IL MATRIMONIO (4)
[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg. – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]
M. PUTATIVO.
L’istituto del M. putativo che si può definire genericamente come un M. invalido contratto in buona fede – venne creato dal diritto canonico allo scopo di mitigare, soprattutto nei confronti della prole, le rigorose conseguenze della nullità del M. –
1. Presupposto logico generale perché il M. produca gli effetti giuridici che gli sono inerenti, sia nei confronti delle parti che in quelli dei figli nati dalla loro unione, è che il M. stesso sia valido, cioè posto in essere con l’osservanza di tutti i requisiti di capacità, consenso e forma richiesti dalla legge per dare vita legittimamente al negozio matrimoniale, e – se tra battezzati – al relativo Sacramento. Perciò, se il M. è invalido per la presenza di qualche impedimento o comunque illegittimamente contratto, né i coniugi possono dirsi tali, né i figli considerarsi legittimi. A questo rigoroso principio, formulato come regola assoluta nel diritto romano (C. V, 5, 6), la dottrina canonistica ritenne doversi fare eccezione nel caso di buona fede da parte degli sposi, quando questi avessero contratto il M. ignorandone il vizio, e perciò fossero nella persuasione di essere legittimamente congiunti. Già Pietro Lombardo riferisce chiaramente (Sentent., 1. IV, D. 41, C), l’opinione di dottori che, pur divergendo nella valutazione giuridica del rapporto creatosi col coniugio invalido contratto ignoranter, sono concordi nella conclusione che riconosce la legittimità dei figli. Questa massima viene infine sanzionata nel diritto delle decretali (cc. 2, 8, 10, 14, X , qui filii sint legitimi, IV, 17). – Rimase così stabilito che, se uno dei due coniugi era stato in buona fede al momento del contratto, il M., benché nullo, produce tutti gli effetti di un M. legittimo o valido per tutto il tempo precedente la dichiarazione di nullità e per i figli nati o concepiti in tale periodo. Condizione normalmente richiesta però, oltre la buona fede, era che il M. fosse contratto in facie o in conspectu Ecclesiæ; il M. clandestino (v. sopra) non poteva di regola dar vita ad un M. putativo (c. 3, X , decland. despons., IV, 3). S u queste basi venne così a delinearsi la dottrina dell’istituto, ma non mancarono le questioni intorno all’esatta determinazione dei due requisiti richiesti ad integrarlo: buona fede, e celebrazione in facie Ecclesiæ. Circa la buona fede, consolidatasi l’opinione che bastasse quella di uno solo dei coniugi, onde si respinse la teoria che dovesse considerarsi indipendentemente per i due sposi, per cui il figlio avrebbe dovuto essere dichiarato legittimo solo nei confronti del coniuge ignorans – (monstruosum esset aliquem pro parte fore legitimum pro parte illegitimum) – la regola si fissò nel senso che fosse sufficiente a costituirla non soltanto l’ignoranza o l’errore di ratto, ma anche l’errore di diritto, purché valde probabilis et iustus. Si accolse inoltre la massima che, nel dubbio se le parti avessero ignorato o no l’impedimento, la buona fede si presumesse; però, secondo alcuni, solamente nel caso di errore di fatto e non anche in quello dell’errore di diritto. Infine, sempre coerentemente con lo scopo fondamentale determinante la formazione dell’istituto, cioè il favore dei figli innocenti, si allargò il concetto di buona fede sino a ritenerla compatibile con il dubbio iniziale circa la validità del M. (nam qui dubitat est in bona fide) ed a mantenerne gli effetti, quando sussistesse inizialmente, anche dopo la contestazione della lite sull’esistenza di un impedimento, così da dirsi legittimi i figli nati successivamente, purché concepiti prima della sentenza di nullità. – Quanto all’altro requisito della celebrazione in facie Ecclesiæ, che avrebbe escluso la possibilità di considerare putativo il M. viziato da clandestinità, esso segue naturalmente le variazioni che la nozione di quest’ultima subì fino al Concilio Tridentino. Perciò, mentre nel diritto anteriore bastava a costituire la celebrazione in facie Ecclesiæ che essa avvenisse pubblicamente, in conspectu fidelium o cohadunatis amicis, e, dopo il quarto Concilio Lateranense (1215), osservata la formalità delle pubblicazioni o bandi prescritti da esso, dopo il Tridentino si richiede la forma da questo stabilita, e cioè la presenza nel parroco e dei testi. Tuttavia gli autori non sono concordi nel ritenere che nel diritto anteriore al CIC la celebrazione coram Ecclesia fosse un requisito tassativo per dare vita a un M. putativo; e comunque sembra più plausibile l’opinione per cui la condizione in parola andasse sempre esplicata in relazione al requisito della buona fede; nel senso cioè che per effetto della clandestinità della celebrazione, non si presumeva più la buona, ma la mala fede. – Gli effetti del M. putativo, da principio limitati ala legittimità della prole, andarono man mano estendendosi anche ai rapporti patrimoniali tra i coniugi, garantendo alla parte in buona fede i vantaggi che avrebbero dovuto derivarle da un M. valido.
2. Il CIC ha mantenuto la figura del M. putativo nei suoi tratti essenziali. Esso qualifica formalmente come tale ogni M. invalido, celebrato in buona fede da una almeno delle parti, e fino a quando entrambe non abbiano acquistato la certezza della nullità (can. 1015 §4). In questa definizione non è menzione, come si vede, della necessità della celebrazione coram Ecclesia, per cui la dottrina prevalente interpretò questa norma nel senso più lato – conforme anche alle regole della più corretta ermeneutica giuridica -, riferendola quindi ad ogni M. contratto in buona fede, indipendentemente dalla celebrazione o meno nella forma canonica. Senonché un responso della Commissione per l’interpretazione autentica del CIC in data 26 genn. 1949, dichiarava che la parola celebratum usata dal can. 1015 § 4 doveva intendersi riferita solamente ai M. celebrati coram Ecclesìa. In tal modo la disposizione del CIC è venuta ad avere una interpretazione fortemente restrittiva, che parrebbe escludere fra l’altro la possibilità di configurare il M. putativo nel caso di M. tra acattolici; ma benché si sia voluto giustificare tale responso come un ritorno al genuino e originario concetto del M. putativo nel diritto ante Codicem, autorevole parte della dottrina non ha mancato di osservare che, non solo, – come si è visto — è lungi dall’essere pacifico che il principio affermato dal responso corrisponda realmente alla dottrina ante Codicem, ma che inoltre il responso stesso sembra in contrasto con la secolare tendenza della Chiesa di eliminare la clandestinità quale motivo di nullità dei M. fra acattolici e misti, considerando M. legittimi tutti quelli che hanno formam et figuram matrimonìì secondo le usanze locali, ed inoltre con lo spirito di larghezza in favore della prole che ha ispirato il sorgere e l’evolversi dell’istituto nel diritto canonico. – Gli effetti del M. putativo preveduti dal CIC sono quelli di far considerare legittimi i figli concepiti o nati dal medesimo alla stessa stregua che i figli concepiti o nati da M. valido, e cioè purché ai genitori non fosse vietato l’uso del M. al tempo del concepimento per effetto di solenne professione religiosa o di Ordine sacro (can. 1114). Parimenti il M. putativo, anche se non consumato, ha per effetto di legittimare la prole nata anteriormente, nella stessa maniera che il M. valido, e cioè purché i genitori fossero capaci di contrarre M. fra di loro al tempo della concezione, della gravidanza o della nascita (can. 1116). Il M. putativo cessa di essere tale allorché entrambe le parti acquistino la certezza della nullità (can. 1015 § 4); con l’effetto che la prole concepita successivamente non viene più considerata legittima, a tenore del can. 1114, come quella nata o concepita anteriormente.
3. L’istituto del M. putativo, elaborato dal diritto canonico, e da questo passato nel diritto comune e penetrato profondamente nella pratica dei vari paesi, veniva accolto nei suoi principi costitutivi anche nelle moderne legislazioni, particolarmente nel Codice civile francese e nei codici che da esso derivarono più o meno direttamente. Mentre alcuni ordinamenti, come quello svizzero, assicurano favorevole trattamento ai figli nati da M. nullo senza riguardo alla buona fede dei genitori, la considerazione di questo elemento è rimasta essenziale nelle legislazioni che, come quelle più sopra ricordate, hanno accolto la figura del M. putativo. – Il vigente Codice civile italiano dispone in proposito che il M. dichiarato nullo, quando è stato contratto in buona fede, ha, rispetto ai coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità, gli effetti del M. valido. Tali effetti si producono anche rispetto ai figli nati o concepiti durante il M. dichiarato nullo nonché rispetto ai figli nati prima del M. che siano stati riconosciuti anteriormente alla sentenza che dichiara la nullità. Se uno solo dei coniugi è stato in buona fede, gli effetti valgono soltanto in favore di lui e dei figli. Se entrambi i genitori sono stati in mala fede, i figli nati o concepiti durante il M. hanno lo stato di figli naturali riconosciuti, nei casi in cui il riconoscimento è consentito (art. 128). I medesimi effetti si hanno nel caso in cui il consenso del coniuge sia stato estorto con violenza, e si producono rispetto al coniuge che ha subito la violenza e ai figli; quanto all’altro coniuge essi valgono solo nel caso che questi fosse in buona fede (art. 129). Con queste disposizioni, le quali vengono a togliere alla pronuncia del giudice, che dichiara nullo il M., l’effetto retroattivo che logicamente dovrebbe discenderne, vengono sostanzialmente ad equipararsi la dichiarazione di nullità o l’annullamento (è noto che per il M. civile, a differenza che per il M. canonico, i due concetti vanno distinti) ad uno scioglimento che impedisce il prodursi di effetti nuovi, ma conserva quelli già prodotti. – Per aversi il M. putativo secondo il Codice Civile sembra indubbio che si richieda anzitutto l’esistenza di qualche elemento essenziale che escluda la fattispecie del M. inesistente e in ogni caso che non sia mancata una forma qualsiasi di celebrazione, ossia, come anche si è detto, che si sia avuta l’investitura formale nel rapporto giuridico di M. Si discute se possa parlarsi di M. putativo agli effetti civili nel caso di un M. religioso non trascritto: la dottrina italiana è su questo punto discorde. La giurisprudenza francese ha invece riconosciuto come M. putativo anche quello contratto in buona fede davanti a un sacerdote. – Quanto al requisito della buona fede, anche qui, riecheggiando le vecchie dispute in materia, non mancano punti di contrasto. L’opinione prevalente sembra oggi nel senso che la buona fede (che si ha quante volte i coniugi, o almeno uno di essi, contraendo il M. ignorarono – e sia per effetto di un errore di fatto, che di un errore di diritto – l’esistenza della causa di nullità) si presume, e perciò non deve essere dimostrata, per il principio generale di presunzione della buona fede. Ma vi è chi dubita che in questo caso tale principio possa essere applicato, poiché qui la buona fede viene appunto in considerazione nella legge per la concessione di eccezionali diritti. Altri ancora fanno la distinzione fra l’errore di fatto e quello di diritto ammettendo la presunzione della buona fede solo per il primo e non per il secondo, in omaggio al principio nemo censetur ignorare ius, che darebbe vita a sua volta ad una presunzione contraria. Controversa è pure la valutazione da farsi del dubbio circa l’esistenza nella causa di nullità, ecc. Comunque, a differenza che nel diritto canonico vigente, ove, come si è visto, il M. putativo rimane tale solo finché entrambi i coniugi non raggiungano la certezza della nullità (cann. 1015 § 4, 1114), nel diritto civile vale la regola mala fides superveniens non nocet, per cui è sufficiente che vi sia la buona fede al momento della celebrazione perché si producano e permangano gli effetti del M . putativo fino alla sentenza che pronunzia la nullità (art. 128). Tali effetti si producono anche se la nullità del M. è stata dichiarata dopo la morte di uno dei coniugi, nel qual caso al coniuge superstite di buona fede spettano gli stessi diritti ereditari attribuiti al coniuge nel caso di valido M. (art. 528). Però qualora il coniuge defunto fosse stato legato al momento della morte da un M. valido (ossia nell’ipotesi di bigamia), il coniuge putativo è escluso dai diritti ereditari, e ciò allo scopo ovvio di eliminare la possibilità del concorso alla successione da parte di due coniugi, uno vero e uno putativo. [Arnaldo Bertola]
VII. M. RATO E NON CONSUMATO
Il M. rato, secondo il can. 1015 § 1, è il M. valido dei battezzati, se non ancora è integrato con la consumazione. Si dice rato non solo per opposizione al M. consumato, ma più propriamente perché, essendo dotato della sacramentalità, la Chiesa lo sanziona: « eum ratum habet » (cf. P. Gasparri, De Matrimonio, I, Città del Vaticano 1932, n. 41). Il M. rato e consumato si ha quando tra i coniugi vi è stato l’atto coniugale, a cui per natura sua è ordinato il M. (can. 1015 § 1). Il M. validamente contratto tra i non battezzati, si chiama « legittimo »: se è avvenuta la copula « legittimo e consumato». Se la copula sussegue al M. legittimo, il quale sia diventato rato per la recezione del Battesimo da parte di ambedue i coniugi, allora questo M. si chiama « consumato e rato ». – Queste sono le formole usate dal CIC e dai canonisti moderni, che nei testi di diritto antico hanno invece un senso vario e fluttuante. M. rato è preso a significare ora il M . valido e lecito dei fedeli, ora il M. valido, ora quello invalido, sebbene celebrato secondo la forma tridentina, ed a volte il M. né valido né lecito. Più comunemente veniva chiamato M. « semplicemente rato » il M. valido, ma non lecito, e M. « legittimo e rato » il M. dei fedeli valido e lecito per la osservanza del rito della Chiesa : così in Graziano (17, C. 28, q. 1). Il Concilio di Trento chiamò M. « veri e rati » i M. clandestini, celebrati dai fedeli prima della loro proibizione (Sess. 24, cap. 1, de ref.). Vari autori anteriori al CIC chiamano rati i M. non consumati non solo dei fedeli, ma anche dei non battezzati. A norma del can. 1118, che riassume l’insegnamento delle fonti della tradizione, affinché il M. sia assolutamente indissolubile si richiedono due condizioni, cioè il carattere sacramentale e la consumazione: mancando l’una o l’altra, l’assoluta indissolubilità non si avvera più. Non ripugna quindi che il romano Pontefice abbia la potestà di sciogliere il vincolo di un M. che non sia consumato, purché una parte, per la recezione del Battesimo, sia soggetta alla giurisdizione della Chiesa; e che il vincolo sia ugualmente sciolto dalla professione religiosa solenne, per costituzione del diritto stesso (can. 1119).
1. – Lo scioglimento del rato per professione religiosa solenne. – a) Note storiche. – Nella storia della Chiesa esistono esempi di sante e pie persone, che, dopo aver celebrato le nozze e prima di consumarle, lasciarono nel mondo la comparte per consacrarsi a Dio. Tali gesti hanno suscitato la lode degli scrittori sacri e della Chiesa. Lasciando da parte l’esempio di s. Tecla, riferito da scrittori tardivi (s. Ambrogio: De virginibus, 2, 3, 19: P L 16, 223; s. Epifanio: Adversus hæreses, 3, 2, hær. 78, n. 16: PG 42, 726), e di s. Cecilia, si ha l’esempio, narrato da s. Agostino (Confessioni, 8, 6 : P L 32, 755-56), dei due cortigiani, che alla lettura della vita di s. Antonio abbandonarono il mondo, mentre anche le spose offrivano a Dio la loro verginità. Notissima è la leggenda di s. Alessio, nobile romano, che, fuggito la sera delle nozze, condusse vita di asceta in Edessa. Simile è la leggenda dell’eremita Macario (26, C . 27, q. 2), di s. Leonardo, di s. Oditta, regina di Inghilterra (J. Clericatus, Decisiones sacramentales, II. De Matrimonii Sacramento, decis. XIV, Ancona 1757, p. 53 sg.) e dell’altra regina inglese Edildrida (Beda, Hist. eccl., 4, 19: PL 95, 201), con la variante che in questi ultimi due casi è la donna che abbandona il mondo. Ma in tutti questi esempi o non è accertato il valore storico dei fatti narrati, o si dubita se si tratti di rottura di fidanzamenti, piuttosto che di veri e propri M. rati, o non si ha la certezza del passaggio della comparte, rimasta nel mondo, a seconde nozze. Fuori della vera e propria tradizione ecclesiastica, nella legislazione romana giustinianea la professione monastica (d’accordo con Padri e concili) è annoverata fra gli impedimenti matrimoniali (Nov. 5, 8; 123, 1): la semplice entrata nel monastero è ritenuta come giusta causa per la soluzione degli sponsali (ibid., 123, 34. 40); anzi (e ciò in disaccordo con l’autorità ecclesiastica) la professione monastica viene considerata come giusta causa di scioglimento del M . (cf. C. I , 3, 52 [53] § 15; C. I, 3, 54 [56] § 4; Novv. 5, 5; 22, 5; 117, 12; 123, 40). Ritornando alla tradizione strettamente ecclesiastica, e lasciando da parte altri cenni di non molta perspicuità che si incontrano nella tradizione sulla soluzione del M. rato (cf. 27, 28, C. 27, q. 2; Bernardo di Pavia, Summa de Matrim., ed. Laspeyres 1860, p. 299), il primo che ne abbia parlato esplicitamente è Alessandro III, già Magister Rolandus a Bologna, in due decretali dirette all’arcivescovo di Salerno (a. 1180) ed al vescovo di Brescia (2, 7, X , 3, 32). Egli ammette espressamente che la comparte, rimasta nel mondo, possa passare a nuove nozze (« ad secunda vota transire »), e non fa difficoltà alla terza decretale, del resto non raccolta nelle Decretali gregoriane, ma solo nella prima compilazione antica (c. 5, de sponsa duorum, IV,4), in cui parrebbe che si asserisca contrario, perché la negazione non è qui assoluta, ma condizionata (sine iudicio Ecclesiæ). La dottrina di Alessandro III è poi confermata da Innocenzo III (14, X, 3, 32) e diviene definizione dogmatica nel Concilio di Trento (sess. XXIV, de Sacr. Matr., can. 6 ), che volle infrangere l’audacia dei falsi riformatori, i quali svalorizzavano l’efficacia della professione religiosa. Oggi è accolta, come si è accennato, nel can. 1119, il quale sancisce che il M. non consumato tra i battezzati, seppure fra una parte battezzata ed un’altra non battezzata, si scioglie ipso iure per la solenne professione religiosa. –
b) Condizioni richieste. — α) La non consumazione del M. — In che consiste la consumazione sarà detto più È opportuno ora osservare che il M. su cui la prefessione solenne esercita la sua efficacia, può essere: o rato e non consumato, se i coniugi sono ambedue battezzati e cattolici o uno cattolico e l’altro acattolico; oppure indubbiamente rato e non consumato (stante la controversia circa il carattere sacramentale di questi M.), se i coniugi sono l’uno battezzato e l’altro non battezzato, ed hanno contratto o con la dispensa dalla disparità di culto oppure, essendo il battezzato acattolico, hanno potuto contrarre senza bisogno di dispensa (can. 1070 § 1), prima che il battezzato si convertisse e passasse ai voti religiosi solenni. – È ancora M. rato il M. già legittimo non consumato né prima né dopo la conversione ed il Battesimo di ambedue i coniugi: è dubbiamente rato lo stesso M., alle stesse condizioni, dopo la conversione ed il Battesimo di uno dei coniugi. Su di essi può esercitare senza dubbio la sua efficacia la professione religiosa solenne. È controverso invece se possa essere sciolto per professione solenne un M. contratto validamente e consumato nell’infedeltà, ma non più consumato dopo la conversione ed il Battesimo delle due parti. In teoria le due opinioni, negativa ed affermativa, restano anche oggi contrastanti e si bilanciano: in pratica però ambedue concordano nell’esigere il ricorso alla S. Sede.
β) Emissione della professione solenne. – Poiché si parla espressamente di professione solenne, non sortisce alcun effetto né il voto di entrare in religione, né l’entrata in religione, né l’assunzione dell’abito religioso, né la professione dei voti semplici, né il conferimento dell’Ordine sacro del suddiaconato, ed il voto di castità emesso in questa circostanza o indipendentemente nel secolo. Si parla inoltre di professione vera e quindi valida, per cui cioè si siano osservate tutte le formalità richieste ad validitatem (can. 572 §§ 1-2). – Tra le altre formalità per la validità della professione è richiesto che preceda un noviziato valido a norma dei cann. 555 e 542 – ln forza di quest’ultimo can. 542, n. 1, non è valida, senza dispensa pontificia, l’ammissione al noviziato di persone legate da M.; occorre quindi che preceda questa dispensa. Ancora per la validità della professione solenne occorre che preceda la professione semplice per almeno un triennio (can. 574). Per evitare tutta questa attesa al coniuge che rimane nel mondo, la S. Sede può concedere o la dispensa dal triennio di professione semplice (Dichiarazione della S. Congregazione superstatu Regularium, 25 genn. 1861) o la dispensa dal M. rato non consumato. – Per tutte queste ragioni, sono rarissimi i casi in cui M. non consumati vengano disciolti per effetto della professione solenne. La quale, per essere tale, deve essere emessa in un Ordine regolare, preso nel senso stretto, ed includere il voto di castità perfetta. Restano così esclusi alcuni Ordini militari con voto di castità coniugale e di astinenza dalle seconde nozze. – Resta pure esclusa (nonostante qualche parere in contrario di molti autori) la professione semplice emessa dalla Compagnia di Gesù, nonostante che questa abbia effetto irritante per un M. futuro (cf. A. Ballerini- D. Palmieri, Opus theol. morale, VI, 3a ed., Prato 1900, n. 479 sg.). Resta infine esclusa la professione semplice, emessa in istituti di monache nella Francia e nel Belgio, le quali, pur avendo voti per istituto solenni, emettono solo voti semplici, eccetto il caso in cui, a norma del Decr. della S. Congregazione dei Religiosi 23 giugno 1923, abbiano ottenuta la facoltà di emettere voti solenni (AAS, 15 [1923], p. 357. Oggi è desiderio della S. Sede che ovunque siano ripristinati i voti solenni: Sponsa Christi, AAS, 4 3 [1951], p. 5 sgg.). La risoluzione del vincolo matrimoniale si verifica nel momento stesso in cui viene emessa la professione solenne. È naturale che per lo stato libero dell’altro coniuge debbano risultare da autentico documento e l’inconsumazione e la professione solenne.
γ) Diritto sul quale si fonda la risoluzione del M. rato per professione solenne. — Alcuni tra i più antichi autori (Durando, Gaetano, Salmanticenses, ecc.) asseriscono che ciò avviene per diritto naturale, essendovi opposizione tra i due stati; altri (Benedetto XIV, Sànchez, Perrone, Palmieri) per diritto positivo-divino od immediato, trattandosi di un privilegio concesso da Cristo; altri infine (Suàrez, Schmalzgrueber, Wernz, Gasparri, Oietti, ecc., ed è l’opinione comune) per diritto ecclesiastico. Questa potestà della Chiesa però è vicaria o ministeriale e non propria. In altre parole la Chiesa, da cui dipende unicamente la solennità dei voti, in forza della potestà ministeriale, concessale da Cristo, per propria costituzione ha stabilito di ritenere la solenne professione religiosa sempre come una giusta causa di soluzione del vincolo di un M. non consumato. Il canone dogmatico del Concilio Tridentino non osta insormontabilmente a questa opinione, in quanto è possibile che una verità non sia rivelata e che tuttavia sia insegnata con infallibilità dalla Chiesa. Conseguentemente niente vieta che la Chiesa possa stabilire che il M. non consumato venga sciolto ipso iure per altre cause generali che non siano la professione solenne.
2. – Lo scioglimento del M. rato e non consumato per dispensa pontificia. – a) Note storiche. — Già da Alessandro III (1159-81) prese inizio la rivendicazione esplicita alla potestà pontificia di poter sciogliere il M. non consumato (la risposta di s. Gregorio II, a. 726, al vescovo Bonifacio: 18, C. 37, q. 7, pare piuttosto un caso di impotenza). Alessandro III, infatti, prendendo una via di mezzo tra la teoria della copula (Scuola bolognese, a cui aveva aderito da docente) e la teoria del consenso (Scuola di Parigi), insegnò da Pontefice che il M. rato, sebbene abbia ragione di vero M. e Sacramento, si può sciogliere solo per voto di castità (2, 7, X, III, 32) e per affinità sopravveniente, almeno pubblica: nel qual secondo caso egli permise di contrarre nuove nozze (2, X, III, 32). Egli con ciò mostrò di considerare il M. non consumato, rispetto alla soluzione del vincolo, come soggetto alla potestà e giurisdizione della Chiesa. Lo stesso fecero due pontefici posteriori, Urbano III (1185-87) ed Innocenzo III (1198-1218) nelle loro decretali (14, X, II, 32; c. 3 Comp. I, 4, 8; 3, X, IV, 8). Tuttavia nessuno di questi Pontefici afferma la potestà pontificia di sciogliere il M. non consumato per via di dispensa in caso particolare. – Le prime tracce di questa dottrina si possono trovare nei canonisti, da Paucapalea (Summa iiber das Decretum… ed. Schulte, Giessen 1890, p. 114), all’Alanus, a Vincentius Hispanus ( Glossa ad c. 7, X, III, 32, in Corpus iuris canonici, I, Lione 1517, p. 271), all’Hostiensis, al Panormitanus ecc. Non si può tuttavia provare con argomenti storici che siano state concesse dispense dal rato in casi particolari (si prescinde dalla soluzione per professione solenne religiosa) prima di Martino V (1417-31) ed Eugenio IV, i quali diedero alcune di queste dispense, come attesta s. Antonino di Firenze (Summa theologica, Verona 1740, parte 3a, tit. 1, cap. 21, 3) che vide le relative bolle. Nel sec. XVI la Chiesa si servì spesso di questa potestà, mentre teologi e canonisti si schieravano pro e contro. L’opinione negativa, che argomenta va soprattutto dal non uso prima di Martino V e dall’impossibilità per il romano Pontefice di dispensare nel diritto naturale e divino, sebbene difesa da grandi teologi (s. Bonaventura, Scoto, D. Soto, Pontius, Reiffenstuel, Billuart ecc.), cedevaman mano il passo al prevalere dell’opinione affermativa, che, oltre ai predetti canonisti, veniva difesa da s. Antonino, Gaetano, Azpilcueta, Sànchez, Suàrez, Schmalzgrueber, Benedetto XIV, Perrone, Ballerini, ecc., ed aveva soprattutto l’appoggio dell’uso costante e continuo dei romani Pontefici. Una volta messo fuori dubbio il fatto, molte volte ripetuto, della dispensa concessa dai Papi, è facile passare al diritto, data l’assistenza divina di Cristo alla sua Chiesa. – Ora esempi del genere si ebbero sotto Alessandro VI (Pastor, III, p. 506 nel caso di s. Giovanna regina di Francia, oltre l’altro caso, per più motivi però oscuro, di Lucrezia Borgia, ibid., p. 376), sotto Paolo III e Pio IV (M. da Azpilcueta, Manuale confessariorum et poenitentium, 22, zi, Roma 1573, p. 319), sotto Gregorio XIII (H. Henriquez, Theologiæ moralis summa, I, 11, 8, 11, Venezia 1600, p. 663 nota). Clemente VIII fece esaminare la questione del potere del Papa in merito da una commissione di canonisti e teologi, che il 16 luglio 1599 si espresse favorevolmente (D. Ursaia, Disceptationes ecclesiasticæ, II, ivi 1724, p. 1, disc. 3, nn. 10-11). Sotto Paolo V si ebbero nuovi esempi di dispensa (P. Fagnanus, Commentaria in I lib. Decretalium, de off. iud., I, 61, ivi 1942, p. 552). Così sotto Urbano VIII (V. De Iustis, De disp. Matrim., II, 10, 17, Lucca 1726, p. 292). Sotto i Papi successivi crebbero sempre più (cf. C. Cosci, De separat. tori con., I, 1, 16, 4-8, Roma 1773, p. 149; S . Pallottini, Collectio conclusionum… S. Congr. Concilii…, VII, ivi 1893, p. 542 sg.; J. Perrone, De Matrimonio christ., III, ivi 1858, p. 509). – Oggi l’esistenza della potestà del Romano Pontefice sullo scioglimento del M . rato e non consumato, benché non sia di fede, appartiene alla dottrina cattolica, per l’espresso insegnamento del CIC (cf. can. 249 § 3, 1119) ed il susseguente decreto della S. Congregazione dei Sacramenti del 7 maggio 1923.
b) Natura della dispensa e potestà pontificia sul rato. – Non si tratta di una dispensa in senso stretto a norma del can. 80, ma in senso largo. Il Romano Pontefice infatti non agisce in nome proprio, ma in forza della potestà vicaria o ministeriale, cioè in nome di Cristo stesso, di cui fa le veci. La dispensa non avviene direttamente, rimovendo l’obbligo della legge naturale e positivo – divina, ma agendo sull’atto umano proveniente dalle libere volontà, da cui è stato causato il vincolo, con una certa remissione ex parte materiæ. L’effetto è uno scioglimento dal vincolo: del tutto diversa è una sentenza di nullità. – La soluzione del M. rato è nel diritto attuale riservata al Romano Pontefice, che per se stesso immediatamente concede la grazia della dispensa. A lui è riservato anche il processo necessario per ottenerla, processo che egli ordinariamente commette ai vescovi residenziali per mezzo della S. Congregazione dei Sacramenti. Si ebbero esempi in passato di delega ai vescovi della facoltà di concedere la soluzione del M. rato ed anche teoricamente niente vieta che il Pontefice eserciti la sua potestà vicaria a mezzo di altri; tuttavia, secondo l’opinione più comune, non compete ai vescovi una potestà ordinaria su tale soggetto. – Circa l’ambito della potestà pontificia nella soluzione del rato, il can. 1119 determina: « il M. non consumato tra i battezzati oppure tra una parte battezzata ed un’altra non battezzata, si scioglie … ». Di conseguenza si può sciogliere: il M. rato tra battezzati cattolici; il M. misto non consumato; il M. legittimo consumato e poi divenuto rato per il Battesimo di ambe due i coniugi; il M. contratto con dispensa da disparità di culto; il M. di due acattolici, di cui uno battezzato fuori della Chiesa cattolica (cf. can. 1070 § 1); i l M. di due coniugi, di cui uno si converta, ma non voglia usufruire del privilegio Paolino, né coabitare pacificamente, in favore del coniuge infedele (almeno secondo l’opinione più comune). Questa dispensa viene data dietro domanda di ambedue le parti o di una parte sola, anche se l’altra sia contraria (can. 1119). Ad essi soli spetta domandarla (can. 1973), ma secondo un’opinione non improbabile si ammette che, in casi speciali, vi possa essere una giusta e proporzionata causa di dispensa anche quando ambedue i coniugi siano ignari della dispensa o vi si dichiarino contrari.
3. – Condizioni richieste per addivenire alla dispensa.
Modo di concederla. — a) Giusta e proporzionata causa. –Trattandosi di un vincolo indissolubile per diritto naturale e divino, da cui il Romano Pontefice può solo dispensare per potestà vicaria, è necessario il concorso di una giusta e proporzionata causa, affinché l’esercizio della potestà avuta sia in edificazione e non in distruzione della Chiesa. La causa deve essere ragionevole e grave: non è però richiesto che sia di pubblica utilità. Tra le giuste cause, ammesse come legittime dalla prassi, vi sono il contrasto insanabile degli animi, il timore di scandalo, di risse, il divorzio civile o la separazione legale, la prova semipiena del timore, dell’impotenza, ecc.
b) L’inconsumazione. — Il M. si dice non consumato, se tra i coniugi non è intervenuto l’atto coniugale. Quet’atto è la copula coniugale, mediante la quale si verifica fra i coniugi l’unità della carne (Gen. 2, 24; I Cor. 6, 16): tale unità non è ottenuta con gli atti incompleti, intervenuti tra i coniugi. È consumativa del M. solo quella copula che considera l’azione umana fatta secondo le leggi fisiche della natura (non quindi la copula onanistica, né la fecondazione artificiale propriamente detta), anche se non ha attuale riguardo alla generazione della Da ciò ne segue che neppure per il fòro esterno e giudiziale il concepimento della prole è in ogni caso un argomento perentorio e decisivo della consumazione. Per avere la consumazione del M. l’atto deve aver luogo dopo la celebrazione del medesimo. Non è quindi consumazione il rapporto fornicario od adulterino prima del M. Una presunzione che si fonda su quanto comunemente avviene, attese le ordinarie circostanze, stabilisce che, avvenuta la celebrazione del M., se i coniugi hanno coabitato, la consumazione si presume sempre, finché non sia provato il contrario (can. 1015 § 2). – La Chiesa, annuendo benignamente alla domanda dei coniugi (chi chiede è detto oratore, l’altra parte convenuta), prende in esame il loro caso in fòro esterno, per vedere se esiste la prova della non consumazione del M., che si basa su un duplice argomento: l’argomento morale e quello fisico. – L’accertamento è fatto per mezzo di uno speciale processo amministrativo che si svolge specialmente secondo i cann. 1976-82 ed il decr. Catholica doctrina della S. Congregazione dei Sacramenti, 7 maggio 1923 (AAS, 15 [1929], p. 389 sg .), integrato dall’Istr. 27 marzo 1929 (ibid., 21 [1929], p. 490 sg.) della stessa S. Congregazione e dal decreto del S. Uffizio 12 giugno 1942 (ibid., 34 [1942], pp. 200-202). Nel diritto anteriore norme specifiche per lo scioglimento del rato erano contenute nelle Istruzioni della S. Congregazione del Concilio, 22 ag. 1840 e del S. Uffizio nel 1858 (P. Gasparri, CIC Fontes, IV, Roma 1926, nn. 846, 1076); oltre ad altre prescrizioni generiche, reperibili nei documenti riguardanti i processi matrimoniali in genere. – Gli argomenti che servono per scoprire la verità in queste cause sono principalmente: 1) la confessione giurata dei due coniugi, che forma solo l’inizio e la base in favore dell’inconsumazione del M. (can. 1975 § 2; reg. 50-57); 2) la deposizione dei cosiddetti testimoni septimæ manus (normalmente 7 da una parte e 7 dall’altra, scelti di preferenza tra consanguinei ed affini), e quella di testi indotti d’ufficio (prevalentemente testi de scientia) oppure dietro istanza delle parti: deposizione costituente un argomento di credibilità che aggiunge valore alle deposizioni dei coniugi (cann. 1975 § § § 1-2: reg. 58-63, 66-74); 3) l’esame corporale fatto dai periti nel modo determinato dal CIC (cann. 1976-81) e dall’Istruzione (regg. 84-95), a meno che dalle circostanze non risulti inutile. Questo esame deve rilevare quello stato anatomico del corpo in generale e degli organi genitali in specie che è proprio di una donna che non abbia ancora avuto completa congiunzione carnale. Può essere esteso anche all’uomo nei casi di sospetta impotenza (reg. 84 § a); 4.) I documenti autentici, pubblici o privati, anche extra-giudiziali, di qualsiasi genere, che spieghino e corroborino le deposizioni fatte (reg. 75-78); 5) indizi e presunzioni (can. 1825; reg. 65, 79-83), che possono essere lievi, gravi e gravissime. – La S. Sede, pur riservando a sé la concessione della dispensa, ordinariamente affida l’istruttoria del processo ai vescovi competenti per territorio (l’istruttoria è condotta da un unico giudice con intervento del difensore del vincolo e di un attuario [cann. 1966-67, reg. 21-30] e si conclude con il voto del vescovo) e l’esame, a seconda dei casi, alla S. Congregazione dei Sacramenti, in via normale (can. 249 § 3), alla S. Congregazione per l a Chiesa orientale (che ha dato in merito una propria istruzione, in data 10 giugno 1935: AAS, 32 [1935LP- 333 sgg.), se una od ambe due le parti appartengono al rito orientale (can. 257 § 2), alla S. Congregazione del S. Uffizio, nel caso che almeno una parte sia acattolica (can. 247 § 3: risposta del 18-27 genn. 1928, AAS, 20 genn.1928], p. 75), ad una commissione speciale, costituibile a norma del can. 1962, al Tribunale della S. R. Rota, can. 249 § 3) sempre per delegazione, almeno ex iure, a norma del can. 1963 § 2 (qualche autore non esclude anche il ricorso alla S . Penitenzieria, tramite l’autorità che avesse già istruito il processo, nel caso di fatto veramente occulto, di cui non si possa trattare in fòro esterno: cf. can. 285 § 1). – Se durante un processo di nullità, per impotenza o per altro titolo, incidentalmente sorgesse il dubbio molto probabile della inconsumazione, è data facoltà ai coniugi di domandare la dispensa dal rato ed il giudice, in caso, beneficia di una delegazione a iure per l’istruttoria (can. 1963 § 2: reg. 3 – 4). – Il rescritto viene spedito in forma graziosa (divenendo quindi esecutivo per se stesso) dal prefetto della S. Congregazione dei Sacramenti o da altro cardinale che lo sostituisca, e dal segretario o sottosegretario della stessa S. Congregazione (reg. 102). Se le circostanze esposte non rispondono alla realtà, la dispensa pontificia è nulla, il M. non è sciolto, e tutti i M. eventualmente contratti in seguito non hanno nessun valore (reg. 103, can. 41). – Il rescritto di dispensa dal rato porta con sé una particolare concessione: la dispensa dall’impedimento del crimine nella forma proveniente dall’adulterio con promessa o con attentato di M. (can. 1053: reg. 104, decr. S. Congregazione dei Sacramenti, 3 giugno 1912). Effetto della dispensa è la soluzione del vincolo e la libertà di nuovamente contrarre, salvo il caso di aggiunta di clausola impediente nei confronti del coniuge dubbiamente impotente (vetito viro – vel mulieri – transitu ad alias nuptias). Seguono tutti gli altri effetti giuridici, ma ex nunc (dal momento della soluzione da parte del Romano Pontefice), non ex fune.
e) La dispensa dal M. non consumato nel diritto concordatario italiano. – Lo Stato italiano riconosce la competenza dei tribunali e dicasteri ecclesiastici in materia di dispensa dal rato. Per l’esecuzione, i provvedimenti, con i relativi decreti del S. Tribunale della Segnatura, devono essere trasmessi alla Corte d’appello, competente per territorio, la quale con ordinanza li renderà esecutivi agli effetti civili, disponendo che siano annotati nei registri dello Stato civile, a margine dell’atto di M. (Concordato con l’Italia, 11 febbr. 1929, art. 34: legge 27 maggio 1929, n. 847 all’art. 17). – Il riconoscimento è esteso anche ai M. civili, contratti prima dell’entrata in vigore della predetta legge (ibid., art. 22), esigendosi però in questi casi (e qui è il contrasto con le norme canoniche) la domanda di ambedue i coniugi. Si deve inoltre notare che l’art. 34, come la legge italiana di applicazione, parlano solo di dispensa « dal M. rato e non consumato ». Tuttavia la dottrina, dissipata ormai qualche voce contraria, è concorde nell’includere nella dizione anche la dispensa del M. solo non consumato, senza essere rato, e lo scioglimento per effetto di professione religiosa solenne (cf. A . Piola, Lo scioglimento del M. per inconsumazione, in Diritto ecclesiastico, 14 [1934], pp. 272-73, 274 nota 9, ove sono citati anche gli autori contrari). Inoltre, sebbene la legge civile non precisi espressamente il tempo in cui bisogna considerare sciolto a che il M. civile, si dovrà considerare lo scioglimento di questo come avvenuto contemporaneamente a quello canonico e non dalla data del provvedimento della Corte d’appello, perché la legge italiana non può limitare l’efficacia del provvedimento della S. Sede (cf. C. Rebuttati, L’ordinamento matrimoniale concordatario, in Diritto ecclesiastico, 50 [1939], p. 539; cantra: M. Falco, Corso di diritto ecclesiastico, II, Padova 1938, pp. 219-20). – Altre controversie sono sorte nella giurisprudenza italiana in materia. Una prima in merito alla possibilità del tutore dell’interdetto per infermità di mente o del curatore dell’assente di presentare la domanda richiesta per la esecutorietà della dispensa pontificia agli effetti civili. Gran parte della dottrina è contraria, dato il carattere personalissimo della facoltà che hanno i coniugi di inoltrare domanda di scioglimento (art. 22 legge cit.), ma si ha qualche sentenza in contrario (Corte d’appello di Bologna, dic. 1934, in Diritto eccles., 46 [1935], p. 22). – Un’altra controversia si ha in merito alla possibilità dei coniugi di revocare il consenso, precedentemente espresso nella domanda alla S. Sede, al momento della proposizione della formale domanda alla Corte d’appello, arrestando così l’esecutorietà della sentenza (cf. C. Rebuttati, op. cit., p. 541 sg .). – Si è anche chiesto se la domanda di ambedue i coniugi sia richiesta soltanto per ottenere l’esecutorietà in sede di volontaria giurisdizione, rimanendo la possibilità per la parte sola richiedente di esigerla in contraddittorio con l’altra in via contenziosa. La distinzione, negata da alcuni, è ragionevolmente accolta da altri (cf., ad es., L. Capalti, La funzione giudiziaria negli effetti civili dei M. pre-concordatarii, in Fòro italiano, 55 [1930, 1], P- 579 sg.; contro: F. Vassalli, Il fòro civile e il fóro eccles. nelle questioni di nullità… in Riv. di dir. proc. civ., 7 [1930, 11], p. 310 sg.). Si è poi chiesto se la domanda dei coniugi debba essere rivolta direttamente alla Corte d’appello o possa anche venir trasmessa a questa dall’autorità ecclesiastica (in questo secondo senso: L. Capalti, Istanza di parte e tratrasmissione d’ufficio negli effetti civili dei M. prec, in Diritto eccles., 41 [1930], p. 453 sg.; contra: A. C. Jemolo, Tribunali della Chiesa e tribunale dello Stato nel regime degli Accordi Lateranensi, in Archivio giuridico, 102 [1929], p. 138 sg.). – La giurisprudenza italiana non si sa dare ancora esatto conto della natura dello scioglimento del M. non consumato, che, essendo nuovo per essa, non può essere ridotto ad istituti consimili del diritto civile. Certo tale dispensa non può essere considerata come una causa dichiarativa di nullità, né ridotta allo scioglimento per morte, né venir assimilata a sentenza di divorzio; ma è da considerarsi come un istituto a sé, quale viene considerato dalla Chiesa nel suo CIC. Ne viene di conseguenza che ad essa bisogna attribuire quella natura ed efficacia propria del diritto canonico, senza ricorrere all’analogia con altri istituti consimili. – Anche le questioni sugli effetti, su cui sono sorti diversi orientamenti sia in giurisprudenza che in dottrina, vanno risolte alla luce di questi principi, per non cadere in illogicità ed incongruenze. Così occorrerà concludere che la prole nata extra torum, prima della dispensa dal rato, conserva il carattere di adulterina e quindi non è riconoscibile per susseguente M., mentre è senz’altro riconoscibile quella nata da rapporti extra coniugali dopo la concessione della dispensa (cf. cann. 1116, 7053); che le donazioni propter nuptias di un M. sciolto per dispensa, sono ripetibili a norma dell’art. 785 Cod. civ. ital. perché fatte in previsione di un M. duraturo ed indissolubile, che viene a mancare. Lo stesso si dirà delle donazioni tra coniugi prima della dispensa, a tenore dell’art. 781 Cod. civ. ital.. Repetibili sembrano essere fin dall’inizio anche i frutti della dote, mentre non lo sembra la tassa di registro corrisposta per assegni fatti in considerazione del M. – In altro campo, in sede penale, si dovrà dire che costituisce reato di adulterio o di concubinato (artt. 559-560 Cod. pen. ital.) la congiunzione carnale con altra persona, vincolata da valido M., di poi dispensato: lo stesso si dirà per il reato di bigamia (art. 556). Si dirà che il reato di violazione degli obblighi di assistenza famigliare (art. 570 Cod. pen. ital.) sussiste, se compiuto nel tempo tra la celebrazione del M. e la dispensa. [segue BIBL.]. [Pietro Palazzini].