GREGORIO XVII:
IL MAGISTERO IMPEDITO
I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI
LA PERFEZIONE
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6. – L’Inferno
Ritorniamo alla meditazione dei grandi motivi che ci inculcano questa verità: noi dobbiamo decisamente aspirare alla perfezione. Il motivo di turno è: l’inferno. Io non vi espongo, in questa meditazione, tutta la dottrina teologica sull’inferno, ma prendo lo spunto, anzi diversi spunti della dottrina sull’inferno semplicemente per documentare la necessità in noi della perfezione. E il costrutto di tutto il mio ragionamento è questo: per essere sicuri del dieci, bisogna puntare sul milione. Ecco, mi pare che il ragionamento sia semplice: supponiamo che il dieci sia il sufficiente e necessario per non andare all’inferno; ebbene, io vi dico: badate che per essere sicuri del dieci, bisogna puntare sul milione. – Primo punto. L’essenza dell’inferno in che cosa sta? Sta nella pena del danno. La pena del danno è questa: non avere Dio, cioè non avere più il tutto. Per farci una certa idea di che cosa sia non avere Dio, bisognerebbe che noi cominciassimo a meditare qual è la situazione dell’anima appena lasciato il corpo. Quando noi usciamo da questo mondo cade tutto, cadono le cose, cadono i criteri, cadono i surrogati, tutto cade; non rimane che Dio solo. – In Dio solo tutto il rimanente ritorna: in Dio solo e con Dio solo. Noi rimaniamo nella nudità assoluta di fronte a Dio, quella per cui a me risponde solo Dio, nessun’altra cosa può più rispondere; che se risponderà, risponderà in Dio e per Iddio. Ecco i termini crudi, i termini teologici di quell’incredibile rovesciamento che accade per ogni uomo. L’inferno è questo: cioè che, arrivati al punto in cui per noi la cosa sufficiente e necessaria non è altro che Dio, questo che è tutto viene a mancare in sempiterno. Tutte le cose che si possono dire infilando paragoni terrificanti, terribilmente terrificanti, le umane esperienze, che sono lontanissimi riflessi di quella suprema massima tragedia in cui può incorrere un uomo che ha sbagliato la strada, non servono altro che a fare di questa spaventosa verità un quadro lontanissimo e unicamente per luce indiretta. Ma dalla pena del danno, che è l’essenza dell’inferno, nasce questo problema: perché Dio manda un uomo all’inferno? Ce lo manda perché questo uomo o questa donna ha fatto una scelta in vita. Ha fatto una scelta libera, e Dio rispetta la libertà degli uomini. La cosa che riesce difficile alla nostra abitudine, nel tempo, è quella di capire che tutto si rovescia, ossia che tutto questo che noi viviamo adesso, il tempo, non è l’ordinario, è lo straordinario. L’ordinario sta di là. Questo è l’eccezionale. Il nostro modo d’essere sta nell’eternità e non nel tempo. Ma noi che finora non abbiamo sperimentato altro che il tempo abbiamo la testa configurata ad angolo, in modo che crediamo essere questo l’ordinario e quell’altro lo straordinario. Invece è esattamente il contrario. Ma occorre una lunga preparazione metafisica per abituarci a questa considerazione. – Ora a me interessa dire che Dio rispetta la scelta. Questa scelta, quando s’entra nell’eternità, non muta più. Dio manda all’inferno per tutta l’eternità perché, quando saremo arrivati nel nostro modo d’essere ordinario, che è quello, non muteremo più. Qui sta il mistero dell’inferno. Noi siamo in questa situazione: come se fossimo delle mosche. Noi siamo abituati a stare con i piedi in terra e la testa in aria, vero? Bene, se fossimo delle mosche appese al soffitto con le gambe attaccate al soffitto, e potessimo pensare e parlare, guarderemmo giù, e diremmo: che fanno quelli laggiù, con i piedi appesi al soffitto e la testa che penzola giù? Ma sarebbe il caso di rispondere : sentite, mosche, voi siete mosche, non ve ne accorgete! Voi non vi accorgete che i vostri ragionamenti sono tutti così, precisamente con i piedi appesi all’aria e con la testa che pende giù. Siete nella posizione anormale, voi; raddrizzatevi, allora sarete normali. Ma di quanto bisogna raddrizzarci? Bisogna andare di là per raddrizzarci. Quello che è grave è questo: Dio rispetta la scelta. Siccome la scelta, entrati nell’eternità, si consolida, l’inferno è eterno. Agli uomini questo non piace. Vedete, per andare all’inferno non occorre crederci, mentre per andare in Paradiso occorre crederci. Qui sta la differenza. Non ci vogliamo credere? Ebbene vedremo! N. S. Gesù Cristo è andato in croce perché gli uomini non vadano all’inferno. Però se proprio ci vogliono andare! Quello che balza fuori è che Dio rispetta la scelta. È questa la parola, la scelta. Ecco i l riflesso che dall’inferno arriva a questa terra, a noi. La scelta. Ogni volta che si decide, che ci si determina, che si pensa, che si parla, che si agisce, si fa una scelta. Non ha importanza se la legge sia quella del I, del II o del X comandamento; su tutte le leggi di Dio la scelta è questa: si sceglie tra Dio e non Dio. Si tratti del I, del II, del III, del IV, del V, del VI, del VII, dell’VIII, del IX, del X Comandamento; si tratti di tutti messi insieme, si dice questo: io scelgo tra Dio e non Dio. Badate che questa parola, che direi sprizza dal fuoco dell’inferno, s’incide in modo incandescente dinanzi a noi. La scelta è in qualunque atto; con qualunque passo noi facciamo una scelta, e in qualunque momento la scelta può essere risolutiva. Non avete pensato che ogni atto nostro si trova come a un bivio che può determinare la strada? Ogni momento è come un nodo da cui partono diverse strade. Perché ci sono molte situazioni nella nostra vita in cui dire di sì o dire di no vuol dire, con un piccolo episodio, decidere della propria strada. Questi casi si danno tante volte nella vita. Non dimenticate mai questa parola: la scelta. L’inferno è la testimonianza del rispetto che Dio ha per la nostra scelta. E la scelta la si può fare in ogni momento: s’aprono delle strade, e sbagliare vuol dire infilarne una che mette in una direzione perfettamente divaricata ed erronea. La scelta. Tenete presente che ci sono delle scelte che si fanno, per idiozia, non per un momento, ma per tutta l’esistenza. E queste sono le scelte più tragiche, le scelte che si fanno lasciando cadere un elemento, anche uno solo, quasi inavvertitamente; lasciando entrare un solo elemento, che non si presenta né immorale, né grave, né tragico, è però come uno di quei sassolini che cadono nelle cosiddette marmitte, là dove ci sono cascate d’acqua: gorgogliando nell’acqua che fa gorgo, ampliano continuamente la marmitta e la possono rendere una sorta di caverna. Era un sassolino, è caduto inavvertitamente. Ci sono scelte che non sono costituite da un fatto chiaro, definito, che forse non raggiungono mai la caratteristica della colpa grave in sé stessa, perché la colpa grave deve essere un atto ben chiaro; per fare la colpa grave occorre la pienezza dell’avvertenza e la pienezza del consenso. Tuttavia tracciano un solco, creano una carenza, rendono pericolante un edificio, e ad un certo momento vi saranno dei crolli; e non si dirà: è stata quella carenza; nessuno vi aveva mai fatto caso; si dirà solo: c’è stato un crollo. Come se i crolli accadessero per far dispetto a chi sta sotto. Voi capite, la parola scelta, riflessa dall’inferno in questo mondo, comincia a diventare una faccenda preoccupante. Perché siamo noi che la decidiamo. Perché tutti i momenti possono essere buoni per fare una scelta definitiva, tanto nel bene come nel male. – Pier Damiani, che fu il più austero dei Santi dell’XI secolo e fece da degno contrappeso, a modo suo all’opera di Gregorio VII e ai predecessori di Gregorio VII, i Papi che precedettero la riforma gregoriana, Pier Damiani diventò S. Pier Damiani perché un giorno, povero in canna, trovò una moneta e avrebbe potuto comperarsi qualcosa da mangiare; invece no, andò a far dire una Messa per un suo fratello che lo aveva aiutato e che era morto. – E fu questo gesto che lo cavò fuori, lo indirizzò dalla Scuola di Parma alla Abbazia di Fonte Avellana e poi a Pomposa, e poi qua e là per l’Europa, finché, fatto da Stefano X Cardinale e Vescovo di Ostia, fu veramente il luminare della riforma della Chiesa nel secolo XI. – Ma io mi domando: se quando egli ha trovato quella moneta fosse andato a comperarsi una bibita, avremmo S. Pier Damiani? Non lo so. Dio permette certi episodi perché si rifletta all’importanza che ha ogni momento della vita, ogni episodio, ogni sfumatura. È imponderabile. Un istante talvolta porta tutto un avvenire. Dio è giusto, egli non manda all’inferno per poco. Ma il poco può essere il principio del molto, come il punto è matematicamente il principio della linea, e la linea è matematicamente il principio del piano. Voi capite quale è la conseguenza. Avevo ragione quando vi dicevo che per arrivare a dieci bisogna puntare sul milione? – Secondo punto. Nella dottrina sull’inferno c’è un’altra cosa che interessa, ed è la cosiddetta pena del senso. E la pena del senso è secondaria, molto secondaria rispetto alla pena del danno. Perché l’essenza dell’inferno sta nella pena del danno, tanto è vero che l’inferno rimarrebbe tale anche se non ci fosse la pena del senso; e se ci fosse solo la pena del senso e non quella del danno, l’inferno non sarebbe più inferno. Però c’è anche quella, la pena del senso, quell’agente misteriosissimo, di carattere certamente sensibile, che agisce sull’anima che è spirituale; quindi niente da meravigliarsi se dopo la risurrezione la pena del senso agirà anche sul corpo. Nell’eternità questa pena del senso risponde per giustizia al cattivo uso che gli uomini avranno fatto del loro corpo e di tutte le creature. E allora le creature materiali si rivolteranno contro di loro. Allora, come la pena del danno, la pena del senso riflette fuori dell’inferno su noi, che per grazia di Dio non ci siamo e possiamo non andarci, la parola: scelta. La pena del senso riflette la parola: ritegno, nell’uso del corpo e delle creature. La parola ritegno non colpisce un momento o qualche momento, non verte su qualche cosa di frammentario, ma costituisce un tratto continuato, perché afferma il ritegno su tutta la vita. Occorre un ritegno nell’uso di quello che è parte materiale del nostro essere, un ritegno nell’uso di qualunque creatura. Sia essa capace di dare un piacere sensibile, sia essa capace di soddisfare una esigenza sensibile, sia essa decoro del nostro quadro, principio di sensazioni ed emozioni, di stimolo, d’istinto, sia essa una fronda di primavera, una sorgente d’estate, una vite coi frutti in autunno, sia essa neve che viene a giocondare gli uomini nell’ aridità dell’inverno, sia quel che si vuole: ritegno. E se l’inferno è così, il ritegno ci vuole sempre, perché potrà bastare un punto per poter guastare questo ritegno e sistemarci male. Ecco, un’altra volta, l’inferno riflette qualche cosa nel tempo. Per arrivare al dieci bisogna puntare sul milione. – E ora raccolgo da tutti e due gli elementi che ho sottoposto brevemente alla vostra considerazione una illustrazione di carattere generale, ed è questa: la pericolosità sulla quale noi continuamente camminiamo nella nostra vita. È l’inferno che grida la pericolosità continua nella nostra vita; e grida in modo tale da escludere ogni leggerezza, grida in modo costante, da escludere ogni frettolosità, ogni superficialità, perché siamo sempre in pericolo. Il sacrosanto Concilio Tridentino nella grande sessione quinta, la più grande di quel Concilio, al canone XVII dice: « Se qualcuno avrà detto, all’infuori del caso di rivelazione divina, d’essere infallibilmente sicuro della propria eterna salute, anathema sit » . È una verità de fide definita: nessuno di noi è certo, nessuno, a meno che intervenga una rivelazione divina, evidentemente di quelle rivelazioni private e che pertanto non hanno destinazione a tutta la Chiesa e non condizionano la salvezza di tutti gli uomini. Ma senza quella rivelazione nessuno può essere certo di assoluta infallibile certezza della sua salvezza eterna. Voi capite bene che tutto quello che si sa, che si può dire, che si sente dire, bisogna metterlo d’accordo con questo santo canone del Concilio Tridentino. E in che cosa si riduce la pericolosità della nostra situazione? Ci possiamo scherzare sopra; ma camminiamo sempre sull’orlo del precipizio, siamo sempre sull’orlo del fuoco. Ma se il precipizio ci si aprisse, come si apre un baratro, e fosse visibile, come in pieno giorno sono visibili i baratri, direi: sì, il pericolo c’è, ma gli occhi sono aperti, la luce c’è, il baratro si vede. Eh no, cari, il guaio è che noi viaggiamo in crepuscolo e di notte, e i baratri non li vediamo: perché ci sono delle forme che stanno al di là dell’episodio, al di là del singolo peccato e che diventano spaventose carenze. – Avete osservato come giocano in noi certe insensibilità? Cose che in certi momenti della nostra vita avevano una forza di eccitazione verso il bene, le stesse cose ora si riducono e quasi non ci toccano più. Sarà accaduto anche a voi, ma lo potrete vedere anche in altri giovani della vostra età, che avevano delle devozioni straordinarie quando erano piccoli e parlavano con gli angeli, con Gesù, avevano il gusto della preghiera, piangevano nelle funzioni religiose, sentivano l’attrazione del canto dei Vespri la domenica nella propria parrocchia o di altre cose, come la Novena di Natale. Poi arrivati un po’ in sù, bruciate tutte le papille, non sentono più niente. Quelli anche se si trovassero alle falde del monte Sinai, come Mose, lassù, con tutti i tuoni e i fulmini, e tutte quelle spaventose cose che hanno terrorizzato tutti gli ebrei che stavano sotto, quelli nemmeno ne avrebbero paura e nemmeno ci farebbero caso. Guardate questa storia delle insensibilità, che crescono, senza mai avere un tratto che possa assomigliarsi a un gradino, perché un gradino lo si avverte; per cui a un certo momento qualche cosa che prima parlava diventa muto, qualche cosa che prima era espressivo diventa arido, qualche cosa che prima si muoveva diventa immobile. Il pericolo dell’insensibilità che segue le nostre tiepidezze, il pericolo delle abitudini. Noi siamo un sacco di abitudini ambulanti. L’abitudine dispensa dal mettere impegno nell’atto; prò quota partis, qualche volta anche del tutto. Si può anche pregare completamente per abitudine, ci si può addormentare mentre si dice la Messa. Penso a quell’Arcivescovo di Canterbury, gran filosofo e gran matematico, che un bel giorno, dicendo la Messa, quando ebbe in mano la patena, si mise a disegnare teoremi di geometria sull’altare dimenticandosi che stava dicendo la Messa. Era Tommaso Becket, uno dei più grandi scolastici del secolo XII. Fortuna che quando rinvenne rimase così avvilito che non studiò mai più matematica, studiò solo filosofia, e fu un bene perché in quella riuscì grande. Guardate se non si hanno un sacco di abitudini! L’abitudine è un atto di provvidenza, perché quando si tratta di fare il bene, dispensandoci in parte dallo sforzo, possiamo fare il bene con una certa facilità; ma la stessa facilità ce la dà il male, e a un certo momento, senza accorgercene, per quella incoscienza che l’abitudine può logicamente portare, si può finire col trovarsi a camminare a valle piuttosto che a monte, nei sotterranei piuttosto che sul tetto, senza averne nemmeno preso coscienza. La pericolosità allora entra nella vita. Pericolosità nell’ordine del cosciente, pericolosità da tutte le parti. E allora la formula ritorna. Per arrivare a dieci bisogna puntare sul milione. Ecco, se vogliamo avere non la certezza infallibile, perché quella non la possiamo avere, ma una certa serenità di non andare all’inferno e una grande fiducia nella misericordia di Dio, non c’è altro da fare che questo: cercare ogni giorno la perfezione. È la formula del milione per ottenere almeno dieci: la salvezza dell’anima.