica virtù di lui. Ecco, o dilettissimi, un uomo che raduna sul capo del suo nemico carboni accesi e col bene vince il male.

Graduale
Ps CI:16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua [V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]
Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps 96:1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
Allelúja. [Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
Matt VIII:1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre.
Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis. Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

[In quel tempo: Essendo Gesù disceso dal monte, lo seguirono molte turbe: ed ecco un lebbroso che, accostatosi, lo adorava, dicendo: “Signore, se vuoi, puoi mondarmi”. Gesù, stesa la mano, lo toccò, dicendo: “Lo voglio. Sii Mondato”. E tosto la sua lebbra fu guarita. E Gesù gli disse: “Guarda di non dirlo ad alcuno: ma va, mòstrati ai sacerdoti, e offri quanto prescritto da Mosè, onde serva a loro di testimonianza”. Entrato poi in Cafàrnao, andò a trovarlo un centurione, raccomandandosi e dicendo: “Signore, il mio servo giace in casa, paralitico, ed è malamente tormentato”. E Gesù gli rispose: “Verrò, e lo guarirò”. E il centurione disse: “Signore, non son degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ solo una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io, sebbene soggetto ad altri, ho sotto di me dei soldati, e dico a uno: va, ed egli va; e all’altro: vieni, ed egli viene; e al mio servo: fa’ questo, ed egli lo fa”. Gesù, udite queste parole, ne restò ammirato, e a coloro che lo seguivano, disse: “Non ho trovato fede così grande in Israele. Vi dico perciò che molti verranno da Oriente e da Occidente e siederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, ma i figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori: ove sarà pianto e stridore di denti”. Allora Gesù disse al centurione: “Va, e ti sia fatto come hai creduto”. E in quel momento il servo fu guarito.]

OMELIA II

 [Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Volontà di salvarsi

Un povero lebbroso andava in cerca di Gesù Nazzareno, spinto dal desiderio di ricuperare la perduta sanità. Quando opportunamente lo vede discendere dal declive d’un monte, seguitato da numerosa turba, e fattosi a Lui incontro, proteso a terra profondamente L’adora. Indi alzato il capo, le mani e la voce, “Signore, Gli dice, se Voi volete, io son guarito, il potere non manca: basta un atto di vostra volontà; “Domine, si vis, potus me mundare”. In vista di tanta umiliazione, di tanta fede, stende la mano il pietoso Signore, e “tu, gli risponde, mi chiedi se voglio mondarti, e ciò è appunto che voglio. Orsù resta mondo”, “volo mundare”. E così avvenne sull’istante. “Vattene, soggiunse poi, presentati al sacerdote, ed offerisci al Tempio quel che da Dio vien prescritto nella legge di Mose”. Fin qui un tratto dell’odierno Vangelo, in cui due cose naturalmente si presentano alla nostra riflessione; cioè la volontà del lebbroso in cercar la sua guarigione, e in procurarsela con i modi più moventi ed efficaci, e la volontà dei divin Redentore, manifestata con quell’imperioso “volo”, e compiuta coll’istantaneo prodigioso risanamento di quell’infelice. Da ciò dobbiamo apprendere, uditori miei, che per conseguire la nostra eterna salvezza, sono necessarie due volontà: quella di Dio, e la nostra. Quella di Dio è sempre pronta, la nostra sovente manca. Sono questi i due riflessi, che meritano tutta la nostra applicazione. La volontà di Dio è sempre disposta e pronta a salvarci. Dio vuole che tutti si salvino, “vult omnes homines salvos fieri” (ad Tim. II, 4). Di questa sua volontà ci ha Egli dato prove? Infinite! Noi eravamo per l’originale peccato, figli d’ira, vasi di riprovazione, e secondo la frase di S. Agostino, una “massa dannata”. Dio Padre, mosso a pietà di noi, diede il proprio Figlio riparatore dei nostri mali, e vittima dei nostri falli; ed Egli discese dal cielo per liberarci dalle catene del peccato, e dalla schiavitù del demonio. “Propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de cœlis” (Symb. Nic.). Osservate pertanto quel Dio fatto uomo nella capanna di Bettelemme, quelle lacrime che sparge sono sparse per lavarci dalla lebbra immonda delle nostre colpe; quel sangue che versa fin dai primi giorni nella sua circoncisione, è il balsamo per le nostre ferite. – OsservateLo in Gerusalemme nella Galilea, nella Palestina, ove ammaestra i discepoli, istruisce i popoli, catechizza le turbe, e ovunque sparge con la sua predicazione i semi dell’Evangelica sua dottrina, e con gli stupendi prodigi i lampi della divinità, che in Lui si asconde. E tutto ciò a fine di farsi conoscere per nostro liberatore, maestro e guida; onde seguendo le sue pedate, arriviamo per istrada sicura all’esenta salute. OsservateLo finalmente nell’orto dei suoi languori sudante sangue, nel pretorio da ogni parte grondante sangue, sul Calvario dalle piaghe e dal cuor trafitto versante sangue fino all’ultima stilla, e poi dite, di questo suo sangue Gesù Cristo ha formato un bagno salutare per lavarci dalla macchia dell’originale peccato; ed a riparo dell’innocenza perduta ha aperto un altro bagno dello stesso suo sangue nel Sacramento della penitenza, Battesimo secondo, seconda tavola dopo il naufragio. Che vi pare di queste prove? doveva forse far di più per dimostrarci la volontà che ha della nostra salvezza? – Poco forse vi muovono le indicate prove, perché universali, estese a tutto il genere umano? Seguite ad ascoltarmi. Siete voi nel numero degl’innocenti, o de’ penitenti, o dei peccatori? Se siete innocente, ditemi: “chi vi conservò illibata la candida stola della battesimale innocenza?” Chi vi ha liberato dai tanti pericoli del mondo e della carne? È Dio, che vi fece sortire un’anima buona, un’indole inclinata al bene, un’ottima educazione cristiana; è desso che con le sante ispirazioni, con i lumi della sua fede, con gli aiuti della sua grazia regolò i vostri passi, i vostri affetti, le vostre azioni. Desso è che vi ha tenuto lontano da tante occasioni nelle quali avrebbe fatto naufragio la vostra innocenza. Desso è finalmente che, in mezzo ai lacci e agli scandali d’un secolo così pervertito, vi ha difeso come un giglio fra le spine, come Lot fra le abominazioni di Sodoma: dunque Dio vi vuol salvo! Siete penitente? Or bene chi fu il primo a richiamarvi dalla via di perdizione? chi v’ispirò di tornare ai suoi piedi? chi vi diede forza a risolvervi? Chi vi diede grazia di vomitare il veleno dei vostri peccati ai piedi del confessore? Chi medicò le vostre ferite? Gesù, Samaritano pietoso, col vino della sua sapienza, con l’olio della sua misericordia! Egli vi accolse al suo seno come un altro fìgliuol prodigo, vi diede un bacio di pace, e vi rivestì della stola prima, cioè della grazia santificante. Dunque Dio vi vuol salvo! Se poi siete peccatore non ancor ravveduto, ditemi da chi vengono quelle interne voci che vi chiamano a penitenza? Da chi sono eccitati i rimorsi, che v’inquietano nelle vegliate notti, che vi amareggiano nei tediosi giorni, che vi avvelenano gli stessi vostri piaceri, che vi fan toccar con mano che il peccato non può farvi contento? Dalla divina misericordia partono questi colpi, la quale vi vola d’intorno, come provò S. Agostino, e vi assedia, e amaramente vi affligge con tetre apprensioni, con nere malinconie massime in quel tempo che una sventura vi attrista, che una febbre vi crucia, un dolor vi tormenta, una grave infermità vi minaccia di morte vicina. Son questi finissimi tratti della bontà di un Dio che non vi perde di vista, che tutta adopera i mezzi per farvi uscire dal vostro misero stato e vi molesta per consolarvi, e vi ferisce per risanarvi, perché in fine, sazio e mal contento del mondo, del peccato e di voi stesso, cerchiate in Lui la pace che non avete, la felicità che aver non potete, se non in Lui. Dunque Dio vi vuol salvo! A finirla, siete una pecorella innocente? È Gesù buon pastore, che vi custodì nel suo gregge. Siete pecorella ritornata dai vostri traviamenti? È Gesù buon pastore che sugli omeri suoi vi riportò all’ovile. Siete pecora ancora errante? È Gesù buon pastore, che vi tien dietro, e vi chiama a sé, perché non andiate in bocca al lupo infernale. Dunque, ripetiamolo ancor una volta: Dio vi vuol salvo!

II. “S’è così, ripigliate voi, noi abbiamo in pugno la nostra salvezza. Dio ci vuol salvi, noi vogliamo salvarci, e chi è quello stolto che non voglia salvarsi? … dunque la nostra salvezza sarà sicura”. Sicura sarà se avrete una volontà decisa, efficace, operante. Una volontà astratta, superificiale, oziosa non vi salverà. Siccome vi sono delle monete legittime, e delle false, così v’è una volontà vera, ed una fallace. Come faremo a distinguerle facilmente? L’oro si conosce alla prova del fuoco, la volontà si distingue alla prova del fatto. Perché Iddio ha una vera volontà di salvarci, abbiamo veduto poc’anzi quanto abbia fatto, e quanto fa continuamente per noi. Veniamo dunque all’opere, se ci preme la nostra salute. Voi pertanto, anime innocenti, allontanatevi dai pericoli del tristo mondo, adempite i doveri del vostro stato, frequentate le Chiese e i Sacramenti, regolatevi con le massime della fede, fortificatevi colle incessanti preghiere, perseverate nel bene e vi salverete! Voi penitenti cristiani, piangete i vostri trascorsi, ed il vostro pianto vi accompagni fino all’ultimo dei vostri respiri, fuggite le occasioni pericolose, soddisfate la divina giustizia con le opere di penitenza, mortificate i vostri sensi, raffrenate le vostre passioni, la mutazione del vostro cuore si manifesti col cambiamento dei vostri costumi, perseverate nell’intrapresa via di penitenza, e vi salverete. Voi peccatori, fratelli miei cari, ancor macchiati da colpa, ancor coperti di lebbra, imitate il lebbroso del presente Vangelo, gettatevi ai piedi di Gesù, portatevi ai pie del sacerdote, tuffatevi nel bagno formato dal sangue dell’immacolato Agnello di Dio nella sacramental confessione, e sarete guariti, e Dio vi salverà. Non vi sentite acconci di farlo? Dunque non volete salvarvi! Costantino imperatore, carico di schifosa lebbra, consultò per liberarsene i più valenti medici del suo impero, ed essi gli consigliarono un bagno di sangue di fanciulli lattanti, in cui dovesse immèrgersi, e ricuperare la pristina salute. Questo crudel consiglio, questo crudelissimo bagno, non ebbe effetto; poiché gli apparì S. Pietro, gli propose un bagno migliore nel santo Battesimo, ove acquistò la salute dell’anima e del corpo. Fingete però che si fosse eseguito, immaginatelo presente. Che orrore! Chi può soffrir la vista di quel sangue innocente, caldo, fumante? “Spogliati barbaro imperatore”. Che mi spogli? l’aria fredda, la stagione cruda, non mi sento per ora, più tosto … ah disumano, ah mostro di crudeltà! dunque per così poco tu rendi inutile il dolor di tante madri, il sangue di tanti bambini? Deh cessiamo dalle invettive in un supposto accidente, rivolgiamole contro di noi in un fatto vero. Gesù Cristo ha dato tutto il suo sangue, ne ha formato un mistico bagno nel Sacramento di penitenza per darci vita e salute, e noi per non spogliarci di un abito cattivo, per risparmiare un incomodo, rifiutiamo un tanto e così necessario rimedio? Dunque non vogliamo salvarci! – Se il Signore ci comandasse aspre, difficili cose pure per la salute eterna converrebbe eseguirle. Quanto si soffre per la salute del corpo? Rigorose diete, amare bevande, tagli di membra, dolori di spasimo; e per l’anima si ricusa un rimedio così consolante, qual è chiedere a Dio perdono col cuor contrito, e scoprire le proprie piaghe a chi tiene il suo luogo? “Se il Profeta Eliseo (dissero i cortigiani al loro principe Naaman Siro), se Eliseo per guarirvi dalla lebbra v’avesse ordinato una cura lunga, ardua, penosa, dovreste intraprenderla; ma una cosa sì agevole, qual è il lavarsi nel fiume Giordano, perché non praticarla?” Si arrese il principe al saggio consiglio, e doppiamente fu risanato, nel corpo cioè e nello spirito. Un esito egualmente felice dobbiamo sperare dal Sacramento della penitenza. Più dell’acque del Giordano è salubre il sangue dei Redentore. – Lavati così nei fonti del Salvatore, ecco quel che far ci resta, fedeli amatissimi, apprendetelo dalla bocca di Gesù Cristo. Un certo giovane Gli domandò che far doveva per conseguire la vita eterna, “si vis, gli rispose, ad vitam ingredi, serva mandata” (Matth. XIX, 17). Ponderate bene queste divine parole : “si vis”, se tu vuoi entrare nell’eterna vita, osserva i comandamenti; se tu vuoi, e veramente vuoi, tu mi darai prove del tuo volere con l’osservanza dei divini precetti. – Altrettanto ripete a ciascun di noi. Volete salvarvi? ecco la necessaria condizione, osservate la legge di Dio! Ma se invece bestemmiate il suo santo Nome, se non santificate le feste, se per santificarle vi contentate d’una Messa sentita in piedi, con gli occhi in giro, con la mente altrove, se usurpate la roba d’altri, se non restituite, se odiate il prossimo, se gli togliete la fama, se non lasciate il giuoco, il ridotto, la scandalosa amicizia, non state a dire che volete salvarvi, perché direste bugia, perché smentite col fatto quel che pronunziate con la lingua. La strada non passa. Quel Dio, dice S, Agostino, che ha creato voi senza di voi, non vuol salvare voi senza di voi. “Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te”. Iddio per crearvi non ha avuto bisogno di voi, vi ha tratto dal nulla, con un sol atto di sua volontà; ma per salvarvi, e assolutaménte vuole, che alla sua volontà sia unita la vostra, con eseguire in tutto la sua santissima volontà. Non vi sentite, non volete farlo? Dunque non volete salvarvi, non vi salverete! – Concludiamo, e mi sia permesso servirmi d’un detto tratto dalla storia non sacra. Nei passati secoli, e nella nostra Europa eravi forte guerra tra due possenti monarchi; e com’è costume di tutti i tempi, tra i novellisti e geniali si teneva diverso partito, e la futura vittoria chi la voleva per l’uno, chi per l’altro sovrano. Interrogato su di ciò un principe neutrale, qual di quei due credeva sarebbe il vincitore, rispose: “vincerà quegli a cui presterò la mia spada”. Cristiani amatissimi, tra Dio e il demonio, a nostro modo d’intendere, passa una forte guerra contro dell’anima nostra. Iddio la vuole per sé, e come abbiam veduto, ne ha dato i più evidenti contrassegni, il demonio la vuol sua, e fa tutti i suoi sforzi. Chi la vincerà? senza alcun dubbio colui la vincerà, al quale presteremo la nostra spada, a cui uniremo la nostra volontà. – Se unita la volontà nostra è con quella del demonio, volendo persistere nel peccato, noi siam perduti. Sarà unita a quella di Dio con la fedele osservanza della sua santa legge? Noi sarem salvi!

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXVII:16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.
[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta
Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio
Luc 4:22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.
[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio
Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.
[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (6)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(6)

  1. La rettitudine d’intenzione

Per costruire l’edificio della perfezione le considerazioni grandi debbono adattarsi anche a quelle piccole. E vi porto sul terreno assolutamente pratico per continuare l’argomento di come si faccia a vivere di fede. Perché il vivere di fede è certamente il fondamento della nostra perfezione. –  Vorrei insieme, obbiettivando, cominciare a dare delle indicazioni precise e completamente definite, di concretezza pratica; e per raggiungere l’uno e l’altro scopo vi parlo oggi della rettitudine di intenzione. Perché è impossibile che si cammini nella perfezione se la nostra intenzione non è retta. Se noi trascurassimo questo punto, come fanno molti, noi metteremmo l’una sull’altra delle pietre anche preziose, ma a tutte queste pietre mancherebbe un fondamento. Chi veramente e decisamente vuole volgersi verso il suo Signore e Padre deve stare attento a sistemare la propria intenzione. Innanzi tutto parliamo della intenzione e poi della rettitudine intenzionale, perché se non abbiamo l’idea chiara di che cosa sia l’intenzione e di quale funzione essa sia rivestita e del beneficio che essa dà, noi batteremmo l’aria. – Che cosa è l’intenzione? L’intenzione è un atto composito dell’anima per cui l’anima vede con la sua intelligenza uno scopo e vuole, ecco la facoltà motiva, vuole che sia raggiunto quello scopo. L’intenzione è l’atto col quale ordina, infila verso una direzione il proprio atto. Questo infilare verso una direzione è atto composito, perché risulta e della visione dello scopo e dell’atto motivo verso quello scopo. C’entra insieme l’intelligenza e la volontà. Questa è l’intenzione, e credo di non dover spiegare oltre perché la cosa è chiara, e talvolta per spiegarle, le cose chiare si fanno diventare oscure. Ma il bello viene ora, perché quello che soprattutto si deve guardare è che l’intenzione ci sia. Che vuol dire? Avere una finalità in ciò che si fa. Se noi osserviamo bene i vuoti maggiori che si creano nella vita spirituale, il che è dannosissimo alla perfezione, dipendono dal fatto che manca assolutamente l’intenzione. Si fa, ma sfugge all’intelletto il perché si fa; si fa, ma non si vuole nulla. Si fa, perché? Se uno mi misura un pugno, io, prima di volere qualunque cosa, alzo la mano e paro. Molto prima: si fa e basta. Vedete come si delinea quel caratteristico tipo di vivere che è di moltissimi, cristiani e non cristiani: non pensare affatto che un’azione possa avere un ordine, che possa servire a uno scopo e debba essere indirizzata a uno scopo. Se io chiedo a uno: perché stai seduto? Mah, sto seduto perché mi sono seduto. Chiedo a un altro: perché canti? Perché canto? Mah! Andiamo un po’ a vedere: forse perché sono un po’ allegro, ma di preciso non lo so; canto perché canto. È proprio questo l’impoverimento dell’azione, manca della sua luce che la eleva, la illumina, la mette su una strada, non la lascia come rifiuto al margine della strada. Il discorso serio a proposito di intenzione è questo. Ci sono troppe rarefazioni di intenzione nella nostra vita. Perché? Cerchiamo di dare una risposta pratica, concreta a questa domanda. Probabilmente la prima ragione per cui c’è una rarefazione di intenzioni nella nostra vita è una disistima, nel subcosciente, delle proprie azioni o di parte delle proprie azioni. Disistima. Che io stia in piedi o stia seduto, è niente. No, non è niente, è qualche cosa. Che io mangi, che io beva, è niente: mangiare è un’azione banale. No, non è niente, è qualche cosa. Che cos’è mangiare, bere, dormire? Sono tutte cose della vita vegetativa, animalesca. Sì, ma non sono del tutto animalesche, perché l’anima c’entra un pochino anche quella, tanto più che, se non entra per niente, scappa. Ma non sono niente, sono qualche cosa di più che niente, tante azioni che sono il legamento tra uno stato e l’altro, tra un’azione e l’altra; ma se sfuggono, piombano nel pozzo di questa disistima. Che io mi sia mosso per arrivare fin qui, è niente. No, non è niente; è qualche cosa, perché io non sono niente, poco sì, ma niente no. La disistima. Questa disistima ha bisogno di essere corretta con una dottrina precisa sulla inesistenza degli atti indifferenti. Quando si compie un atto umano, e atto umano è quello in cui la mente vede e capisce e la volontà vuole, cioè quando non si è in stato d’ebrietà, d’anestesia o di forte sofferenza o di sonno, l’atto umano non è mai indifferente; è buono o cattivo, cioè quando non è cattivo è positivamente buono. Perché qualunque atto nell’uomo ha sempre un ordinamento, e comunque basta il fatto che c’entri l’avvertenza dell’intelletto, che si muova questa luce suprema che viene accesa da Dio e ci sia l’intervento della volontà, e questo lo rende ricchissimo di qualche cosa, anche se esternamente può sembrare perfettamente indifferente e perfettamente inutile. Non esistono atti umani che siano indifferenti. I moralisti in qualche momento si sono accapigliati fortemente su questa questione, perché qualcuno aveva voluto sostenere che l’atto può essere indifferente, ma la sentenza comune è stata che l’atto non è mai indifferente. È questo che bisogna mettere in chiaro; e voi siete in grado di misurare che importanza abbia tale dottrina per la nostra vita. – Non parlo della attenzione perché di questa ne parlerò dopo. Bisogna pure stimare la perfezione dei singoli atti, ma la base dei singoli atti sta sempre nella intenzione. Questo è il primo motivo per cui c’è la dissuetudine, dissuetudine contro la quale bisogna lottare vigorosissimamente se si vuole andare verso la perfezione. Perché effettivamente se noi lasciamo cadere l’intenzione, possiamo lasciar cadere nel nulla la maggior parte delle azioni della nostra vita. E queste azioni che cadono nella dissuetudine rappresentano il più della nostra giornata. Poiché la nostra giornata non è fatta di una firma di Versailles o di un trattato di Cambrai. La vita è fatta di tante cose piccine, miserelle, comuni, domestiche, persino ridicole. Siamo dei poveretti; di cose illustri ne facciamo poche; quando ci pare di fare delle cose illustri, se dicessimo di fare delle cose illustri faremmo ridere. Ma quello che forse non vale niente per il mondo, e nemmeno per noi, spesso vale per Iddio. Ora l’effetto della dissuetudine dell’intenzione è questo: lasciar cadere nel nulla una parte della nostra vita. E questo è esattamente il contrario della perfezione, che è l’impiego massimo di tutto nella volontà di Dio. È vero che non sarà sempre così, perché qualche volta, e molte volte, l’intenzione si può salvare, anche se non è attuale, attraverso l’intenzione abituale, cioè quella tale intenzione implicita e virtuale; e molte volte queste intenzioni qualche cosa muovono e qualche cosa comunicano alle azioni che vengono in un modo o nell’altro vivificate. Però è troppo poco, se uno al mattino fa l’atto di indirizzo giusto nelle proprie azioni e dice: tutto quello che oggi farò, di qualunque natura sia, di qualunque ordine e grado, intendo farlo per la gloria di Dio, direttamente o indirettamente. Certo, questa intenzione riflette già una luce su tutti gli atti della giornata. Ma io mi chiedo: quanti fanno questo? E mi chiedo alle volte: che razza di colpa abbiamo noi, e molti nostri confratelli, se queste cose non le insegniamo al popolo? E così, per quel che può dipendere da noi, molte cose cadono nell’inutilità. È consolante pensare che a molti fedeli, ai quali noi non facciamo da parroco, fa da parroco Dio. Se non ci fosse questo, ci sarebbe veramente d’aver freddo a riflettere su queste carenze di cui noi siamo, molte volte, i responsabili. – L’altra ragione per cui manca la intenzione è simile alla prima, ed è probabilmente l’influsso della poca stima che gli altri, e tra gli altri ci siamo anche noi, hanno e abbiamo delle cose che non sono illustri. E allora questa poca stima si riverbera su di noi e ci aiuta a mettere da parte tutto ciò che non è illustre. Io osservo che quando chiedo a certa gente: Ne fate di opere buone?, stanno un po’ a guardare, fanno un po’ d’esame e poi dicono: Beh, qualche elemosina l’ho fatta. Oh, poverini, se voi credete che le opere buone siano soltanto fare l’elemosina, siete nel falso! Opera buona è anche nel bicchiere di acqua che bevete. La gente non ci fa caso: chi fa caso alla cosiddetta povera gente che con gli stracci luridi cammina per le strade? Chi fa caso a tutte quelle povere donne che in fondo a una casa, e non sempre in una casa molto agiata, lavorano tutto il giorno, da mane a sera, non escono quasi più, sono lì, fanno da mangiare, lavano, stirano, rammendano, fanno i conti, pensano e ripensano come far quadrare i bilanci? Gli altri se ne vanno, poi tornano a casa; i sorrisi li hanno esauriti e portano soltanto i musi. E ci sono tante altre cose — forse il primo pensiero, nei nostri ricordi, cammina a quel che faceva nostra madre — ci sono tante altre cose che sono sullo stesso piano e che il mondo ignora perfettamente. Adesso fra i tanti premi che si danno, meno male che si sono messi a dare un po’ di premi della bontà! Non dico che indovinino sempre, ma almeno quella è una cosa che non farà ridere, perché forse si ha da ammettere che degna di stima, per il riverito pubblico, è un’azione alla quale prima non pensava nessuno. Ma non hanno mai fatto il monumento alla povera donna che lava i panni, non l’hanno mai fatto il monumento al povero spazzino! Eppure l’ordine degli spazzini non è forse benemerito in una città? Il mondo non tiene conto di quasi niente. Ed è appunto perché non tiene conto di quasi niente che noi finiamo, per riverbero di quella disistima, col non tener conto quasi niente di quello che ci riguarda e gettiamo via tutto. Non c’è nulla da gettar via, quasi nulla. Nell’ordine spirituale bisogna avere un criterio economico molto di più che non in quello materiale. Non che nell’ordine materiale non ci stia bene l’economia, perché quando c’è, l’economia mette a posto cinque o sei virtù di quelle abbastanza importanti che sono piantate lì con dei chiodi che non li scardina nessuno. – Ma io parlo dell’economia nell’ordine spirituale; e perché dobbiamo essere prodighi proprio in questo e lasciare che molte cose se ne vadano così, senza sugo, senza gusto e senza risultato né per noi né per gli altri? Mi pare che il discorso sull’ intenzione sia finito e sia abbastanza importante per il nostro progresso spirituale e per la nostra perfezione cominciare a riqualificare tutto quello che lasciavamo cadere nella spazzatura. È tutto buono, tutto oro colato. Ora nel nostro studio diciamo così: La intenzione è quella che dà la rivalutazione di gran parte della nostra vita. Noi dobbiamo fare in modo di spingerci a mettere l’intenzione, e poi a camminare, da quella abituale emessa una volta e poi non ritrattata ma che non influisce più sull’azione a quella virtuale non ritrattata ma che influisce ancora sull’azione anche a una certa distanza; e poi, per certa colleganza di successione, alla intenzione attuale, che è la migliore di tutte, ed è proprio quella che dà il lancio all’azione, che la mette in moto: è quella che vale di più. E vediamo subito venir fuori questo grande proposito; anzi vi dico una cosa: se anche da tutti gli Esercizi non doveste cavar fuori altro che questo proposito, sarei contento. Se questi Esercizi vi portassero alla riqualificazione di gran parte della vostra vita, ci sarebbe da essere contenti. Non fate molti propositi, vi prego di farne uno solo, e potrebbe essere questo. Ricordatevi di tutto, perché volta a volta vi verrà bene. Ma fra i propositi a cui potreste legarvi a catena, limitatevi a uno o due. Perché se ne fate tre, c’è pericolo che nessuno tenga. A ogni modo questo che ho detto ora potrebbe essere il vero, profondo, rivoluzionario proposito degli Esercizi: mettere in moto la macchina dell’intezione e farla camminare, farla diventare a poco a poco da abituale a virtuale il più possibile, e da virtuale farla diventare il più possibile attuale. Perché voi capite che mettere l’intenzione nella propria vita significa stabilire la presenza spirituale nostra nella nostra vita. Quando uno mette in moto l’intenzione è sempre presente alla propria vita, ossia non vivrà con la testa nel sacco; non solo, ma oltre a stabilire la nostra presenza, con tutte le indovinabili conseguenze, s’introduce nella propria esistenza il principio dell’ordine, del metodo, ossia la vita diventa metodica, e siccome il modo migliore per poter far funzionare la macchina dell’intenzione sono i programmi, si finisce col fare una vita programmata, il che porta da solo a tre quarti della santità. Il più grande ausilio meccanico, quindi concreto, non etereo, assolutamente pratico per poter mettere continuamente in moto la macchina della intenzione è la programmazione. Vivere di programmi. Se io prendo l’abitudine di fare la sera il programma dettagliatissimo del giorno dopo, voi capite che questo programma sì che me la fa tirar fuori l’intenzione, perché per starci dietro bisogna che io per forza abbia l’intenzione continuamente presente a me stesso, altrimenti il programma mi rimane nella testa e non faccio niente. Se ho un’ora libera e dico: io in quest’ora voglio fare questo, questo io delibero, e deliberando faccio un atto di volontà, con l’intelletto pongo la intenzione. Verrà facile allora, quasi connaturato, diverrà abitudine mettere un fine alle mie azioni. Io tocco il vertice della mia possibilità se tengo lo sguardo al fine. Vedete, a questo mondo si può uscire, andare a passeggio. Dove vai? Non lo so. Cosa fai? Sto su due gambe, un po’ sull’una e un po’ sull’altra. Oppure posso avere un’intenzione, che è quella di scacciare ogni altra intenzione, fare una passeggiata che mi servirà a scacciar via dei pesi; è un’intenzione, ci vuole anche quella, talvolta una passeggiata è sacrosanta. – Il programma. Io posso andare a passeggio. Vado a passeggio e voglio arrivare fino a S. Francesco. Osserverò tutti i portali della Basilica. Cosa serve guardare i portali? Beh, diventerò un po’ meno ignorante. Lo scopo è questo; e quando sarò meno ignorante, avrò uno strumento di più per sentire Dio. Tutto serve, tutto è legna che può alimentare il calore del nostro braciere. Vedete come è importante programmare le opere e la vita dei singoli uomini. Perché ci sono dei programmi perenni, ce ne sono di cinque anni, così ce ne sono di un anno, di un mese, di una settimana, di una giornata, di un’ora. Avere il bernoccolo del programma: ne salta fuori una vita ordinata, una vita che non solo riqualifica quello che ricadrebbe nella pattumiera, ma sforza ad agire enormemente più di quello che si agisce. E a questo modo si fanno tante cose. – Alle volte certa gente dice ad altri: come fate voi a fare tante cose? Come si fa? Si fa una cosa dopo l’altra, si è programmatici. Quando si è programmatici, non si sta su una gamba o sull’altra, perché anche se ci si concede dieci minuti di ricreazione, quando scoccano i dieci minuti si pianta lì e si va. Quando si programma, allora gli orologi servono a qualche cosa, e sono terribili padroni gli orologi; ma è molto meglio avere per padroni degli orologi che degli altri. Questo è il discorso sull’intenzione. – Ora bisogna cominciare a parlare di quale intenzione. Quale sarà il fine dell’acqua nel nostro corpo? Sarà di idratarci, ossia di completare quell’equilibrio idrico che è necessario per il nostro equilibrio fisiologico. Nei libri di Morale si fa una distinzione tra il finis operis e il finis operantis. Il finis operis consiste nella finalità immanente per natura sua nell’azione che si compie. Questo è il finis operis, è il fine immanente. Ma ora direte: il fine immanente, se c’è, è nell’opera stessa. D’accordo. Ma il fine che è immanente ha valore in quanto lo percepiamo noi. Perché se io perdo la nozione del finis operis, agisco macchinalmente, il che non è affatto un agire da uomo, è un agire da macchina, è un agire da bestie. È logico che non si potrà evitare del tutto l’agire macchinalmente; ma noi dobbiamo cercare di spostare l’agire macchinalmente al margine più stretto e più piccolo, vivendo invece coscientemente. Il finis operis c’è, ma ha valore in quanto noi ne prendiamo coscienza. – E allora dove sta il valore morale del finis operis? Sta in due cose. Primo, che il finis operis deve essere valevole dal punto di vista morale; secondo, che obbliga noi a vivere riflessivamente, e ritorniamo al primo punto della intenzione generica. Voi capite che è difficile pensare a una perfezione della nostra vita se noi non viviamo riflessivamente, badando a quello che facciamo; è l’adagio che i latini avevano condensato nel celebre motto « age quod agis »; fa’ quello che fai, ossia fa’ con presenza cosciente quello che fai. Non agire macchinalmente, agisci coscientemente, rendendoti conto di quello che stai compiendo. Io vorrei che non perdeste di vista che il finis operis ha questa importanza, d’essere il primo cardine della nostra sincerità. Perché siccome il finis operis è immanente, potrebbe essere trattato così: gli si sovrappone un altro fine che è completamente divergente dal primo, uno scopo in contrasto cioè con lo scopo scelto. E allora la linearità, il rispetto del finis operis diventa sempre un grande esercizio per la sincerità del nostro atto e per la rettitudine delle nostre intenzioni. Non deve mai essere avariato a danno dell’altrui perfezione, perché il finis operis deve rispettare le cose come sono. Adesso viene l’altro, il finis operantis. Il finis operantis è quello scopo che noi, senza diventare innaturali e falsi, aggiungiamo e sovrapponiamo al finis operis in modo che quel finis operis può essere immediato e piccolo, mentre il finis operantis può essere di molto più lunga e grande gettata. Io posso dare a un poveretto che passa un bicchiere d’acqua perché si idrati, se non proprio per levarsi la sete, ma glielo posso dare per amor di Dio. E voi capite bene che tra l’idratarsi e l’amor di Dio c’è di mezzo un mare, e con una simile intenzione, cioè col finis operantis, varco questo mare che separa l’azione umana da una azione soprannaturale, e il bicchiere d’acqua mi diventa quel qualche cosa di cui ha parlato anche N. S. – Gesù Cristo nel Vangelo, facendo la casistica del bicchiere d’acqua e dicendo come verrà premiato un solo bicchiere d’acqua dato sulla terra per amor suo. Ecco il finis operantis: non me ne devia la naturalezza; non comporta un elemento di doppiezza, e pertanto non sovrappone una falsità, ma sovrappone una più lunga gettata. Allora sarà questione di vedere quale debba essere abitualmente il finis operantis. Il finis operantis può essere il fine ultimo e il fine mediato. – Il finis operantis, che è bene mantenere sempre, sia con l’intenzione abituale, sia con quella virtuale più progredita, sia con quella attuale più progredita di tutte, è sempre quello di fare per l’ultimo fine, per amore di Dio. Ed è per questo che quando si formano le intenzioni di carattere generale è sempre bene enunciarle così: faccio tutto per l’amore di Dio. Almeno si saltano le intermedie, si arriva all’ultimo e la gettata è massima, il frutto è al massimo; s’impiegano col massimo interesse i nostri piccoli capitali con questa intenzione, con questo finis operantis. – Ma ci possono essere delle finalità mediate che hanno la loro moralità nel fatto di essere allineate al fine ultimo; cioè se non sono contrarie al fine ultimo, possono essere allineate al fine ultimo. Io posso dare un bicchiere d’acqua al povero non solo perché si idrati, non solo per amor di Dio, posso darlo anche perché gli altri vedano e siano mossi ad aiutarlo. Certo, se io lo faccio perché gli altri me ne diano gloria, allora è bell’e finita! Guasto il finis operis e il finis operantis; guasto tutto, se ci infilo un pensiero di questo genere. Ma se io do un bicchiere d’acqua anche perché dando io forse qualche altro imparerà a dare un bicchiere d’acqua alla gente che ha sete, il fine è mediato, non ultimo, ma è allineato al fine ultimo e pertanto ci può stare. La tecnica dei fini mediati non è da rimproverarsi, anzi è da consigliarsi, perché i fini mediati hanno il vantaggio d’attaccarsi, di prendere degli appigli che ci sono offerti, degli appigli che si trovano nella vita, cioè mettono a frutto elementi che potrebbero sfuggire, cose che si trovano fuori di noi. La rettitudine non è una cosa impostata per aria. Esiste quando ci sono tutte le condizioni che io vi ho enumerate. Ma se le condizioni che io ho enumerate non esistessero, sono obbligato d’avvertirvi: badate che la rettitudine non resiste. La rettitudine avete visto che cosa fa? In sostanza è quella che valorizza tutte le nostre azioni, perché nelle azioni rende presente il fine. Il fine ultimo « in executione » è primo « in intentione ». Il fine è quella bontà intrinseca della fede, la sorgente del suo valore morale, e pertanto, con la grazia di Dio, sorgente del suo merito eterno. Il fine è sempre la cosa più splendida di ogni esperienza. Il fine sovrasta tutto. – Mettiamoci a meditare, e nessuno pensi di arrivare alla perfezione cristiana se non ha la rettitudine sempre, dovunque, in tutte le circostanze della sua terrena esistenza.

 

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (5)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(5)

7. – L’Incarnazione del Verbo

Per poter arrivare alla perfezione bisogna vivere la propria fede. Vorrei richiamare qui un principio di carattere generale. Vivere profondamente la propria fede non significa soltanto pensarci sempre, il che è molto, significa, oltre che pensarci, uniformare noi stessi alla nostra fede; e neppure questo è ancora sufficiente; significa entrare noi, con tutta la nostra vita, nell’oggetto della nostra fede, compiere quello che Paolo chiamerebbe l’assimilazione nostra a Gesù Cristo; diventare quelli che compiono quanto manca alla passione di Gesù Cristo. Essere elementi che riproducono in sé  Gesù Cristo. – Il termine può sembrare abbastanza misterioso, ma deve divenire a poco a poco chiaro. In altri termini non dobbiamo considerare la fede come un motore elettrico che ci viene applicato e ci spinge, o ci succhia, o fa la barba, o qualche cosa del genere. Non è un motore « ab extrinseco ». Questo è il punto. Ma deve diventare, assimilato a noi, un motore ab intrinseco, il principio costitutivo del nostro essere. Se insomma questo ordine soprannaturale che la fede ci presenta non entra dentro di noi, noi non arriviamo alla perfezione. – E pertanto bisogna che da oggi questo grande principio entri in noi. Perché in realtà tutta la nostra perfezione, e cioè l’assimilazione nostra alla volontà divina, richiederà un’assimilazione della nostra intelligenza all’intelligenza divina, un’assimilazione della nostra vita alla vita divina. È necessario che tutto questo grande fatto dell’Incarnazione, accaduto nella storia e che vogliamo meditare, entri dentro di noi. Questo principio deve dominare tutte le meditazioni che noi faremo fino alla fine degli Esercizi. Ed è naturale che io debba richiamarmi a questo principio e che continuamente lo supponga anche se esplicitamente non lo dichiaro. – Meditiamo sulla Incarnazione del Verbo. E la Incarnazione non ha più oramai che un motivo solo, quello di essere un altro motivo, il più grande motivo della nostra perfezione. Perché questo è il più grande motivo: l’Incarnazione del Verbo. Ma mentre dipanerà un motivo, e il più grande dei perché noi dobbiamo essere perfetti, ci aiuterà già a vivere secondo la perfezione. – Voi sapete che cosa è stata l’Incarnazione del Verbo: il Verbo di Dio, eterno come il Padre, consustanziale al Padre, ha assunto una umana natura completa e creata, anima e corpo. L’ha assunta, il che significa che il rapporto tra sé, eterno Verbo, seconda Persona della SS. Trinità, e questa umana natura creata, umana natura individua, è lo stesso rapporto che c’è tra la nostra natura e la nostra persona. Il rapporto tra la nostra natura e la nostra persona, ossia il soggetto Io, è misteriosissimo per noi; lo constatiamo, lo viviamo, lo tocchiamo, ma è misteriosissimo. Perché anche noi uomini, per quanto piccoli, portiamo dentro di noi grandi misteri. Uno è questo. L’altro è l’unione sostanziale, che tocchiamo con mano ma non spieghiamo, tra l’anima e il corpo. Noi ne siamo certi per evidenza, ma dentro non ci sappiamo entrare. Non c’è bisogno di arrivare all’ordine divino per trovare dei misteri, li troviamo in noi; e li troviamo in noi perché, non fosse altro, ci preparano a capire la logica dei misteri. – Dunque v’è stata l’Incarnazione del Verbo. S’è determinato un rapporto fra l’eterna Persona e questa individua natura, esattamente come il rapporto tra la nostra persona, il soggetto che sostiene la nostra natura e la nostra natura stessa. Naturalmente c’è una causalità tra persona e natura; ma questa causalità, che in noi è in un determinato modo, perché la nostra persona, il nostro soggetto può essere mutevole, è limitato, diviene, cambia, in Dio invece questo non può accadere. La causalità in Dio rispetto alla creatura è sempre una causalità perfetta, ed è l’unica e vera perfetta causalità, ma di un ordine completamente diverso. Ed è per questo che mentre la nostra persona subisce la nostra natura, Dio non la subisce, non ne è per nulla toccato; è per questo che, pur essendosi incarnato, il Verbo non ha affatto mutato. Nei rapporti tra Dio e la creatura le mutazioni stanno sempre dalla parte della creatura, mai dalla parte di Dio. La realtà è perfetta, ma tutto quello che essa richiedesse di mutazione, si troverebbe soltanto da parte della creatura e non di Dio. – L’Incarnazione: Il Verbo si fece Carne, fu Uomo e abitò fra noi. E dice S. Giovanni: « Noi lo abbiamo veduto pieno di grazia e di verità ». Come è avvenuta l’Incarnazione? È avvenuta perché la Vergine Madre di Dio, la Vergine Maria, divinamente dotata e divinamente abilitata, rimanendo Vergine, e pertanto da sola, ha fornito il corpo al Verbo. E nel momento stesso in cui essa forniva il corpo, Dio creava l’anima che lo avrebbe informato; nello stesso momento in cui essa forniva il corpo e Dio creava l’anima, il Verbo assumeva questa umana natura individua ed era uomo. Dunque tutto è avvenuto attraverso la Vergine Madre di Dio, perché in Gesù Cristo la natura umana non sarebbe stata assunta se non gli fosse stata data, e per esserci era necessario il corpo, e il corpo occorreva per l’umana generazione. – Osservate bene: la funzione della Vergine Maria è stata questa: Ella ha dato il corpo a Gesù. Con questo, Gesù Cristo è stato inserito non solo nella specie umana ma nella famiglia umana. Perché noi avessimo sempre la specie umana, basterebbe ci fossero i caratteri fisiologici che la contraddistinguono; si potrebbe però non essere della famiglia umana, avere avuto cioè un altro progenitore: perfettamente simile, anzi così da essere per quella somiglianza identici, ma non essere tagliati dalla stessa pietra, dallo stesso tronco, non figli dello stesso albero. Badate bene che l’aver dato la Vergine Maria il corpo al Verbo, ha reso Gesù non solo individuo della specie umana, il che è una cosa, ma l’ha reso membro della nostra famiglia umana, il che è ben altra cosa. Perché per essere diventato così, a quel modo, per umana generazione, membro della famiglia umana, il Verbo s’è messo fisicamente in contatto con tutti i membri della specie umana, venuti al mondo per naturale generazione, per naturale derivazione, della stessa carne, dello stesso sangue che viene da Adamo; tutti i membri della famiglia umana, essendo stato il Verbo per mezzo della Vergine Maria inserito nella famiglia umana, sono fisicamente congiunti con Gesù Cristo. E qui sta la differenza tra essere semplicemente membri della specie umana e essere membri della famiglia urnana, come è stato per il Verbo. Dunque c’è questo fatto, che la Incarnazione del Verbo congloba tutta la famiglia umana, perché stabilisce il contatto, il rapporto, la colleganza di carne e di sangue con tutti gli uomini. Questo fatto non entra nella storia alla chetichella, come se si scansasse per non incontrare nulla; questo fatto entra nella storia e prende tutto. Perché tutti gli uomini, bianchi e neri, gialli e rossi, tutti ugualmente sono congiunti con Gesù Cristo. Per questo fatto, la vita che germinerà sulla loro realtà ontologica, germinerà, battezzati e non battezzati, qualche cosa che appartiene a Gesù Cristo. Tutto il genere umano viene ad essere attratto, agitato da questo fatto. Gesù Cristo non entra dunque nel mondo come simbolo; entra nel mondo con ragione ontologica, come fatto del mondo. L’Incarnazione è un fatto del mondo. Ed è per questo che nulla si sottrarrà a tale fatto. Vi prego di continuare a osservare. È perché Gesù Cristo è diventato membro della famiglia umana che l’ha potuta rappresentare. È questa colleganza che innerva la rappresentanza. Ma è questa rappresentanza che rende possibile la sostituzione vicaria, cioè l’essersi messo Gesù Cristo al nostro posto. Pertanto Lui da solo ha pagato, patendo per tutti noi. Ed è soltanto questa sostituzione, la sostituzione vicaria, che ha reso possibile il ricupero, la redenzione. La redenzione è dunque un fatto del mondo. Se noi non fossimo nati da nostro padre e da nostra madre e quindi da Adamo, e pertanto se in Adamo non fossimo congiunti con Gesù Cristo, ma fossimo caduti qui da qualche stella, noi non avremmo da fare niente con Gesù Cristo. Avremmo a che fare col Verbo Eterno, perché ci ha creati, ma noi non saremmo congiunti con Gesù Cristo. Badate bene, è la storia umana che si congiunge con Gesù Cristo. Perché tutta la storia umana è stata unita con Gesù Cristo. Provatevi a guardare intorno se vedete qualche cosa che non sia congiunto con Gesù Cristo. – Voi nella vostra spiritualità vivete essenzialmente il fatto cristologico. Eccovelo il fatto cristologico. Provatevi a guardare intorno, e vedete se c’è qualche cosa che rimanga estranea a Nostro Signore Gesù Cristo, anche se gli uomini non ci pensano. – Diceva il poeta latino: « mens agitat molem »; ma qui è vero: mens agitat molem, e la mens è Gesù Cristo. Eccovi l’Incarnazione del Verbo, e eccovi che sorta di colleganza, eccovi come tutto, attraverso questa Incarnazione, è stato assunto dal Verbo, tutto. Non c’è niente che non sia stato assunto, non solo per titolo della creazione in quanto Dio, ma per titolo della Incarnazione. Questo è l’unico fatto saliente nella storia umana, perché tutti gli altri fatti si rassomigliano, sono tagliati allo stesso modo; la diversità sta nella quantità. I fatti, si chiamino Alessandro Magno, Cesare, Pompeo, Napoleone, sono fatti dello stesso genere: è una monotonia spaventosa. C’è una diversità di quantità. Chi riesce di più, chi riesce di meno. Chi vale di più, chi vale di meno; ma agiscono tutti allo stesso modo, con gli stessi occhi, con lo stesso naso, con gli stessi orecchi, con le stesse mani e fanno tutti le stesse cose. Naturalmente i diversi rapporti danno luogo a rifrazioni diversissime, ma che ritornano sempre. Tanto è vero che tutta la storia dell’umanità è contenuta nel dramma di Adamo, e le parti distribuite allora si ripetono continuamente. Non si direbbe che la storia umana è monotona, perché la rifrazione delle stesse cause e degli stessi elementi tratti ad agire ha tale ricchezza che sembra sciorini qualche cosa di nuovo; ma bisogna osservare che la storia umana è sempre la stessa. L’unico vero fatto diverso della storia umana si chiama l’Incarnazione del Verbo. Non c’è altro. Dinanzi a questo fatto storico tutte le cose sembra che se ne vadano ad acquattarsi in fondo all’essere e alla realtà e che questa sola cosa rimanga. – Guardate che cosa succede il giorno di Natale. Succede questo: che tutti gli uomini si sentono diversi, lo vogliano o non lo vogliano. Tutti gli uomini sentono una quiete, una pace, una liberazione, sentono sé stessi diversi dagli altri giorni, tutti diversi, anche i cattivi, anche gli atei, tutti. È necessario, perché quello è il giorno in cui l’eternità sfiora il tempo; ed è impossibile che gli uomini, fossero anche ridotti al livello degli animali, nella loro stessa carne, nel loro stesso sangue non sentano agitarsi quella tal fibra che fisicamente li congiunge a Gesù Cristo. Natale! Noi non riusciamo a dire che cosa sia il Natale: non ci riusciamo davvero. Cerchiamo di andare più in là dell’intelligenza con delle emozioni che tutta la divina liturgia, ordinata a un certo modo, cerca di dare per vedere se con la emozione, e cioè con la vibrazione, riusciamo anche senza intendere ad andare al di là di quel poco che intendiamo. Ma a Natale l’emozione porta più in là di quello a cui ci conduce la stessa intelligenza. La Incarnazione del Verbo ha assunto tutto, tutto. – Guardate che di questa umana natura che ha assunta, il Verbo eterno ha proprio preso tutto come noi. L’unica cosa che non ha assunto, e non era necessaria perché era contingente ed estranea alla costituzione della natura, è stato il peccato, con tutto quello che precede il peccato e che al peccato segue, il fomite della concupiscenza che precede il peccato e che lo ha seguito. Il fomite è venuto dopo il peccato, non prima. Ora lo precede, perché lo ha seguito. Questo peccato Gesù Cristo non l’ha assunto, perché era disdicevole; ma tutto quello che era proprio della umana natura doveva essere attributo del Verbo, predicato del Verbo, predicato grammaticalmente e pertanto ontologicamente. Quelle che sono le limitazioni comuni dell’umana natura, cioè la esposizione alla passibilità, al divenire, al degradare delle forze fisiche, Gesù le ha assunte tutte. Quelle che noi chiamiamo le passioni filosofiche, non morali, cioè le possibilità di mutazione e che sono complementi della umana natura, Egli le ha assunte tutte, e pertanto Gesù ha agito, ha sentito, ha sofferto come noi. Non c’è nulla della nostra esperienza, salvo la colpa, che non troviamo in Gesù Cristo. – Del resto Gesù Cristo lo ha detto che avrebbe tratto tutto a sé. La storia ha camminato, prima che Egli venisse, secondo le esigenze della sua venuta: prima che venisse, la storia si è mossa per prepararsi a riceverlo. Abbiamo scritto l’etnologia, abbiamo scritto, fino a un certo punto, la preistoria; abbiamo scritto la storia, bene o male, più male che bene; non l’abbiamo ancora riassunta. Ma se il mondo camminerà ancora e avrà il tempo di pensare e non d’impazzire, forse la scriverà, e allora s’accorgerà con evidenza che tutta la storia prima di Gesù Cristo è stata scritta a puntino per Lui, e capirà perché certe cose si sono fermate e forse sono ferme ancora oggi. Capirà perché certe cose hanno cominciato a muoversi, ma soltanto cominciato, e sono là ancora oggi; capirà perché certe cose hanno cominciato e poi si sono chiuse in sé stesse e sono chiuse ancora oggi. Non hanno intercambio, non hanno metabolismo. Capiranno perché soltanto alcune hanno camminato; ma perché hanno camminato in un certo modo, perché si sono fermate a certi punti, perché sono scomparse in certi altri modi. Le uniche cose che hanno avuto intercambio nella storia umana prima di Gesù Cristo sono state la civiltà greca e la civiltà latina. Ma forse un giorno si capirà molto bene perché e quanto la civiltà greca è stata completamente e subitamente sommersa dalla marea musulmana compatta che non l’ha mollata ancora oggi; e quanto alla civiltà latina, si capirà un giorno perché mai una invasione barbarica l’abbia completamente disfatta e di essa si sia salvato solo quello che la Chiesa ha maternamente salvato. La storia prima di Gesù Cristo ha camminato tutta in funzione della sua venuta. La storia di Israele non è stata una storia miracolosa unicamente per il passaggio del Mar Rosso, per le dieci piaghe d’Egitto o per l’uccisione fatta dal Signore nell’esercito del Faraone e così via. Essa fu tutta un miracolo, tutta da cima a fondo, perché Dio prese un popolo, un popolo piuttosto strambo, lo piantò sulla cresta dell’onda e la cresta dell’onda era un pezzo di terra che è stato per millenni il punto di diatribe fra due mondi, il punto disputato dalle due grandi forze che si sono bilanciate nell’antichità e che tutte le volte se le sono suonate su quella cresta dell’onda. Dio l’ha messo proprio lì, non da un’altra parte, e ci sono passati tutti di lì, l’hanno schiacciato tutti e nessuno lo ha fatto morire. Non muore adesso ma neanche allora. La storia è identica. Gli imperi al di là, e cioè a est di questa linea, si succedevano l’uno all’altro dopo essersi scontrati con l’impero che stava a ovest, l’Egitto. Israele non è mai mutato. Israele è sempre vissuto, anche quando era strambo; ma arrivò a farne troppe, e Dio lo fece soffrire; non morì neppure allora, ma visse per compiere la sua missione. La storia prima di Gesù Cristo è stata per Lui e quella dopo è tutta per Lui. Egli trarrà tutto a sé. S. Giovanni nella Apocalisse ci mostra tutta la storia umana in funzione del Verbo di Dio Incarnato. Noi diciamo: i protagonisti della storia; ma non sono altro che pedine. Ricordo, quando ero studente, la persecuzione messicana. Avevo compagni miei, all’Università Gregoriana, moltissimi che avevano avuto membri della loro famiglia uccisi da Calles. Un giorno Pio XI, ed era gesto da par suo, donò all’Arcivescovo del Messico un ostensorio d’argento per cantare il Te Deum a persecuzione finita. Oggi il Messico ha la vita religiosa più vivace, più promettente, più grande di tutta l’America latina, al punto da poter sperare che il Messico diventi un fermento per il risollevamento del rimanente dell’America latina. E poi dite che Calles non era una pedina di Dio! Libero, certo, ma pedina di Dio. La Sacra Congregazione di Propaganda Fide non li poteva fare certi disegni per la conversione del mondo. L’incarico di certi disegni se l’è tenuto Dio. E quei disegni li fa. Che cosa Dio ci preparerà da fare in questo mondo fra 10, 20, 30 anni? Prepariamoci. La storia dopo Gesù Cristo è in funzione della Incarnazione del Verbo, tutta; non c’è nessun protagonista, per la ragione che sono tutte pedine piccole ed effimere. Libere nei loro movimenti, ma su una piattaforma che li congiunge sempre all’eterno disegno che Dio ha fissato. Come nell’ordine del cosmo tutto ciò che è fisico è determinato e tutto ciò che è umano è libero, e quello che è determinato non viola quello che è libero, così è dell’azione di Dio e della libertà umana: agiscono nel mondo in modo che rimangono tutt’e due intatte. Dio fa tutto il disegno, e gli uomini sono tutti liberi. – Ora vengo alla conclusione. La conclusione è questa: Gesù Cristo ha assunto tutto; vedremo che ha anche dato tutto; tutto ha dato, e allora bisogna dargli tutto. Cioè non si può dare soltanto qualche cosa a Gesù Cristo, si deve dare tutto, e quelli che ne ascoltano la voce devono dare tutto, per sé e per gli altri che non danno. Ecco il grande motivo della perfezione: Gesù ci ha dato tutto; provatevi a dire che non gli dobbiamo dare tutto. C’è da morire di vergogna soltanto a pensarci, e immaginatevi che sorta di vergogna sarebbe o sarà qualora non dessimo tutto. Questa è la prima parte dell’antifona: Gesù ha dato tutto; la seconda, che dobbiamo cantare noi, deve essere coerente. Ed è questa seconda antifona che ormai non si separerà più dalle nostre meditazioni. – Voi capite ora cosa vuol dire vivere nella fede; tutto parla di Lui. E vedete come in realtà è possibile, in questo mondo, senza astrarci per niente dal mondo, senza andare nella luna, senza volare per aria, coi piedi bene attaccati alla terra, com’è possibile fare sì che il mondo diventi un’eterna contemplazione dell’unico fatto che interessi, l’Incarnazione del Verbo. Perché tutto parla di quella. E noi dobbiamo tenere gli occhi aperti, non vedere solo in superficie le cose, ma in profondità. La perfezione richiede che si viva di fede, e vivere di fede vuol dire contemplare sempre, e questo è possibile!

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (4)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(4)

6. – L’Inferno

Ritorniamo alla meditazione dei grandi motivi che ci inculcano questa verità: noi dobbiamo decisamente aspirare alla perfezione. Il motivo di turno è: l’inferno. Io non vi espongo, in questa meditazione, tutta la dottrina teologica sull’inferno, ma prendo lo spunto, anzi diversi spunti della dottrina sull’inferno semplicemente per documentare la necessità in noi della perfezione. E il costrutto di tutto il mio ragionamento è questo: per essere sicuri del dieci, bisogna puntare sul milione. Ecco, mi pare che il ragionamento sia semplice: supponiamo che il dieci sia il sufficiente e necessario per non andare all’inferno; ebbene, io vi dico: badate che per essere sicuri del dieci, bisogna puntare sul milione. – Primo punto. L’essenza dell’inferno in che cosa sta? Sta nella pena del danno. La pena del danno è questa: non avere Dio, cioè non avere più il tutto. Per farci una certa idea di che cosa sia non avere Dio, bisognerebbe che noi cominciassimo a meditare qual è la situazione dell’anima appena lasciato il corpo. Quando noi usciamo da questo mondo cade tutto, cadono le cose, cadono i criteri, cadono i surrogati, tutto cade; non rimane che Dio solo. – In Dio solo tutto il rimanente ritorna: in Dio solo e con Dio solo. Noi rimaniamo nella nudità assoluta di fronte a Dio, quella per cui a me risponde solo Dio, nessun’altra cosa può più rispondere; che se risponderà, risponderà in Dio e per Iddio. Ecco i termini crudi, i termini teologici di quell’incredibile rovesciamento che accade per ogni uomo. L’inferno è questo: cioè che, arrivati al punto in cui per noi la cosa sufficiente e necessaria non è altro che Dio, questo che è tutto viene a mancare in sempiterno. Tutte le cose che si possono dire infilando paragoni terrificanti, terribilmente terrificanti, le umane esperienze, che sono lontanissimi riflessi di quella suprema massima tragedia in cui può incorrere un uomo che ha sbagliato la strada, non servono altro che a fare di questa spaventosa verità un quadro lontanissimo e unicamente per luce indiretta. Ma dalla pena del danno, che è l’essenza dell’inferno, nasce questo problema: perché Dio manda un uomo all’inferno? Ce lo manda perché questo uomo o questa donna ha fatto una scelta in vita. Ha fatto una scelta libera, e Dio rispetta la libertà degli uomini. La cosa che riesce difficile alla nostra abitudine, nel tempo, è quella di capire che tutto si rovescia, ossia che tutto questo che noi viviamo adesso, il tempo, non è l’ordinario, è lo straordinario. L’ordinario sta di là. Questo è l’eccezionale. Il nostro modo d’essere sta nell’eternità e non nel tempo. Ma noi che finora non abbiamo sperimentato altro che il tempo abbiamo la testa configurata ad angolo, in modo che crediamo essere questo l’ordinario e quell’altro lo straordinario. Invece è esattamente il contrario. Ma occorre una lunga preparazione metafisica per abituarci a questa considerazione. – Ora a me interessa dire che Dio rispetta la scelta. Questa scelta, quando s’entra nell’eternità, non muta più. Dio manda all’inferno per tutta l’eternità perché, quando saremo arrivati nel nostro modo d’essere ordinario, che è quello, non muteremo più. Qui sta il mistero dell’inferno. Noi siamo in questa situazione: come se fossimo delle mosche. Noi siamo abituati a stare con i piedi in terra e la testa in aria, vero? Bene, se fossimo delle mosche appese al soffitto con le gambe attaccate al soffitto, e potessimo pensare e parlare, guarderemmo giù, e diremmo: che fanno quelli laggiù, con i piedi appesi al soffitto e la testa che penzola giù? Ma sarebbe il caso di rispondere : sentite, mosche, voi siete mosche, non ve ne accorgete! Voi non vi accorgete che i vostri ragionamenti sono tutti così, precisamente con i piedi appesi all’aria e con la testa che pende giù. Siete nella posizione anormale, voi; raddrizzatevi, allora sarete normali. Ma di quanto bisogna raddrizzarci? Bisogna andare di là per raddrizzarci. Quello che è grave è questo: Dio rispetta la scelta. Siccome la scelta, entrati nell’eternità, si consolida, l’inferno è eterno. Agli uomini questo non piace. Vedete, per andare all’inferno non occorre crederci, mentre per andare in Paradiso occorre crederci. Qui sta la differenza. Non ci vogliamo credere? Ebbene vedremo! N. S. Gesù Cristo è andato in croce perché gli uomini non vadano all’inferno. Però se proprio ci vogliono andare! Quello che balza fuori è che Dio rispetta la scelta. È questa la parola, la scelta. Ecco i l riflesso che dall’inferno arriva a questa terra, a noi. La scelta. Ogni volta che si decide, che ci si determina, che si pensa, che si parla, che si agisce, si fa una scelta. Non ha importanza se la legge sia quella del I, del II o del X comandamento; su tutte le leggi di Dio la scelta è questa: si sceglie tra Dio e non Dio. Si tratti del I, del II, del III, del IV, del V, del VI, del VII, dell’VIII, del IX, del X Comandamento; si tratti di tutti messi insieme, si dice questo: io scelgo tra Dio e non Dio. Badate che questa parola, che direi sprizza dal fuoco dell’inferno, s’incide in modo incandescente dinanzi a noi. La scelta è in qualunque atto; con qualunque passo noi facciamo una scelta, e in qualunque momento la scelta può essere risolutiva. Non avete pensato che ogni atto nostro si trova come a un bivio che può determinare la strada? Ogni momento è come un nodo da cui partono diverse strade. Perché ci sono molte situazioni nella nostra vita in cui dire di sì o dire di no vuol dire, con un piccolo episodio, decidere della propria strada. Questi casi si danno tante volte nella vita. Non dimenticate mai questa parola: la scelta. L’inferno è la testimonianza del rispetto che Dio ha per la nostra scelta. E la scelta la si può fare in ogni momento: s’aprono delle strade, e sbagliare vuol dire infilarne una che mette in una direzione perfettamente divaricata ed erronea. La scelta. Tenete presente che ci sono delle scelte che si fanno, per idiozia, non per un momento, ma per tutta l’esistenza. E queste sono le scelte più tragiche, le scelte che si fanno lasciando cadere un elemento, anche uno solo, quasi inavvertitamente; lasciando entrare un solo elemento, che non si presenta né immorale, né grave, né tragico, è però come uno di quei sassolini che cadono nelle cosiddette marmitte, là dove ci sono cascate d’acqua: gorgogliando nell’acqua che fa gorgo, ampliano continuamente la marmitta e la possono rendere una sorta di caverna. Era un sassolino, è caduto inavvertitamente. Ci sono scelte che non sono costituite da un fatto chiaro, definito, che forse non raggiungono mai la caratteristica della colpa grave in sé stessa, perché la colpa grave deve essere un atto ben chiaro; per fare la colpa grave occorre la pienezza dell’avvertenza e la pienezza del consenso. Tuttavia tracciano un solco, creano una carenza, rendono pericolante un edificio, e ad un certo momento vi saranno dei crolli; e non si dirà: è stata quella carenza; nessuno vi aveva mai fatto caso; si dirà solo: c’è stato un crollo. Come se i crolli accadessero per far dispetto a chi sta sotto. Voi capite, la parola scelta, riflessa dall’inferno in questo mondo, comincia a diventare una faccenda preoccupante. Perché siamo noi che la decidiamo. Perché tutti i momenti possono essere buoni per fare una scelta definitiva, tanto nel bene come nel male. – Pier Damiani, che fu il più austero dei Santi dell’XI secolo e fece da degno contrappeso, a modo suo all’opera di Gregorio VII e ai predecessori di Gregorio VII, i Papi che precedettero la riforma gregoriana, Pier Damiani diventò S. Pier Damiani perché un giorno, povero in canna, trovò una moneta e avrebbe potuto comperarsi qualcosa da mangiare; invece no, andò a far dire una Messa per un suo fratello che lo aveva aiutato e che era morto. – E fu questo gesto che lo cavò fuori, lo indirizzò dalla Scuola di Parma alla Abbazia di Fonte Avellana e poi a Pomposa, e poi qua e là per l’Europa, finché, fatto da Stefano X Cardinale e Vescovo di Ostia, fu veramente il luminare della riforma della Chiesa nel secolo XI. – Ma io mi domando: se quando egli ha trovato quella moneta fosse andato a comperarsi una bibita, avremmo S. Pier Damiani? Non lo so. Dio permette certi episodi perché si rifletta all’importanza che ha ogni momento della vita, ogni episodio, ogni sfumatura. È imponderabile. Un istante talvolta porta tutto un avvenire. Dio è giusto, egli non manda all’inferno per poco. Ma il poco può essere il principio del molto, come il punto è matematicamente il principio della linea, e la linea è matematicamente il principio del piano. Voi capite quale è la conseguenza. Avevo ragione quando vi dicevo che per arrivare a dieci bisogna puntare sul milione? –  Secondo punto. Nella dottrina sull’inferno c’è un’altra cosa che interessa, ed è la cosiddetta pena del senso. E la pena del senso è secondaria, molto secondaria rispetto alla pena del danno. Perché l’essenza dell’inferno sta nella pena del danno, tanto è vero che l’inferno rimarrebbe tale anche se non ci fosse la pena del senso; e se ci fosse solo la pena del senso e non quella del danno, l’inferno non sarebbe più inferno. Però c’è anche quella, la pena del senso, quell’agente misteriosissimo, di carattere certamente sensibile, che agisce sull’anima che è spirituale; quindi niente da meravigliarsi se dopo la risurrezione la pena del senso agirà anche sul corpo. Nell’eternità questa pena del senso risponde per giustizia al cattivo uso che gli uomini avranno fatto del loro corpo e di tutte le creature. E allora le creature materiali si rivolteranno contro di loro. Allora, come la pena del danno, la pena del senso riflette fuori dell’inferno su noi, che per grazia di Dio non ci siamo e possiamo non andarci, la parola: scelta. La pena del senso riflette la parola: ritegno, nell’uso del corpo e delle creature. La parola ritegno non colpisce un momento o qualche momento, non verte su qualche cosa di frammentario, ma costituisce un tratto continuato, perché afferma il ritegno su tutta la vita. Occorre un ritegno nell’uso di quello che è parte materiale del nostro essere, un ritegno nell’uso di qualunque creatura. Sia essa capace di dare un piacere sensibile, sia essa capace di soddisfare una esigenza sensibile, sia essa decoro del nostro quadro, principio di sensazioni ed emozioni, di stimolo, d’istinto, sia essa una fronda di primavera, una sorgente d’estate, una vite coi frutti in autunno, sia essa neve che viene a giocondare gli uomini nell’ aridità dell’inverno, sia quel che si vuole: ritegno. E se l’inferno è così, il ritegno ci vuole sempre, perché potrà bastare un punto per poter guastare questo ritegno e sistemarci male. Ecco, un’altra volta, l’inferno riflette qualche cosa nel tempo. Per arrivare al dieci bisogna puntare sul milione. – E ora raccolgo da tutti e due gli elementi che ho sottoposto brevemente alla vostra considerazione una illustrazione di carattere generale, ed è questa: la pericolosità sulla quale noi continuamente camminiamo nella nostra vita. È l’inferno che grida la pericolosità continua nella nostra vita; e grida in modo tale da escludere ogni leggerezza, grida in modo costante, da escludere ogni frettolosità, ogni superficialità, perché siamo sempre in pericolo. Il sacrosanto Concilio Tridentino nella grande sessione quinta, la più grande di quel Concilio, al canone XVII dice: « Se qualcuno avrà detto, all’infuori del caso di rivelazione divina, d’essere infallibilmente sicuro della propria eterna salute, anathema sit » . È una verità de fide definita: nessuno di noi è certo, nessuno, a meno che intervenga una rivelazione divina, evidentemente di quelle rivelazioni private e che pertanto non hanno destinazione a tutta la Chiesa e non condizionano la salvezza di tutti gli uomini. Ma senza quella rivelazione nessuno può essere certo di assoluta infallibile certezza della sua salvezza eterna. Voi capite bene che tutto quello che si sa, che si può dire, che si sente dire, bisogna metterlo d’accordo con questo santo canone del Concilio Tridentino. E in che cosa si riduce la pericolosità della nostra situazione? Ci possiamo scherzare sopra; ma camminiamo sempre sull’orlo del precipizio, siamo sempre sull’orlo del fuoco. Ma se il precipizio ci si aprisse, come si apre un baratro, e fosse visibile, come in pieno giorno sono visibili i baratri, direi: sì, il pericolo c’è, ma gli occhi sono aperti, la luce c’è, il baratro si vede. Eh no, cari, il guaio è che noi viaggiamo in crepuscolo e di notte, e i baratri non li vediamo: perché ci sono delle forme che stanno al di là dell’episodio, al di là del singolo peccato e che diventano spaventose carenze. – Avete osservato come giocano in noi certe insensibilità? Cose che in certi momenti della nostra vita avevano una forza di eccitazione verso il bene, le stesse cose ora si riducono e quasi non ci toccano più. Sarà accaduto anche a voi, ma lo potrete vedere anche in altri giovani della vostra età, che avevano delle devozioni straordinarie quando erano piccoli e parlavano con gli angeli, con Gesù, avevano il gusto della preghiera, piangevano nelle funzioni religiose, sentivano l’attrazione del canto dei Vespri la domenica nella propria parrocchia o di altre cose, come la Novena di Natale. Poi arrivati un po’ in sù, bruciate tutte le papille, non sentono più niente. Quelli anche se si trovassero alle falde del monte Sinai, come Mose, lassù, con tutti i tuoni e i fulmini, e tutte quelle spaventose cose che hanno terrorizzato tutti gli ebrei che stavano sotto, quelli nemmeno ne avrebbero paura e nemmeno ci farebbero caso. Guardate questa storia delle insensibilità, che crescono, senza mai avere un tratto che possa assomigliarsi a un gradino, perché un gradino lo si avverte; per cui a un certo momento qualche cosa che prima parlava diventa muto, qualche cosa che prima era espressivo diventa arido, qualche cosa che prima si muoveva diventa immobile. Il pericolo dell’insensibilità che segue le nostre tiepidezze, il pericolo delle abitudini. Noi siamo un sacco di abitudini ambulanti. L’abitudine dispensa dal mettere impegno nell’atto; prò quota partis, qualche volta anche del tutto. Si può anche pregare completamente per abitudine, ci si può addormentare mentre si dice la Messa. Penso a quell’Arcivescovo di Canterbury, gran filosofo e gran matematico, che un bel giorno, dicendo la Messa, quando ebbe in mano la patena, si mise a disegnare teoremi di geometria sull’altare dimenticandosi che stava dicendo la Messa. Era Tommaso Becket, uno dei più grandi scolastici del secolo XII. Fortuna che quando rinvenne rimase così avvilito che non studiò mai più matematica, studiò solo filosofia, e fu un bene perché in quella riuscì grande. Guardate se non si hanno un sacco di abitudini! L’abitudine è un atto di provvidenza, perché quando si tratta di fare il bene, dispensandoci in parte dallo sforzo, possiamo fare il bene con una certa facilità; ma la stessa facilità ce la dà il male, e a un certo momento, senza accorgercene, per quella incoscienza che l’abitudine può logicamente portare, si può finire col trovarsi a camminare a valle piuttosto che a monte, nei sotterranei piuttosto che sul tetto, senza averne nemmeno preso coscienza. La pericolosità allora entra nella vita. Pericolosità nell’ordine del cosciente, pericolosità da tutte le parti. E allora la formula ritorna. Per arrivare a dieci bisogna puntare sul milione. Ecco, se vogliamo avere non la certezza infallibile, perché quella non la possiamo avere, ma una certa serenità di non andare all’inferno e una grande fiducia nella misericordia di Dio, non c’è altro da fare che questo: cercare ogni giorno la perfezione. È la formula del milione per ottenere almeno dieci: la salvezza dell’anima.

CATTEDRA DI PIETRO A ROMA – 18 Gennaio

 

CATTEDRA DI SAN PIETRO A ROMA (1)

[Dom Guéranger. l’Anno Liturgico, Ed. S Paolo, Alba, 1957, vol. I]

L’Arcangelo aveva annunciato a Maria che il Figlio che sarebbe nato da lei sarebbe stato Re, e che il suo Regno non avrebbe avuto mai fine. I Magi guidati dalla Stella vennero dal lontano Oriente a cercare questo Re in Betlemme. Ma ci voleva una capitale per il nuovo Impero; e poiché il Re che doveva stabilirvi il suo trono doveva anche, secondo i consigli eterni, risalire presto al cielo, era necessario che il carattere visibile della sua regalità risiedesse in un uomo che fosse, fino alla fine dei secoli, il suo Vicario. – Per questa gloriosa reggenza, l’Emmanuele scelse Simone, cambiandone il nome in quello di Pietro e dichiarando espressamente che tutta la Chiesa sarebbe stata basata su quell’uomo, come su una roccia incrollabile. E siccome Pietro doveva anch’egli terminare con la croce la sua vita mortale. Cristo s’impegnava a dargli dei successori nei quali sarebbero sempre stati rappresentati Pietro e la sua autorità.

.(1) Nel III secolo si venerava in un cimitero di Roma un trofeo-cattedra di tufo o di legno – del ministero di San Pietro in quel luogo. Più tardi si venerò nel battistero di Damaso in Vaticano la sella gestatoria apostolicæ confessionis. Sotto il nome di Natale Petri de Cathedra era celebrata una festa il 22 febbraio; ma, a causa della quaresima, le chiese della Gallia presero l’abitudine di celebrarla il 18 gennaio. Le due usanze si svilupparono in modo parallelo; poi, finalmente, si perdette l’unità primitiva del loro significato e si ebbero due feste della Cattedra di San Pietro, la prima attribuita a Roma – quella del 18 gennaio -, la seconda attribuita a un’altra sede – In definitiva a quella d’Antiochia – il 22 febbraio. – La Cattedra di San Pietro è ora conservata nell’abside della basilica vaticana, racchiusa in un grande reliquiario; nemmeno il Papa si può sedere, come usavano i Pontefici dei primi quindici secoli, sulla Cathedra Apostolica (Schuster, Liber Sacram.).

Regalità del Vicario di Cristo.

Ma quale sarà il segno distintivo di questa successione nell’uomo privilegiato sul quale deve essere edificata la Chiesa sino alla fine dei tempi? Fra tanti Vescovi, chi è il continuatore di Pietro ? Il Principe degli Apostoli ha fondato e governato parecchie Chiese; ma una sola, quella di Roma, è stata irrorata del suo sangue; una sola, quella di Roma, custodisce la sua tomba; il Vescovo di Roma è dunque il successore di Pietro, e perciò stesso, il Vicario di Cristo. Di lui, e non d’un altro, è detto: Su te costruirò la mia Chiesa. E ancora: Ti darò le chiavi del Regno dei cieli. E inoltre: Ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede; …conferma i tuoi fratelli. E infine: Pasci i miei agnelli; pasci le mie pecorelle. L’eresia protestante l’aveva compreso tanto bene che per lungo tempo si sforzò di avanzare dubbi sul soggiorno di san Pietro a Roma, credendo giustamente di distruggere, con questo ritrovato, l’autorità del Pontefice Romano, e la nozione stessa d’un capo nella Chiesa. La scienza storica ha fatto giustizia di quella puerile obiezione; e da lungo tempo studiosi della Riforma sono concordi con i cattolici sul terreno dei fatti, e non contestano più nessuno dei punti della storia meglio definita dalla critica. – Fu in parte per opporre l’autorità della Liturgia a quella strana pretesa dei Riformatori, che Paolo IV, nel 1558, fissò al 18 gennaio l’antica festa della Cattedra di san Pietro a Roma. Da lunghi secoli, la Chiesa non celebrava il mistero del Pontificato del Principe degli Apostoli se non il 22 febbraio. D’ora in poi quest’ultimo giorno è stato assegnato al ricordo della Cattedra d’Antiochia, la prima ad essere occupata dall’Apostolo. Oggi dunque, la Regalità dell’Èmmanuele brilla in tutto il suo splendore; e i figli della Chiesa si rallegrano nel sentirsi tutti fratelli e concittadini d’uno stesso Impero, celebrando la gloria della Capitale che è comune a tutti. Allorché, guardando attorno a sé, si vedono tante sette divise e sprovviste di tutte le condizioni della continuità perché manca ad esse un centro, rendono grazie al Figlio di Dio per aver provveduto alla conservazione della sua Chiesa e della sua Verità, con l’istituzione di un capo visibile nel quale Pietro continua per sempre, come lo stesso Cristo in Pietro. Gli uomini non sono più pecore senza pastore; la parola detta al principio si perpetua, senza interruzione, attraverso i tempi; la prima missione non è mai sospesa e, per il Pontefice Romano, la fine dei tempi si ricollega all’origine delle cose. « Quale consolazione per i figli di Dio – esclama Bossuet nel Discorso sulla Storia universale – ma quale convinzione della verità, quando vedono che da Innocenzo XI, che occupa oggi (1681) degnamente la prima Sede della Chiesa, si risale senza interruzione fino a san Pietro, costituito da Gesù Cristo come Principe degli Apostoli! ». [Oggi diciamo: da Gregorio XVIII si risale senza interruzione fino a Pietro, costituito da Gesù-Cristo come Principe degli Apostoli. – ndr. -]

Primato della sede di Roma.

Pietro, entrando in Roma, viene dunque a compiere e amplificare i destini di questa città sovrana, recandole un impero ancora più esteso di quello che essa possiede. È un Impero che non si costituirà con la forza, come il primo: da superba dominatrice delle genti che fu, Roma, per mezzo della carità, diventa Madre dei popoli. Ma, per quanto pacifico, il suo Impero non sarà meno durevole. Ascoltiamo san Leone Magno, in uno dei suoi più magnifici Sermoni (Serm. 82), narrare, con tutta la nobiltà del suo linguaggio, l’ingresso oscuro eppure così decisivo, del Pescatore di Genezareth nella capitale del paganesimo: « Il Dio buono, giusto e onnipotente, che non ha mai negato la sua misericordia al genere umano e che con l’abbondanza dei suoi benefici, ha dato a tutti i mortali i mezzi per giungere alla conoscenza del suo Nome, nei segreti consigli del suo immenso amore ha avuto pietà del volontario accecamento degli uomini e della malizia che li sprofondava nella degradazione, e ha inviato il suo Verbo, che è a Lui uguale e coeterno. Ora, questo Verbo, fattosi carne, ha unito così strettamente la natura divina con quella umana, che l’umiliazione della prima fino alla nostra abiezione è diventata per noi il principio della più sublime elevazione. » Ma, per spargere nel mondo intero gli effetti di quel beneficio, la Provvidenza ha preparato l’Impero romano, e ne ha esteso così lontano i confini, da fargli abbracciare nella sua cerchia tutte le genti. Era infatti una cosa utilissima per il compimento dell’opera progettata che i diversi regni formassero la confederazione d’un unico Impero, affinché la predicazione generale giungesse più presto all’orecchio dei popoli, raccolti com’erano già sotto il regime d’una sola città. » Questa città, disprezzando il divino autore dei suoi destini, s’era fatta schiava degli errori di tutti i popoli, nel tempo stesso in cui li teneva quasi tutti sotto le sue leggi, e credeva ancora di possedere una grande religione, perché non respingeva nessuna menzogna; ma più fortemente era tenuta legata dal diavolo e più meravigliosamente fu riscattata da Cristo. » Infatti, quando i dodici Apostoli, dopo aver ricevuto con lo Spirito Santo il dono di parlare tutte le lingue, si furono distribuite le varie parti della terra, ed ebbero preso possesso di quel mondo a cui dovevano predicare il Vangelo, il beato Pietro, Principe dell’Ordine Apostolico, ricevette in eredità la roccaforte dell’Impero romano, affinché la Luce della verità che era manifestata per la salvezza di tutte le genti, si diffondesse più efficacemente, irradiando al centro di questo Impero sul mondo intero. » Quale nazione, infatti, non contava numerosi rappresentanti in quella città? Quali popoli avrebbero mai potuto ignorare ciò che Roma aveva loro insegnato ? Qui dovevano essere battute le opinioni della filosofia; qui sarebbero state distrutte la vanità della sapienza terrena; qui sarebbe stato confuso il culto dei demoni e distrutta infine l’empietà di tutti i sacrifici, in quello stesso luogo in cui una stuta superstizione aveva radunato tutto ciò che i diversi errori avevano potuto produrre. » Non temi tu dunque, o beato Apostolo Pietro, di venire solo in questa città? Paolo Apostolo il compagno della tua gloria, è ancora intento a fondare altre Chiese; e tu ti immergi in questa foresta popolata di bestie feroci, avanzi su questo oceano il cui fondo è pieno di tempeste, con più coraggio di quando camminasti sulle acque. Non hai timore di Roma, la dominatrice del mondo, tu che nella casa di Caifa avevi tremato alla voce d’un servo del sacerdote. Il tribunale di Pilato o la crudeltà dei Giudei erano forse più temibili della potenza di Claudio o della ferocia di Nerone? No; ma la forza del tuo amore vinceva il timore, e non avevi paura di quelli che t’eri impegnato di amare. Senza dubbio avevi già avuto il sentimento di quell’intrepida carità il giorno in cui la professione del tuo amore verso il Signore fu sanzionata dal mistero della triplice domanda. Cosicché non si richiese altro alla tua anima se non che, per pascere le pecore di Colui che amavi, il tuo cuore effondesse per esse la sostanza di cui era ripieno. » La tua fiducia, è vero, doveva aumentare al ricordo dei numerosi miracoli che avevi operati, dei preziosi doni della grazia che avevi ricevuti, e delle esperienze molteplici della virtù che risiedeva in te.  Tu avevi già ammaestrato i Giudei che avevano creduto alla tua parola; avevi fondato la Chiesa d’Antiochia, dove ebbe i suoi inizi la dignità del nome Cristiano; avevi sottomesso alle leggi della predicazione evangelica il Ponto, la Galazia, la Cappadocia, l’Asia e la Bitinia; e allora, certo del progresso della tua opera e della durata della tua vita, venisti ad innalzare sulle mura di Roma il trofeo della croce di Cristo, proprio là dove i consigli divini avevano predisposto per te l’onore della potenza sovrana e la gloria del martirio » (P. L. vol. 54, c. 423-425). – L’avvenire del genere umano mediante la Chiesa è dunque fissato a Roma, e i destini di questa città sono per sempre comuni con quelli del sommo Pontefice. Diversi per razza, per lingua, per interessi, noi tutti, figli della Chiesa, siamo Romani nell’ordine della religione; questo titolo ci unisce mediante Pietro a Gesù Cristo, e forma il legame della grande fraternità dei popoli e degli individui cattolici.

Gloria della Roma cristiana.

Gesù Cristo per mezzo di Pietro, e Pietro per mezzo del suo successore ci reggono nell’ordine del governo spirituale. Ogni pastore la cui autorità non emana dalla Sede di Roma, è un estraneo, un intruso. Così pure nell’ordine della credenza Gesù Cristo per mezzo di Pietro e Pietro per mezzo del suo successore ci impartiscono la dottrina divina e ci insegnano a distinguere la verità dall’errore. Qualunque simbolo di fede, qualunque giudizio dottrinale, qualunque insegnamento contrario al Simbolo, ai giudizi e agli insegnamenti della Sede di Roma, viene dall’uomo e non da Dio, e dev’essere respinto con orrore ed anatema. Nella festa della Cattedra di san Pietro in Antiochia, parleremo della Sede Apostolica, come unica fonte del potere di governo nella Chiesa. Oggi, onoriamo la Cattedra romana come l’origine e la regola della nostra fede. – Prendiamo ancora qui le eloquenti parole di san Leone (Serm. 4) e interroghiamolo sui titoli di Pietro all’infallibilità dell’insegnamento. Impareremo da questo grande Dottore a misurare la forza delle parole che Cristo pronunciò perché fossero il principale motivo della nostra adesione per tutta la durata dei secoli. « Il Verbo fatto carne era venuto ad abitare in mezzo a noi, e Cristo si era consacrato interamente alla riparazione del genere umano. Non c’era nulla che non fosse regolato dalla sua sapienza, o che fosse superiore al suo potere. Gli elementi gli obbedivano, e gli Spiriti angelici erano ai suoi ordini; il mistero della salvezza degli uomini non poteva non giungere ad effetto, poiché, era lo stesso Dio,. nella sua Unità e nella sua Trinità, che si degnava di occuparsene. – Tuttavia in questo mondo, solo Pietro è scelto per essere preposto alla vocazione di tutte le genti, a tutti gli Apostoli, a tutti i Padri della Chiesa. Nel popolo di Dio, vi saranno parecchi sacerdoti e parecchi pastori; ma Pietro reggerà, con un potere che gli è proprio, tutti quelli che Cristo stesso governa in una maniera ancora più elevata. Quale grande e meravigliosa partecipazione del suo potere Dio si è degnato di dare a quest’uomo, fratelli diletti! Se ha voluto che vi fosse qualcosa di comune fra lui e gli altri pastori, l’ha fatto a condizione di dare a questi, per mezzo di Pietro tutto ciò che non voleva loro rifiutare. » Il Signore chiede a tutti gli Apostoli quale idea gli uomini abbiano di Lui. Gli Apostoli sono concordi, finche si tratta di esporre le diverse opinioni dell’ignoranza umana. Ma quando Cristo giunge a chiedere ai suoi discepoli quello che pensano essi stessi, il primo a confessare il Signore è colui che è anche il primo nella dignità apostolica. È lui che dice: Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivo. Gli risponde Gesù: Beato te, O Simone, figlio di Giona, poiché né la carne né il sangue ti hanno rivelato queste cose, ma il Padre mio che è nei cieli. Cioè: Sì, tu sei beato, poiché il Padre mio ti ha ammaestrato; i pensieri della terra non ti hanno indotto in errore, ma ti ha illuminato l’ispirazione del cielo. Non già la carne e il sangue, ma Colui stesso del quale Io sono il Figlio unigenito, mi ha rivelato a te. Ed Io, aggiunge, ti dico: Come il Padre mio ti ha svelato la mia divinità, Io a mia volta ti farò conoscere la tua grandezza. Poiché tu sei Pietro, cioè, come Io sono la Pietra incrollabile, la Pietra angolare che unisce i due muri, il Fondamento tanto essenziale che non se ne potrebbe costituire un altro, così tu pure sei Pietro, poiché sei basato sulla mia solidità, e le cose che sono proprie a me per la potenza che in me risiede sono comuni anche a te per la partecipazione che io te ne faccio. E su questa pietra fonderò la mia Chiesa ; e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Sulla solidità di questa pietra, io fonderò il tempio eterno; e la mia Chiesa, il cui fastigio salirà fino al cielo, s’innalzerà sulla fermezza di questa fede. » Alla vigilia della sua Passione, che doveva essere una prova per la costanza dei discepoli, il Signore disse quest’altre parole: Simone, Simone, Satana ha chiesto di macinarti come il frumento; ma io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede. Quando poi sarai convertito, conferma i tuoi fratelli. Il pericolo della tentazione era comune a tutti gli Apostoli; tutti avevano bisogno dell’aiuto della protezione divina, poiché il diavolo aveva proposto di agitarli tutti e di annientarli. Tuttavia il Signore prende una cura speciale per il solo Pietro; le sue preghiere sono per la fede di Pietro, come se la salvezza degli altri fosse già sicura, per il fatto stesso che non verrà abbattuto l’animo del loro Principe. È dunque su Pietro che si baserà il coraggio di tutti e l’aiuto della grazia divina sarà disposto affinché la solidità che Cristo attribuisce a Pietro sia attraverso Pietro conferita agli Apostoli» (P. L. vol. 54, c. 149-152).

L’infallibilità del Vicario di Cristo.

In un altro discorso (Serm. 3), l’eloquente Dottore ci fa vedere come Pietro vive ed insegna sempre nella Cattedra Romana. « La disposizione data da Colui che è la Verità stessa, permane dunque sempre, e il beato Pietro, conservando la solidità che ha ricevuta, non ha mai abbandonato il timone della Chiesa. Perché è tale il posto dato a lui al disopra di tutti gli altri, che, quando è chiamato Pietro, quando è proclamato Fondamento, quando è costituito Portinaio del Regno dei cieli, quando è nominato Arbitro per legare e sciogliere con una forza tale nei suoi giudizi che questi vengono ratificati anche in cielo, noi siamo in grado di conoscere, attraverso il mistero di così sublimi titoli, il legame che lo univa a Cristo. Ora egli compie con maggior pienezza e potenza la missione che gli è stata affidata; e tutte le parti del suo ufficio e del suo incarico le esercita in Colui e con Colui dal quale è stato glorificato. » Se dunque, su questa Cattedra, facciamo qualcosa di buono, se decretiamo qualcosa di giusto, se le nostre preghiere quotidiane ottengono qualche grazia dalla misericordia di Dio, è per effetto delle opere e dei meriti di colui che vive nella sua sede e vi agisce con la sua autorità. Egli ce lo ha meritato, fratelli diletti, con la confessione che, ispirata al suo cuore di Apostolo da Dio Padre, ha superato tutte le incertezze delle opinioni umane, ed ha meritato di ricevere la fermezza della Pietra che nessun assalto potrebbe scuotere. – Ogni giorno in tutta la Chiesa, è Pietro che dice: Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivo, e ogni lingua che confessa il Signore è guidata dal Magistero di quella voce. E questa fede che vince il diavolo, e spezza i legami di coloro che egli tiene prigionieri. È essa che introduce in cielo i fedeli quando escono da questo mondo; e le porte dell’inferno non possono prevalere contro di essa. La forza divina che la garantisce, infatti, è tale che mai la perversità eretica l’ha potuta corrompere, né la perfidia pagana sopraffarla » (P. L. vol. 54, c. 146).

Così parla san Leone. « Non si dica dunque, esclama Bossuet nel suo Sermone sull’Unità della Chiesa, non si dica e non si pensi che questo ministero di san Pietro finisce con lui: ciò che deve servire di sostegno a una Chiesa eterna, non può mai aver fine. Pietro vivrà nei suoi successori, Pietro parlerà sempre nella sua Cattedra: è quanto dicono i Padri ed è quanto confermano seicentotrenta Vescovi nel Concilio di Calcedonia ». E ancora: « Così la Chiesa Romana è sempre Vergine, la fede Romana è sempre la fede della Chiesa; si crede sempre quello che si è creduto, la stessa voce risuona dappertutto, e Pietro rimane, nei suoi successori, il fondamento dei fedeli. È Gesù Cristo che l’ha detto; e il cielo e la terra passeranno, ma la sua parola non passerà ».

Pietro continuato nei suoi successori.

Tutti i secoli cristiani hanno professato questa dottrina dell’infallibilità del Romano Pontefice che guida la Chiesa dall’alto della Cattedra Apostolica. La si trova insegnata espressamente negli scritti dei santi Padri, e i Concili ecumenici di Lione e di Firenze si sono pronunciati, nei loro atti, in un modo abbastanza chiaro per non lasciare alcun dubbio ai cristiani di buona fede. Tuttavia, lo spirito di errore, con l’aiuto di sofismi contraddittori e presentando sotto falsa luce alcuni fatti isolati e mal compresi, tentò, per troppo tempo, di far cambiare idea ai fedeli d’un paese devoto del resto alla sede di Pietro. L’influenza politica fu la prima causa di quella triste scissione, che l’orgoglio di scuola rese troppo durevole. L’unico risultato ottenuto fu quello di indebolire il principio di autorità nelle regioni in cui essa regnò, e di perpetuarvi la setta giansenista, i cui errori erano stati condannati dalla Sede Apostolica. Gli eretici ripetevano, dopo l’Assemblea di Parigi del 1682, che i giudizi che avevano messo al bando le loro dottrine non erano neanch’essi irrefutabili. – Lo Spirito Santo che anima la Chiesa ha infine estirpato quel funesto errore. Nel Concilio Vaticano ha dettato la sentenza solenne la quale dichiara che d’ora in poi chiunque si rifiutasse di riconoscere come infallibili i decreti emessi solennemente dal Pontefice romano in materia di fede e di morale cessa per ciò stesso di far parte della Chiesa Cattolica. Invano l’inferno ha tentato di ostacolare gli atti dell’augusta assemblea, e se il Concilio di Calcedonia aveva esclamato: «Pietro ha parlato per bocca di Leone»; se il terzo Concilio di Costantinopoli aveva ripetuto : « Pietro ha parlato per bocca di Agatone »; il Concilio Vaticano ha proclamato: « Pietro ha parlato e parlerà sempre per bocca del Romano Pontefice ». – Pieni di riconoscenza per il Dio di verità che si è degnato di elevare e garantire da ogni errore la Cattedra romana, ascolteremo con umiltà di spirito e di cuore gli insegnamenti che ne emanano. Riconosceremo l’azione divina nella fedeltà con cui questa Cattedra immortale ha saputo custodire la verità senza macchia per diciannove secoli, mentre le Sedi di Gerusalemme, d’Antiochia, d’Alessandria e di Costantinopoli hanno potuto appena custodirla per qualche centinaia di anni, e sono diventate l’una dopo l’altra le cattedre di pestilenza di cui parla il Profeta.

La Fede della Chiesa.

In questi giorni consacrati ad onorare l’Incarnazione del Figlio di Dio e la sua nascita dal seno d’una Vergine, richiamiamo alla nostra mente che dobbiamo alla Sede di Pietro la conservazione di quei dogmi che costituiscono il fondamento di tutta la nostra Religione. Non soltanto Roma ce li ha insegnati per mezzo degli Apostoli ai quali affidò la missione di predicare la fede nelle Gallie; ma quando le tenebre dell’eresia tentarono di gettare la loro ombra su così sublimi misteri, fu ancora Roma che assicurò il trionfo della verità con la sua suprema decisione. A Efeso, dove si trattava, condannando Nestorio, di stabilire che la natura divina e la natura umana in Cristo non formano che una sola ed unica Persona e che di conseguenza Maria è veramente Madre di Dio; a Calcedonia, dove la Chiesa doveva proclamare contro Eutiche la distinzione delle due nature nel Verbo incarnato. Dio e uomo, i Padri dei due Concili ecumenici dichiararono che non facevano altro che seguire nella loro decisione la dottrina trasmessa loro dalle lettere della Sede Apostolica. Questo è dunque il privilegio di Roma, di provvedere mediante la fede agli interessi della vita futura, come provvedé con le armi, per lunghi secoli, agli interessi della vita presente, nel mondo allora conosciuto. Amiamo ed onoriamo questa città Madre e Maestra, nostra patria comune, e con cuore fedele celebriamo oggi la sua gloria. Noi siamo dunque fondati su Gesù Cristo nella nostra fede e nelle nostre speranze, o Principe degli Apostoli, poiché siamo fondati su te che sei la Pietra che Egli ha posta. Siamo dunque le pecore del gregge di Gesù Cristo, poiché obbediamo a te come a nostro Pastore. Seguendo te, o Pietro, siamo dunque certi di entrare nel Regno dei cieli, poiché tu ne possiedi le chiavi. Quando ci gloriamo di essere le tue membra, o nostro Capo, possiamo considerarci come le membra di Gesù Cristo stesso, poiché il Capo invisibile della Chiesa non riconosce altre membra se non obbediamo ai suoi ordini, è la tua fede, o Pietro, che noi professiamo, sono i tuoi comandi che noi seguiamo; poiché se Cristo insegna e governa in te, tu insegni e governi nel Pontefice Romano. Siano dunque rese grazie all’Emmanuele che non ha voluto lasciarci orfani, ma prima di tornare in cielo si è degnato di assicurarci, fino alla consumazione dei secoli, un Padre e un Pastore. La vigilia della sua Passione, volendo amarci sino alla fine, ci lasciò il suo corpo per cibo e il suo sangue per bevanda. Dopo la sua gloriosa Resurrezione, sul punto di salire alla destra del Padre, mentre gli Apostoli erano riuniti intorno a lui, costituì la sua Chiesa come un immenso gregge, e disse a Pietro: Pasci le mie pecore, pasci i miei agnelli. In che modo, o Cristo, assicuravi la perpetuità di quella Chiesa; costituivi nel suo seno l’unità, la sola che potesse conservarla e difenderla dai nemici esterni ed interni. Gloria a te, o divino Creatore, che hai fondato sulla Pietra solida il tuo immortale edificio! Hanno imperversato i venti, si sono scatenate le bufere, l’hanno percossa rabbiosamente i marosi, ma la casa é rimasta in piedi, poiché era fondata sulla roccia (Mt. VII, 25). O Roma, in questo giorno in cui tutta la Chiesa proclama la tua gloria e si rallegra di essere fondata sulla tua Pietra, ricevi le nuove promesse del nostro amore, i nuovi giuramenti della nostra fedeltà. Tu sarai sempre la nostra Madre e la nostra Maestra, la nostra guida e la nostra speranza. La tua fede sarà per sempre la nostra, poiché chiunque non è con te, non è neanche con Gesù Cristo. In te tutti gli uomini sono fratelli, e non sei per noi una città straniera, né il tuo Pontefice un sovrano straniero. Noi viviamo per te della vita del cuore e dell’intelligenza; e tu ci prepari ad abitare un giorno quell’altra città di cui sei l’immagine, la città celeste di cui costituisci l’ingresso. Benedici, o Principe degli Apostoli, le pecore affidate alla tua custodia, ma ricordati, di quelle che sono sventuratamente uscite dall’ovile. Lontano da te, popoli interi che tu avevi nobilitati e civilizzati per mezzo dei tuoi successori, languiscono e non sentono ancora l’infelicità di essere lontani dal Pastore. Lo scisma raffredda e corrompe gli uni; l’eresia divora gli altri. Senza Cristo visibile nel suo Vicario, il Cristianesimo diventa sterile e a poco a poco svanisce. Le audaci dottrine che tendono a diminuire l’insieme dei doni che il Signore ha elargiti a colui che deve farne le veci fino al giorno dell’eternità, hanno per troppo tempo inaridito i cuori di quelli che le professavano; troppo spesso esse li hanno portati a sostituire il culto di Cesare al servizio di Pietro. Guarisci tutti questi mali, o Pastore supremo! Accelera il ritorno delle genti separate; affretta la caduta dell’eresia del XVI secolo; apri le braccia alla tua figlia, la Chiesa d’Inghilterra, e che essa rifiorisca come negli antichi giorni. Scuoti sempre più la Germania e i regni del Nord, e che tutti quei popoli si accorgano che non vi è più salvezza per la fede se non all’ombra della tua Cattedra. Rovescia il mostruoso colosso del Settentrione, che pesa insieme sull’Europa e sull’Asia, e scardina dovunque la vera religione del tuo Maestro. Richiama l’Oriente alla sua antica fedeltà, e che esso riveda dopo così lunga eclisse, le sue Sedi Patriarcali risorgere nell’unità della sottomissione all’unica Sede Apostolica. E infine mantieni noi che, per divina misericordia e per effetto della tua paterna tenerezza, siamo rimasti fedeli, nella fede Romana, nell’obbedienza al tuo successore. Istruiscici nei misteri che ti sono affidati; rivelaci ciò che il Padre celeste ha rivelato a te stesso. Mostraci Gesù, tuo Maestro; guidaci alla sua culla, affinché dietro il tuo esempio, e senza essere scandalizzati dai suoi abbassamenti, abbiamo la fortuna di dirgli come te: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!

 

[Noi oggi, il pusillus grex dell’arca di Pietro, cogliamo l’occasione di questa Festa meravigliosa che, per grazia di Dio celebriamo, per augurare al Santo Padre, Gregorio XVIII, successore di Gregorio XVII [il già cardinal G. Siri] e, in linea diretta continua, di San Pietro, Sommo Pontefice e Vicario di Cristo oggi in esilio, costrettovi dalle macchinazioni delle conventicole massoniche occultamente dirette dal Gran Kahal, salute materiale in questa vita, l’eterna salute spirituale ed una pronta e legittima rioccupazione della Cattedra della Sede Apostolica usurpata nel 1958 da ignobili marrani e servi di satana … sed portæ inferi non prævalebunt et Ipsa conteret caput eorum!

Et tu, Domine, deridebis eos; ad nihilum deduces omnes gentes. [Ps. LVIII, 9]

Lunga vita al Papa nostro Gregorio! Fuori i satanici lupi dalla Sede usurpata!

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (3)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(3)

4. – L’atto di fede

Sospendiamo per un momento lo studio dei motivi che ci spingono a prendere la decisione di perfezione, per cominciare a studiare gli elementi della perfezione stessa, di cui avete avuto ieri la definizione e di cui spero avrete l’idea chiara, semplice, riassuntiva. Il primo punto che logicamente si presenta a proposito della perfezione è la fede. Perché tutto parte dalla fede, tutto è proporzionato dalla fede nel nostro cammino spirituale verso Dio, nel ritmo di questo incedere verso Dio, nel modo e nel metodo di questo nostro progresso verso l’alto. Tutto comincia dalla fede, e tutto in certo modo è proporzionato dalla fede. Pertanto chi si mettesse a battere la via di Dio, che è la via della perfezione, prescindendo da uno studio della fede, perderebbe semplicemente il bandolo della matassa, non avrebbe più la luce, se ne andrebbe avanti con la testa nel sacco. Richiamo la vostra attenzione su una verità. La ricerca della perfezione, l’esplorare il cammino nostro d’avvicinamento a Dio non è una questione dell’istinto né del sentimento. L’istinto e il sentimento potranno venir bene, perché sono due capacità in fondo emotive che sussidiano la nostra energia, che umanizzano la nostra strada e la fanno digerire meglio; ma chi credesse di poter affidare il proprio cammino verso Dio all’iniziativa dell’istinto e, quanto sarebbe peggio, all’iniziativa del sentimento, credo che finirebbe per concludere poco o niente. – Bisogna sempre cominciare a ragionare, e prima di tutto bisogna raggiungere la saggezza, la sapienza, e per raggiungere la sapienza bisogna aver prima la scienza, e per avere la scienza, in questo caso, bisogna prima ragionare della fede. E’ ben questo il tracciato logico, altrimenti la via spirituale rimane sospesa sui trampoli e non si conclude nulla. Che cosa è l’atto di fede? E’ essenzialmente un atto d’intelletto, un atto con il quale l’intelletto aderisce, ossia accetta una verità, e l’accetta spinto da questo motivo: l’autorità di Dio rivelante. Ossia io faccio l’atto di fede quando dico: la mia mente aderisce e accetta questa proposizione, per esempio: Dio è trino, e l’accetta e vi aderisce perché Dio l’ha rivelata. Il motivo è questo e solo questo. Non l’accetto perché a me pare conveniente, no; questo non sarebbe un atto di fede; non l’accetto perché a me pare molto logico e molto opportuno supponendo d’aver studiato l’Ars Magna di Raimondo Lullo; se anche a me sembra possibile, se anche a me sembra razionale, io non l’accetto perché a me sembra razionale, l’accetto perché Dio l’ha rivelata, l’accetto sulla parola di Dio. Questo è l’atto di fede. – Ora vediamo un po’ punto per punto. L’atto di fede è un atto dell’intelligenza, un atto di adesione intellettuale. Pertanto qui non c’entra nessun sentimento, nessuna emozione. Le emozioni aiuteranno, spingeranno, imbottiranno, levigheranno, ma le emozioni qui non c’entrano. La sostanza dell’atto di fede è un atto essenzialmente intellettuale; badate che è per questo che lo si fa in piedi, perché nell’atto di fede è la sommità dell’uomo che si muove, l’intelletto. L’atto di fede è domandato all’uomo nella sua sostanza, espressione e azione migliore. Se voi cantate il Credo gregoriano, il terzo, quello che normalmente si canta alla Messa degli Angeli, osserverete una cosa: il Credo terzo è un canto sillabico, non vi è alcun lirismo; però quando finisce e arriva all’Amen, l’Amen non è più sillabico, diventa lirico; è un lirismo abbastanza lungo e complicato, tanto che riesce difficile farlo eseguire con uniformità quando si tratta di una grande massa corale. Perché quando si canta il Credo tutto il testo è sillabico e l’Amen diventa lirismo? Bisogna riportarci a quei monaci i cui nomi si sperdono nel Medioevo. Noi non sappiamo chi furono i compositori di questa melodia del Credo terzo, non sappiamo dire se non che si proiettano talmente indietro che non arriviamo a individuarli; ma siccome erano persone che vivevano abbastanza lontane dal mondo per potere intendere Dio, nella stessa costruzione musicale erano guidate da una intuizione teologica perfetta. – Chi sente la Messa di Papa Marcello, di Pier Luigi da Palestrina, rimane stupito dalla velocità con la quale si canta il Credo. Passa in un attimo il Credo della Messa di Papa Marcello, la più grande Messa forse della prima epoca classica della musica polifonica. Passa in un attimo; ma quando arriva all’Amen, si direbbe che non finisce più, perché si trasforma in una fuga; prende quegli andamenti arditissimi della grande composizione e pare che non trovi, come un uccello che vola, dove andare a posare, come una colomba di Noè. Ma perché questo? Perché quella gente costruiva la musica, ma viveva in un ambiente che era saturo di teologia. La parola più grande che si dice nel Credo è l’Amen; e l’Amen perché dalla prima all’ultima parola del testo le proposizioni si enunciano, si mettono lì davanti; e non è mica detto che mentre si dicono non ci sia l’atto di adesione dell’intelletto: io credo in Dio Padre Onnipotente; ma la espressione ufficiale, riassuntiva, per la quale si dice: è così, accetto, è l’Amen. Badate che l’atto di fede è in questo momento dell’intelletto che aderisce, che accetta e dice: ita est. Diteli bene tutti gli Amen che si dicono in chiesa, diteli con tutta l’anima: sono la vittoria sul mondo. Sapete perché? Osservate bene gli uomini: sono buoni poi, in fondo, non sono poi tutti cattivi, gli uomini; ma sono talmente nell’incertezza che si direbbe non hanno più nessuna sicurezza di vita. E tutto è incerto, tutto è problematico, tutto è dubbio. Oggi uno ha 1’impressione d’ essere scemo se non fa della problematica. Questo povero mondo fa veramente pietà; dove noi sentiamo la superiorità sul mondo, perché noi dobbiamo sentirla questa superiorità sul mondo in cui siamo quando andiamo verso Dio, è quando diciamo quell’Amen, quando abbiamo la sicurezza definitiva, quando viviamo di sicurezza. Dunque l’atto di fede è un atto di intelletto. Ma l’intelletto non è una ruota che giri a vuoto. L’intelletto si dipana attraverso le idee, attraverso il giudizio, attraverso il raziocinio. Lo sanno bene quelli che studiano la logica, visto che senza studiare la logica è difficile studiare la teologia. L’intelletto non gira a vuoto: o ha un oggetto o non gira, e allora è chiaro che perché l’atto di fede sia veramente una cosa seria, bisogna che ci sia la cognizione dell’oggetto, ossia della verità di fede. E’ vero che questa cognizione può essere anche riassuntiva, implicita, ma allora si avranno degli atti di fede molto riassuntivi e molto impliciti. – Io posso dire: credo tutto quello che mi insegna la Santa Chiesa Cattolica; faccio un atto di fede che è completo, d’accordo, ma l’oggetto di questo atto di fede è molto riassuntivo: quello che insegna la Santa Chiesa Cattolica. In questo c’è atto di ossequio alla volontà di Dio il quale vuole che io accetti come maestra infallibile e unica della rivelazione divina la Santa Chiesa Cattolica; ma sarebbe meglio che sapessi il I, il II, il III, il IV, il V e gli altri articoli del Credo. Li sapessi bene, li sapessi con quella diffusione e profondità che mi può dare la teologia. Più ne so e meglio è. Lo capite ora perché la teologia serve sempre di più a fare gli atti di fede? Io insisto su questo punto perché la ricchezza della vita spirituale comincia dall’ atto di fede, perché l’atto di fede dipana una delle sue grandi ricchezze, non l’unica, proprio la ricchezza dell’oggetto, la ricchezza conosciuta dell’oggetto. Più conosco, più ne so; più riesco a contemplare e più il mio atto di fede è vivificante e più la fede entra nella mia vita trionfalmente, come una di quelle grandi travature che reggono tutto il tetto e non lasciano ad altri di reggere niente. Perciò è opportuno che regga tutto la fede, che non lasciamo a nessuna altra cosa l’incarico, la possibilità di reggere in noi. Ma tutto finisce per essere retto dalla fede in noi se l’oggetto della fede è molto chiaro, cioè se è chiara la proposizione a cui si aderisce, che si accetta, quando l’oggetto della fede è così dettagliato, è così, vorrei dire, sezionato e reso per tal modo in una distribuzione di toni intellettuali digeribile da farlo diventare facilmente e abitualmente sangue nostro e vita della vita nostra. E tutto questo discende dal fatto che l’atto di fede è un atto di intelletto. – Ma io qui ho detto molto poco. Quest’atto d’intelletto da che cosa viene, non dico determinato, che è un’altra cosa, ma azionato? Che cos’è che prende il mio intelletto, consentitemi l’espressione, per il collo e lo fa piegare? Perché qui ci vuole una presa per il collo, dato che la fede non è la visione, perché la visione annullerebbe la fede; difatti noi perderemo tutti la fede e la virtù della fede nel momento in cui moriremo. Quando entreremo di là, quando arriveremo al cospetto di Dio, in Paradiso, dove speriamo di giungere tutti quanti, dove ci diamo appuntamento, allora perderemo la fede, perché c’è la visione, mentre la fede è adesione a una verità non perché io la veda con evidenza ma perché me lo ha detto Iddio. Capite perché c’è inconciliabilità tra la visione beatifica e l’atto della virtù della fede? Sicché la fede, così utile, così magnifica, è una cosa moritura, di natura sua, come la speranza. Anche la speranza cessa nel momento in cui si tocca la cosa sperata; quando non c’è più niente da sperare perché si ha tutto, la speranza muore. Lo dice chiaramente S. Paolo nel cap. 13 della Prima Lettera ai Corinti: « Nunc autem fides, spes, caritas, maior autem caritas ». Però quando io non sarò più bambino, dice S. Paolo, lascerò le cose che sono dei bambini; e cioè fin qui io vedo in specchio e in enigma la fede, ma allora io vedrò chiaramente, sicut cognitus sum, come sono veduto da Dio: la visione immediata, e pertanto cesserà la fede. Allora che cos’è che prende il mio intelletto per il collo e dice: aderisci, accetta? E’ la volontà. Qui c’entra la volontà. C’entra come motore estrinseco; « l’atto della fede in sé stesso è intellettivo, ma ha bisogno d’essere piegato dalla volontà; ci vuole l’energia della volontà. A questo punto non è questione soltanto di luce, è questione di forza, e allora è proprio qui che, essendo l’atto di fede piegato dalla volontà che interviene a imporlo, chiama in causa l’energia; ha bisogno di quella e può risentire della debolezza di quella. Fermiamoci un istante. E’ evidente che la fede ha bisogno di un nutrimento, non solo del nutrimento dello studio, ma anche del nutrimento energetico dell’orazione. E’ a questo punto della analisi dell’atto di fede dove si capisce che la fede ha bisogno continuo della orazione, e naturalmente ha bisogno di tutti gli altri mezzi coi quali si aumenta l’energia nostra, cioè ha bisogno di tutte quelle sorgenti della grazia di Dio che sono i sacramenti, i sacrifici, ecc. Ha bisogno di tutto, perché la nostra volontà, poveretta, ha bisogno di ricevere l’elemosina da ogni cosa, tanto è meschina. – Ora quando si tratta di quello che viene a noi ex opere operato dalla Santa Messa e dai sacramenti, beh, ci pensa abbastanza per conto suo a venire; ma quando andiamo un po’ più in là e l’iniziativa rimane nostra, l’iniziativa si chiama orazione. Se non si prega, è molto difficile che la virtù della fede rimanga con quella chiarezza, solidità ed efficacia innervante tutta quanta la vita, senza la quale non possiamo parlare di cammino alla perfezione. Su questo secondo punto ritornateci spesso, perché fa vedere, con l’introspezione dello stesso atto di fede, la necessità di abbinare sempre la fede con la orazione. Noi non possiamo dare alla nostra fede tutto quello splendore e tutta quella forza che trascina, che costruisce, che edifica, che penetra i cieli, se manca l’orazione. Ed è per questo che Nostro Signore ha detto: « Sine intermissione orate ». La fede è la prima cosa che è dentro di noi, e la fede a gran voce chiede l’orazione e soprattutto l’orazione mentale. Ma a questo punto come fa la volontà a muoversi e a imporre l’atto di fede? Badate bene com’è l’analisi della fede. L’atto di fede è un atto d’intelletto; era, mentre questo atto d’intelletto non è mosso dall’evidenza, che non è il suo motivo proprio, ma dalla volontà, a sua volta questa volontà è mossa dall’intelletto. Insomma l’intelletto fa due parti, quello di cui vi ho parlato prima è la parte costitutiva essenziale dell’atto di fede, ma prima di fare quella, ne fa un’altra che è sua propria: passa un ordine alla volontà. Ve lo spiego subito. La volontà da che cosa è mossa per poter muovere l’intelletto? Da un ordine dell’intelletto; è l’intelletto che dice alla volontà: prendi me stesso e piegami. L’intelletto dà un ordine alla volontà, perché alla volontà si danno ordini, alla volontà non si danno ragionamenti, perché la volontà è una facoltà motiva, non facoltà intellettiva; è spirituale, sì, ma motiva. Ma questo ordine dato alla volontà è preceduto da un giudizio emesso dall’intelletto, in quanto l’intelletto si determina a dare quest’ordine alla volontà perché prima ha dato un giudizio. E il giudizio qual è? E il cosiddetto giudizio di credibilità e di credendità. Il giudizio è questo: ci sono motivi sufficienti perché io possa credere. Non solo il giudizio di credibilità. Se io posso credere, io debbo credere; allora do un ordine alla volontà che muova tutto l’apparato. – Su che cosa è basato questo giudizio di credibilità e di credendità? Sono tutti i prolegomeni della fede. E su che cosa vertono i prolegomeni della fede? Sull’oggetto della fede? Cioè i prolegomeni della fede mi dimostrano forse che Dio è Padre onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo, l’Incarnazione? No, i prolegomeni della fede non dimostrano l’oggetto della fede; dimostrano il motivo della fede, cioè il fatto che Dio ha interposto la sua autorità rivelando e ha garantito con la sua autorità, che è la ragione più alta della certezza. L’autorità di Dio è infinitamente più alta della mia evidenza, ed è infinitamente più valevole della scienza, di ogni scienza umana e anche sovrumana; l’autorità di Dio si è interposta e pertanto mi dà la garanzia di questa verità. Io non vedo, la verità, non vedo l’oggetto, non lo vedo direttamente, ma interviene Iddio e mi dice: t’avverto che ci sono Io. Allora mi posso fidare. Allora il lavoro previo dell’intelletto è di assicurare se è vero che Dio ha parlato o no; e questo può essere fatto in modo scientifico, e ci sono parecchie strade per farlo applicando gli stessi canoni coi quali si giudicano tutti gli altri fatti che cadono nell’ambito della storia e che sono registrati dalla storia. Lo stesso criterio, gli stessi strumenti di constatazione, di prova, la stessa efficacia di conclusione scientifica. L’intelletto dice: posso credere e, continuando a guardare, dice: debbo credere. Allora posso dare ragionevolmente l’ordine alla volontà. Ma forse voi direte: e perché l’intelletto deve dare ordine alla volontà che muova sé stesso? Non potrebbe muoversi da sé? Non può. Perché? Perché l’intelletto è mosso dall’oggetto suo proprio, dall’evidenza; e non c’è l’evidenza nella fede; si può raggiungere tutt’al più, il che è bastevole, l’evidenza del « motivo ». Io non dimostro la verità di fede, dimostro l’autorità del testimone, il quale testimone, essendo Iddio, è più che sufficiente, e mi permette di colmare ogni passaggio logico e d’arrivare alla certezza assoluta. – Mi direte: ma perché ha fatto questo riassunto dell’analisi della fede? L’ho fatto per poter venire a delle conclusioni, perché vediate chiaro nelle conclusioni. Intanto perché capiate che la fede è razionale, ha un procedimento razionale, ma non poggia sulla ragione; perché la ragione si ferma a dimostrare il motivo della fede, ma non l’oggetto, e per questo rimane il merito della fede. Ma si chiude un anello, e la fede è perfettamente razionale perché è provato il motivo, cioè l’autorità del teste. – Anche se io non ho assistito al fatto, sono pienamente qualificato per accettare il fatto che mi ha affermato il teste quando il teste è Dio. Ma il mio scopo non è tanto di fare della teologia, il mio scopo è spirituale; io sono qui e sto predicando a me stesso gli Esercizi a voce alta. E ho detto tutto questo, oltre che per dimostrare la razionalità della fede, per farvi toccare con mano le caratteristiche dell’atto di fede. E la prima caratteristica dell’atto di fede è la fermezza: cioè è l’atto più fermo di tutti. Perché la fermezza è proporzionata alla solidità del motivo sul quale ci si appoggia, è vero? Questa cosa è ferma tanto quanto sono fermi i fondamenti che la reggono. Se questi fondamenti sono di nebbia, misurate voi! Se questi fondamenti sono di pietrisco, andrà un po’ meglio. Se questi fondamenti sono di pietra, pietre ben cementate, sarà ancor meglio. Se questi fondamenti sono tutti quanti di cemento armato e rivestiti in modo tale da essere assicurati contro qualsiasi deterioramento del ferro stesso, sarà ancora meglio. E se questi fondamenti sono la roccia stessa, allora siamo a posto. Non saremo a posto per i terremoti, perché la roccia trasmette meglio le vibrazioni del terremoto, ma comunque, fuori dei terremoti, certo colla roccia ci si sta benissimo, le cose sono assicurate nel modo massimo. Siccome il fondamento sul quale poggia l’atto di fede, cioè il motivo della fede, è la stessa autorità di Dio rivelante, non si può concepire un atto più certo, più sicuro, più capace di dare garanzia; e siccome la sicurezza dell’atto è sempre proporzionata al motivo su cui s’appoggia, l’atto di fede fruisce di una certezza che è superiore a tutte le altre certezze scientifiche che noi possiamo avere. Perché quelle sono date, quando lo sono; dall’evidenza nostra naturale, niente più, quando pure lo sono. Perché non bisogna dimenticare che regolarmente il 50% delle conclusioni scientifiche sono rimangiate da quelle che vengono dopo, perché non erano affatto conclusioni scientifiche. Dico 50% nella ipotesi più benigna; io non posso dimenticare che un giorno il più grande scolaro di Fermi, che forse era più scienziato del suo maestro, mi diceva che è il 95%. Io non sono in grado di giudicare; ma ho interpellato altri grandi uomini e, facendo la media delle risposte che mi hanno date, sono arrivato al 50%. Questo per dire cosa dobbiamo pensare della cosiddetta sicurezza e certezza scientifica. Ma fosse anche il 100%, v’avverto che è di natura diversa; la fermezza dell’atto di fede è superiore a qualunque certezza di carattere scientifico, fosse anche certezza del 100%. Noi siamo della gente certa, non della gente tormentata come da un complesso d’inferiorità, che dubita di tutto, che sempre presenta la realtà più innegabile in forma problematica; cioè noi non siamo degli ammalati. Il mondo è ammalato, e la sua malattia è l’incertezza. Noi siamo al suo servizio per cavarlo fuori. Ma noi Cristiani siamo della gente certa, e tanto siamo Cristiani in quanto siamo certi. Badate. Siamo nel secolo V e principio del VI: è l’epoca delle invasioni barbariche, durante le quali l’uno o l’altro di questi messeri del nord si prende il capriccio di fare delle passeggiate per tutte le varie strade dell’impero; e giungono fino a Roma; epoca in cui t’arrivano i Vandali in Africa, e S. Agostino se ne muore leggendo i Salmi penitenziali mentre la sua città è circondata dai barbari. In questo momento in cui la Chiesa Occidentale tutta raccolta attorno ai Papi, ai Vescovi, succede qualcosa. Quattro monaci marsigliesi si sono montati la testa. Si tratta di un puntino invisibile. Ma la Chiesa, che ha avuto l’incarico di custodire la verità, bada anche ai puntini quasi invisibili, perché questi finiscono col fare come le nuvole che s’allargano e poi viene la tempesta. Si trattava di questo: citavano che proprio all’initium fidei non è necessario che arrivi la grazia, si può fare anche senza la grazia di Dio. All’initium, cioè all’attimo primo nel quale in una mente sboccia fuori questa puntina, questa testa d’erba che si chiama fede, l’atto di fede ci si può arrivare da sé. E ci si sono accaniti per un secolo sul Semipelagianesimo. La questione e stata risolta definitivamente nel 529 con la condanna nel Concilio di Orange. Se all’initium fidei si dovesse ammettere che ci si arriva da soli, si sconvolgerebbe tutta quanta la costruzione che sta sopra. Guardate che conto ha fatto la Chiesa anche dei più piccoli particolari che riguardano la dottrina circa l’atto di fede. Perché ha fatto questo conto? Perché la purezza della dottrina circa lo stesso atto di fede domina tutta la perfezione, tutta la vita spirituale. Questo è l’insegnamento storico. Ecco perché, parlando della perone e dicendo che dobbiamo uscire da questi Santi Esercizi con la volontà seria della perfezione, ho voluto occuparmi dell’atto di fede e della fede.

5. -Continuazione dell’atto di fede

L’atto di fede, fondamento della vita spirituale e pertanto della perfezione, non è tale da escludere la dubitabilità. Che significa questo? Significa che, con tutte le sue caratteristiche, non impedisce che intorno vi possano essere delle tempeste, che il dubbio possa assalirvi. E’ per questo che l’atto di fede ha bisogno d’essere armato dello studio del catechismo, della religione, della teologia, per dire i diversi gradi, secondo le diverse possibilità dei fedeli. Ha bisogno di essere armato della orazione umile che chiede a Dio il superamento dei difetti, delle ombre, dell’anemia. Ha bisogno d’essere armato di un metodo completo di vita spirituale. E’ chiaro che la dubitabilità può essere sconfitta da tutta questa armatura che l’esperienza indica come pienamente efficiente nella vita dei fedeli che intendono servire seriamente Dio. – Ma detto questo in linea generale, io vorrei venire a una questione di grande importanza in ordine al tema di questi Santi Esercizi. Il tema più particolare è questo: tra le onde adirate che possono gettarsi contro questa scogliera dell’atto di fede, c’è quella dei diversi modi di pensare che la fantascienza mentale moderna ci può regalare in una forma inconscia. Perché è facile mettere in guardia contro le eresie, contro gli errori, appunto perché si suppone che si presentino come sono, con proposizioni chiare, che chiaramente denunciano la deformazione della verità, tali che eccitano sempre in chi vuol vivere secondo Dio l’immediata reazione, la presa di posizione, la difesa, la ripugnanza. – Ma il guaio sta in quello che viene ammannito in dosi omeopatiche e che, peggio, viene diluito nell’atmosfera culturale in modo tale da togliere quello che stimola la reazione, da creare nella mente, più che degli errori contro la fede, degli stati d’animo, i quali finiscono poi col produrre lo stesso effetto, come se si fosse diventati erranti nella fede. E ne parlo, non perché io mi preoccupi qui dell’aspetto intellettuale, ma perché mi preoccupo dell’aspetto spirituale; perché l’insorgere di taluni stati d’animo finisce sempre col far deragliare qualche cosa dalla ordinata e giusta via spirituale e diventa un attentato costante contro la perfezione. – Se noi fossimo costituiti in grazia, costituiti nella verità, se avessimo i doni preternaturali dei nostri primi parenti e potessimo non essere attaccati nella nostra ignoranza, potremmo non preoccuparci di queste tempeste subcoscienti, di questi attacchi marginali che vengono in forme diluitissime e quasi non avvertibili. Ma siccome siamo deboli e deboli su tutta la linea, siccome siamo facilissime prede delle ombre che emergono dagli stati d’animo, siccome non sempre abbiamo quella difesa della dottrina profondissima, agguerritissima, delicatissima nel saper sceverare anche i filamenti più reconditi, bisogna che, proprio per amore di questa perfezione alla quale ci vorremmo incamminare, noi ci immunizziamo, ci vacciniamo a tempo. Ecco, si tratta di fare una vaccinazione tempestiva perché, ripeto, dinanzi a tutti i rumoreggiamenti che il male può fare dinanzi alla nostra fede e che possono essere sempre magnificamente superati, ce n’è uno che mi pare il più difficile a superarsi, perché è il più nascosto ed è diluito nell’aria. Non è mai accaduto in tutta la storia a noi nota che determinate dottrine filosofiche siano filtrate così in tutta la cultura, in tutto il costume al punto da

far pensare la massa della gente a modo loro e in modo che non si accorga di pensare a quel modo. Fino a qualche decennio fa, i mezzi di trasmissione della cultura erano legati a due sole forme: alla scuola e ai libri. La scuola era frequentata relativamente da pochi, i libri erano letti ancor meno. Io ricordo quando uno, comperando una dozzina di libri all’anno, in fondo poteva dirsi al corrente. Oggi io credo che se anche uno ne compera non una dozzina ma milleduecento all’anno, non potrà dire veramente di essere al corrente. Comunque una volta c’era la scuola, e questo era uno strumento ridotto, e il libro, e questo era uno strumento non troppo diffuso. Oggi questi due strumenti sono ingranditi enormemente. Ma a questi si sono aggiunti degli strumenti diffusori della, chiamiamola così, cultura annacquata; la radio e la televisione sono entrate in tutte le case. La gente è rimpinzata dalla mattina alla sera di cultura. Per conseguenza la maggior parte della gente si trova impregnata senza saperlo di una dottrina filosofica. Quale? Se noi passiamo al filtro tutte le pubblicazioni, dico tutte quelle che escono fuori dell’ambiente cattolico, compreso anche qualche pezzo di qualcuna che esce nell’ambiente cattolico, noi vediamo che il 40% si riduce a opere idealiste; l’altro 40% si riduce a opere esistenzialiste; quello che rimane è il freudismo; è il meno appariscente ma è quello che beneficia più dei due precedenti. E voi trovate nello stile della gente tutte queste cose; perfino nello stile dell’operaio che impasta il cemento trovate queste cose. – Il nostro tempo vive essenzialmente di idealismo. E’ opportuno avvertirne un aspetto concreto perché, avvertendolo, ci se ne può guardare. L’idealismo ha fatto la trasposizione completa dall’oggetto il soggetto, ha invertito le parti. Non è il soggetto che dipende dall’oggetto, ma l’oggetto che dipende dal soggetto. Questo rovesciamento l’aveva iniziato Lutero, ha camminato qua e là per l’Europa nella testa degli uomini per quattro secoli e alla fine è stato completo. La cosa avvenuta nella trasposizione tra soggetto e oggetto è questa, che siccome non siamo noi che dipendiamo dalla realtà, ma siamo noi che la creiamo, ecco, della realtà si può dire quello che si vuole. Esaminate voi ora la mentalità diffusa oggi e troverete costantemente questo carattere: si dice quello che si vuole. Io parlo della stampa del gran mondo; a certi margini dove sta la brava gente che non è completamente intossicata, le cose vanno diversamente, ma purtroppo non sono i più. Nel gran mondo le cose stanno così: ognuno dice quello che vuole, quello che crede. Dà dei fatti l’interpretazione più spontanea che gli sgorga dalla penna con meno difficoltà. E perché tutto questo? Per quel tanto di idealismo che sta dietro le spalle. L’idealismo è morto, così lo si insegna poco ufficialmente, pochissimo. Ma hanno applicato qualche canone dell’idealismo, quello sì. E quello è l’idealismo che sopravvive; l’idealismo classico è press’a poco tramontato, ma rimane il metro dell’idealismo, e noi ne siamo inquinati. V’è persino chi scrive libri spirituali con metodo idealistico. Perché uno dice quello che gli viene in mente, se lo inventa; non studia, non va a fare la consultazione mentre scrive; pensa quel che gli pare e vende così, e tutto va bene. Noi siamo stati intrisi di questo metodo. C’è un secondo coefficiente che rappresenta il 40% di tutta la cultura non cattolica del nostro tempo. E’ l’esistenzialismo. Non ripeto quello che ho detto, perché le cose se ne vanno con lo stesso ritmo, con la stessa penetrazione, con gli stessi effetti dell’idealismo. Ma vorrei darvi un elemento concreto per reperirli. L’esistenzialismo capovolge l’essenza e l’esistenza. Per l’esistenzialismo la cosa più vera che vale non è l’essenza, è l’esistenza. Traducete in parole povere: è il fatto che vale, non l’idea. Tra i fatti, il più clamoroso è l’angoscia, il nichilismo. Pertanto il pessimismo. Vi prego di guardare il modo di ragionare che s’è diffuso da tutti questi strumenti che io vi ho messo dinanzi. Ciò che conta è il fatto. E’ questo che vale e basta. Ecco il capovolgimento tra essenza ed esistenza. Potevano sembrare questioni oziose, queste, quando nell’800 si stava a discutere fra i teologi se essenza ed esistenza si distinguevano o non si distinguevano; se si doveva stare con i Suareziani o contro i Suareziani. Allora, per grazia di Dio, queste questioni si facevano nella scuola, e anche se qualcheduno poteva deviare dalla linea obbiettiva, la cosa rimaneva nella scuola e finiva lì. Nel nostro tempo di queste cose non c’è più rimasto nulla nella scuola, ma è rimasto lo stile, che annulla l’idea. Il fatto è questo. – Basta. E così siamo arrivati alla legge della giungla. Dei fatti poi, quello più sintomatico è quello dell’angoscia e della disperazione. Oggi non si scrive più un romanzo che, o nella conclusione o nella stesura o nel modo con cui la vicenda è pensata, non sia tale da ispirare le idee più nere e la più profonda tristezza della vita. E badate che questo entra anche in casa nostra più di quello che non si creda. Io parlò della problematica, della mania della problematica; la problematica non è altro che un sottobosco della filosofia esistenzialista. – Il terzo coefficiente è il freudismo. La filosofia di Freud è morta prima che morisse Freud, ma ne è rimasta di lui qualche cosa nella terapia medica, qualche cosa più o meno discutibile, più o meno apprezzabile. La sua filosofia è morta prima che morisse lui, ma quello che è tragico è che non ne è morto il metodo. Come dell’idealismo dove dell’idealismo, è rimasto il metodo e sta entrando dappertutto, nella testa di tutti e porta la responsabilità delle stravaganze del nostro tempo, e dell’esistenzialismo di cui è entrato incoscientemente il metodo nella cultura, nei modi di agire, in tutte le stravaganze della nostra età, così allo stesso modo è avvenuto del freudismo: morto Freud, è entrato il suo metodo nel costume, ed è il più diffuso di tutti. – Voi sapete che il metodo di cura di Freud sta nel portare il paziente a gettar fuori di sé stesso tutto quello che ha di più recondito e di più brutto in fondo all’anima; e di più brutto perché questo metodo terapeutico, nel piano filosofico concepito da Freud, ha due principi: l’uomo sarebbe azionato da due principi: il principio del sesso e il principio della morte, uno più macabro dell’altro. E pertanto si vede il freudismo nell’atto in cui obbliga una povera creatura a metter fuori tutto quello che ha di più orribile, di più innominabile; che se per caso non ce l’ha, per fare come fanno gli altri, lo inventerà. – Ma dovrà mettere fuori quello, la passione in sostanza. Andare a rimescolare in fondo al lago che raccoglie gli scoli di una città per far tornare a galla quello che fortunatamente s’era depositato in fondo: questo è il freudismo. – Ora vedete fino a che punto questo metodo è diventato pane dell’esperienza quotidiana quando osservate la mania di ricercare dappertutto il peggio, lo scandalo. Guardate i giornali di che cosa sono fatti e perché la gente legge i giornali: li legge il 70% per cercare quello, ecco il suggello del freudismo. – La ricerca del bassofondo melmoso, la dilettazione di trovare quello. E guardate fino a che punto s’è diffuso, come aleggia dappertutto il senso del disprezzo di tutto. Il che è logico, è coerente. Viviamo di disprezzo. Si disprezza tutto. La gente è contenta se può arrivare a sputare sugli altri, sull’autorità, sui grandi nomi della storia. Ma è infame abituare la gente a non avere più stima di nulla. Se qualcheduno di voi, che sta qua dentro, qualche giorno si trovasse a non stimare più nulla, è possibile, stia attento: non è farina del suo sacco. Quella è farina del sacco altrui. Cosa bevuta, di quelle diluite nell’ambiente. Quando uno si trova al punto che non ha più stima di nessuno, vuol dire che è annegato nell’ambiente. Cerchi di farsi la respirazione artificiale per un bel po’, poi può darsi che respiri coi suoi polmoni. – Vivete secondo Dio, vivete la fede. Vi dicevo, parlando della trama della vita, che vi sono persone che credono di vivere cristianamente, ma che hanno una trama pagana, anche se fanno la Comunione tutti i giorni. Ora debbo dire la stessa cosa di persone che credono di pensare cristianamente, cattolicissimamente, ma il loro pensare cattolicissimamente è cosa artificiale, di qualche momento, mentre nel sottofondo costante e compatto, che regge tutto, c’è un modo di vedere, di pensare, di giudicare, di sentire che è completamente avulso dall’indicazione cristiana. Hanno un concetto pessimistico di tutto e se lo sono presi dal freudismo. – Guardate un po’ ora; fate bene l’esame di coscienza. Guardate bene se per caso non ci sono dentro di voi questi reliquati coscienti o subcoscienti. Perché se nella vostra abitudine mentale voi doveste trovare la facilità alla problematica senza senso; se doveste trovare nelle vostre abitudini mentali la facilità di dire, così, quello che vi viene in bocca, senza preoccuparvi mai d’obbiettivare, di documentare, di ricercare, di essere aderenti alle indicazioni di una documentazione obbiettiva; se nelle vostre abitudini mentali doveste trovare questo rassegnato cedimento al fatto: quando una cosa è fatta, è inutile andare a cercare teorie; se nelle vostre abitudini mentali doveste trovare questa, di andare a rimescolare il peggio, di dover dare alle cose sempre l’interpretazione cattiva, di cavare sempre l’intenzione cattiva dai fatti, di tendere sempre al disprezzo, alla sottovalutazione dei propri fratelli, attenti! Prima di camminare nella via della santità bisogna levare questa roba dall’anima. Perché con questo piombo fuso e osceno nell’anima non si cammina, non ci si eleva, non si vola. E pensate che questa colata di piombo avviene di notte, mentre noi dormiamo, quando noi non ce ne accorgiamo, e poi la ritroviamo dappertutto. Bisogna difendersi. – Ci sono delle perversioni morali che non si catalogano e sono peggiori delle altre. Come bisogna rigenerarsi nell’acqua della semplicità, della purità, della chiarezza, della parola di Dio che sola ci fa intendere! Come avviene questa perversione? Come stato d’animo, non come idee. Poi, come una cellula fotoelettrica opera e trasforma,  a un certo momento questi stati d’animo riemergono come se fossero idee. Mi sono provato a domandare a molti artisti come intendevano l’arte. E mi hanno dato delle risposte. Ho chiesto loro se sapevano che cosa quelle risposte supponevano. Quasi mai mi è stato risposto quello che le loro risposte supponevano, potrei anche dire mai. Allora taluni di loro hanno sudato a spiegare che le loro risposte supponevano, né più né meno, il Breviario di Estetica del Croce, cioè la filosofia, e questa a sua volta supponeva la filosofia che il Croce aveva appresa dall’idealismo di Hegel. E cosa è avvenuto? E ‘ avvenuto che in costoro sono entrati degli stati d’animo, non avvertiti intellettualmente, non tradotti in proposizioni leggibili: ma questi stati d’animo a poco a poco sono diventati delle idee e li hanno innervati. Non hanno coscienza di dipendere da una filosofia; ma molte volte sembra più filosofia che arte, anche se essi non sanno quale filosofia seguano. Ho finito. Voi capite, vero, come persone che vivono nella cultura o ai suoi margini, che entrano nella grande corrente della vita, che debbono agire là e per quello che là si trova, debbano prepararvisi? E avrete anche capito che se non si risolve bene questa questione di perfetta indipendenza dell’anima nostra, nella sua fede, da quello che anche incoscientemente o subcoscientemente ci può essere propinato dal mondo nel quale viviamo, rischiamo di perdere la via della perfezione.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (2)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(2)

3. Il Giudizio

La seconda ragione per cui Dio chiede a noi la perfezione è perché lui ci giudicherà. Bene inteso, neppure questa è la ragione suprema per cui noi dobbiamo essere perfetti; ma è una grande ragione. Saremo giudicati da Dio, ed è sotto questo profilo che ora dobbiamo brevemente ragionare del giudizio di Dio. C’è un punto che interessa e che dobbiamo sceverare dagli altri, perché, agli effetti logici dell’orientamento che abbiamo preso in questi Santi Esercizi, è quello il punto importante. Saremo giudicati da Dio un giorno; ma voi sapete bene che noi siamo continuamente giudicati da Dio: il giudizio di beneplacito o il giudizio di riprovazione Dio lo dà contemporaneamente alla nostra azione. Questo è il punto che talvolta ci sfugge. Non è che la valutazione dei fatti nostri se ne vada in quiescenza tanto tempo quanto ci separa dalla morte; no, noi siamo sotto il giudizio di Dio, e dobbiamo sentirci continuamente sotto il giudizio di Dio. Poi il giudizio che sia riassuntivo, perché decisivo della nostra sorte, verrà dato al momento della nostra morte. E finalmente il giudizio inquadrante la nostra sorte nell’unitario destino dell’umanità verrà dato al giudizio finale, all’ultimo giudizio, dopo la nostra risurrezione. Ma quello che a noi interessa ora è di sapere il criterio col quale saremo giudicati. Neppure vi starò ora a commentare la parabola dei talenti, nella quale Nostro Signore ci ha dato il criterio col quale saremo giudicati. Mi basta semplicemente richiamarvi che nella parabola dei talenti il criterio del giudizio appare esigentissimo. – Naturalmente non si deve fare un computo matematico, perché non siamo in sede di computi matematici di quantità; siamo in sede di valori ontologici. A ogni modo l’espressione matematica: Dio domanda il cento per uno d’interesse è tale da far capire che il criterio è questo. E’ inutile che ci si gingilli a pensare che il criterio non sarà duro perché Dio è misericordioso: noi talvolta abbiamo la brutta abitudine mentale di opporre una verità all’altra per metterle da parte tutte e due. Si tira fuori a sproposito la misericordia di Dio per mettere a posto la giustizia. Così si fa a meno dell’una e dell’altra, e si fa quel che si vuole; e anche questa è una forma di ipocrisia. Ricordiamoci che il criterio del giudizio di Dio è un criterio duro! Ma non è neppure su questo che io voglio stamattina attirare la vostra attenzione; il punto è un altro, ed è questo: che il criterio col quale saremo giudicati sia la legge di Dio, è vero, e il modo con cui saremo giudicati sarà quello del cento per uno; ma il riferimento, cioè il paragone tra noi e qualche altra cosa, verrà fatto su che cosa? Nello stendere la legge alla quale dobbiamo uniformarci e sulla quale saremo giudicati, Dio stesso ha voluto essere il nostro modello. Dio stesso. È questo che impressiona. E la conclusione la vedete subito: se Dio stesso ha voluto essere il nostro modello, vuol dire che noi dobbiamo essere perfetti. Non ci ha dato un altro modello, ma ci ha dato sé stesso. – Io non starò a tratteggiarvi una coreografia del giudizio particolare, perché tutti gli elementi di fantasia sarebbero elementi di simbolo, ossia noi potremmo richiamare tutte le cose più terribili che in materia si possano immaginare, a proposito di giudizio, ma per dire: badate che questi elementi terribili appaiono nella concezione umana che possiamo farci del giudizio; immaginatevi che cosa sarà il giudizio di Dio nella sua realtà! Potrei cominciare a parlare di Edipo che, quando scopre quello che è e si sente sottoposto al giudizio dei suoi figli, dei suoi stessi figli, si strappa gli occhi, e ricordarvi il terribile cantico del coro col quale la celebre tragedia finisce. Tragedia che può dare il senso di che cosa voglia dire per un padre essere giudicato dai suoi figli. Ed essere giudicato da Dio? Altro che essere giudicato dai propri figli! Io potrei stare a costruire tutti questi elementi, ma dovrei dire: guardate che sono tutti elementi metaforici, cioè non descrivono un bel niente; se qui è tanto, di là che sarà? Ma qui io dovrei fermarmi, perché quando si tratta di parlare di cose che stanno al di là del muro è meglio non dire troppo; quando le cose che noi non abbiamo sperimentate direttamente le sappiamo soltanto per divina rivelazione o le sappiamo per deduzione intellettuale da principi a noi noti, la fantasia è meglio lasciarla un po’ stare. – Voi siete tutta gente che non ha bisogno di essere sollecitata troppo dalla fantasia, avete tutti studiato, e pertanto non posso farvi la catechesi e andarmi a raccomandare agli elementi di sentimento; io non ho bisogno di mettervi paura con ombre vaganti, con strumenti di tortura. Quello invece che è serio nel giudizio di Dio è che il modello è Lui. – Allora ragioniamo un po’ su questo modello che è Lui. Vedete, c’è, così, grosso modo, una distinzione simile a quella fra l’Antico Testamento e il Nuovo. Non è una distinzione che si possa dire perfettamente adeguata e netta, ma in via sommaria è una distinzione che si sostiene, è giusta, ed è questa: nell’Antico Testamento Dio si presenta come modello attraverso le opere sue; sono le opere di Dio che fanno da modello, è la creazione, ed è anche un certo lineamento dell’azione di Dio nella provvidenza della storia.  Noi vediamo che i profeti richiamano questo elemento di Provvidenza nella storia; soprattutto Isaia e poi Daniele. Invece nel Nuovo Testamento non è che venga rinnegato il criterio che Dio ci fa da modello con le opere sue, affatto, ma Dio si presenta modello nostro in sé stesso e per sé stesso, il che del resto è perfettamente in ritmo e segue, direi, l’onda della rivelazione divina. Perché nel Nuovo Testamento è Dio in sé stesso che si rivela, anche se qualche accenno lontano, accenno lasciato all’acume degli interpreti, viene fatto nell’Antico Testamento. A ogni modo è bene considerare tutte e due le cose. Dio si è presentato, ha presentato come modello delle nostre opere la creazione. Questo del resto ce lo dice S. Paolo nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, dove parla della funzione che hanno le creature: le creature hanno una funzione di rivelare agli uomini qualche cosa: Dio ha scritto qualcosa creando, e questo divino scritto deve essere decifrato dagli uomini, essi devono camminare con gli occhi aperti perché in quello che hanno davanti possono benissimo decifrare la indicazione, la volontà e una naturale rivelazione di Dio. Tutte le cose sono un modello, tutte. Perché ogni cosa ci mostra un ordine, anzi in quest’ordine le cose ci battono e ci precedono perché, non essendo libere ma determinate, agiscono sempre con una sufficiente perfezione. – Tutte le creature ci danno l’impressione di un ordine grande, di un ritmo che non si smentisce mai, in tutto il ciclo della loro vita. Gli animali non rompono mai la norma, perché anche quando determinati stimoli esterni che gli animali possono liberamente porre li spingono piuttosto in una direzione che in un’altra, si comportano secondo leggi predeterminate. E pertanto l’ordine non viene meno mai. Certo fa impressione quel volteggiare delle rondini la sera in primavera; poi accade qualche cosa per cui improvvisamente cessa il loro volare, improvvisamente, come se avessero ricevuto un segno, e tutte ordinatamente si ritirano in un attimo; quella sarabanda di danze sui nostri tetti, davanti alle nostre finestre, cessa di colpo a un determinato momento del crepuscolo; pare che vadano a dire le loro preghiere e poi se ne vadano a dormire. Se anche gli uomini facessero così! – Ecco, le creature ci parlano di una infinita saggezza e sapienza, ci mostrano un’intelligenza obbiettiva ordinante le cose stesse; e cioè dall’ordine e dall’effetto ci fanno risalire al disegno, alla causa dell’ordine stesso, ci parlano dell’intelligenza di Dio e sono testimoni di una incredibile luce che, al di là di loro stesse, fatte così diafane, fatte trasparenti come cristalli, esse ci rivelano. E’ così che la intelligenza sovrana, il lume dato, il lume ricevuto e la sostanza delle stesse cose materiali tradotta in termini intelligibili, e non più sensibili, cioè trasformata in una espressione che è fedelissima ed è invece, senza cessare quella sua fedeltà, infinitamente superiore, al di sopra della stessa realizzazione concreta e materiale, sono un continuo ribadire di quanto la luce intellettuale, doverosamente guidata, ragionevolmente nutrita, debba sovrastare alle azioni degli uomini. Tutte le creature sono appetibili in sé stesse, e voi sapete che l’appetibilità è la « bonitas »; la qualità per cui una cosa diventa appetibile è la sua bontà. Le creature pertanto ci rivelano la loro bontà, e rivelandoci la bontà ce la insegnano, ce la richiamano, non omettendo di richiamare che la bontà si verifica in esse secondo il grado della loro costituzione, secondo la elevatezza della loro individualità, secondo insomma i limiti della loro natura. E parlandoci della bontà, ci parlano dell’infinita bontà di Dio. E’ così che le creature terrene nel momento stesso in cui si fanno conoscere e ci si rivelano all’intelletto attraverso i sensi, in quello stesso istante ci danno un gusto soddisfatto, un piacere, una gioia, ci rivelano la bellezza, perché la bellezza è lo splendore dell’ordine e ha questo particolare effetto di dare il gusto, il godimento nel momento in cui la cosa bella viene conosciuta. La bellezza che viene stemperata per tutto quanto il creato ci parla di Dio, ci parla di una bellezza obbiettiva, e questa bellezza obbiettiva prende il ritmo dalla prima causa, ci fa ascendere col modello. Il mondo è un modello, il sole col suo sorgere e col suo tramontare è un modello, la luna col suo apparire nella notte, non con la sua volubilità ma con la luce e con quel carattere tipico della sua luce in mezzo alle tenebre, diventa un modello. Le stelle del cielo sono un modello, e gli animali stessi sono un modello, e la natura stessa in tutti i suoi ordini, nel suo fiorire e nel suo sfiorire, con le sue primavere e coi suoi autunni, è tutto un ordine e diventa un modello. – Dio ha parlato così. E Dio è stato modello così. Guardate che questo mondo che gira intorno a noi è una perenne testimonianza del giudizio di Dio. Perché Dio questo immenso panorama ce l’ha costruito intorno perché imparassimo, perché fosse norma, ispirazione, elevazione e perché segnasse a noi una strada, perché accogliesse con immensa dolcezza i nostri sentimenti e li incanalasse, perché stimolasse con appropriata forza la nostra intelligenza e la guidasse, perché avvolgesse con inimitabile calore la nostra vita e la sostenesse, perché fosse un modello. E’ cosa grandiosa, certo, è cosa che è stata la vera sorgente d’ogni poesia, per quanto sia stata stemperata e talvolta anche contaminata dall’uomo. Ma con tutto questo, la natura non è ancora il vero modello perché il vero modello ha voluto essere Iddio stesso. – Cerchiamo d’avvicinarci ora al Nuovo Testamento. Noi sentiamo come parla N. S. Gesù Cristo. Un giorno Egli fa questo discorso: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli…, il quale fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti, manda la sua pioggia sui buoni e sui cattivi ». C’è l’affermazione generale e c’è la documentazione particolare. L’affermazione generale: perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli, termine ultimo, criterio sovrano, il diagramma prestabilito alla nostra volontà.. La stessa perfezione del Padre. E poi c’è la documentazione particolare che restringe il campo, perché la documentazione non è mai la cosa documentata, è parte rispetto al tutto. Guardate la documentazione. Agisce da Signore, Iddio, dà a chi gli porta via: ai cattivi e agli ingiusti dà la sua pioggia, dà il suo sole. Lo stile del Signore è dare anche a chi gli porta via; Egli non si impoverisce a dare a chi gli porta via. La magnificenza divina ne troverà un’applicazione grandissima nel Vangelo, la legge del perdono. Che c’è di più grande della legge del perdono? Essa trova una sua eco in quella dottrina del Salvatore, che non è scritta nel Vangelo, ma che S. Paolo ha riportato in un suo discorso: essere cioè precetto del Signore Gesù che è più beato dare che prendere. È il rovescio del mondo. È lo stile del Signore: è più beato e più grande dare che prendere. E qui il mondo è servito, perché il mondo è più beato a prendere che a dare; e invece non è vero; questo è lo stile del pitocco; lo stile del Signore è un altro. Ma questo è un esempio della legge, esempio della formulazione generale. – Gesù Cristo dice: « Dovete essere perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli » a cui dovete assomigliare. È quello il modello. Ecco un elemento che vi fa assomigliare al modello; agite da signori, non da pitocchi, perché lo stile del Signore è questo: far sorgere il sole tanto sui buoni che sui cattivi, mandare la sua pioggia sui giusti e sugli ingiusti. Del resto Gesù stesso, e qui attenti bene perché c’è una indicazione forte, in un certo momento dirà: « Uno è il vostro maestro, il Padre » e un’altra volta dirà: « Voi mi dite Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono ». È un punto dove si vede che Egli e il Padre sono un unico modello. È il richiamo alla dottrina su cui torna con tanta forza nei discorsi delle ultime settimane, registrati nell’Evangelo di Giovanni, dal cap. 9 in poi, la consustanzialità tra il Padre e il Figlio: il Figlio è modello perché è consustanziale al Padre, una cosa sola col Padre, e allora si comprende la funzione — bene intesa, in una forma che non è stata mai superata nella teologia degli apologeti del secolo II, quando hanno parlato del Logos, il Verbo che è in Dio stesso — del Verbo ad extra, al di fuori di Dio. Si capisce allora come la incarnazione del Verbo prende, oltre tutti gli altri significati, questo: d’essere la traduzione fatta a uso degli uomini della perfezione di Dio. Siccome la traduzione segue il diagramma: Padre, Figlio e Spirito Santo, vuol dire che il modello è la Trinità augusta, ossia è Dio in sé stesso e per sé stesso, non Dio soltanto in quanto Creatore, in quello che può sembrare la sua vita protesa ad extra, fuori di sé, ma nella sua stessa vita intima, dove una è la sostanza trina nelle Persone: è Padre veramente, è veramente Figlio, è veramente Spirito Santo. Dio è in sé stesso il modello, ed è perché è modello, Lui, nella sua vita intima, che è stata data la grazia agli uomini ed è stata data la verità più piena attraverso la rivelazione, sicché gli uomini conoscessero cose che con l’intelligenza non avrebbero mai potuto raggiungere. Affinché il ritmo fosse pieno, dovevano assimilarsi a Dio, perché chiamati ad essere figlioli adottivi di Dio. – Ora vedete perché ci è domandata la perfezione? Potevano gli uomini pensare che Dio sarebbe venuto in terra con l’incarnazione, atto di traduzione del divino modello rispecchiato in Dio fatto uomo, per essere accessibile così all’intelligenza umana? Per fare una traduzione che non alterasse il testo, c’è stata l’incarnazione; badate bene, qui raggiungiamo uno dei motivi profondi del mistero centrale della nostra fede: perché non si alterasse il testo nella traduzione. C’è stata l’incarnazione perché non accadesse, affidando la traduzione del modello semplicemente alla parola e non al fatto, che la parola restasse lontana, troppo lontana dal modello. Siamo dinanzi al perno della nostra fede; non dimentichiamo che noi abbiamo per modello Iddio, Padre, Figlio e Spirito Santo, e che se c’è una luce alla quale dobbiamo volgerci, non è quella di qualunque faro acceso in questo mondo, è una luce che sta al di là del mondo, e questo spiega perché dobbiamo continuamente rendere la veduta nostra più acuta, fare spiritualmente quel gesto che facciamo coi nostri occhi quando cerchiamo di vedere lontano. Dobbiamo farlo sempre spiritualmente questo gesto. È una abitudine di meditazione, di continua ricerca della verità, di contemplazione, che dobbiamo rendere ordinaria nella nostra vita. Non parlo della contemplazione straordinaria, l’ho già esclusa dal principio, ma di contemplazione ordinaria proprio perché il modello sta oltre. Voi capite che sorta di liberazione per gli uomini sia questa dalle cose che li circondano! Perché quello che hanno intorno è stimolante, avanguardia del modello di Dio, ma non è il loro modello ultimo; il loro modello ultimo lo hanno solo attraverso la fede, e questa attraverso la rivelazione, e questa nell’incarnazione, con la incarnazione e per l’incarnazione. Per ipsum, cum ipso et in ipso: esattamente come si dice nella Santa Messa, dopo che l’atto sacrificale è stato compiuto. – Il modello è Lui; ma se il modello è Lui, nasce una tale colleganza, meglio la necessità di una tale colleganza tra il nostro contegno morale ed il divino contegno che non c’è più bisogno di spendere parole per dire che o tendiamo alla perfezione o ci mettiamo fuori strada. Per Ipsum, cum Ipso et per Ipso.