GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO: COME ORIENTARSI? -1-

GREGORIO XVII:

– IL MAGISTERO IMPEDITO –

COME ORIENTARSI? -1-

  1. — Ortodossia

[lettera pastorale scritta l’11 febbraio 1968; «Rivista Diocesana Genovese», 1968, pag. 175-212.]

 Qualche sacerdote nostro ci ha confidato di non sapere orientarsi tra tante opinioni, novità e perfino contraddizioni. Ci ha detto: qui si pensa in un modo, là si pensa in un altro. Qui si fanno affermazioni e là si dice tutto il contrario. Su pubblicazioni, che porterebbero suggelli autorevoli, si leggono affermazioni sconcertanti. Persone di chiara fama non sembrano concordi tra loro su problemi di fondo. Noi abbiamo studiato teologia e tutte le materie che vi si collegano; siamo usciti dal seminario con idee chiare e definite: dobbiamo ora metterle in discussione? La nostra fede è intatta e piena; noi sappiamo che la Chiesa ci guida e dispone del carisma della infallibilità. E l’ancora alla quale restiamo attaccati. Ma è possibile darci un indirizzo, che ci tolga da questa situazione sconcertante? Noi sappiamo che tale domanda se la pongono altri, che non l’hanno presentata direttamente a Noi. Sappiamo, non fosse altro che per le molte lettere a noi indirizzate, che a porsi tale domanda sono legione1. [E’ quanto ancora oggi pochi prelati, si chiedono, quei pochi cioè che credono di essere ancora nella Chiesa Cattolica, non avendo ancora compreso di far parte di una “sinagoga gnostica” che si è infiltrata, eclissando la vera Chiesa di Cristo – ndr. -]. Fa parte del nostro più stretto dovere rasserenare in questioni poste con tanta ragionevolezza l’animo dei nostri sacerdoti. Pertanto, cari confratelli, abbiamo sentito l’obbligo di indirizzarvi questa lettera. Ci auguriamo che essa possa servire anche ai laici, ai quali insicuri indirizzi, mancanza di fondamenti istituzionali, deplorevoli influssi subiti, hanno suggerito le stesse sconcertanti domande [senza aver mai avuto risposte chiare! –ndr. – ] I fatti non si possono negare: bisogna lealmente ammetterli. Da alcuni anni proposizioni, che fino a dieci anni or sono avrebbero fatto rabbrividire tutti, circolano, assumono stile togato e asseverante, vengono bandite anche da centri editoriali importanti, da cattedre rispettate, da uomini di rilievo. Basta leggersi il volume di Maltha (che è impresso da qualche anno e pertanto non porta molte delle più recenti elucubrazioni) per rendersi conto del quanto la verità rivelata e la verità strettamente connessa con quella rivelata subiscano oltraggi anche sostanziali e come ormai l’infezione si sia estesa al campo morale. Ci dispensiamo dal fare riferimenti più precisi perché è sempre nostro principio astenerci assolutamente dalla polemica [anche verrebbero censurate subito – ndr, – ]. – Ci si può chiedere il perché del fatto. È giusto dare una risposta, anche perché il fatto in se stesso costituisce, per molte anime giuste, motivo di dolore, di perplessità, di ansia. La risposta sostanziale ci pare la seguente. Il concilio ebbe opportunissimamente dal romano pontefice piena libertà di parole, quella libertà era riservata ai soli padri del concilio. Accadde che, senza alcun diritto, se la presero altri

e se la presero in materie circa le quali gli stessi Padri non avrebbero potuto prendersela, senza smentire la professione di fede da essi fatta. Il concilio finì e per molti quella libertà indebita continuò. Fu essa a creare la confusione. [Il Santo Padre non poteva ovviamente dire, nella sua condizione di “recluso” e “sorvegliato speciale” e sotto costante pericolo di morte, che il Concilio era falso, che il “pontefice romano” era un infiltrato marrano agente degli “illuminati”, anzi egli stesso il patriarca della massoneria mondiale, come il suo amico don Villa gli aveva confidato, etc. etc. –ndr.-].  Accadde un altro fatto: molti che nella Chiesa non hanno facoltà di Magistero autentico, perché non sono vescovi, lasciando da parte i Vescovi (che col Romano Pontefice e sotto di esso sono maestri nella fede – il Romano Pontefice era appunto Gregorio XVII, G. Siri – ndr. – aventi autorità da Cristo) hanno ampiamente parlato, discusso, messo in dubbio ed in sostanza usurpato un potere che non avevano, dato che altra cosa è la ricerca aperta a tutti, altra cosa è l’errore proibito a chiunque. Ci fu insomma troppa e spigliata abbondanza di maestri per nulla autentici, qualche volta burbanzosi, asseveranti e critici degli stessi vescovi. Le lettere in materia dottrinale, che da due anni vengono collegialmente edite da importanti conferenze episcopali nazionali, rappresentano una reazione autorevole e veneranda a questo indebito trasferimento (per non dire usurpazione) di poteri. L’episcopato, dopo la debita paziente attesa che si addice a tutti i ministeri paterni, ha ormai preso la iniziativa che arriverà senza dubbio a eliminare il fatto dal quale trae origine questa nostra lettera [finora purtroppo non ci è dato confermare l’asserzione del Santo Padre – ndr. – ]. Che poi ci sia stata una libertà in concilio, nessuno vorrà ritenerlo elemento deteriore: gli basti pensare che per muovere anche un solo necessario passo in avanti bisogna pure slacciare qualcosa. – La libertà, qualche volta non legittima, ha recitato la sua parte e i suoi danni si vedono e non pochi li piangono; la autorità costituita da Cristo per ammaestrare gli uomini sulle vie della salvezza recita pure la sua onesta e legittima parte e certamente prevarrà. Noi, che come successori degli apostoli facciamo parte del collegio episcopale con e sotto Pietro, compiamo il nostro semplice dovere scrivendo la presente lettera. Le perplessità che abbiamo sentito da sacerdoti e da laici sono le seguenti, attenendoci a quelle che hanno un valore di fondo e non fono semplicemente facili lamentele di dettagli.

1) Ma la Chiesa cambia?

2) La religione cambia?

3) Abbiamo sbagliato tutto fin qui?

4) Se cade la colleganza e la coerenza tra un punto e l’altro del dogma, cade tutta la fede?

5) La morale è dunque diventata relativa, se oggi taluni affermano lecite azioni che fino a ieri abbiamo ritenuto peccaminose?

6) Noi sacerdoti in quanto mandatari della sacra gerarchia, abbiamo incora il potere di essere guida dei fedeli?

I sacerdoti, che ci hanno parlato o scritto sull’argomento, non hanno chiesto tanto delle elecubrazioni, ma, sicuri come sono di potersi fidare della Chiesa, ci hanno chiesto solo di dare loro orientamenti certi sui vari argomenti che li assillano. Scriviamo per dare questi orientamenti; ma sarà impossibile darli senza delinearne anche brevemente una ragione. [Qui il Santo Padre cerca di recuperare come può, e come gli è stato concesso dai censori, quanto può della dottrina cattolica. Lo fa come vedremo in modo esemplare, lasciando confusi i suoi “correttori”, sgomenti, ma ammirati dalla sana dottrina e pertanto annichiliti nella loro azione di “cancellazione” delle verità cattoliche! – ndr. -] – II fascicolo del gennaio c. a. dell’Acta Apostolicæ Sedis reca la nuova formula della «Professione di Fede». Tutti coloro che assumeranno qualche ufficio di personale responsabilità nella Chiesa dovranno prima dar prova di essere nella vera fede accettando, pronunciando e giurando questa formula. Non c’è alcun dubbio che essa, per il suo stesso uso esprime il pensiero magistrale al quale è legata la nostra salvezza. Orbene ecco l’ultima parte di tale professione di fede. Omettiamo la parte precedente, che è costituita dal Simbolo niceno-costantinopolitano, e trascriviamo integralmente la parte che segue: «Firmiter quoque amplector et retineo omnia et singula quae circa doctrinam de fide et moribus ab Ecclesia, sive sollemni judicio definita, sive ordinario magisterio adserta ac declarata sunt, prout ab ipsa proponuntur praesertim ea quae respiciunt mysterium sanctæ Ecclesiæ Christi, eiusque sacramenta et Missæ Sacrificium, atque Primatum Romani Pontificis» (A.A.S. n. 16 – 20 decembris 1967). – Dunque tutti gli atti valevoli del Magistero sono imposti: è imposta la condanna del «modernismo», anche se non la si legge più in occasioni del genere, è imposto il Catechismo del concilio di Trento, quello di Pio X etc. Non è possibile fare una selezione di comodo: o si accetta tutto quello cui accenna la professione di fede, o si è certamente fuori della retta via. Abbiamo voluto ricordare questo documento, perché esso farà testo per tutta la nostra età e renderà legittimo e valevole qualunque impegno responsabile assunto nella Chiesa. – Altro punto di partenza è il testo completo dei documenti del sacrosanto concilio Vaticano secondo, che si richiama e fa suoi molti documenti passati della Chiesa [solo quelli sono validi, fa capire il Santo Padre tra le righe – ndr. – ]. Anche e soprattutto il concilio Vaticano II è un punto fermo e indiscutibile nell’ambito della Chiesa [Non si dice però se in senso positivo, o più verosimilmente NEGATIVO – ndr. -]]. Qualcuno ha osato dire che il concilio Vaticano II è sorpassato. Pensiamo che l’affermazione sia falsa e condannabile in qualunque senso venga presa; ma ove la si usasse nel significato che qualcosa del detto concilio è decaduto, è travolto, ha cessato di essere guida di tutti i fedeli presenti e futuri, si sarebbe certamente fuori della dottrina cattolica e probabilmente fuori della Chiesa [Il testo qui è stato “appesantito” dalla mano del censore e lo si capisce subito dopo, al punto terzo, quando il Santo Padre in realtà dice esattamente il contrario – ndr. -] Un terzo punto fondamentale è che quanto fu veramente certo nella Chiesa fino al concilio Vaticano II – ed intendiamo in tutta la Chiesa sotto il Romano Pontefice – è certo tuttavia e sarà sempre certo perché fruisce di un criterio certissimo di verità. La Chiesa che autenticamente custodisce la Tradizione ed il cui consenso ha i noti caratteri fruisce anche nel magistero ordinario del carisma della infallibilità, quando è veramente universale. Tutti i nostri cari sacerdoti vogliano sempre volgere lo sguardo a questi dati fondamentali ed avranno di che superare tutte le questioni che si pongono, tutte le discussioni che si accendono, tutte le opinioni leggermente e pericolosamente formulate. Essi vedranno sempre chiaro innanzi a sé e potranno continuare a servire Dio in perfetta tranquillità di spirito. Tuttavia non li lasciamo ai soli fondamenti: intendiamo accompagnare la ricerca del loro spirito su tutti i punti, nei quali la incauta editoria moderna, cattolica e non cattolica, li spinge a penose e dannose perplessità.

Un primo motivo di turbamento: il relativismo

Si tratta di un orientamento generale, che ha manifestazioni diverse e che magari in dosi omeopatiche viene assorbito in atteggiamenti più leni e meno negativi. Si dice «dobbiamo accettare la Parola di Dio. ma la interpretazione di questa può cambiare secondo le età, prima per adattarsi alle contingenze storiche, poi per interpretare meglio il sentimento religioso corrente». – Analizziamo bene questo discorso, che sentite in attenuate e felpate forme e che tanto più vi conturba quanto più è felpato e sottinteso, dato che la vostra cultura è forte tanto da difendervi benissimo dagli errori netti ed aperti, mentre può lasciarvi incerti davanti a proposizioni contorte, velate e sfuggenti. La proposizione presentata e le sue felpate derivazioni non intendono affatto alludere ad una interpretazione che cambi soltanto «approfondendo» e rivelando più intime ricchezze. Se fosse per dir questo, tacerebbero. La proposizione intende certamente dire che, con le età e ad esse adeguandosi, cambia la «sostanza del dogma». Che lo si dica forte, che lo si dica piano, questo è quello che si intende dire. E questo è il relativismo. Perché si parla di «reinterpretazione del dogma?». Evidentemente per negare la cattolica interpretazione data fin qui, ossia per «concretarla» in una «sostanza diversa». Non ha importanza per noi che questa «sostanza diversa» sia quella acquiescente alle tesi di Barth, di Brunner, di Tillich e dei loro colportori; ha importanza solo che è «diversa». – Vediamo che significherebbe questo, se fosse vero: l’assurdo! Significherebbe che «la Parola di Dio non ha alcun contenuto»: infatti il contenuto ce lo metteremmo noi a seconda dei casi. – Significherebbe che Dio non esiste. Infatti un Dio che affidasse formule vuote, lasciando agli uomini di riempirle a piacimento ed accettando che ciononostante la parola fosse «sua», non sarebbe né immutabile, né serio, cioè non sarebbe Dio! Significherebbe che Gesù Cristo e gli Apostoli hanno avuto torto. Infatti hanno creduto alla immutabilità della sostanza nella dottrina rivelata. Eccovene la prova. Gesù disse: «I Cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt. XXIV, 35). E che delle sue parole non sarebbe passato neppure il significato, lo dimostrava subito appresso (cfr. Mt. XXV,31 sgg.) dando già il testo della contestazione profetizzata per il giudizio finale, in cui la sentenza sarebbe venuta sulla massima delle leggi, intesa a quel punto esattamente come la proponeva allora. Nello stesso testo il Salvatore dimostra che al momento del giudizio sarebbe stato egualmente costante e inalterato il senso della vita eterna e dello eterno supplizio. Del resto la fede nella Trinità e tutte le cose che Egli, Gesù, ha insegnato ad osservare sono valevoli fino alla fine del mondo per tutti i popoli (cfr. Mt. XXVIII, 19-20), il che esige la inalterabilità nel tempo. Questa inalterabilità del significato domina tutti gli Evangeli. – La grande preoccupazione di Paolo è la inalterabilità della dottrina e del suo significato. Ci si provi a leggere tutta la lettera ai Galati (ad esempio) e si osservi come egli si comporta verso quelli che avrebbero voluto alterare qualcosa. «Quand’anche noi stessi o un Angelo disceso dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo predicato, sia scomunicato» (Gal. 1,8). – Nella prima lettera a Timoteo, subito dopo l’indirizzo, l’Apostolo dà avvertimenti contro i falsi dottori (I, 3-11); poco dopo esorta a mantenere intatta la «vera» dottrina della fede (I, 18-20). Riprende una seconda volta l’argomento al capitolo IV (1-11); una terza al capitolo VI (3-10) e nella finale, quasi a raccogliere la preoccupazione più grande della stessa lettera, finisce così: «O Timoteo, custodisci il deposito (delle verità rivelate). Evita i discorsi inutili e profani e le dispute di una falsa scienza. Poiché alcuni che di quella han voluto fare professione, hanno poi prevaricato dalla fede» (VI, 20-21). Il tutto ritorna, per l’interiore peso dell’argomento, nella seconda lettera a Timoteo, vero testamento del dottore delle genti. Si preoccupa degli eretici dell’avvenire (III, 1-9) [… e quelli del Vaticano II il Santo Padre non poteva nominarli espressamente – ndr. -], incita il discepolo diletto a perseverare nella «difesa» della fede (ivi 10-13), avvertendolo di restare «fedele» a quello che ha imparato (Tradizione) apprendendolo da altri o leggendo le sacre Scritture. Nella lettera a Tito, Paolo ritorna sul dovere di «evitare gli eretici» (III, 8-11). E forse compossibile questa richiesta fedeltà con un relativismo teologico? San Pietro dedica tutto il II capitolo della sua prima lettera agli eresiarchi, dai quali ci si deve guardare e dei quali descrive i costumi. San Giovanni nella sua prima lettera riprende lungamente l’argomento ora constatato in Pietro e in Paolo (II, 18-23), vi ritorna nella seconda lettera con accenti fermissimi (7-11); diventa in proposito addirittura terribile in taluna delle lettere indirizzate colla Apocalisse ai vescovi dell’Asia. Se Gesù loda l’angelo della Chiesa di Efeso «perché odia le opere dei Nicolaiti, che lui pure detesta» (II, 6), se loda quello della Chiesa di Pergamo «perché non ha rinnegata la sua fede» (II, 12), tuttavia rimprovera quest’ultimo aspramente «perché tollera colà persone, che seguono la dottrina Balaam (II, 14) e perché ha persone che sono attaccate alla dottrina dei Nicolaiti» (II, 15). Le minacce contro coloro che seguono le dottrine e le opere di Gezabele (lettera alla Chiesa di Tiatira II, 18 segg.) sono tremende. All’angelo della Chiesa di Sardi il Signore fa scrivere: «Ricordati dunque di ciò che hai ricevuto ed udito; osservalo e pentiti. Se tu non veglierai io verrò come un ladro e tu non saprai a che ora verrò sopra di te» (III, 3). – Insomma la principale preoccupazione degli apostoli è la fedeltà alla sacra dottrina, che va interpretata secondo ciò «che hanno udito» e non arbitrariamente. – Per gli Apostoli, chi interpreta relativisticamente si pone fuori della grazia di Dio. – La interpretazione relativistica della Rivelazione si può constatare in talune forme generali, le quali riducono a piacimento il «nucleo» della parola di Dio, lasciando alla mercé di chiunque il resto o addirittura presentandolo come discutibile e più mitico che storico. Accade così che taluni difendono il nucleo della «salvezza» e abbandonano il resto alla deriva. Altri danno una interpretazione sofisticata della Eucarestia, convinti che la dottrina sempre presentata non sia più secondo i gusti moderni e pertanto ne vada cambiata la sostanza. Quelli che non capiscono molto tutto questo hanno incominciato a dimostrare il più grande disinteresse verso il mistero della fede e verso i tabernacoli. Sono forme recettive del relativismo. Altri ancora si sforzano di snervare completamente il dogma del peccato originale, l’essenza stessa del peccato, decapitando la legge e dando di taluni atti peccaminosi giudizi così poco condemnatori da far credere che li lodino. Forse non sanno o non pensano al relativismo, ma obbediscono al sottile richiamo di dire e fare quello che «piace» agli altri. Questo sottile richiamo è semplicemente la forma meno scontrosa e meno paludata per recepire il relativismo. Altri per la stessa logica cominciano a gettare il piccone demolitore sul sacramento della Penitenza. In realtà il nostro mondo morde male le verità relative e al peccato e alla penitenza, perché è così debole da non aspirare ad altro che al proprio comodo. Forma concreta del relativismo. Se il relativismo dovesse presentarsi colla sua definita linea intellettuale non avrebbe tanta tracotanza. Avrebbe paura, perché è obbligato a distruggere troppe cose, siccome si è detto sopra: Dio, la Rivelazione, la sostanza e la certezza di ogni cosa, la piattaforma dell’intelletto. Il guaio è che presentandosi in forme concrete, le apparenze delle quali non sono affatto quelle di proposizioni ereticali, riesce ad insinuarsi ben oltre i limiti della cauta vigilanza teologica. – E proprio su questo punto che attiriamo la attenzione dei nostri cari sacerdoti. Abbiamo or ora enumerato alcune prassi, le quali non sono altro che manifestazioni in superficie di realtà ben più profonde, sfuggenti e celate come i fondamenti enormi dei pericolosissimi icebergs. Qui vogliamo presentarvi la più facilona, più insinuante e più pericolosa forma concreta del relativismo teologico. Essa è nella formula, cara a più d’uno almeno in pratica, «cambiare per cambiare». Infatti cambiare è un atto che per essere ragionevole al pari degli altri atti ragionevoli deve avere un motivo ragionevole. Se il motivo è solo se stesso, «cambiare, cambiare per cambiare», non solo non è ragionevole, ma è una petitio principii. Le petizioni di principio dimostrano nulla e a nulla danno un fondamento consistente. La smania di gettarsi su qualunque cosa, purché sia o nuova o diversa, senza alcuna preoccupazione di documentazioni fondate e ponderate è la forma più concreta, per quanto in genere sconosciuta e non avvertita, del «relativismo teologico». Ci chiedete gli orientamenti in proposito? eccoli, non saranno difficili dopo quello  che vi abbiamo detto:

1) Evitate ogni relativismo. Esso equivale almeno ad una certa apostasia.

2) Siate diffidenti e cauti quando chi parla non è il Romano Pontefice [che in questo caso è Egli stesso!] o i Vescovi, successori degli Apostoli in comunione con lui [cioè con Gregorio XVII –ndr.- ]. Vi ricordiamo che troppi si sono seduti su cattedre che loro non competono [tra i quali gli antipapi del conciliabolo Vaticano II, Roncalli e Montini – ndr. -], perché competono solo alla successione Apostolica [quella guidata dal Papa vero e canonicamente eletto –ndr.-]. – Non vi illuda il fatto che trovano denari per pubblicare ed editori che pubblicano. Da quella parte ci stanno gli affari e gli affari non sono criterio per la vostra fede.

3) Non fatevi prendere dalla patologia del «cambiare per cambiare». Accettate di cambiare tutto quello che la legge cambia od ha una ragione, non una petizione di principio, tutto quello che ha il suggello di una autorità valevole o di un consenso veramente ecclesiale.

4) La Chiesa e tutta la sacra dottrina non sono cambiate e non cambieranno.

Il relativismo ha alcune scuse o pretesti. Vediamone alcuni.

La pluralità delle culture

Nessuno la può negare. Ma questa pluralità né prova, né afferma che i principi universali cambiano col cambiar delle latitudini e dei fatti. In realtà nella maggior parte dei casi – ed alludiamo alle culture dei paesi arretrati – non hanno neppur avuto principi universali, metafisica, qualche volta neppure speculazione. Ed allora la cultura qualunque potrà avere simpatie, ma non affronta la questione dei principi, né contrappone a principi altri principi validi. La maggior parte delle espressioni, che noi chiamiamo «cultura», sta in quel margine più superficiale dove né si trattano, né si contestano i principi. La esperienza dice che i principi sommi sono recepiti da uomini di tutte le culture, quando c’è chi insegna bene e quando c’è ad esse una congrua e metodica propedeutica. Soprattutto qui si pone male una questione: la cultura è una cosa, la verità obbiettiva è un’altra cosa. La verità obbiettiva la si coglie da dati universalmente validi, purché studiati con metodo; gli elementi culturali, dominati come sono da istinti e da sentimenti, possono prendere molte vie anche contradditorie, senza né sfiorare, né scalfire la solidità della verità obbiettiva. Il problema sulla verità non è il problema di una cultura, è semplicemente il problema della cultura» e si pone su un piano talmente alto e intoccabile dalle variazioni sentimentali da restare identico, qualunque sia la esperienza e qualunque sia il punto dal quale parte la variazione emotiva od ambientale. – Le culture sono state addotte come testimoni di comodo per tentare di avvalorare il discorso sul relativismo della dottrina. E sempre lo stesso punto!

L’adattamento alle culture

L’argomento, diciamolo subito, non è conturbante perché insolubile, ma perché ammannito in una confusione quasi perenne. Qui occorrono molte distinzioni, semplici e acute.

  1. Cominciamo col determinare il punto di incontro tra il Cattolicesimo e le culture. Il Cristianesimo è un fatto, una interpretazione del mondo e della storia, una legge coerente e al fatto e alla interpretazione proposta. Come fatto è immutabile e di conseguenza restano nella sostanza immutabili e interpretazione e legge. Il principio fondamentale è proprio che il Cristianesimo è un «fatto». Il Vecchio e il Nuovo Testamento presentano un fatto. L’ammettere che un «fatto» non sia più «fatto» o diventi un altro fatto è cadere nel più crasso relativismo, che non può, se è logico, tollerare neppure un Dio esistente. Bisogna essere estremamente chiari e consequenziari a proposito di questo palmare rilievo. Per trovare il terreno di incontro veniamo alle culture. Anche le culture sono fatti, talvolta con una certa continuità e logica, ma sempre ed assolutamente mutevoli; si guardi alla storia della cultura greca, la più raffinata di tutte e non certo superata nell’epoca moderna, salvo che sul terreno scientifico. Anche le culture, non sempre, perché talvolta sono e muoiono bambine, portano ad interpretazioni della vita, del mondo e della storia. In qualche misura! Cerchiamo di non esagerare. Ma le interpretazioni avranno lo stesso grado di mutevolezza che hanno i fatti dai quali traggono origine. Quali sono le cause che più ordinariamente influiscono nel fluire e nel mutare delle culture? Parrebbe che la prima causa sia la mancanza della verità e la mancanza di profondità nelle verità prime ed universali. La ragione è che le civiltà di lunga durata e più completo sviluppo hanno in quelle storicamente le loro radici. Quando le variazioni letterarie, fantasiose e reattive predominano sulle concezioni profonde, le cose si fanno snervate e possono anche durare secoli in stato di tranquilla sonnolenza. – In verità tutti gli elementi che noi siamo soliti chiamare «di cultura» o coincidono con la verità obbiettiva, o sono prodotti da semplici stati d’animo dalle modulazioni anche ricche e affascinanti, fissati negli strumenti delle lettere e delle arti. La scienza, per una parte almeno notevole, dovrebbe coincidere con la verità obbiettiva, salvo il caso delle grandi ed audaci ipotesi rimaste sempre e solo ipotesi; tuttavia il campo scientifico ha un limite nella quantità dimensiva e se non è integrato da visioni universali d’insieme diventa paurosamente unilaterale. Per questo certi angoli della cultura meglio si assegnerebbero al folklore. – Ma tutti gli elementi della cultura umana sorgono da un’esperienza e in tutte le esperienze gli uomini sono soggetti a molti errori. La conclusione è che la cultura e le culture costituiscono un valore rispettabile, ma mai un valore assoluto, infallibile, inderogabile ed immutabile. Sono esperienze di uomini. Il punto discriminante tra il Cristianesimo e le culture è esattamente qui: esso è un fatto che ha origine ed una garanzia divina ed è nella sua sostanza e nelle sue affermazioni immutabile; queste sono umane, limitate dalla miopia e dall’errore, estremamente mutevoli e, soprattutto, relative. – La conclusione pare semplice. Le cose mutevoli si lasciano fluire, si comprendono nel loro fluire, si colgono i fiori che hanno strappato alle rive e portano sul filone della corrente; ma si rimane a riva, non ci si annega. I fiumi si ammirano, ce se ne serve, sono veicoli di comunicazione, sono anche sorgenti irrigatorie; ma la vita ordinaria si svolge sulla terraferma. Il Cristianesimo, fatto divino, è la terraferma. – Per capire bene questo forse occorre instare qualche poco su taluni punti. – Bisogna scegliere tra il relativismo ed il fatto che i principi veramente universali valgono per tutte le culture. Scartiamo dunque, per quanto detto sopra, la scelta del relativismo. Non rimane che ammettere principi universali, obbiettivamente veri, identici per tutte le culture. Difatti fino a che non venne una certa confusione tutti gli studenti delle università romane, provenienti da tutte le aree culturali, assorbivano benissimo gli stessi principi universali. C’era qualcuno che li spiegava loro, li spiegava bene e con pazienza, c’erano ripetitori esperti e nessuno ha mai creduto che l’effato: ens et verum convertuntur potesse valere per un latino, ma non per un cinese o uno dei mari del sud. In secondo luogo bisogna fare il calcolo delle culture che non hanno mai avuto metafisica. Sarebbe un discorso lungo e grave. È ovvio che per chi è impregnato di tali culture debbono riuscire difficili i principi universali (si hanno linguaggi che neppure esprimono una serie di concetti astratti), ma ciò non significa che col tempo e la buona volontà non possano arrivare a possederli, che non avendoli familiari si debbano cambiare obbiettivamente e neppure che non sia loro utile impararli. La diversità delle culture crea la difficoltà, ma chi oserebbe dire che cambia la natura universale delle cose? Se così fosse una cultura potrebbe ricreare il mondo, spostarne tutte le leggi, cambiarne tutto il corso. Il che non è. – Si rende dunque necessario stabilire per tutte le culture un confine. Al di là di questo dove giocano fantasia, sentimento, affinità, reminiscenze… esiste tutta la pluralità possibile. Al di qua di questo confine i principi e le idee fondamentali non mutano e sono identici per tutte le culture. Al di qua dello stesso confine la pluralità non può essere altro che nell’errore. Solo con queste distinzioni serie documentate è possibile avviare un discorso sulla pluralità delle culture, che non sia una cessione vergognosa al peggiore relativismo. Dopo di che si può ammettere che tutte le culture possono, teoricamente parlando, avere elementi accettabili da un umanesimo serio ed universale e che tutte le culture non abbiano da entrare nel discorso al quale ci avviamo. – Prima però bisogna concludere. La verità rivelata, la verità naturale certa, la verità di fatto acquisita rimane invariata sotto tutte le culture. Se queste le fossero ostiche sarebbero esse in difetto. – A proposito di Cristianesimo e pluralità delle culture il discorso è pienamente centrato quando si parla di «traduzione» della verità. La traduzione non è una alterazione, un accomodamento contingente e fluente; è soltanto la riespressione in termini equivalenti di altra lingua e di altra cultura. Ora la verità cristiana va tradotta non solo nei termini imposti dalle varie lingue, ma presentata in quelle forme e con quegli accorgimenti che la rendono accessibile a lingue diverse, a momenti storici diversi, a culture diverse. Su questo si deve essere pienamente d’accordo. Ma la traduzione non è la alterazione. Di una buona parte dì scritti dubbi si deve dire che fanno delle alterazioni e nessuna traduzione. Le traduzioni sono in genere difficili, quando specialmente devono trasportare qualcosa da una mentalità ad un’altra mentalità, da un genere letterario ad un altro genere letterario. Affermare necessità di traduzione equivale ad affermare immutabilità del testo tradotto e dovere di fedeltà al testo originale.

Le esigenze della «ricerca»

Nessuno le nega. Ma c’è qualcosa di terribilmente semplice: si cerca quello che non si ha ancora. La ricerca è ragionevole quando mira ad arricchire, a dipanare, a completare, a documentare là dove non si hanno ancora documenti sufficienti, a illuminare parti lasciate in ombra, a rilevare aspetti nuovi per quanto obbiettivi. La ricerca concepita semplicemente come una assoluta libertà di negare e mutare quello che già è posseduto, per il gusto di cambiare o di affermare una attività personale o una posizione di parte, è cosa irragionevole ed invalida; è soprattutto adagiata in un vieto quanto negativo relativismo. – La vera ricerca consolida il dato assoluto; quando è contro il dato assoluto non è ricerca, ma pregiudizio. Ed è bene non confondere le cose. In pratica noi rileviamo che moltissime «ricerche» non sono affatto tali, perché sono soltanto delle affermazioni gratuite, destinare a mutare col mutare delle asserite mode. Chi cerca quello che ha davanti dimostra di avere solo una confusione mentale, perché è illogico cercare quanto è già reperito. – Ricordiamo benissimo alcune discussioni da noi udite al concilio Vaticano secondo e relative alla diversità tra teologia orientale e quella occidentale. La verità era solo questa, che la teologia orientale aveva avuto, per le enormi pressioni sociali e politiche, ben poco spazio di respirare e la teologia occidentale non aveva mai cessato di ricercare, dando per esempio non meno di cinque secoli ad una seria ricerca di filosofia scolastica. E quando diciamo «cinque secoli», è evidente che ci fermiamo a san Tommaso d’Aquino! – Quando i cicli naturali usano gli stessi mezzi arrivano sempre risultati in via di massima omogenei. E pertanto errato, e lo abbiano chiaramente in mente i nostri sacerdoti, credere che la dottrina della grazia debba essere una cosa; diversa per un italiano ed un giapponese, che la incarnazione debba variare dal modo con cui è creduta in Ispagna al modo con cui è creduta in India. L’incidenza delle culture è sulle forme e sulle tradizioni, è sulla scelta degli strumenti pedagogici e psicologici, non è sulla sostanza delle «cose sperate, argomento di quelle che non si vedono» (Eb. XI,1).

[Continua …]

TEMPO DI AVVENTO

TEMPO DI AVVENTO

[J.-J. Gaume: Catechismo di Perseveranza, vol. IV, lez. XXV, Torino 1881]

La vita dell’uomo dev’essere una festa continua; tutti i giorni, tutte le ore che la compongono, debbono essere santificate in modo, che ogni istante della nostra esistenza sia come un inno di gloria a Colui che ha creato l’uomo e il tempo. – Ma tanta si è l’umana fragilità, tanta la preoccupazione degli affari, tanta la violenza delle passioni, che la Chiesa nella sua materna tenerezza ha riputato conveniente di stabilire certi giorni e certi periodi speciali destinati a purificare il nostro cuore con la preghiera, con la mediazione delle verità eterne e con la penitenza: ecco quello che noi abbiamo velato nella precedente lezione.

I. – Idea dell’Avvento. — Nel primo ordine di quest’epoche salutari vuolsi collocare il tempo dell’Avvento. Infatti l’Avvento è un tempo di preghiera e di penitenza che la Chiesa ha stabilito per preparare suoi figli alla nascita del Salvatore. Ciò che sono le vigilie per le feste ordinarie, ciò che la Quaresima è per la Pasqua, ciò che quattro mila anni del vecchio mondo furono in ordine alla venuta del Messia, è l’Avvento alla solennità del Natale. – Quattro settimane di preparazione non sembreranno soverchie, quantunque si consideri l’eccellenza del mistero che le segue. Se il popolo d’Israele dovè prepararsi con tanta accuratezza a ricevere la legge promulgata sul monte Sinai”, a varcare le acque del Giordano e penetrare nella Terra promessa, a partecipare alle inefficaci sue vittime, o a celebrare le sue feste figurative, quali a parer vostro esser devono le preparazioni dei cristiani per riavere il Dio del Cielo, il Verbo eterno, il legislatore supremo, la vittima senza macchia, il tipo eterno di tutte le feste e di tutti i sacrifici?

II. – Antichità dell’Avvento. — Penetrata di questi alti pensieri, la Chiesa ha istituito l’Avvento per facilitare al Messia l’adito del nostro cuore. Sembra che la celebrazione dell’Avvento sia antica al pari della festa del Natale, quantunque la disciplina della Chiesa non sia stata a questo proposito sempre costante. Per molti secoli l’Avvento fu di quaranta giorni come la Quaresima, e incominciava a san Martino; e la Chiesa di Milano, fedele agli usi antichi, ha conservato le sei settimane dell’Avvento primitivo, che erano state adottate dalle Chiese di Spagna. Non andò molto per altro che dalla Chiesa di Roma fu ridotto a quattro settimane, cioè a quattro domeniche, compresa la porzione di settimana che precede il Natale. Tutto l’Occidente ne ha seguito l’esempio. – Per l’addietro si digiunava nell’Avvento, e in alcuni paesi questo digiuno era obbligatorio per tutti, in altri era di semplice devozione. L’istituzione del digiunoIè attribuita a san Gregorio Magno, il quale però non ebbe in mente di farne un precetto generale. Fino dalla metà del quarto secolo, nell’anno 462, san Perpetuo, vescovo di Tours, ordinò nella sua diocesi tre giorni di digiuno per ogni settimana, da san Martino fino a Natale; regolamento che divenne generale nella Chiesa di Francia nel settimo secolo dopo la convocazione del Concilio di Macon nel 581. Quella santa adunanza prescrisse che pel comune dei fedeli i digiuni si osservassero nel lunedì, mercoledì e venerdì di ciascuna settimana, dalla feria o festa di san Martino fino a quella della nascita di Nostro Signore, e che gli uffizi, e specialmente il sacrificio della Messa fossero celebrati come in Quaresima; vietò inoltre l’uso della carne in tutti i giorni durante lutto l’Avvento. La medesima astinenza era osservata nelle altre provincie cattoliche, e ne abbiamo la prova in una donazione pia di quell’epoca. Nel 753 avendo Astolfo re dei Longobardi in Italia concesso l’uso delle acque di Nonantola alla badia di questo nome, si era riservato quaranta lucci per uso della sua tavola durante la Quaresima di san Martino; dal che si può dedurre, che nell’ottavo secolo i Longobardi osservavano il digiuno nei quaranta giorni che precedono la festa di Natale, o che almeno si astenevano dalle carni – Al digiuno si aggiungevano le preghiere ed altri esercizi di penitenza. « Presso noi, scrive un antico autore, dalla festa di san Martino fino a quella di Natale, l’astinenza da ogni carne viene comandata a tutti i figli della Chiesa, come un mezzo indispensabile di accostarsi ai sacramenti nel giorno della nascita del Salvatore ». Il Pontefice Bonifazio VIII nella Bolla di canonizzazione di san Luigi dichiara, che quel degno successore di Carlo Magno passava tutti i giorni dell’Avvento in,digiuni e preghiere. Tale era la condotta dei semplici fedeli. – Quanto ai religiosi, essi digiunavano come in tempo di Quaresima, e i più hanno conservato fino ai dì nostri quest’uso. Aggiungeremo che questo è il corso naturale delle cose, poiché è colui che di tutti i suoi giorni non fa che una continua preparazione alle cose eterne, che conserva le strette osservanze di preparazione e di digiuno; è colui che non è più in battaglia, che conserva la propria arme mentre quegli la cui vita è una continua distrazione, un avvicendamento di piaceri e di disordini si disarma e più non veglia per difendersi dal nemico.

III. Liturgia dell’Avvento. — Intanto la Chiesa non trascura alcun mezzo per eccitare neI propri figli l’antico fervore dei padri loro. E non è forse con ragione? – Il Bambino che noi aspettiamo è forse meno amabile, meno santo, men degno di tutto l’amor nostro oggi che in altro tempo? Ha egli forse cessato di essere l’amico dai cuori puri? La sua venuta nelle anime nostre è forse meno necessaria? Ah! Che noi forse abbiamo rialzato in cuore gli idoli che Egli era venuto a rovesciare diciotto secoli fa! Deh! facciam senno davvero ed entriamo nei disegni della Chiesa, dacché vediamo come questa madre affettuosa raddoppia le sue premure per fermare in noi le disposizioni di penitenza e di carità necessarie al buon ricevimento del Bambino di Betlemme. Nei suoi uffizi ella dimette i suoi ornamenti di gioia e prende il color violetto in segno di compunzione. Il Gloria in excélsis si tralascia alla Messa; ma la stessa mestizia è temperata dalla speranza, ed ecco perché essa ripete l’Alleluia alla Messa della domenica. Lo sopprime alle ferie per richiamarci alla penitenza e per dire ai cristiani d’oggidì: sappiate che per i vostri padri tutti i giorni dell’Avvento erano giorni di astinenza e di digiuno: siano per voi almeno giorni di pentimento e dì preghiera. – E a fine di eccitare in tutte le anime questo doppio sentimento di speranza e di compunzione, ecco che adopra a vicende la voce di Paolo, la voce d’Isaia, la voce di Giovanni sulle rive del Giordano, la voce dello stesso Messia che si mescola agli accenti dei predicatori e agl’inni della Chiesa. « È tempo che ci svegliamo, l’ora della nostra redenzione si avvicina, la notte s’inoltra, il giorno è per nascere; affrettiamoci dunque ad abbandonare le opere delle tenebre, e rivestiamoci delle armi di luce. Camminiamo con onestà e decenza come si conviene nel giorno; non vi abbandonate ai vizi, ma rivestitevi del Nostro Signore Gesù Cristo ». Sono questi gli avvertimenti che ci dà l’apostolo san Paolo nell’epistola della prima domenica dell’Avvento. Allo scopo di rendere questa lezione più efficace, la Chiesa ci rammenta nel Vangelo il giudizio finale e la seconda venuta del Figlio di Dio; egli è come se dicesse: Se volete vedere senza timore arrivare il Dio ch’io vi annunzio, allorché verrà come vindice deivivi e dei morti, preparatevi a riceverlo ora ch’Ei viene come Salvatore. Beato chi è docile al mio avviso! Vedete quanto sarà formidabile la sua seconda venuta. « Si vedranno dei segni nel sole, nella luna e nelle stelle; le nazioni della terra saranno nella costernazione; gli uomini geleranno di spavento nell’aspettativa di ciò che deve accadere all’universo; le colonne del firmamento crolleranno; ed ecco arrivare il Figlio dell’Uomo sopra una nube, armato di gran potenza e maestà. Quanto a voi, allorché vedrete succedere tali cose, aprite gli occhi ed alzate il capo, perché la vostra redenzione è vicina. Giudicatene dal paragone del fico e degli altri alberi: quando li vedete fiorire voi dite, l’estate è vicina. Per egual modo quando vedrete quel ch’Io vi predico, sappiate che il regno di Dio è vicino. In verità Io vi dico, questa generamene non passerà senza che ciò si adempia. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno ». – Ditemi di grazia, poteva forse la Chiesa trovare una verità più capace di gettare il terrore nelle anime, e di forzare i cristiani a rientrare in loro stessi? Ma ella vuole che alle lacrime della penitenza e ai terrori del giudizio si uniscano i sospiri e le consolazioni della speranza. Perciò all’uffizio della sera essa li palesa nell’inno, Statuta decreto, le cui note e parole esprimono una dolce ma profonda malinconia.

« Ecco finalmente venire i tempi designati dai decreti del Signore;

» Ecco venire il giorno che si è fatto aspettare per tanti secoli.

» La posterità di un padre colpevole giaceva tribolata ed in angustie sopra un letto di dolori;

» Gli uomini erano senza forza, scoraggiati, sepolti nelle ombre della morte;

» I terrori della tomba, i tormenti dell’inferno erano la loro eredità;

» I figli d’Adamo tremavano e si esinanivano nell’aspettazione del supremo Giudice.

» Ohimè! chi poteva liberarli da mali sì grandi? Qual mano sarà abbastanza potente per sanare una piaga sì profonda?

» Voi solo, o Cristo! voi solo potete, scendendo dal vostro trono, rendere alla vostra immagine la sua forma e la sua bellezza!

» O cieli, apritevi sul nostro capo, lasciate cadere la vostra preziosa rugiada, e la terra fecondata dia al mondo il suo Salvatore.

» O Figlio, che venite per essere il nostro liberatore, sia lode a voi col Padre e con lo Spirito nei secoli eterni ».

.- In vece dell’Inno Statuto decreto, la Chiesa romana canta l’Inno. En clara vox redarguit, di cui porgiamo qui la poetica versione.

VERSIONE DELL’INNO

En clara vox redarguit.

Di buie tenebre fra l’ombre nere

Chiara una voce tuonar s’udì;

Lungi dei sogni sgombran le schiere,

Cristo dall’alto ci apporta il dì.

Dal reo torpore sorga la mente,

Assai sen giacque depressa al suo.

Novello un astro brilla repente

Sanando i mali, calmando il duol.

Ecco l’Agnello dal ciel s’invia

A nostro scampo già muove il piè.

Col mesto canto, o gente pia,

Dei nostri falli chiediam mercè.

– Tutto il popolo che la mattina tremava alla ricordanza della valle di Giosafatte, esulta la sera di deliziosa speranza, intravedendo il presepio di Betlemme, e mille schiette armonie esprimono questi sentimenti. E ne abbiamo una bella prova in quel cantico popolare che il fanciullo e il vecchio si dilettano di ripetere la sera nel cantuccio del fuoco: « Venite, divino Messia, cambiate i nostri giorni affannosi; venite, sorgente di vita, venite, venite, venite, ecc.». – La seconda domenica dell’Avvento la Chiesa continua le sue istruzioni; esse divengono sempre più preziose, a misura che il grande avvenimento si avvicina: è la luce che divien più viva a misura che il sole si avvicina all’orizzonte. Nell’epistola il grande Apostolo fa ancora udire la sua voce; egli annunzia che Gesù Cristo è inviato per adempiere tutte le figure e per riunire in un solo gregge i giudei e i gentili. – Il vangelo ci presenta il Precursore che addita nella persona di Gesù Cristo il Redentore aspettato da quaranta secoli. Egli conosceva quest’Agnello di Dio, ma i suoi discepoli nol conoscevano. Per ammaestrarli, egli spedì a Gesù due di loro con ordine di fargli questa interrogazione e aspettarne la risposta: « Sei Tu Colui che deve venire, o dobbiamo noi aspettarne un altro? » Gesù, avendo in loro presenza operato diversi miracoli, a cui secondo Isaia si riconoscerebbe il Cristo, Gesù rispose loro: « Andate, e dite a Giovanni quello che avete veduto; i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risuscitano;

Quando alla terra di nuovo splenda,

Cingendo il mondo d’alto terror,

Sul reo la giusta pena non scenda,

Ma ci protegga pietoso allor.

Sia gloria eterna al Genitore,

Sia gloria all’unica prole immortale,

All’almo Spirito, divino amore

Per tutti i secoli sia gloria egual.     P. L,

« Il vangelo è predicato ai poveri; felice colui che non si sarà scandalizzato: » Più si avvicina il momento solenne cui il Messia deve fare il suo ingresso nel mondo, e più la Chiesa raddoppia le sue esortazioni. – La terza domenica S. Paolo ci parla ancora nell’epistola e ci invita al giubilo: L’aurora della liberazione splende sull’orizzonte; alla gioia egli vuole che aggiungiamo la preghiera,  vale a dire quel desiderio ardente che attrae Dio in noi, e che chiamerà nei nostri cuori. Nel Vangelo san Giovanni Battista, più che profeta, non predica più il Messia ma asserisce che è già nel mondo, e infatti Egli era in mezzo dei Giudei, e anche noi già l’adoriamo in seno a sua Madre allorché ascoltiamo questo Vangelo. Il Precursore aggiunge una parola che si verifica anche oggigiorno. « Egli è in mezzo di voi, e voi non lo conoscete ». Poi prendendo il tuono d’Isaia, egli fa echeggiare le volte dei nostri templi, come in addietro le rive del Giordano, di queste potenti parole: « Voce di colui che grida nel deserto: fate diritte le vie del Signore, abbassate le colline, colmate le valli, cioè preparate il vostro spirito e il vostro cuore e i vostri sensi al ricevimento del Messia. Ecco ch’ei viene, ed io non sono degno di sciogliere i lacciuoli delle tue scarpe » – E colui che tiene questo linguaggio è il più grande dei figli degli uomini! Oh! Quanto è grande, santo e rispettabile il Messia! Con quale zelo dobbiamo prepararci a riceverlo! – Finalmente la quarta domenica, allorché il divino Fanciullo è sul punto d’entrare nel mondo, allorché quest’amabile sposo batte già alla porta dei nostri cuori, la Chiesa termina tutte le sue istruzioni con queste parole: «Ogni carne vedrà il Salvatore inviato da Dio»; concetto meraviglioso che ne dice: state pronti, i tempi sono adempiti, il sole di giustizia e di verità è per splendere nell’universo; la sua luce è per diffondersi su tutti gli uomini, senza distinzione di ricchi e di poveri, di dotti e d’ignoranti, io vi ripeto, siate preparati. intendete voi l’immensa importanza, il sommo valore di quest’ultimo annunzio: ogni carne vedrà il Salvatore inviato da Dio? » Non ci contentiamo di ammirare la sapienza con cui la Chiesa distribuisce le sue istruzioni durante l’Avvento, ma entriamo eziandio nel suo spirito; aumentimo di fervore e di raccoglimento a misura che ci avviciniamo alla nascita del Desiderato dalle nazioni, che dev’essere pur anche il Desiderato del nostro cuore.

Antifone O. — A fine di rendere più vivi i nostri sospiri e i nostri voti, la Chiesa ha instituito la festa dell’Espettazione, ossia dell’aspettativa del parto divino. Questa festa, instituita al 16 dicembre, dura per tutta un’ottava ed in Francia stessa dura nove giorni. Ecco perché dal 15 al 23 dicembre la Chiesa canta a Vespro, innanzi e dopo il cantico della santa Vergine, le grandi antifone le quali sono chiamate le antifone “O”, perché incominciano tutte con questa invocazione. Esse sono ripetute tre volte per giorno all’uffizio della sera, di maniera che la festa dell’Espettazione è una specie di novena di sospiri, di gemiti, d’invocazioni. È impossibile per chi ha fede il recitarle senza entrare nei sentimenti ch’esse esprimono. Esse continuano per nove giorni in onore dei nove cori angelici; e scongiurano gli spiriti celesti a sospirare con noi per la venuta del Liberatore che ha pacificato tutto ciò ch’è nel cielo ed in terra. Con la loro varietà queste antifone esprimono i diversi caratteri del Messia e i diversi bisogni del genere umano. – Dal giorno della sua caduta l’uomo è un insensato quasi senza cognizione e senza gusto die veri beni; la sua condotta fa paura e pietà: egli ha bisogno di saviezza, e la Chiesa con la prima antifona la implora per lui: O Sapientia: « O Salienza, che sei uscita dalla bocca dell’Altissimo, che raggiungi il tuo scopo con forza, e che disponi tutte le cose con dolcezza, vieni ad insegnarci la via della prudenza ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è uno schiavo del demonio: egli ha bisogno di un potente liberatore, e la Chiesa con la seconda antifona lo implora per lui: O Adonai: « O potente Iddio, condottiero della casa d’Israele! che vi siete mostrato a Mosè nel roveto ardente, e che gli avete dato la legge sul Sinai, venite a riscattarci con la potenza del vostro braccio ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è venduto all’iniquità: egli ha bisogno di un Redentore, e la Chiesa lo chiede per lui con la terza antifona : O radix Jesse: « O radice di Jesse, che sei esposta come uno stendardo agli occhi delle nazioni, davanti alla quale i monarchi staranno in silenzio, e cui i gentili offriranno le loro preghiere, vieni a redimerci, non indugiare ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è un prigioniero chiuso nel carcere tenebroso dell’errore e della morte: egli ha bisogno di una chiave per uscirne, e là Chiesa nella quarta antifona la chiede per lui: O clavis David: « O chiave di David e scettro della casa d’Israele, che apri e nessuno chiude, che chiudi e nessuno apre, vieni a levare il prigioniero dal carcere, quello sventurato ch’è immerso nelle tenebre e nell’ombra della morte». Dal giorno della sua caduta l’uomo è un cieco: egli ha bisogno di un sole che lo illumini, e la Chiesa con la quinta antifona lo chiede per lui: O Oriens: « O Oriente, splendore dell’eterna luce e sole di giustizia, vieni ad illuminare coloro che stanno sepolti nelle tenebre e nell’ombra della morte ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è tutto corrotto: egli ha bisogno di un santifìcatore, e la Chiesa con la sesta antifona la chiede per lui: O sancte sanctorum: « O Santo de’ santi, specchio senza macchia della maestà di Dio e immagine della sua bontà, venite a distruggere l’iniquità ed a portare l’eterna giustizia ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è come una grande rovina: egli ha bisogno d’un restauratore, e la Chiesa con la settima antifona lo domanda per lui: O Rex gentium: « O Re delle nazioni, Dio e Salvatore d’Israele, pietra angolare, che unite in un solo edificio i Giudei e i Gentili, venite e salvate l’uomo che avete formato del fango della terra ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo ha curvato la testa sotto il giogo di tutte le tirannie: egli ha bisogno d’un legislatore giusto, e la Chiesa con l’ottava antifona lo domanda per lui : O Emmanuel: « O Emanuele, nostro re e nostro legislatore, aspettato dalle nazioni, oggetto di tutte le brame, venite a salvarci, Signore Dio nostro ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è una pecorella smarrita ed esposta al furore dei lupi: egli ha bisogno di un pastore che lo difenda e che lo conduca in buoni pascoli, e la Chiesa lo domanda per lui con la nona antifona: O Pastor Israel: « O Pastore e Dominatore della casa di David, voi che siete da tutta l’eternità, venite a pascolare il vostro popolo nella pienezza della vostra potenza, e regnate sopra di lui nella giustizia e nella saviezza ». – Chi può additare qualche cosa di più commovente e di più completo di queste magnifiche invocazioni? Quanto a noi ci sembra che uno dei migliori preparativi alla festa del Natale sia di ripetere spesso queste belle antifone e di chiedere il dono dei sentimenti ch’esse esprimono. Sì, se vogliamo passare santamente il tempo dell’Avvento, uniamo i nostri desideri a quelli della Chiesa, dei patriarchi, dei profeti, dei giusti dell’antica legge; adottiamo qualcuna delle loro più fervorose parole; sia ella la nostra orazione giaculatoria di ogni giorno, affinché Dio possa dire di noi: « Ecco un uomo di buona volontà » così verremo esauditi. E se meglio ne talenta, scegliamo tra le seguenti preghiere, efficaci per formare in noi le disposizioni che la Chiesa richiede; « Io ve ne supplico, o Signore, inviate quello che voi dovete inviare. — Venite, Signore Gesù, e non indugiate; cieli, apritevi, lasciate discendere la vostra rugiada. — Divino bambino Gesù, venite a nascere nel mio cuore per bandirvi il peccato e collocarvi le vostre virtù ». – Uniamo alla preghiera un raccoglimento più grande e una vigilanza più continua; discendiamo più spesso nel nostro cuore per purificarlo ed onorarlo; pensiamo che ci deve diventare la cuna del divino Fanciullo. – Ma il grande preparativo è la rinunzia al peccato, e in modo speciale al peccato mortale. Che cosa può esservi di comune tra il Figlio di Maria e un cuore macchiato d’iniquità? – Ascoltiamo san Carlo che esorta il suo popolo a santificare l’Avvento, e applichiamo a noi stessi le parole di quel grande arcivescovo: « Durante l’Avvento noi dobbiamo prepararci a ricevere il Figlio di Dio che lascia il seno del Padre suo per farsi uomo ed abitare fra noi. Fa di mestieri ogni giorno sottrarre un poco di tempo alle nostre occupazioni per meditare in silenzio sopra le seguenti domande: Chi è colui che viene? Donde viene? Come viene? Chi sono coloro per i quali viene? Quali sonò i motivi, e quale deve essere il frutto della sua venuta? Chiamiamolo con tutti i nostri voti, unendoci ai giusti e ai profeti dell’antico Testamento che lo hanno sì a lungo aspettato; poscia per aprirgli il cammino del nostro cuore purifichiamoci mediante la Confessione, il digiuno e la Comunione « Non dimentichiamo che per l’addietro si digiunava tutto l’Avvento come se fosse la vigilia di Natale. E a gran ragione, perciocché la grandezza e la santità di questa festa ben richiedono una sì lunga vigilia e un sì lungo preparativo. Ma se in oggi non è il digiuno quotidiano come in allora prescritto dovrebbe ogni cristiano digiunare uno o più giorni la settimana, secondo la propria devozione. Conviene otre a ciò distribuire più larghe limosine ai poveri in un tempo in cui il Padre eterno ci diede, e ci dà ancora ogni anno, il suo proprio Figlio come una grande elemosina, e un tesoro di grazie e di misericordie; esser più attenti, che in altro tempo, alle opere buone e alla lettura dei libri devoti; finalmente prepararsi a questa prima venuta del Figlio di Dio, in maniera da poter aspettare la sua seconda venuta non solo senza timore, ma con quella fiducia e contentezza che accompagnano sempre una buona coscienza ». – E gravissimi sono i motivi che ha ciascuno di noi per seguire i consigli di questo grande apostolo dei tempi moderni, e per santificare l’Avvento.

1°.-  L’obbedienza al precetto della Chiesa, «io sono la voce di colui che grida nel deserto; preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri; la scure sta già alla radice dell’albero ». Quest’invito che il santo Precursore dirigeva ai Giudei riguarda egualmente gli uomini di tutti i secoli. Gesù Cristo venne al mondo per tutti: è dunque obbligo indispensabile per tutti di riceverlo. Per timore che noi trascuriamo un punto così essenziale, la Chiesa, sempre intenta al bene spirituale dei propri figli e interprete fedele degli oracoli divini, di cui le è affidata la cura, proclama nella maniera più stringente e più solenne l’invito del santo precursore per tutto il tempo dell’Avvento. La Giudea si scosse al suono di quella voce profetica che si alzava sulle rive del Giordano; i sacerdoti, i leviti, i soldati, i pubblicani, i peccatori di ogni classe e d’ogni condizione accorrevano in folla per chiedere il battesimo della penitenza. – Ora la voce stessa risuona nei nostri templi: abbiamo noi per avventura minor bisogno di penitenza? Abbiamo noi meno da temere di questo gran Dio che ora viene come Salvatore, e che un giorno verrà come giudice? Lasceremo noi che la Chiesa si affatichi invano a ripeterci: « Preparate i vostri cuori; ecco che ogni carne vedrà ben presto il Salvatore inviato da Dio? »

2°.- La gratitudine verso il Salvatore. Che cosa era l’uomo prima dell’incarnazione del Salvatore? Che cosa saremmo noi senza di Lui? Poveri, ciechi, schiavi, vittime del demonio, del peccato e dell’inferno, di che mai non gli andiamo noi debitori? E per liberarci, illuminarci, redimerci, restituirci i perduti nostri diritti, che non ha costato al Figlio di Dio? Un Dio che si nasconde sotto le sembianze di schiavo, che si sottomette a tutte le miserie dell’umanità; un Dio povero; un Dio fanciullo: ciò nulla dirà al nostro cuore? E noi che siamo riconoscenti ai minimi benefizi, nol saremo per un Dio che ci dà se stesso?

3°.- Il nostro vantaggio spirituale. La sorgente delle grazie non rimane esausta in nessun tempo dell’anno; ma le grandi feste sono giorni più propizi, son giorni in cui le grazie vengono sparse con maggior abbondanza. Tutta la Chiesa, animata allora dal medesimo spirito, offre a Dio un omaggio più solenne, gl’indirizza preghiere più fervide, lo piega con lacrime più sincere. Gesù Cristo è nato per la nostra salvezza; ma egli spande le sue grazie sopra quelli soltanto che si presentano con un cuore preparato a riceverlo. Le disposizioni ch’ei trova in noi diventano la misura dei suoi favori. Ebbene, abbiamo noi poco o nulla da domandargli? Scrutiamo l’interno del nostro cuore, interroghiamo la nostra vita passata, il nostro stato presente, il nostro avvenire, e risponderà per noi l’abisso delle nostre miserie.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate instituito il santo tempo dell’Avvento per prepararmi alla festa del Natale; fatemi la grazia ch’io la celebri santamente. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore,  io ripeterò ogni giorno, durante l’Avvento questa preghiera: Divino bambino Gesù, venite a nascere nel mio cuore.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: LAMENTABILI SANE EXITU

Dopo aver letto attentamente l’Enciclica “Pascendi” nelle settimane scorse, è obbligo esaminare anche il decreto che la Sacra Inquisizione, con l’approvazione di S. Pio X pose a coronamento delle valutazioni riportate nella Enciclica stessa. Leggendo tutte le 65 proposizioni di questo decreto, pare di leggere tutti i concetti di base oggi in voga nella falsa chiesa conciliare, quella fondata dalla setta del “novus ordo” dei massoni Roncalli, Montini, ed a seguire gestita dal teosofo comunista Woitiła, dell’Illuminata “volpe di Baviera” e dall’attuale falso Gesuita il “gatto della Pampa”, ed appoggiata dai marrani infiltrati e da tutti i traditori di Cristo a vario titolo. Tutti questi concetti condannati, riprovati, respinti con veemenza dalla Chiesa Cattolica nella persona qui del Sommo Pontefice Pio X, sono divenuti così le colonne portanti della nuova vaticana sinagoga di satana  [… boaz e jakin], che oramai non si preoccupa più nemmeno di opporre finte ribattute, tronfia del potere satanico che ha ricevuto [… intronizzazione di satana in Vaticano, nel 1963!] e della copertura mediatica dei mass media massonici. Tutto quanto la Santa Chiesa di Cristo ha affermato e difeso nei millenni, oggi viene capovolto e ribaltato da questo baraccone holliwoodiano, mescolato in un calderone con il solito minestrone riscaldato, cioè in uno gnosticismo grottesco che costituisce da sempre il denominatore comune di tutte le false religioni o sette mondiali di Occidente o di Oriente [… omnes dii gentium dæmoniaPs. XCV], nessuna esclusa, e massimamente concentrato nelle conventicole massoniche, fili con i quali i burattinai “incogniti” muovono tutti gli apparenti poteri mondiali, compreso quello spirituale [quello attualmente diretto da lucifero]. A noi “pusillus grex” di Cattolici ostinati, non resta che pregare che il Signore abbrevi questi giorni funesti, come già diceva S. Paolo nella lettera II ai Tessalonicesi, e riporti alla luce, facendola risplendere nuovamente, come Maestra del mondo e Sposa incontaminata di Cristo, la Santa Madre Chiesa, guidata dal Vicario di Cristo in terra, attualmente umiliato e confinato in un doloroso esilio. Intanto conviene ben fissare nella mente le condanne comminate da S. Pio X e dalla Sacra Inquisizione in questo secondo “Syllabo” [dopo quello di Pio IX] contenuto nel decreto “Lamentabili”.

“LAMENTABILI SANE EXITU”

“SUL PERICOLO COSTITUITO DA CERTI ESEGETI CHE, CON L’APPARENZA DI INTELLIGENZA E COL NOME DI CONSIDERAZIONE STORICA, CORROMPONO LA DOTTRINA”

SUPREMA SACRA INQUISIZIONE ROMANA ED UNIVERSALE

Con deplorevoli frutti, l’età nostra, impaziente di freno nell’indagare le somme ragioni delle cose, non di rado segue talmente le novità, che, lasciata da parte, per così dire, l’eredità del genere umano, cade in errori gravissimi. Questi errori sono di gran lunga più pericolosi qualora si tratti della disciplina sacra, dell’interpretazione della Sacra Scrittura, dei principali misteri della Fede. – È da dolersi poi grandemente che, anche fra i cattolici, si trovino non pochi scrittori i quali, trasgredendo i limiti stabiliti dai Padri e dalla Santa Chiesa stessa, sotto le apparenze di più alta intelligenza e col nome di considerazione storica, cercano un progresso dei dogmi che, in realtà, è la corruzione dei medesimi. – Affinché dunque simili errori, che ogni giorno si spargono tra i fedeli, non mettano radici nelle loro anime e corrompano la sincerità della Fede, piacque al Santissimo Signore Nostro Pio per divina Provvidenza Papa X, che per questo officio della Sacra Romana ed Universale Inquisizione si notassero e si riprovassero quelli fra di essi che sono i precipui. Perciò, dopo istituito diligentissimo esame e avuto il voto dei Reverendi Signori Consultori, gli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali Inquisitori generali nelle cose di fede e di costumi, giudicarono che le seguenti proposizioni sono da riprovarsi e da condannarsi, come si riprovano e si condannano con questo generale Decreto:

  1. La legge ecclesiastica che prescrive di sottoporre a previa censura i libri concernenti la Sacra Scrittura non si estende ai cultori della critica o dell’esegesi scientifica dei Libri dell’Antico e del Nuovo Testamento.
  2. L’interpretazione che la Chiesa dà dei Libri sacri non è da disprezzare, ma soggiace ad un più accurato giudizio e alla correzione degli esegeti.
  3. Dai giudizi e dalle censure ecclesiastiche, emanati contro l’esegesi libera e superiore, si può dedurre che la fede proposta dalla Chiesa contraddice la storia, e che i dogmi cattolici in realtà non si possono accordare con le vere origini della religione cristiana.
  4. Il magistero della Chiesa non può determinare il genuino senso delle sacre Scritture nemmeno con definizioni dogmatiche.
  5. Siccome nel deposito della fede non sono contenute solamente verità rivelate, in nessun modo spetta alla Chiesa giudicare sulle asserzioni delle discipline umane.
  6. Nella definizione delle verità, la Chiesa discente e la Chiesa docente collaborano in tale maniera, che alla Chiesa docente non resta altro che ratificare le comuni opinioni di quella discente.
  7. La Chiesa, quando condanna gli errori, non può esigere dai fedeli nessun assenso interno che accetti i giudizi da lei dati.
  8. Sono da ritenersi esenti da ogni colpa coloro che non tengono in alcun conto delle riprovazioni espresse dalla Sacra Congregazione dell’Indice e da altre Sacre Congregazioni Romane.
  9. Coloro che credono che Dio è l’Autore della Sacra Scrittura sono influenzati da eccessiva ingenuità o da ignoranza.
  10. L’ispirazione dei Libri dell’Antico Testamento consiste nel fatto che gli Scrittori israeliti tramandarono le dottrine religiose sotto un certo aspetto particolare in parte conosciuto e in parte sconosciuto ai gentili.
  11. L’ispirazione divina non si estende a tutta la Sacra Scrittura al punto che tutte e singole le sue parti siano immuni da ogni errore.
  12. L’esegeta, qualora voglia affrontare con utilità gli studi biblici, deve, anzitutto, lasciar cadere quel certo qual preconcetto inerente l’origine sovrannaturale della Sacra Scrittura.
  13. Gli stessi Evangelisti e i Cristiani della seconda e terza generazione composero le parabole evangeliche in modo artificioso così da spiegare gli esigui frutti della predicazione di Cristo presso i giudei.
  14. Gli Evangelisti riferirono in molte narrazioni non tanto ciò che effettivamente accadde, quanto ciò che essi ritennero maggiormente utile ai lettori, ancorché falso.
  15. Gli Evangeli furono soggetti a continue aggiunte e correzioni, fino alla definizione e alla costituzione del canone; in essi, pertanto, della dottrina di Cristo, non rimase che un tenue e incerto vestigio.
  16. I racconti d Giovanni non sono propriamente storia, ma mistica contemplazione del Vangelo; i discorsi contenuti nel suo Vangelo sono meditazioni teologiche sul Mistero della Salvezza, destituite di verità storica.
  17. Il quarto Evangelo esagerò i miracoli, non solo perché apparissero maggiormente straordinari, ma anche affinché fossero più adatti a significare l’opera e la gloria del Verbo Incarnato.
  18. Giovanni rivendica a sé il ruolo di testimone di Cristo; in verità egli non è che un eccellente testimone di vita cristiana, ovvero della vita di Cristo alla fine del primo secolo.
  19. Gli esegeti eterodossi espresso più fedelmente il vero senso della Scrittura di quanto non abbiano fatto gli esegeti cattolici.
  20. La Rivelazione non poté essere altro che la coscienza acquisita dall’uomo circa la sua relazione con Dio.
  21. La Rivelazione, che costituisce l’oggetto della Fede cattolica, non si è conclusa con gli Apostoli.
  22. I dogmi, che la Chiesa presenta come rivelati, non sono verità cadute dal cielo, ma l’interpretazione di fatti religiosi, che la mente umana si è data con travaglio.
  23. Può esistere, ed esiste in realtà, un’opposizione tra i fatti raccontati dalla Sacra Scrittura ed i dogmi della Chiesa fondati sopra di essi; sicché il critico può rigettare come falsi i fatti che la Chiesa crede certissimi.
  24. Non dev’essere condannato l’esegeta che pone le premesse, cui segue che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non neghi direttamente i dogmi stessi.
  25. L’assenso della Fede si appoggia da ultimo su una congerie di probabilità.
  26. I dogmi della Fede debbono essere accettati soltanto secondo il loro senso pratico, cioè come norma precettiva riguardante il comportamento, ma non come norma di Fede.
  27. La Sacra Scrittura non prova la Divinità di Gesù Cristo; ma è un dogma che la coscienza cristiana deduce dal concetto di Messia.
  28. Gesù, durante il suo Ministero, non parlava per insegnare di essere il Messia, né i suoi miracoli miravano a dimostrarlo.
  29. Si può ammettere che il Cristo storico sia molto inferiore al Cristo della Fede.
  30. In tutti i testi evangelici, il nome “Figlio di Dio” equivale soltanto a nome “Messia” e non significa assolutamente che Cristo è vero e naturale Figlio di Dio.
  31. La dottrina su Cristo, tramandata da Paolo, Giovanni e dai Concili Niceno, Efesino e Calcedonense, non è quella insegnato da Gesù, ma che su Gesù concepì la coscienza cristiana.
  32. Non è possibile conciliare il senso naturale dei testi evangelici con quello che i nostri teologi insegnano circa la coscienza e la scienza infallibile di Gesù Cristo.
  33. È evidente a chiunque non sia influenzato da opinioni preconcette che Gesù ha professato un errore circa il prossimo avvento messianico, o che la maggior parte della sua dottrina, contenuta negli Evangeli sinottici, è priva di autenticità.
  34. Il critico non può affermare che la scienza di Cristo non sia circoscritta da alcun limite, se non ponendo ipotesi – non concepibile storicamente e che ripugna al senso morale – secondo la quale Cristo abbia avuto la conoscenza di Dio in quanto uomo e non abbia voluto in alcun modo darne notizia ai discepoli e alla posterità.
  35. Cristo non ebbe sempre la coscienza della sua dignità messianica.
  36. La Risurrezione del Salvatore non è propriamente un fatto di ordine storico, ma un fatto di ordine meramente sovrannaturale, non dimostrato né dimostrabile, che la coscienza cristiana lentamente trasse dagli altri.
  37. La Fede nella Risurrezione di Cristo inizialmente non fu tanto nel fatto stesso della Risurrezione, quanto nella vita immortale di Cristo presso Dio.
  38. La dottrina concernente la Morte espiatrice di Cristo non è evangelica, ma solo paolina.
  39. Le opinioni sull’origine dei Sacramenti, di cui erano imbevuti i Padri tridentini, e che senza dubbio ebbero un influsso nei loro Canoni dogmatici, sono molto distanti da quelle cui ora gli storici del Cristianesimo dànno credito.
  40. I Sacramenti ebbero origine perché gli Apostoli e i loro successori interpretarono una certa idea e intenzione di Cristo, sotto la persuasione e la spinta di circostanze ed eventi.
  41. I Sacramenti hanno come unico fine di ricordare alla mente dell’uomo la presenza sempre benefica del Creatore.
  42. La comunità cristiana inventò la necessità del Battesimo, adottandolo come rito necessario e annettendo ad esso gli obblighi della professione cristiana.
  43. L’uso di conferire il Battesimo ai bambini fu un’evoluzione disciplinare, ragion per cui il Sacramento è diventato due, cioè il Battesimo e la Penitenza.
  44. Nulla prova che il rito del Sacramento della Confermazione sia stato istituito dagli Apostoli; la formale distinzione di due Sacramenti, cioè del Battesimo e della Confermazione, non risale alla storia del cristianesimo primitivo.
  45. Non tutto ciò che narra Paolo a proposito dell’istituzione dell’Eucaristia [I Cor., 11, 23-25] è da considerarsi fatto storico.
  46. Il concetto della riconciliazione del cristiano peccatore, per autorità della Chiesa, non fu presente nella comunità primitiva: fu la Chiesa ad abituarsi lentamente a questo concetto. Per di più, dopo che la Penitenza fu riconosciuta quale istituzione della Chiesa, non veniva chiamata col nome di Sacramento, poiché era considerata come Sacramento vergognoso.
  47. Le parole del Signore “Ricevete lo Spirito Santo; a coloro ai quali rimetterete i peccati saranno rimessi e a coloro ai quali non li rimetterete non saranno rimessi” [Joh., 20, 22-23] non si riferiscono al Sacramento della Penitenza, anche se i Padri tridentini vollero affermarlo.
  48. Giacomo, nella sua epistola [Jac., 5, 14 sqq.], non volle promulgare un Sacramento di Cristo, ma raccomandare una pia pratica e se in ciò riconobbe un certo qual mezzo di Grazia, non lo intese con quel rigore con cui lo intesero i teologi che stabilirono la nozione e il numero dei Sacramenti.
  49. Coloro che erano soliti presiedere alla cena cristiana acquisirono il carattere sacerdotale per il fatto che essa progressivamente andava assumendo l’indole di un’azione liturgica.
  50. Gli anziani che, nelle adunanze dei Cristiani, esercitavano l’ufficio di vigilanza, furono dagli Apostoli creati preti o vescovi per provvedere all’ordinamento necessario delle crescenti comunità, e non propriamente per perpetuare la missione e la potestà Apostolica.
  51. Il Matrimonio fu riconosciuto dalla Chiesa come Sacramento della nuova Legge solo molto tardi; infatti, perché il Matrimonio fosse considerato Sacramento, era necessario che lo precedesse la piena dottrina della Grazia e la spiegazione teologica del Sacramento.
  52. Cristo non volle costituire la Chiesa come società duratura sulla terra, per lunga successione di secoli; anzi, nella mente di Cristo, il regno del Cielo, unitamente alla fine del mondo, doveva essere prossimo.
  53. La costituzione organica della Chiesa non è immutabile; ma la società cristiana, non meno della società umana, va soggetta a continua evoluzione.
  54. I dogmi, i sacramenti, la gerarchia, sia nel loro concetto come nella loro realtà, non sono che interpretazioni ed evoluzioni dell’intelligenza cristiana, le quali svilupparono e perfezionarono il piccolo germe latente nel Vangelo con esterne aggiunte.
  55. Simon Pietro non ha mai sospettato di aver ricevuto da Cristo il primato nella Chiesa.
  56. La Chiesa Romana diventò capo di tutte le Chiese non per disposizione della Divina Provvidenza, ma per circostanze puramente politiche.
  57. La Chiesa si mostra ostile ai progressi delle scienze naturali e teologiche.
  58. La verità non è immutabile più di quanto non lo sia l’uomo stesso, poiché si evolve con lui, in lui e per mezzo di lui.
  59. Cristo non insegnò un determinato insieme di dottrine applicabile a tutti i tempi e a tutti gli uomini, ma piuttosto iniziò un certo qual moto religioso adattato e da adattare a diversi tempi e circostanze.
  60. La dottrina cristiana fu, nel suo esordio, giudaica; poi divenne, per successive evoluzioni, prima paolina, poi giovannea, infine ellenica e universale.
  61. Si può dire senza paradosso che nessun passo della Scrittura, dal primo capitolo della Genesi fino all’ultimo dell’Apocalisse, contiene una dottrina perfettamente identica a quella che la Chiesa insegna sullo stesso argomento, e perciò nessun capitolo della Scrittura ha lo stesso senso per il critico e per il teologo.
  62. Gli articoli principali del Simbolo apostolico non avevano per i cristiani dei primi tempi lo stesso significato che hanno per i cristiani del nostro tempo.
  63. La Chiesa si dimostra incapace a tutelare efficacemente l’etica evangelica, perché ostinatamente si attacca a dottrine immutabili, inconciliabili con i progressi odierni.
  64. Il progresso delle scienze richiede una riforma del concetto che la dottrina cristiana ha di Dio, della Creazione, della Rivelazione, della Persona del Verbo Incarnato e della Redenzione.
  65. Il Cattolicesimo odierno non può essere conciliato con la vera scienza, a meno che non si trasformi in un cristianesimo non dogmatico, cioè in protestantesimo lato e liberale.

Nella seguente Feria V, il giorno 4 dello stesso mese ed anno, fatta di tutte queste cose accurata relazione al Santissimo Signor Nostro Pio Papa X, Sua Santità approvò e confermò il Decreto degli Eminentissimi Padri e diede ordine che tutte e singole le sopra enumerate proposizioni siano considerate da tutti come riprovate e condannate.

Dato a Roma, presso il Palazzo del Sant’Uffizio,

il giorno 3 del mese di Luglio dell’Anno 1907

Pietro Palombelli

Notaro della Sacra Inquisizione Romana ed Universale

DOMENICA I DI AVVENTO

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XXIV:1-3.
Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confíde, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur. [A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]
Ps XXIV:4
Vias tuas, Dómine, demónstra mihi: et sémitas tuas édoce me.
Mostrami le tue vie, o Signore, e insegnami i tuoi sentieri.

Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confíde, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur. [A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]

Oratio
Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: ut ab imminéntibus peccatórum nostrórum perículis, te mereámur protegénte éripi, te liberánte salvári:
[Súscita, o Signore, Te ne preghiamo, la tua potenza, e vieni: affinché dai pericoli che ci incombono per i nostri peccati, possiamo essere sottratti dalla tua protezione e salvati dalla tua mano liberatrice.]

Lectio
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Romános Rom XIII:11-14.


Fratres: Scientes, quia hora est jam nos de somno súrgere. Nunc enim própior est nostra salus, quam cum credídimus. Nox præcéssit, dies autem appropinquávit. Abjiciámus ergo ópera tenebrárum, et induámur arma lucis. Sicut in die honéste ambulémus: non in comessatiónibus et ebrietátibus, non in cubílibus et impudicítiis, non in contentióne et æmulatióne: sed induímini Dóminum Jesum Christum” .

Omelia I
[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. I – Omelia I; Torino 1899]

“È già ora che ci svegliamo dal sonno, perché al presente la salute è più vicina che quando credemmo. La notte è avanzata e il giorno è vicino: gettiam via le opere delle tenebre e vestiamo le armi della luce. Camminiamo con decoro, come chi cammina alla luce del giorno; non in crapule e in ubriachezze, non sotto coltri ed in lascivie, non nelle contese e nell’invidia; ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza „ ( Ai Rom. XIII, 11-14).

Eccovi, o dilettissimi, voltati fedelmente nella nostra lingua i cinque ultimi versetti del capo decimoterzo della Epistola ai Romani, or ora letta nella santa Messa. È questa la prima delle quattro Domeniche d’Avvento, vale a dire di quel tempo sacro.,nel quale la Chiesa, qual pia madre, è tutta intesa a disporre i suoi figliuoli alla venuta di nostro Signore, al santo Natale. La Chiesa col suo spirito ci trasporta in quel periodo sì lungo di tempo che corse da Adamo a Gesù Cristo, e facendo proprio il linguaggio dei profeti e dei patriarchi, quasi sposa che attende lo sposo, atteggiata di mestizia e di dolore pel suo ritardo, con le preghiere, col digiuno, con le astinenze, con i gemiti, con i sospiri e coi desideri più affocati, ne invoca e ne affretta la venuta [Nel linguaggio comune si dice che la Chiesa comincia con Gesù Cristo e con gli Apostoli e in un senso è vero. Ma sarebbe più esatto il dire che la Chiesa comincia con Adamo e si compie con Gesù Cristo e con gli Apostoli. Che cosa è tutta la rivelazione patriarcale e mosaisa? È la preparazione o l’introduzione della Chiesa. Questa comincia con Adamo e finisce con l’ultimo cristiano che vivrà sulla terra: essa abbraccia tutti i tempi ed è sempre lo stesso spirito di Cristo che avviva la Sinagoga antica e la Chiesa, e solo per Lui si salvarono quelli che vissero prima di Lui, come si salvano quelli che vivono dopo di Lui, perché Egli solo è la vita e dalla sua pienezza tutti ricevono]. La Chiesa conosce troppo bene la natura umana e sa che ai sensi interni dell’anima devono sempre rispondere le cose esterne. Ora la Chiesa, in questo tempo del santo Avvento, collocandosi nei secoli che corsero prima della venuta del Salvatore, deve necessariamente avere a cuore quei sensi ond’erano informati i patriarchi, i profeti e i giusti tutti dell’antica legge. Quali dovevano essere questi sensi? Sensi di profonda mestizia, di dolore misto a rassegnazione tranquilla e perciò la Chiesa fa tacere l’organo, gli inni, i cantici tutti di letizia: vuole rimossi i fiori dall’altare e veste a lutto il tempio e i sacerdoti, prescrive l’astinenza e il digiuno. Quali dovevano essere i sensi dei patriarchi, dei profeti, dei giusti aspettanti ansiosamente la venuta del promesso Messia? Dovevano essere sensi di fede viva, di speranza ardente, di umiltà, di preghiera. E perciò la Chiesa mette sulle labbra dei suoi sacerdoti le parole de profeti e grida con essi: “Vieni, vieni, Signore: non tardare più oltre: sciogli i nostri ceppi, ci libera dai nostri peccati: manda l’Agnello, che deve dominare la terra. „ – Non sarebbe agevole in tutte le lettere S. Paolo trovare un tratto, che meglio di quello che ho riportato, risponda allo spirito, onde la Chiesa vuole informati i suoi figli e che più efficacemente li prepari a celebrare con frutto il mistero del santo Natale. – Io tolgo a spiegare brevemente queste ammirabili sentenze dell’Apostolo e voi vogliate aprire docilmente le orecchie del vostro cuore per udirle e riporvele bene addentro.È già ora che ci risvegliamo dal sonno grida l’Apostolo. E che sonno è questo, o carissimi? Vi è il sonno del corpo e vi è il sonno dell’anima. Nel sonno del corpo l’uomo rimane inerte: ha occhi e non vede, orecchi e non ode, lingua e non parla, piedi e non cammina, mani e non lavora: questo sonno del corpo nella giusta misura è un bisogno non altrimenti del cibo, perché ne ristora le forze. Anche l’anima ha il suo sonno e sonno troppo spesso colpevole. E quando, o carissimi, questo sonno dell’anima è colpevole? Quando l’anima non pensa mai o troppo raramente a Dio, al proprio fine, alla propria salvezza eterna: allorché, tutta immersa nelle cose del mondo, dimentica la preghiera e gli altri doveri religiosi. Allora essa si abbandona ad un sonno colpevole, che può essere foriero della sua morte eterna. S’io giro gli occhi intorno, in alto, in basso, che vedo? Ohimè! quante anime addormentate; mentre i corpi lavorano febbrilmente! Non ascoltano mai, o quasi mai la parola di Dio: non si curano di sacramenti, di leggi della Chiesa e della stessa legge divina. Invano la grazia, quasi alito divino, passa sull’anima loro, quasi raggio di luce batte sugli occhi suoi per destarla e avviarla sui sentieri della vita: essa è sepolta nel sonno. A quest’anima io grido con il grande Apostolo:  “Su; è ora di svegliarti, di provvedere a te stessa, di aprire gli occhi alla luce della verità, di scuoterti da dosso la polvere del secolo e di camminare nella via diritta del cielo.” — E tanto più è necessario svegliarci dal sonno spirituale, prosegue l’Apostolo, perché ora la nostra salute è più vicina che non quando credemmo. — Che vuol dir ciò, o dilettissimi? Fu già tempo, nel quale noi, figli di Mose, discepoli dei profeti, aspettavamo il Salvatore promesso: ora è venuto: l’abbiamo visto con i nostri occhi: io ve l’ho annunciato! e voi avete creduto in Lui: la salute adunque ora è più vicina, e se era colpevole la nostra trascuratezza prima della venuta di Gesù Cristo, sarebbe doppiamente colpevole ora, che viviamo della sua fede e che siamo più presso alla corona promessa. E le parole dell’Apostolo non sono rigorosamente vere per noi pure, dilettissimi? Grazie a Dio, da molti e molti anni noi abbiamo ricevuto il dono inestimabile della fede in Gesù Cristo e camminiamo secondo essa. Dal dì che potemmo conoscere ed apprezzare sì gran dono fino ad oggi quanti anni trascorsero! Da quel dì pertanto noi ci siamo sempre più avvicinati al termine di nostra vita e perciò ci siamo sempre avvicinati a quel momento, in cui si compirà la nostra salute e vedremo e possederemo Gesù Cristo. Quel momento è vicino, può giungere domani, oggi; non c’è tempo da perdere! Se siamo oppressi da quel sonno funesto dell’anima, di cui parla S. Paolo, svegliamoci tosto. “Levati tu, che dormi, grida l’Apostolo, e Cristo ti illuminerà. „ “La notte è avanzata e il giorno è vicino. „ Che notte è questa e che giorno è questo, di cui parla l’Apostolo? — È la notte sì buia del paganesimo, nella quale i Romani convertiti erano stati sì lungamente sepolti: è la notte rischiarata dagli albori profetici, nella quale gli Ebrei, allora divenuti cristiani, erano vissuti, salutando da lungi il sospirato Salvatore: il giorno vicino, anzi presente, è il regno di Gesù Cristo, luce del mondo. La notte avanzata può significare altresì il secolo o la vita presente, piena di errori, travagliata da lotte e da passioni, e il giorno vicino può intendersi del giorno eterno, della vita beata, alla quale tutti affannosamente sospiriamo. Qui l’Apostolo, con la bella immagine del giorno e della notte, sollevando il pensiero alle alte verità della fede, con un linguaggio pieno di forza e di maschia eloquenza esclama: “Gettiamo dunque via le opere delle tenebre e vestiamo le armi della luce. „ Siamo usciti dalla notte del paganesimo: siamo usciti dalle ombre della legge mosaica: camminiamo alla luce della dottrina portata da Cristo: attraversiamo animosamente questo secolo perverso: siamo già presso a quel giorno nel quale vedremo Dio faccia a faccia: via adunque le opere delle tenebre, le opere cioè del paganesimo, le opere della legge mosaica, le opere del mondo, in cui viviamo, e vestiamo le armi della luce (giacché qui la parola armi significa chiaramente opere per ragione del nesso naturale, onde si lega alla sentenza precedente), le opere della fede, le opere di Gesù Cristo stesso. – E perché mai S. Paolo chiama le opere buone armi della luce? Perché le opere buone sono armi, che ci difendono dal nemico, che ci combatte, e perché come le armi sono ornamento di chi le porta, così le opere buone sono l’ornamento e la gloria di chi le compie. S. Paolo in questo luogo, col nome di opere della notte o delle tenebre designa certamente opere malvagie, i peccati, e col nome di opere del giorno o della luce indica le opere buone e sante. E perché ciò? I libri inspirati, acconciandosi alla nostra natura, ci fanno conoscere le cose invisibili e spirituali per mezzo delle visibili e materiali; nell’ordine visibile e materiale la luce non solo è la bellissima di tutte le cose, ma quella che fa bello e grazioso tutto ciò che è bello e grazioso, e là dove non risplende la luce, non vi è bellezza e regna la bruttezza. Egli è per questo che nel linguaggio della Scrittura le opere belle e sante si dicono opere della luce e le opere malvagie si chiamano opere delle tenebre. Fra la luce e la virtù, a nostro modo d’intendere, corre quel rapporto che corre fra le tenebre ed il vizio, ond’è che la virtù ama la luce e fugge le tenebre e il vizio odia la luce e cerca le tenebre e in esse si nasconde. “L’omicida si leva prima dell’alba, scrive Giobbe, uccide il povero, e la notte compie i suoi latrocini. L’occhio dell’adultero aspetta che calino le tenebre, e dice: Nessuno mi vedrà, e si copre il volto. Di notte i tristi sfondano le case segnate di giorno e per essi il giorno è ombra di morte „ (XXIV, 14 e seg.). Le tenebre ed il delitto si danno la mano, la notte e la colpa sono amiche, perché quella toglie la vergogna e franca dal timore. Meritamente pertanto S. Paolo sfolgora le opere malvagie chiamandole opere delle tenebre: Abjiciamus opera tenebrarum e vuole che vestiamo le opere della luce: Et induamur arma lucis. – Prosegue il grande Apostolo, non dimenticando mai la sua immagine della luce e delle tenebre, e scrive: ” Camminiamo con decoro come chi cammina alla luce del giorno. „ Se voi di bel mezzogiorno aveste a passare per le vie più frequentate d’una città, certi che tutti gli occhi sarebbero fissi sulla vostra persona, che fareste? Senza dubbio porreste ogni studio in camminare con gravità e decoro, e vorreste puliti gli abiti e debitamente acconciati e vi guardereste bene da tutto ciò che potesse esporre comechessia la vostra persona allo sprezzo od al biasimo del pubblico. Ebbene, dice S. Paolo: Voi, cristiani, camminate sotto gli occhi degli uomini, e quel che più importa, di Dio, alla piena luce del giorno: dunque non dite mai parola, né fate atto alcuno, che non sia degno di voi: tutto il vostro esterno sia composto a gravità e decoro talmente che nessuno trovi in voi di che appuntarvi. Rischiarati dalla luce della fede, abbiate anche le opere della fede: Figli della luce, scrive in altro luogo l’Apostolo, camminate, cioè operate come si conviene ai figli della luce: Ut filii lucis ambulate. E un linguaggio pieno di nobiltà e d’energia e d’una forma brillante e poetica: ” Camminate come figli della luce! „ Voi non avete nulla da nascondere, perché non avete nulla di che arrossire: che tutti vedano le opere vostre e ne diano gloria a Dio, per il quale son fatte: a Dio che è la stessa luce e nel quale non vi è neo di tenebre. – Io vi prego, o carissimi, di por mente all’arte sapientissima con cui l’Apostolo ha dettato ed ha ordinato tra loro queste poche sentenze: egli parla del sonno, della notte, delle opere delle tenebre, della necessità di svegliarsi, del giorno, della luce e delle opere della luce: voi facilmente comprendete come tutte queste .espressioni, sonno, notte, opere delle tenebre da una parte, e dall’altra la necessità di destarsi,  l’idea del giorno e della luce e delle opere della luce, si legano strettamente tra loro per guisa che si confondono in una sola cosa, e allorché l’Apostolo condanna il sonno dell’anima e la notte, condanna in sostanza le opere delle tenebre, ossia le opere malvagie; quando per converso vuole che ci destiamo e vegliamo e viene parlando del giorno e della luce e inculca che camminiamo come di giorno, chiaramente egli ci esorta alla pratica delle opere buone e sante, proprie del cristiano, ondeché tutta la dottrina di questi versetti si può compendiare in queste due semplicissime sentenze: Fuggite le opere cattive e fate le opere buone. E quali sono in particolare le opere cattive, che si vogliono fuggire e le opere buone, che si hanno da fare? Risponde subito l’Apostolo “Non in crapule, non in ubriachezze, non sotto coltri ed in lascivie, non nelle contese e nell’invidia, ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza. ,, Non dovete credere che in questa breve enumerazione di disordini l’Apostolo abbia voluto comprendere tutte le opere delle tenebre, ossia tutte le opere malvagie, dalle quali il cristiano deve con somma cura guardarsi, no: volle solamente ricordare quelle che gli parvero più gravi e più comuni, e quelle, credo io, nelle quali sapeva maggiormente invischiati i fedeli, ai quali scriveva. L’intemperanza nel mangiare e nel bere, l’incontinenza e tutti in genere i peccati della carne, le risse, le discordie, gli odii e le invidie, che feriscono od uccidono la carità fraterna, sono opere delle tenebre, che non si dovrebbero tampoco nominare tra cristiani. Veramente ammirabile l’Apostolo nelle sue lettere! Egli talora spazia sulle vette dei più sublimi dogmi e, sollevando il lembo della fede, con rapidi tocchi ci lascia intravedere la luce sfolgorante, onde sono avvolti. Ma poi quasi subito discende nel campo, sì vasto della pratica e in brevissime sentenze condensa le verità morali più importanti e comuni e le presenta nelle forme più vive ed efficaci. Così in questo luogo leva la voce contro le crapule, le ubriachezze, le lascivie, le contese, le invidie, che sono i vizi più comuni e ne mette in guardia i fedeli. O fratelli e figliuoli miei! Uno sguardo alla nostra parrocchia, alle nostre famiglie, ciascuno di noi. Siamo noi tutti mondi da queste brutture? Non abbiamo noi seguito il vizio della gola? Non abbiamo noi alcuna volta secondato le sozze voglie del senso e gli stimoli della carne? Non abbiamo noi con le parole, col desiderio e con le opere rotta la carità coi fratelli nostri e fors’anche seminata tra loro la discordia? Se per mala ventura fosse, noi certo non saremmo nel numero di coloro che camminano alla luce e di giorno con decoro, ma piuttosto saremmo di quelli, che si avvolgono fra le tenebre, per nascondere le loro turpitudini. Che dovremmo fare? Finirla tosto e per sempre con queste opere tenebre: dovremmo “rivestire il Signore Cristo e non accarezzare la carne per concupiscenza. „ E sapete voi. che cosa importi vestire Gesù Cristo? E questa una espressione energica e sublime che più volte s’incontra nelle lettere di S. Paolo e che giova comprendere bene, Gesù Cristo, nostro capo e maestro supremo, è i1 modello sovranamente perfetto di tutte le virtù: tutto lo studio del cristiano, se bene si guarda, si riduce a copiare in se stesso Gesù Cristo, tanto che di Lui si possa dire: Ecco un altro Cristo. – Il cristiano nelle sue parole, nei suoi pensieri, nei suoi affetti, nelle sue opere, in tutto il suo interno ed esterno deve ritrarre Gesù Cristo per modo da esserne l’immagine fedele e vivente: onde come il nostro corpo si copre delle vesti e di esse si adorna, così l’anima nostra e in qualche senso anche il nostro corpo devono coprirsi e adornarsi delle opere di Gesù Cristo: ecco che cosa vuol dire: vestirsi di Cristo. – L’Apostolo chiude il suo dire con questa sentenza: “Non accarezzate la carne per concupiscenza: „ cioè non accarezzate la carne, appagando le sue voglie malnate. Con queste parole ribadisce la verità fondamentale della religione cristiana sopra già toccata ed è, che noi dobbiamo sempre e con tutte le forze resistere alle passioni, che si annidano nella nostra carne e ci trascinano giù per la china del piacere e della eterna perdizione. Ogni qualvolta, o cari, che mi cadono sotto gli occhi le ultime sentenze dell’Apostolo, che ho spiegato, il pensiero mio corre naturalmente ad un fatto dei più meravigliosi e commoventi che si leggano nella storia ecclesiastica e dipinto coi colori più vivi, descritto con gli accenti più caldi e più appassionati da quel medesimo, che ne fu l’attore. Udite: Nella seconda metà del secolo quarto viveva un giovane d’alti sensi, di cuore magnanimo: il mondo forse non aveva mai visto ingegno più acuto e più vasto del suo. Profugo dalla casa materna, corse da Cartagine a Roma, dì Roma a Milano, in cerca della scienza: si tuffò nel brago di ignobili passioni, volse le spalle alla fede succhiata col latte fra le braccia di una madre santa, che lo adorava e seguiva dovunque: divenne eretico, poi scettico. A quell’anima ardente, sitibonda della verità, caduta in fondo di un abisso di errori e di disordini, brillò un primo raggio di luce, leggendole opere di Cicerone e di Platone e udendo la parola piena di amore di un santo Vescovo. A poco a poco conobbe la verità, tutta la verità, come la poteva conoscere quell’aquila delle intelligenze: ma il misero nonsapeva rompere la catena delle sue passioni: voleva ritornare a Dio, ma sentivasi impotente: piangeva, gemeva, ma indarno. Credo che sia difficile trovare pagine più vere e più eloquenti di quelle, nelle quali quel giovane, nel bollore dei suoi trent’anni, descrive le pene, le carezze, le lotte, gli sforzi, i dolori, le agonie ineffabili dell’anima sua: nessuno meglio di lui seppe fare la storia del cuore umano e penetrare nelle fibre più riposte dello spie e narrarne le vicende. Leggendo quelle pagine, bisogna fremere e lagrimare con lui che le dettò. Un giorno, non potendo più oltre soffocare il grido della coscienza, che lo lacerava, né finirla colle passioni, che lo tenevano avvinto, ad un tratto si tolse di mezzo agli amici, che gli facevano corona, uscì precipitoso dalla stanza, si ritirò nel giardino che sorgeva a fianco, si buttò ai piedi di un albero e con le palme coprendosi il volto sciolse il freno alle lagrime. “Piangeva amaramente, dice egli, sulle mie turpitudini, ma non ancora poteva risolvermi ad abbandonarle. „ Ed ecco una voce come di fanciullo dalla vicina casa, che ripeteva: Piglia e leggi, piglia e leggi —. Ascolta, si leva, asciuga le lacrime, rientra nella stanza, piglia il primo libro che gli viene innanzi (era il libro delle Epistole di S. Paolo), l’apre a caso e legge le prime parole che gli cadono sott’occhio: “Non in crapule ed ubriachezze, non sotto coltri e lascivie, non nelle contese e nella invidia, ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza. „ Lesse, chiuse il libro e un raggio di luce serena e tranquilla inondò la sua mente, cessò la tempesta del cuore, sparirono i dubbi, una forza novella penetrò il suo spirito, una dolcezza inesprimibile si diffuse in tutta l’anima sua, di repente si sentì mutato in altr’uomo: il giovane miscredente e dissoluto era trasformato e convertito: la semplice lettura delle parole di S. Paolo, che abbiamo insieme spiegate e meditate, aveva operato il grande miracolo. Volete sapere chi era quel giovane incredulo e immerso nella libidine e che in un istante si trasformava in un credente e in un santo? Egli era il figlio di Monica, il grande Agostino. Potenza meravigliosa della parola e della grazia divina da una parte, e della volontà umana dall’altra!

Graduale
Ps 24:3; 24:4
Univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur, Dómine.
[Tutti quelli che Ti aspettano, o Signore, non saranno confusi.]
V. Vias tuas, Dómine, notas fac mihi: et sémitas tuas édoce me. [Mostrami le tue vie, o Signore, e insegnami i tuoi sentieri.]
Alleluja

Allelúja, allelúja.

Ps LXXXIV:8. V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam: et salutáre tuum da nobis. Allelúja. [Mostraci, o Signore, la tua misericordia: e dacci la tua salvezza. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc XXI:25-33.
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Erunt signa in sole et luna et stellis, et in terris pressúra géntium præ confusióne sónitus maris et flúctuum: arescéntibus homínibus præ timóre et exspectatióne, quæ supervénient univérso orbi: nam virtútes coelórum movebúntur. Et tunc vidébunt Fílium hóminis veniéntem in nube cum potestáte magna et majestáte. His autem fíeri incipiéntibus, respícite et leváte cápita vestra: quóniam appropínquat redémptio vestra. Et dixit illis similitúdinem: Vidéte ficúlneam et omnes árbores: cum prodúcunt jam ex se fructum, scitis, quóniam prope est æstas.
Ita et vos, cum vidéritis hæc fíeri, scitóte, quóniam prope est regnum Dei. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia fiant. Coelum et terra transíbunt: verba autem mea non transíbunt.

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ci saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e nella terra costernazioni di genti sbigottite dal rimbombo delle onde e dall’agitazione del mare, mentre gli uomini tramortiranno dalla paura e dall’attesa di quello che starà per accadere alla terra: perché anche le potenze dei cieli saranno sconvolte. Allora si vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi in gran potenza e maestà. Quando ciò incomincerà ad accadere, sorgete ed alzate il capo, perché s’avvicina la vostra redenzione. E disse loro una similitudine: Osservate il fico e tutti gli alberi: quando germogliano, sapete che l’estate è vicina. Cosí quando vedrete accadere tali cose, sappiate che il regno di Dio è prossimo. In verità vi dico non passerà questa generazione prima che tutto ciò sia avvenuto. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.]

Omelia II

 [Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

Giudizio Universale.

La santa Chiesa, amatissima nostra Madre, per disporre i suoi figli alla nascita del divin Salvatore, ed a venerare in spirito di fede, d’esultazione e di riconoscenza questa sua prima discesa dal cielo per la nostra salvezza, ci fa menzione nel Vangelo di questa prima Domenica del sacro Avvento, della seconda sua venuta, allorché nella consumazione dei secoli, sopra luminosa nube, in aria di gran maestà, siederà giudice d’un mondo intero. Comincia questa Madre, sollecita del nostro bene, ad atterrirci colla rimembranza del tremendo universale Giudizio, acciò, mossi a vera penitenza, andiamo incontro a questi sacri giorni all’aspettato sommo pacifico Re con un cuor purificato e mondo da ogni lordura di colpa, da ogni macchia di rea affezione, In  adventu summi Regis, è questa l’esortazione diretta a tutti i suoi figli, “mundentur corda hominum, ut digne ambulemus in occursum illius”. Secondiamo, o fedeli, i suoi amorosi disegni. – Facciamo un confronto della prima con la seconda venuta; della prima come Salvatore del mondo, della seconda come Giudice del mondo; osserviamone la gran differenza. – Nella prima vedremo risplendere la sua grande misericordia, nella seconda la sua tremenda giustizia; misericordia e giustizia, che debbono risolverci a profittare della grazia d’un Dio Redentore pietoso, per evitare la giusta collera d’un Dio Giudice inesorabile. – La misericordia e la giustizia sono fra gli altri quegli attributi che Iddio fa più risplendere nel governo del mondo. La misericordia però suole sempre precedere la giustizia. Se ne protesta Iddio medesimo per bocca del suo Profeta Geremia: “Ego sum Dominus, qui facio misericordiam et iudicium; e perciò dopo aver fatta spiccare la sua gran misericordia nella prima venuta, farà conoscere nella seconda la sua tremenda giustizia. Osserviamolo con il proposto confronto. – Apparve al mondo il divin Verbo fatto uomo, quando sotto l’impero di Cesare Angusto si godeva in quel regno, e in tutti i popoli confinanti, una pace universale. Ed era ben convenevole che al nascere del Principe della pace, riconciliatore tra gli uomini e Dio, si trovasse per alta sua disposizione il mondo in pace. – Non così, non così nella sua seconda comparsa nel giorno estremo. Forieri del suo arrivo saranno le guerre, le sedizioni, le calamità, le pestilenze, scosse orribili di rovinosi terremoti, cieli in scompiglio, sole ottenebrato, luna sanguigna, stelle minaccianti caduta, lampi di orrore, tuoni di spavento, fulmini di eccidio e di sterminio. “Hæc autem omnia initia sunt dolorum (Matt. XXIV, 8). – Alla grotta di Bettelemme gli Angeli, cantando le glorie dell’Altissimo, annunziarono la pace agli uomini di buona volontà, ed ai pastori la nascita del Salvatore del mondo, e li inviarono a riconoscerLo ed adorarLo. – Gli Angeli stessi, non più di pace annunziatori, a suon di tromba ferale chiameranno tutta l’umana generazione a comparire nella gran valle al cospetto di Cristo giudice, non più locato in umile presepio, ma sedente in trono di maestà; “Populi, populi in valle concisionis(Gioel. III). – Così rimbomberà altamente lo squillo delle angeliche trombe dall’oriente all’occaso, dal meriggio al settentrione: olà, o morti, è Dio che parla, “surgite mortui”; sepolcri apritevi, cimiteri scuotetevi, mare restituisci i tuoi naufraghi, terra i tuoi sepolti, “Surgite mortui,venite ad iudicium; e questa voce tremenda risuona nel Cielo, discende nel Purgatorio, penetra nell’Inferno; ed ecco da tutte parti uscir anime qual giuste, qual malvagie a rivestirsi dei loro corpi, ecco tutta risuscitata la carne, ecco  tutti i figli di Adamo incamminarsi alla valle, ed ecco altri Angeli discendere dal cielo a metter ordine nella gran folla, a separare i reprobi dagli eletti, i capri immondi dalle innocenti pecorelle. – Nel mondo Caino conviveva con Abele, Esaù con Giacobbe; Giuda con Giovanni; or non si offre più tal mescolanza : “Exibunt Angeli, et separabunt malos de medio iustorum” (Matt. XIII) . Separazione amara, separazione eterna, che divide il padre timorato dal figlio perverso, la moglie pudica dall’infedele consorte, l’amico dall’amico, il fratel dal fratello; separazione …. ma torniamo al confronto. – Discese dal cielo il Figliuol di Dio la prima volta in qualità di buon Pastore per andare in cerca della pecora smarrita, cioè della perduta umana generazione. I peccatori furono sempre l’oggetto delle sue amorose ricerche; il trattar con essi, il tenerli a colloquio, l’assidersi alla lor mensa per ridurli a conversione, erano delizie del suo cuore, fino a prender le difese delle Maddalene, e delle donne adultere, fino a fare scusa e ad implorare dal Padre perdono ai propri crocifissori. – Tutto l’opposto nel dì finale. In aria di giudice inesorabile discenderà dall’alto dei cieli a far giusta vendetta di tutti i peccatori della terra; saranno questi l’oggetto dell’ira sua, il bersaglio delle sue saette: se da pastore li cercò, se da padre gli accolse, se li difese, se li scusò, se per essi interpose le sue preghiere, ora scoprirà in faccia a un mondo intero le loro colpe più abbominevoli: “Revelabo pudenda tua et ostendam gentibus … ignominìam tuam” (Naum III). Che rossore intanto per chi su questa terra passò per uomo giusto, per donna onesta, vedere scoperti i furti di uno, le oscenità dell’altra, le nequizie d’entrambi! Io, dirà altamente Cristo Gesù, sono il testimonio e il giudice di tutte le più recondite scelleratezze: “ego sun testis, et iudex” (Gerem. XXIX, 53). Non sono stati i soli Farisei sepolcri imbiancati, lupi mascherati da agnelli, voi, voi lo foste falsi devoti, ipocriti, impostori, teologi bugiardi, sacerdoti sacrileghi! Voi il foste, figlie sedotte, mogli adultere, che nascondeste l’ignominia dei vostri falli agli occhi del mondo, ma nasconderli non poteste agli occhi miei. Il foste voi cristiani di nome e di apparenza, ma nella mente e nel cuore  apostati, e miscredenti: vi comunicaste alla Pasqua per non decadere di stima, per non perdere l’impiego: compariste difensori della vedova e del pupillo, ma foste drudi dell’una, ed assassini dell’altro: giudicaste le cause, ed ebbe in voi più forza una vil femminetta che la legge e la giustizia. Potenti del secolo abusaste del grado e dell’autorità per opprimere i subalterni, gli operai, i creditori: impiegaste i Legati pii a far lauti i vostri conviti: pagaste quei vostri debiti con altrettanti spergiuri. Voi, Religioso, voi Ecclesiastico, ascendeste sulla nave di Pietro per andare a diporto, per scansare il lavoro, per fuggire la milizia: la sana dottrina da voi vangata era un manto ai disordini di vostra vita, l’onor del carattere un pretesto alla vostra superbia. – Ad accrescere la vostra confusione, ecco qui la mia Croce, quella Croce, che per vostra salvezza ho portata al Calvario, e sulla quale confitto ho tramandato lo spirito. “Tunc parebit signum Filii hominis” (Matt. XXIV, 30) . All’apparir di questo legno trionfale piangeranno tutte le generazioni della terra, “et tunc plangent omnes tribus terræ”: piangeranno per consolazione i giusti, per disperazione i malvagi. O santa Croce, lagrimando per gioia, diranno gli eletti, che grazia, che sorte per noi l’averti abbracciata! tu fosti la guida dei nostri passi, tu l’arme delle nostre vittorie, tu l’arca di nostra salvezza, tu la chiave per aprirci le porte del cielo. Piangeranno i reprobi per disperato cordoglio, i Giudei ai quali la Croce fu oggetto di scandalo, i Gentili, che la reputarono una stoltezza, cristiani, che della Croce furon nemici, e nemici del Crocefisso. – Qual saranno le nostre lacrime, uditori miei cari, in quel dì funestissimo? Che ci dice la nostra coscienza? che cosa ci fa sperare? che cosa ci fa temere? – Torniamo al confronto. Gesù nel corso di sua vita mortale non fu conosciuto dal riprovato mondo, “mundus eum non cognovit” (Giov. I) e perché non conosciuto per figlio di Dio, dice S. Paolo, fu crocifisso, “si cognovissent, numquam Dominum gloriæ crucifìxissent” (1 Cor. II, 8); si farà però ben conoscere in quel giorno finale, “cognoscetur Dominus iudicia faciéns” (Ps. IX). Mi conoscete? dirà pertanto rivoltatosi ai reprobi, mi conoscete? Ebrei, io son quel Re da burla che voi prendeste a schiaffi là nel pretorio del presidente romano, quel re da scena, trastullo delle vostra insolenze, e bersaglio dei vostri sputi. Eretici, mi ravvisate? Io sono quel Cristo, la cui mistica veste laceraste sacrilegamente, dalla cui Chiesa fuggiste per seguire lo spirito privato d’una licenziosa libertà di coscienza. Atei, miscredenti, ecco quel Dio che negaste esistente, che appunto in negarLo, vostro malgrado, mostraste di temerLo, ma d’un timore che accrebbe immensamente la vostra nequizia. Mi conoscete o Cristiani? Di Cristiani aveste il nome, ma non i costumi. Il battesimale carattere impresso nelle anime vostre vi fa più rei. Disse  a Mosè il Faraone che non mi conosceva, “nescio Dominum” (Es. V, 2); ma era un pagano. Voi diceste altrettanto coi pensieri contrari alla verità da me rivelate, con le parole contrarie alla mia maestà, con le opere contrarie alla mia legge. Miratemi in volto, vasi d’ira e di riprovazione, oggetti dell’odio mio necessario e sempiterno. Io son quel Dio che vi creò, quell’Uomo-Dio, il cui sangue conculcaste con tante confessioni bugiarde, con tante comunioni sacrileghe, quell’Uomo-Dio, a cui faceste oltraggio in propria casa, in sua presenza con tanta libertà di parlare, di sguardi, d’indegne azioni. Io tacqui allora, Io sopportai per tanti anni, “tacui, patiens fui” (Isai. XLII, 14); ora però dell’ira mia ripieno e ridondante, non posso più contenermi, “nunc ut partorienti loquar”. Voi Angeli al mio trono assistenti, voi Santi che qui sedete a giudicare tutte le tribù d’Israele, fate giudizio tra me e la vigna mia, “iudicate inter me et vineam meam” (Isai. V, 3). Io venni al mondo non per giudicare il mondo, ma per salvarlo. Volli nascere in una capanna, viver negletto in una bottega per confondere la sua superbia: predicai il mio Vangelo, lo confermai con l’esempio, e con i miracoli, lo consacrai col mio sangue, e con la mia morte per dargli vita, per insegnarli la via della salute; egli non profittò di questa visita di mia misericordia, soffra ora il rigore della mia giustizia, “nunc iudicium est mundi” (Giov. XII). Mondo iniquo, stolti ed empi seguaci del riprovato mondo, andate maledetti da me lontani per sempre, andate a quell’inferno che non temeste, a quell’eterno fuoco che non credeste, “discedite a me maledicti in ignem æternum” (Matt. XXV, 41). Ma no, fermatevi ancor un istante, e sia il colmo delle vostre sciagure il vedere come da me si ricompensano quei, che, profittando della mia prima venuta, mi sono stati fedeli. Orsù, anime mie care, fide pecorelle della mia greggia, osservatrici dei miei precetti, seguaci dei miei esempi, Giobbi pazienti, casti Gioseffi, Lazzari mendìci, Sacerdoti depressi, Religiosi avviliti, cristiani perseguitati, venite, che siete i benedetti da me e dal Padre mio, venite dopo le fatiche al riposo, dopo le pene al godimento, dopo l’umiliazione alla gloria, dopo la guerra al trionfo: venite ad aver meco in eterno comune il regno. “Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum” (Matt. XXV, 34). E voi mi state più innanzi o malvagi? lungi dal mio cospetto, anime maledette, invano comprate col sangue mio, invano redente con la mia morte, voi non siete più mie, Io non sono più vostro. “Vos non populus meus, et ego non ero vester” (Osea, I, 9). Olà, apriti o terra in immensa voragine, spalanca l’orrenda bocca o inferno, o togli al mio sguardo la massa dannata dei miei caparbi nemici. Così va: chi non mi rispettò Redentore nel tempo, mi provi giudice e punitore per tutta l’eternità. – Fratelli miei amatissimi, che sarà di noi in quel terribile giorno? Interroghiamone la nostra coscienza, argomentiamolo dalla nostra buona o mala condotta. Oh Dio! se la nostra coscienza ci fa temere, se la nostra condotta ci fa tremare, che facciam noi? Piangiamo ora ai piedi di Gesù Salvatore le nostre colpe, dacché innanzi ad Esso giudice sarà inutile il nostro pianto.

Credo

Offertorium
Orémus
Ps 24:1-3. Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur. [A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]

Secreta
Hæc sacra nos, Dómine, poténti virtúte mundátos ad suum fáciant purióres veníre princípium.[Questi misteri, o Signore, purificandoci con la loro potente virtú, ci facciano pervenire piú mondi a Te che ne sei l’autore.]

Communio
Ps 84:13.
Dóminus dabit benignitátem: et terra nostra dabit fructum suum. [Il Signore ci sarà benigno e la nostra terra darà il suo frutto.]

Postcommunio
Orémus.
Suscipiámus, Dómine, misericórdiam tuam in médio templi tui: ut reparatiónis nostræ ventúra sollémnia cóngruis honóribus præcedámus.
[Fa, o Signore, che (per mezzo di questo divino mistero) in mezzo al tuo tempio sperimentiamo la tua misericordia, al fine di prepararci convenientemente alle prossime solennità della nostra redenzione.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: TEOLOGI IN TEMPO DI CRISI

IL MAGISTERO IMPEDITO:

TEOLOGI IN TEMPO DI CRISI

[«Renovatio», VII (1972). fasc. 3, pp. 331-332.]

 Il consenso dei teologi nella Chiesa è criterio certissimo di verità, ossia è sufficiente per dimostrare la verità teologica di un asserto. Tale valore non viene affatto ai teologi di per sé, ma dall’approvazione esplicita, od implicita, dell’autorità magistrale della Chiesa. Se non esiste una solida ragione per cui si possa ritenere che la Chiesa docente ha in qualche modo ratificato una tesi teologica, questa non ha autorità sul piano della fede. Con questo, abbiamo ricordato semplicemente un principio della dottrina cattolica. – È possibile allora rispondere alla domanda: chi, nella Chiesa, è il teologo» nel pieno e vero senso della parola, quello cioè che può concorrere alla formazione del «consenso» dei teologi, criterio certissimo di verità? La risposta è conseguente e necessaria: è teologo chi è in grado di avere l’approvazione del Magistero e pertanto può unirsi alla schiera degli altri che ottengono su un punto lo stesso consenso. Per essere teologi nel senso pieno, e fuori di ogni equivoco o sospetto, non basta aver una laurea in materia, non basta essere professore di teologia, scrivere, disputate, affermare circa la stessa. – La conclusione è netta: molti, moltissimi che oggi si dicono teologi non lo sono affatto nel senso sopra indicato. Non possono turbare la coscienza di alcuno, possono essere discussi da tutti, non sono strumenti utili per l’esercizio del Magistero. La nostra rivista protesta fortemente contro l’abuso che si fa del nome di «teologo». E non è affatto una mera questione di titoli, è invece una questione di sostanza e di serenità nella Chiesa. L’argomento dell’individuazione dei veri teologi, distinti dai non veri, ci porta ad alcune note storiche su quel che accade nel campo, non sempre a ragione, detto «teologico». – Le ideologie culturali che dominano la piazza «laica» non permettono di riconoscere il rapporto tra concetto ed essere, tra parola e vita. L’oggettività del linguaggio è misconosciuta, come lo fu, talvolta, in passato. Infatti per Heidegger il linguaggio coglie l’essere solo nel momento in cui l’essere si dilegua. È evidentemente come dire, in linguaggio corrente, che non coglie nulla. La filosofia analitica afferma che nessuna proposizione ha senso se non è immediatamente verificabile dall’esperienza. In ambedue i modi viene frustrato il rapporto tra concetto e realtà. Essi aprono la via all’affermazione arbitraria perché nel loro quadro il problema della verità neppure esiste. Ciò appare chiaramente nella filosofia ermeneutica, per cui il significato di ogni espressione è ridotto all’incidenza del testo espresso sulla condizione del lettore. Tutto deve ricondursi alla situazione del soggetto che ascolta o legge, disegnata dal messaggio implicito del linguaggio. Questa filosofia non risolve una questione, ma la nasconde nelle pieghe di una trovata. Infatti l’ermeneutica toglie la consistenza al linguaggio per ricondurlo semplicemente ad una soggettiva rielaborazione in colui che lo ascolta. [questa ad esempio è l’“ermeneutica” dietro la quale nasconde le sue eresie il teologo neo-gnostico J. Ratzinger – ndr-]. È nudo soggettivismo. Accostiamoci un momento al campo morale o della norma del costume. Si coglie qua e là, talvolta sussurrato, talvolta esplicito, l’unico riferimento ad un essere «collettivo». Non c’è più il riferimento alla coscienza individuale e di questa alla «norma» che ha un fondamento trascendente: il singolo uomo, la persona è alienata nelle regole puramente esteriori del comportamento collettivo. Questo è lo stato del pensiero nella sua trincea creduta avanzata. Un complesso d’inferiorità inspiegabile, uno zelo discutibile di incontro col mondo e con le «ricchezze» del pensiero moderno hanno autorizzato molte persone, laureate in teologia e non, ad immettere tutto questo nella teologia. – L’immissione è avvenuta non avvertendo che si scardinava tutto: uomo, pensiero, teologia, chiesa, fede. – L’immissione è aggravata da altri fatti dei quali ora citiamo i maggiori. I teologi protestanti, soprattutto tedeschi ed americani, hanno applicato senza risparmio le nuove ideologie alla loro teologia. Ciò è potuto accadere assai facilmente perché alla radice del luteranismo ci sta una fede che è soltanto fiducia e pertanto non espressiva della verità obiettiva immutabile. Non pochi cattolici nell’entusiasmo del dialogo hanno direttamente preso da teologi protestanti armi e bagagli, senza approfondirne le implicazioni. E così ci è dato di leggere quello che ci è dato di leggere. La volontà ecumenica è una ragione ottima. Ma non è mai una ragione valida per tradire la verità obiettiva, anzi rivelata. – La nostra prima considerazione ci ha fatto capire che molti professori di teologia non concorrono a formare il «consenso dei teologi», avente valore di criterio certissimo per la verità. Pensiamo che la seconda serie di considerazioni sull’attuale momento culturale ponga un ulteriore criterio di discrimine. Il soggettivismo conduce dalle vie del pensiero creativo alle vie del pensiero vano, del vaneggiamento. E allora, quanti sono i teologi, quelli che, in regola con la Chiesa, possono essere ascoltati, possono diventare strumento valido del Magistero, soprattutto di quello ordinario? Su quanti oggi scende il consensus Ecclesiæ seu Magisteri? [ … il breve passo omesso è chiaramente manipolato.] La verità non la si ritrova se non nell’unità. Qua e là maestri autentici parlano: siano benedetti. Il loro criterio sia sempre l’accordo con la Chiesa Universale, ossia col Romano Pontefice.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (18), cap. XXXI

CULTO DEL BUON LADRONE

Unione dei Santi con noi. — I Santi non muoiono. — Il ciclo appellato la Terra dei viventi. — Amor di Dio pei santi. — Onorando questi si piace a Dio. — Culto speciale per quei santi che a Lui sono più cari. — Di questo numero è s. Disma .—

Elogio che ne fa s. Atanasio. — Privilegi di s. Disma, fondamento della nostra ardente devozione e della nostra fiducia. — Festa del Buon Ladrone in Oriente ed in Occidente. — Suo Officio negli antichi Breviari. — Suo culto nella maggior parte delle Chiese. — Molte Congregazioni religiose ne fanno l’officio. — Motivi che ne hanno. — A Napoli, bella cappella in suo nome. — In tutta l’Italia meridionale cappelle ed oratorii del Buon Ladrone. — Protettore della città di Gallipoli.— Devozione molto popolare, ed antica. — Miracolo operato da s. Disma.

La morte non rompe i vincoli che uniscono i cristiani del Cielo a quelli della terra, i santi del tempo a quelli dell’eternità. I santi col morire non muoiono; anzi incominciano a vivere di quella che è vera vita. Il Cielo è appellato la terra dei viventi : Terra viventium. Questo stesso linguaggio trovasi in bocca della Chiesa, la quale caratterizza il giorno della morte di un Santo con la parola natività; poiché per un Santo, morire è veramente nascere. Parlando di Abramo, di Isacco, e di Giacobbe, Gesù Cristo diceva : « Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi.1 » Or se i santi vivono, ne segue che essi vedono, ascoltano, amano, agiscono ; se sono nostri fratelli, membri di una medesima famiglia, essi riguardano come loro propri i nostri interessi. « Sicuri come sono della loro esterna felicità, siccome dice s. Cipriano, essi son pieni di sollecitudine per la nostra salvezza. – Tutti i secoli cristiani hanno avuto questa fede; la quale, anziché dispiacere a Dio e nuocere in nulla ai meriti del nostro unico Redentore, è stata sempre da Dio rimunerata. Sarebbe un voler intraprendere a numerare le stelle del cielo il voler contare le glorie segnalate, i miracoli autentici ottenuti mediante l’intercessione dei Santi. Ma se Iddio si degna di onorare i Santi con l’associarli alla sua potenza; vi può esser cosa più legittima del culto di cui essi sono l’ oggetto per parte dei loro fratelli tuttora dimoranti in questa valle di esilio? Il protestantismo con aver cercato di rompere i vincoli di famiglia che ci uniscono ad essi, ha mostrato di esser senza cuore, come è senza ragione. – Se Dio ama tutti i Santi, come un padre che è veramente padre ama tutti i suoi figli, tra quelli però ve n’ha alcuni, che i loro meriti collocano più vicini al suo cuore, ed in un più alto grado di gloria. Or il desiderio del nostro Padre celeste, non meno che il nostro personale interesse, ci fanno un dovere di onorare specialmente questi che sono i privilegiati della grazia. – A questa classe senza dubbio appartiene s. Disma ; come ce lo ha dimostrato la sua storia, la quale si compone in gran parte degli elogi che i più eloquenti Dottori dell’ Oriente e dell’ Occidente non hanno cessato di fare all’illustre compagno di Gesù Crocifìsso. A tutto quello che già ne sappiamo, contentiamoci di aggiungere alcuna delle invocazioni, colle quali il grande s. Atanasio esprime la sua ammirazione e la sua fiducia pel Buon Ladrone, e c’invita ad imitarlo. « O beato Ladrone! Tu fosti più abile del primo Adamo a guadagnare il Cielo. II padre della stirpe umana mal consigliato stese la mano al frutto dell’albero vietato, ed il veleno della morte si diffuse in lui ed in tutta la sua posterità: tu assai meglio ispirato, con lo stendere la mano verso il santo albero della croce, ricuperasti il Cielo che i tuoi peccati ti avevano fatto perdere, e guadagnasti la via. » – « O beato Ladrone! che per mezzo di un segreto sin allora sconosciuto, trovasti il mezzo di scoprire e d’impadronirti del più meraviglioso dei tesori.» « O beato Ladrone! che imitato hai il tradimento di Giuda, ma il tradito è stato il demonio tuo nemico astuto ed implacabile. » – « O beato Ladrone! che con le tue virtù eroiche hai fatto della tua croce uno sgabello per salire al Cielo, ed una cattedra eloquente, donde con una sovrumana energia prendesti la difesa del tuo prediletto Redentore. » – « O beato Ladrone! che mostri a tutti i peccatori del mondo la potenza della fede, l’efficacia istantanea di una confessione ben fatta, e di un pentimento sincero. » [Serm. in Parasc., apud Gretzcr, t. II, p. 415.] – I cinque privilegi del Buon Ladrone precedentemente spiegati, giustificano questi elogi, e debbono svegliare la nostra devozione. La potenza dei Santi è in proporzione della loro elevazione nel Cielo; poiché più un Santo è elevato nella gloria, e più si avvicina a Dio che è la potenza infinita. Or se v’ha chi possa misurare la gloria del Beato Disma, questi solo potrebbe dirci la fiducia che esso ci deve inspirare. La Chiesa nostra madre lo dice a suo modo a tutti i suoi figli; poiché in Oriente ed in Occidente la vediamo onorare il Buon Ladrone con pubblico culto. – La Chiesa di Siria e di Mesopotamia celebrano la sua festività il nono giorno dopo il Venerdì dei dolori, cioè il Sabato della settimana di Pasqua. [Herbelot, Bibl. orient., p. 512.] I Greci mettono la sua festa al 23 Marzo, i Latini al 25 dello stesso mese. Anticamente si .celebrava nella maggior parte delle Diocesi. Tutte le belle tradizioni relative a questo gran Santo, facevano parte dell’officio. Si trovavano particolarmente nelle lezioni del Breviario di Quiemper; eranvi egualmente nel martirologio di Usnardo. Il dotto Molano ed il B. Pietro Canisio assicurano che l’officio del Buon Ladrone si faceva religiosamente nell’antica cattedrale di Bruges, e nella maggior parte delle Chiese. – Tale era ancora nel secolo XVI il culto del Buon Ladrone. Ai nostri giorni è meno diffuso; ma non si può dire che sia cessato dappertutto. E qui aggiungiamo, che avuto riguardo allo stato del presente secolo XIX, non vi sarebbe cosa più desiderabile che di restituirgli la sua antica popolarità. Alla fine del secolo XVI, come abbiam detto altrove, 1’ordine della Mercede per la redenzione degli schiavi ottenne dal Papa Sisto V l’approvazione d’un officio del Buon Ladrone. – Lo stesso favore fu nel secolo XVIII domandato ed ottenuto dalla Congregazione dei Pii Operai La domanda che ne fece era motivata sul gran numero di conversioni strepitose che si ottenevano, durante il corso delle missioni, mediante l’intercessione del Buon Ladrone; e quei zelanti missionari, a testimonianza della loro riconoscenza, lo hanno scelto per loro avvocato presso Dio, e per protettore speciale dei loro istituto. [La critica moderna ha rigettato la più parte delle tradizioni relative al Buon Ladrone. La questione è di sapere se divenendo più ragionatrice, ella sia divenuta più ragionevole. Noi non lo pensiamo.] – A Napoli la loro Chiesa di s. Giorgio possiede una magnifica cappella dedicata al Buon Ladrone, le cui mura ripiene di un gran numero di ex voto presentano la testimonianza autentica dei favori miracolosi ottenuti mediante la di lui intercessione. I buoni padri che la officiano ricevono continue lettere di ringraziamento per i favori dovuti al Beato, e ricevono pure innumerevoli domande delle sue immagini. Per gli stessi motivi di questi missionari Italiani, gli Oblati di Maria, apostoli dell’antico e del nuovo mondo, recitano ancora ai dì nostri l’officio del Buon Ladrone. I Serviti onorano allo stesso modo colui che fu il consolatore dell’augusta Madre ed il compagno di tutti i suoi dolori. Lo stesso dicasi dei Chierici Regolari. Questi pii figli di s. Gaetano Tiene, che fu l’anima della restaurazione cattolica nel secolo XVI, fanno la festa del Buon Ladrone ai 26 marzo con rito doppio. I salmi sono del comune dei confessori non pontefici: s. Gian Crisostomo e s. Ambrogio forniscono le lezioni del secondo e del terzo notturno: l’orazione è propria, e sembra che la riconoscenza, l’umiltà, e la fiducia siansi accordate per comporla : « Dio onnipotente e misericordioso, che giustificate gli empii, noi umilmente vi supplichiamo di eccitarci ad una vera penitenza, facendo cadere su di noi quello sguardo di bontà, col quale il vostro unico Figliuolo attirò il Buon Ladrone, e di accordarci la gloria eterna che gli promise. » [« Omnipotens et misericors Deus, qui justificas impios, te supplices exorarnus, ut nos benigno intuitu, quo Unigenitus tuus beatum traxit Latronem , ad dignam pœnitentiam provoces, et illam, quam ei promisit, tribuas nobis gloriam sempiternam. » – La devozione a s. Disima non rimase ristretta nei recinti delle case religiose; ma è popolarissima nell’Italia meridionale; ove si invoca questo gran Santo per essere preservato dai ladri. Molte famiglie ne serbano l’immagine collocata dietro la porta d’ingresso delle loro case; e si citano una quantità di prodigi ottenuti per la di lui intercessione. Fra tutte le altre, la città di Gallipoli, città molto commerciante, posta sul golfo di Taranto, l onora con un culto fervoroso, e lo venera come suo Protettore. I marinari di quella costa non intraprendono mai alcun viaggio, né mai ritornano dai paesi lontani, senza visitare il loro santo Protettore. Questa devozione rimonta ai tempi i più antichi, ed ebbe origine dai pericoli incessanti che le incursioni dei pirati barbareschi facevano correre agli abitanti di quella marittima contrada. In tutti i paesi s’ incontra un gran numero di oratorii e di cappelle dedicati a s. Disma. Allorché il viaggiatore francese vi entra per visitarle, domanda a se stesso, perché la Francia ne possiede sì poche, se pur ne possiede? Perché la devozione a questo gran Santo, canonizzato da Gesù Cristo medesimo, entrato prima di tutti gli altri in paradiso, e collocato in un posto sì alto di gloria, si è perduta tra i francesi? Vi può essere per il secolo XIX in particolare un protettore meglio scelto, un protettore più sensibile ai mali che minacciano 1’Europa, o che già la divorano? Non v’ha niente da temere dai pirati rivoluzionari? D’altronde, il Buon Ladrone non è forse stato quello che noi siamo, cioè un gran peccatore; e tutto il suo desiderio non è forse che noi diventiamo quello che ora egli è? Perché mai la cattedra cristiana rimane troppo abitualmente muta sulla potenza di questo Santo illustre, e sulla fiducia che egli deve inspirare a tutti, specialmente ai peccatori moribondi, ed a coloro che hanno l’obbligo di prepararli al decisivo passaggio dal tempo alla eternità? – Questo amico del Salvatore, questo suo glorioso compagno d’armi: Commilito regni, come lo appella s. Atanasio, si è compiaciuto in ogni tempo di manifestare il suo credito presso Dio; e questo suo credito è sempre lo stesso. Fra gli altri suoi miracoli, ci basti di riportare il seguente, che è celebre nella storia dei Santi. – Verso la fine del quarto secolo viveva sulle sponde del Giordano un solitario, che divenne uno dei più grandi personaggi del suo tempo; questi è s. Porfirio vescovo di Gazza. Colpito da un scirro al fegato, la sua vita andava di giorno in giorno sensibilissimamente mancando. Desiderando di morire sul luogo ove il Salvatore del mondo aveva lasciata la sua vita, si fece trasportare a Gerusalemme; ove, malgrado la sua estrema debolezza, ogni giorno, appoggiato ad un bastone, andava a visitare qualcuna delle stazioni della via dolorosa. Siccome credessi prossimo a morire, era preoccupato dal pensiero che nell’abbandonare il mondo egli aveva lasciato nella sua patria Tessalonica un immensa fortuna, che non aveva distribuita ai poveri a motivo della giovinezza dei suoi fratelli. Egli dunque spedì a Tessalonica Marco suo intimo amico per dar sistema ai suoi affari. Il fedele mandatario con la più religiosa fedeltà esegui la sua commissione, ed a capo di tre mesi tornò in Gerusalemme. — Ma lasciamo che racconti egli stesso questo suo viaggio. – « Munito d’una lettera del santo, io m’imbarcai ad Ascalona, e dopo tredici giorni di navigazione giunsi a Tessalonica. Mostrai la mia procura, e divisi tutte le sostanze tra il mio buon Maestro ed i suoi fratelli; vendei quanto spettava a lui in beni fondi per tre mila scudi di oro; e riportai con me le stoffe preziose e l’argenteria, più una somma di mille e quattrocento scudi di oro. Dopo undici giorni di mare, fui di ritorno in Ascalona, ove presi dei cammelli e dei muli per portare tante ricchezze, e partii per Gerusalemme. Ivi giunto, al vedermi il pio maestro mi abbracciò con tenerezza paterna, e mi bagnò di lacrime di gioia; poiché anche la gioia fa piangere. — In quanto a me, io non lo riconosceva più essendo la sua persona in buon essere, le sue guancie paffute e rubiconde, talché non mi ristava da riguardarlo. Accortosi della mia esitanza si pose a sorridere, e mi disse dolcemente: Marco, mio fratello, non ti sorprenda se mi vedi così fresco e robusto: apprendi solamente la causa della mia guarigione, ed ammirerai con me l’ineffabile bontà di Nostro Signore Gesù Cristo, il quale può facilmente guarire le malattie le più disperate. « Io lo pregai che mi dicesse egli stesso in qual maniera avesse ricuperato la sanità. Sono quaranta giorni, mi rispose, che la vigilia della santa domenica fui preso da un dolore intollerabile: impiegai tutte le poche forze che mi restavano per trascinarmi sul Calvario, e colà mi gettai disteso in terra. In una sorta di estasi occasionata dal dolore, vidi il Salvatore inchiodato in croce, ed al di lui fianco un dei ladroni su di un’altra croce. A tal vista, mi metto a gridare ed a ripetere le parole del Buon Ladrone : Ricordati di me, o Signore, quando sarai nel tuo regno. Per risposta alla mia preghiera il Salvatore disse al Ladrone: discendi dalla croce, e salva quest’ammalato, come fosti salvato tu stesso. Il Ladrone allora discese dalla Croce, mi abbracciò e mi baciò. All’istante io sono in piedi; corro a Nostro Signore, e vedo che egli stesso è disceso dalla croce. Allora presentandomi la sua Croce, mi dice: Ricevi questo legno, e conservalo. Avendo ricevuto e portato quel prezioso legno, io rinvenni dall’ estasi, ed all’istante ogni dolore disparve, e non rimase più traccia di alcuna malattia. – « Questo discorso mi riempì di ammirazione, ed io mi attaccai più inviolabilmente che mai al mio beato maestro. » [Apud Sur. et Bolland. in vit. S. Porphyr., 36 febr. Sur., t. II, p. 1058.]. E noi pure, attacchiamoci più che mai al gran Santo che fu lo strumento benedetto di questa miracolosa guarigione. Se fino al presente l’abbiamo obliato di soverchio, facciamoci un dovere di praticare sia per noi, sia per tanti peccatori induriti, l’esercizio di devozione che la pietà cattolica gli ha consacrato.