NELLA NOVENA DI NATALE

NELLA NOVENA DI NATALE

[A. Carmagnola: MEDITAZIONI, vol. I – S.E.I. Torino, 1942 -impr.-]

MEDITAZIONE PRIMA.

Sopra l’editto di Cesare Augusto.

Avvicinandosi la festa del S. Natale, mediteremo sulle particolarità di sì grande mistero per disporre i nostri cuori a ben celebrarlo e a trarne frutti salutari. Cominceremo dal riflettere sui motivi che ebbe la Divina Provvidenza nell’editto di Cesare Augusto. C’immagineremo di vedere Iddio che dall’alto dei cieli tiene rivolto il suo sguardo di compiacenza sopra il suo Divin Figlio e che, giunta la pienezza dei tempi da Lui stabilita per la sua nascita, dispone ogni cosa per essa. Adoreremo queste divine disposizioni e imploreremo da Gesù l’aiuto di saperci sottomettere anche noi a tutto ciò che il Signore dispone per il nostro bene.

PUNTO 1°.

Primo motivo dell’editto di Cesare Augusto.

L’imperatore romano Cesare Augusto, divenuto padrone di quasi tutto il mondo, volendo fare il censimento dell’impero, emana un decreto, per il quale tutti i suoi sudditi devono recarsi nella loro città natale a dare il proprio nome. Ma sebbene sia egli l’autore materiale del decreto ed abbia per movente la sua saggezza amministrativa, pure in realtà è Iddio che ordina così, affinché il suo Divin Figlio abbia a nascere nella città indicata dai profeti, e la sua regale discendenza sia confermata dagli atti pubblici. Così dunque gli uomini si agitano, ma Dio li conduce e ne fa convergere tutte le azioni all’adempimento perfetto dei disegni della sua Provvidenza. Oh! se noi fossimo ben persuasi di questa verità, che solo Iddio regola tutti gli avvenimenti del mondo con sapienza infinita, con forza irresistibile e con bontà paterna, noi vedremmo sempre la mano di Lui che tutto dirige e ordina per nostro bene e per la sua gloria! Tante volte, è vero, le ragioni che Iddio ha nel suo governo ci sono ignote, i suoi disegni sfuggono alla corta vista del nostro intelletto; ma sicuri che in cielo comprenderemo ogni cosa, adoriamo intanto la Provvidenza Divina. E ciò non solo per riguardo alla storia del mondo, ma ancora per ciò che spetta a ciascuno di noi. Gesù ci ha insegnato che un capello solo non cade dalla nostra testa senza permissione divina (Luc., XXI, 18). Nelle contrarietà dunque abbandoniamoci a Dio; questo abbandono sarà per noi fonte di pace e di consolazione.

PUNTO 2°.

Secondo motivo dell’editto di Cesare Augusto.

Giunto anche in Nazaret l’editto imperiale, a cui dovevano ottemperare anche i Giudei, divenuti quasi sudditi romani, Maria e Giuseppe si accingono senz’altro a recarsi a Betlemme, loro terra natale, ancorché si tratti di un viaggio lungo, a piedi, per strade montane, in stagione cruda. Ma ciò essi fanno, perché lo stesso Bambino Gesù con le sue ispirazioni li anima a compiere la volontà di Dio, espressa per la volontà di un re. Oh esempio di obbedienza, che ci dà Gesù non ancor nato, volendo sottomettere sé, la sua Madre e il suo futuro padre nutrizio al decreto di Cesare! Vicino a manifestarsi agli uomini vuol subito offrir loro l’esempio di questa virtù, con la quale viene a ripararne l’orgoglio. Per la disobbedienza di Adamo, dice S. Paolo (Rom., V, 19), gli uomini furono costituiti peccatori, e per l’obbedienza di Gesù gli uomini devono diventare giusti. Pur troppo dal giorno in cui Adamo superbamente disobbedì a Dio, penetrò negli uomini il disdegno degli altrui comandi, benché legittimi, affine di far prevalere la propria volontà. E Iddio volendo sradicare dal cuore degli uomini un sì grave disordine stabilisce che venga fuori un editto, cui il suo Divin Figlio incarnato si sottometta, offrendosi tosto a noi come modello della più perfetta obbedienza. Dinanzi a tanto esempio come non ti animerai tu a obbedire in tutto e sempre?

PUNTO :3°.

Terzo motivo dell’editto di Cesare Augusto.

Il Signore dispose che l’editto di Cesare Augusto desse occasione al suo Divin Figlio di compiere un viaggio prima ancora di nascere, perché con esso si appalesasse ben tosto la missione che Egli veniva a compiere e quanto gli sarebbe premuto di muovere in cerca di noi per salvarci. Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, mandato dal padre in cerca dei suoi fratelli, interrogato da chi lo incontrava, rispondeva: Fratres meos quaero, cerco i miei fratelli (Gen., XXXVII, 16). Or ecco la parola che Gesù benedetto va ripetendo in quel viaggio penoso. Infatti il Vangelo ci attesta che Gesù è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto: Venit quaerere et salvum facere quod perierat ( Luc., XIX, 10). Egli altro non vuole che cercare i suoi fratelli per salvarli: Fratres meos quaero, fratres meos quaero. Ed oh! come si reputerà felice, se dopo tanto soffrire potrà ritrovare coloro che Egli cerca, e stringerseli al cuore! E noi non l’abbiamo già troppo a lungo costretto a correrci dietro, chiamandoci con insistenza? È tempo che ci fermiamo nella nostra fuga, che ci stacchiamo dal nostro orgoglio, dalle nostre vanità, dalle nostre insensatezze, e muoviamo incontro a Lui con uno slancio di amore e di fede, massime in questo tempo.

MEDITAZIONE SECONDA.

Sopra l’indifferenza dei Betlemmiti

Mediteremo sopra l’indifferenza dei cittadini di Betlemme per Maria e Giuseppe, indifferenza per la quale Gesù nacque in una povera capanna fuori di quella città. C’immagineremo l’affanno dei due santi sposi e la calma del Verbo incarnato, il quale prima ancora di nascere c’insegna a sopportare per amor di Dio i maltrattamenti altrui. Adoreremo il Divin Verbo in queste sue interiori disposizioni e lo pregheremo con ardore di volercene rendere partecipi.

PUNTO 1°.

I Betlemmiti rifiutano Gesù.

Maria e Giuseppe, compiuto il penoso viaggio da Nazaret a Betlemme, si recarono tosto dal pubblico ufficiale per dare il proprio nome e quello di Gesù, indi mossero in cerca di una casa ove riparare la notte. Si aggirano di porta in porta, benché stanchi dal cammino: ma non trovano persona amica o cortese, che li accolga presso di sé. Oh se i Betlemmiti avessero conosciuto chi erano quei due pellegrini e chi doveva nascere in quella notte! Ah! tutti avrebbero voluto dar loro la propria abitazione o li avrebbero forzati a entrare nella casa più bella che vi fosse in quella città. Al contrario non conoscendoli e non sapendo il gran mistero di quella notte, mentre provvedono di buon alloggio tutti i forestieri di agiata condizione, con tutta indifferenza lasciano in abbandono Maria e Giuseppe e con essi il Salvatore del mondo- Tant’è, Gesù è venuto nella sua città natale e i suoi concittadini non gli han dato ricetto: In proprio venit et sui Eum non receperunt (Jo., I, 11). A Betlemme si può raffigurare quell’anima, in cui Gesù sarebbe pronto a nascere con la sua grazia, ma che per attacco alle misere vanità del mondo lo respinge da sé. E tale anima non sarebbe per avventura la nostra? Ma che cosa ci possiamo aspettare di bene dalle meschinità della terra? Deh! alla vista di Gesù, pronto a visitare la nostra anima per arricchirla dei suoi celesti favori, liberiamoci tosto dagli attacchi terreni e cediamo in essa il posto al nostro buon Redentore.

PUNTO 2°.

Nel pubblico albergo non c’è posto per Gesù.

Maria e Giuseppe, respinti da ogni casa, furono costretti a presentarsi al pubblico albergo. Non si trattava, è vero, che di un recinto quadrato contornato da un portico lunghesso le mura, sotto al quale conveniva distendere delle stuoie per adagiarvisi sopra. Ma almeno avrebbero avuto un riparo in città, frammezzo a gente, che poteva porgere un po’ di aiuto. Eppure nemmeno lì si trova un posto: non erat eis locus in diversorio (Luc., II, 7). Il Creatore e Signore del cielo e della terra non troverà dunque in Betlemme un luogo qualsiasi, ove fare la sua entrata nel mondo? Gesù, dice S. Agostino, permette che fra le mura di Betlemme gli manchi una stanza, per vedere se tu, o cristiano, pensi ad aprirgliela dentro il cuor tuo: non erat eis locus in diversorio, ut tu locum illi praeberes in corde tuo. Se in questo momento Maria si presentasse a me in cerca di un cuore, ove posare il suo Divin Piglio, le potrei offrire il cuor mio? Dio lo voglia: ma voi intanto, o Vergine Santa, aiutatemi a rendere il mio cuore meno indegno di dare ricetto al vostro Divin Figlio.

PUNTO 3°.

Gesù nasce in una grotta.

Maria e Giuseppe respinti non solo dalle case private di Betlemme, ma persino dal pubblico albergo, escono alla campagna e cercano tra l’oscurità e la solitudine un misero tugurio ove ricoverarsi. Trovano finalmente una grotta scavata nella collina, una di quelle grotte, che servivano di rifugio ai pastori sorpresi dalle intemperie nella custodia del gregge. E lì in quella grotta solitaria, mentre tutto all’intorno era profondissimo silenzio e le stelle sul firmamento segnavano la mezzanotte, da Maria Vergine nacque Gesù Cristo, eterno Dio e Piglio dell’Eterno Padre! Oh grotta benedetta! Per quanto umile e meschina, tu sei diventata il luogo santo, la casa di Dio, la porta del Cielo. Così Gesù ci ha fatto conoscere quanto ami l’oscurità e la solitudine, e come a nascere nell’anima nostra con l’abbondanza delle sue grazie voglia che essa per amore di oscurità e di solitudine si renda simile alla grotta di Betlemme. Oh se noi fossimo persuasi di queste grandi verità: che quanto più noi amiamo di essere oscuri, di tenerci nascosti, di vivere lontani dall’ammirazione del mondo e dalle sue frivole conversazioni, tanto più Iddio si avvicinerà a noi, ci parlerà al cuore, ci farà godere della sua amabile presenza e delle sue consolazioni! Come ameremmo di più la vita di ritiro! Come cercheremmo meno di metterei in evidenza! Quanta minor cura avremmo di attirare su di noi gli altrui sguardi! E quanta maggior pace godremmo!

MEDITAZIONE TERZA.

Sopra la capanna di Betlemme.

Mediteremo sopra la povertà e abiezione della capanna di Betlemme, in cui volle nascere il Divin Salvatore. C’immagineremo di vedere il Bambino Gesù che accetta con gioia di nascere nella povertà, nello spogliamento e nella miseria, avendo stabilito da tutta l’eternità di dare fin dalla sua nascita la preferenza a tutto ciò che lo separa dal mondo e lo abbassa e lo umilia, per insegnare anche a noi il distacco dalla terra, l’amore agli abbassamenti e alle umiliazioni. Prostrandoci dinanzi a lui col nostro spirito lo adoreremo umilmente e lo pregheremo di mettere nel nostro cuore quei sentimenti, che ha manifestato di avere nel suo all’atto della sua nascita.

PUNTO 1°.

Povertà della capanna di Betlemme.

Che povera stanza era quella in cui nacque il Re del Cielo! Una misera stalla destinata a rifugio degli animali, mal difesa dalle intemperie dell’aria, sprovvista di ogni mobile, con soltanto una meschina mangiatoia e un po’ di paglia. Perché si abbassò cotanto Colui che non poteva essere degnamente albergato nel più sontuoso palazzo, e a cui nemmeno gli Angeli avrebbero potuto preparare una degna abitazione. Egli ci volle in tal modo insegnare che conto si debba fare delle cose del mondo. Difatti, che cosa sono mai davanti a Dio l’oro, l’argento, le pietre preziose, i più ricchi abbigliamenti, i più sontuosi palazzi, e tutte le grandezze mondane? Tutto ciò davanti a Dio non conta più del fango e della spazzatura. Ma quanti purtroppo mettono la loro felicità nel possesso del danaro, nel godersi le comodità e gli agi della vita, nelle belle comparse, nelle ricche vesti, nelle pompe del secolo, nelle più sciocche vanità! – Noi che in effetto abbiamo rinunziato ai beni caduchi della terra possiamo dire d’avervi rinunziato altresì coll’affetto? Ah! se finora il nostro cuore ha ceduto al fascino delle misere cose di questo mondo, non sia più così dinanzi al grande insegnamento di Gesù Bambino.

PUNTO 2°.

Confronto della capanna di Betlemme con l’anima nostra.

Ben a ragione ci sorprende la degnazione che ebbe i l Re del Cielo col nascere in una capanna sì misera; ma ancora più dobbiamo meravigliarci della degnazione, che Egli ha, di venire a prendere dimora nell’anima nostra per mezzo della Santa Comunione. Difatti, paragonando l’anima nostra a quella capanna, non dobbiamo riconoscere che la miseria della nostra anima è di gran lunga superiore a quella della capanna betlemmitica? Tutta la povertà di questa era solo materiale, mentre l’anima nostra è misera spiritualmente, disadorna delle cristiane virtù, e sordida per tanti peccati. Eppure Egli si degna di visitarla e di abitarvi, oh quanto frequentemente! Ma dovrà sempre trovare questa sua casa così poco degna di Lui? Se fossimo stati là a Betlemme, e avessimo saputo che in quella capanna doveva nascere il Re del Cielo, che premura ci saremmo presa di mondarla e purificarla da ogni sozzura, di ripararla dal rigore della stagione, di provvederla del necessario! Avremmo fatto tutto il possibile perché quell’abitazione di animali diventasse una stanza meno indecente per il Divin Salvatore. – Ora questo dobbiamo fare nell’anima nostra, perché quando Gesù viene in essa con la Santa Comunione vi si trovi meno a disagio. Sebbene sia vero che anche col peccato veniale possiamo accostarci quotidianamente alla Comunione, tuttavia il nostro studio ha da essere quello di evitarlo, di staccarne affatto il cuore e di adornare l’anima nostra delle virtù cristiane e religiose.

PUNTO 3°.

I due animali della capanna ài Betlemme.

Secondo l’antichissima tradizione, ritenuta dalla Chiesa nella sua liturgia, c’erano nella capanna di Betlemme un bue e un giumento, che stando dappresso alla mangiatoia, in cui fu deposto il Bambino Gesù, col loro fiato mitigavano il rigore della fredda aria notturna. Grande argomento di umiltà! Canta la Chiesa: Colui che risplende nei cieli di gloria eterna, giaceva nel presepio tra due animali! Come poteva maggiormente abbassarsi il Re del cielo per insegnare anche a noi l’abbassamento? Eppure quanto facilmente rigettiamo tale insegnamento! Noi cerchiamo tutto ciò che serve a conciliarci la stima degli uomini, non vogliamo cedere nei nostri puntigli, ci irritiamo se siamo ripresi di qualche mancamento, andiamo dietro alle vanità mondane. Dinanzi all’infinita maestà del Signore così umiliata, ceda ogni pretesto che ci tragga a far atti di superbia e c’induca ben anche a commettere gravi errori con danno incalcolabile dell’anima nostra e con scandalo delle anime altrui. Ecco la più bella disposizione del nostro cuore per diventare abitacolo gradito a Gesù.

MEDITAZIONE QUARTA.

Sopra i sentimenti di Maria e di Giuseppe.

Mediteremo sopra i sentimenti di Maria e di Giuseppe nella nascita di Gesù Bambino. C’immagineremo di entrare nella capanna di Betlemme e di vedervi Maria e Giuseppe inginocchiati presso il santo presepio, in atto di profonda adorazione. Ci prostreremo in spirito anche noi, unendo le adorazioni nostre alle loro e pregando il Santo Bambino di volerci rendere partecipi dei sentimenti, che vi ebbero la sua santissima Madre e il suo padre nutrizio.

PUNTO 1°.

Sentimenti di pena di Maria e di Giuseppe.

Quali sentimenti di pena ebbero nel loro cuore Maria e Giuseppe allora che, respinti da Betlemme, furono costretti a entrare nella povera capanna! S. Giuseppe, dalla Divina Provvidenza destinato a essere l’angelo tutelare visibile di Maria, ebbe a soffrire il più grande affanno, non per sé certamente, ma per lei. Per Maria quel luogo gli si mostrava troppo orrido, troppo aspro e inospitale, e pensando poi chi Ella fosse, doveva sentirsi nel petto scoppiare il cuore dall’ambascia. Maria Vergine dal canto suo quanto pure doveva soffrire al pensiero che il suo Divin Figlio, Creatore e Signore del cielo e della terra, doveva nascere in quel meschino tugurio! Con tutto ciò i santi sposi chinarono la fronte ai disegni di Dio, e riconoscendo che così piaceva al Signore, conformarono pienamente la loro volontà alla sua. Ecco la virtù, che noi pure dovremmo esercitare continuamente. Pur troppo noi vorremmo sempre le cose a modo nostro; Dio invece le vuole a modo suo. Noi vorremmo sempre sanità, e invece Iddio talora ci vuole infermi; noi vorremmo sempre essere ben voluti, onorati e rispettati, e Iddio permette che siamo non curati, scherniti e perseguitati; noi vorremmo che non ci mancasse mai nulla, e invece Iddio dispone che ora ci troviamo senza una cosa, ora senza un’altra. Ma tutto ciò che Dio vuole è senza dubbio per la sua gloria e per il bene nostro. Come dunque non conformarci sempre alla sua santa volontà?

PUNTO 2°.

Sentimenti di gioia di Maria e di Giuseppe.

Ai sentimenti di pena sottentrarono ben preso in Maria e Giuseppe i sentimenti della più ineffabile gioia, appena nacque il sacrosanto Bambino. Maria per la prima vide a sè dinanzi il vezzosissimo suo figlio, che la guardava, le sorrideva e le tendeva le candide manine. Per impeto d’ineffabile amore lo adorò dicendo: O Gesù Bambino, nato da Dio prima del tempo, nato da me or ora, tu sei il mio figlio e il mio Dio, ed io sono la tua madre, la Madre di Dio. O Gesù, Salvatore del mondo, Re del cielo e della terra, tu sei il mio tesoro, il mio amore, la gioia del mio cuore! San Giuseppe da parte sua, sebbene come semplice custode di Gesù non potesse esprimergli i medesimi sentimenti, tuttavia anch’egli invaso dalla gioia più viva e più santa non lasciava di sfogare il suo cuore nei più teneri accenti. E noi quali sentimenti proviamo ricevendo Gesù nel nostro cuore per la S. Comunione, o venendo a visitarlo nel SS. Sacramento? Non dobbiamo confessare che purtroppo le nostre comunioni e le nostre visite sono fredde, senza gusto spirituale e senza gioia alcuna del cuore?

PUNTO 3°.

Sentimenti di fede di Maria e di Giuseppe,

I sentimenti di gioia, che riempirono Maria e. Giuseppe per la nascita di Gesù, erano la conseguenza dei sentimenti vivissimi della loro fede. Gesù Bambino, pur essendo vero Dio, sotto il velo della carne nascondeva al tutto la sua divinità, e nella carne stessa non appariva nulla più di quello che sono gli altri bambini appena nati. Di modo che era debole, sofferente, bisognoso di venir ricoperto, allattato, sostentato; come gli altri bambini piangeva, dormiva, non mostrava intelligenza di sorta; insomma sebbene a differenza di tutti gli altri bambini non avesse in sé il peccato e le impure sue conseguenze, era tuttavia, come dice S. Paolo, nella somiglianza della carne di peccato, umiliato e passibile: in similitudinem carnis peccati (Rom., VIII, 3). Ora a riconoscere che questo Bambino era vero Dio, si richiedeva una vivissima fede. E tale fu propriamente la fede di Maria e di Giuseppe. Entrambi riconobbero in Lui il vero Figlio di Dio, incarnatosi e fattosi uomo per la salute del mondo, e come tale Maria lo adorò: Ipsum quem genuit, adoravit. E alle adorazioni di Maria si unirono ben tosto quelle di S. Giuseppe. Oh se anche noi avessimo nel cuore una fede somigliante a quella di Maria e di Giuseppe! La fede sarà tanto più viva in noi, quanto più sull’esempio di Maria e di Giuseppe saremo puri ed umili di cuore.

MEDITAZIONE QUINTA.

Sopra gli atti interiori del Bambino.

Mediteremo sopra gli atti interiori del Bambino Gesù appena nato. C’immagineremo di vedere questo Santo Bambino, che nel presepio si considera come sull’altare, di dove, sacerdote e vittima ad un tempo, si offre al suo Eterno Padre in espiazione dei nostri peccati. E prostrati in spirito dinanzi alla sua culla lo adoreremo e ringrazieremo di quanto comincia a operare in nostro vantaggio e gli prometteremo di non mandare a vuoto ciò che Egli ha tosto fatto per noi appena nato.

PUNTO 1°.

Gesù Bambino si offre al suo Divin Padre.

Secondo la testimonianza di S. Paolo, Gesù Cristo, entrando nel mondo, disse a Dio suo Padre: Tu non hai gradito i sacrifizi di quelle vittime, che furono precedentemente offerte; e perciò a me hai formato un corpo, con cui io fossi atto a venir immolato in luogo di tutte le vittime precedenti per la tua gloria e per la salute del mondo, e questo corpo io te l’offro in espiazione dei peccati degli uomini fin da questo momento, compiendo perfettamente la tua santa volontà (Hebr., X, 5-7). Così dunque Gesù appena nato si offre vittima al suo Divin Padre per ripararlo delle nostre ingratitudini, colpe, tiepidezze, debolezze e miserie, e per espiarle comincia tosto a offrirgli quei patimenti che soffre nel suo tenero corpicciuolo. O vittima adorabile, come non esaltare e ringraziare la vostra bontà infinita! Con quanta prontezza, con quanto zelo voi v’immolate per la mia salute! Ma se Gesù si offre tosto, appena nato, in sacrifizio al suo Divin Padre, c’insegna altresì che noi, dovendo imitarlo come nostro modello, dobbiamo menare volentieri una vita di sacrifizio per espiare i tanti peccati da noi commessi e cooperare in tal guisa alla nostra salvezza. Miseri noi se non siamo fermamente risoluti di immolare a Dio la nostra volontà, il nostro carattere, il nostro io, l’amore dei nostri comodi e delle nostre soddisfazioni! Molto facilmente lasceremo la via del bene per metterci su quella del disordine e della rovina.

PUNTO 2°.

Gesù Bambino prega il suo Divin Padre.

Gesù Bambino appena nato, oltre all’offrirsi al suo Divin Padre come vittima di espiazione per i nostri peccati, gli rivolse pure le più efficaci preghiere a nostro vantaggio, per implorarci la sua misericordia e impetrarci tutte le grazie, di cui abbiamo bisogno. Sì, Gesù ha cominciato le sue preghiere fin dal presepio, preghiere non espresse con parole, ma con lacrime, come furono poi altresì quelle offerte al suo Padre celeste dall’alto della croce. Nei giorni della sua carne, dice S. Paolo, offerse preghiere e suppliche con forti grida e con lagrime: in diebus carnis suae preces supplicationesque… cum clamore valido et lacrimis offerens (Eebr., V, 7). E quanto furono ferventi tali preghiere! Costituito nostro pontefice, resosi simile in tutto a noi, fuorché nel peccato, conoscendo in se stesso le infermità e miserie nostre, ne sente la più tenera compassione, e volendo tosto alleviarle implora col massimo fervore su di noi la misericordia e la grazia di Dio. Oh bontà grande del mio Gesù! Voi appena nato rivolgete subito il pensiero a me, alla mia meschinità e impotenza, e per me indirizzate al vostro Divin Padre i sentimenti del vostro cuore e le lagrime de’ vostri occhi, supplicandolo che si muova a pietà di me, che mi perdoni i miei peccati e mi conceda i suoi celesti favori! Voi senza avere alcun bisogno di pregare, tuttavia appena nato, non curando i vostri patimenti, pregate per l’anima mia, e io con tanto bisogno che ne ho, anche in mezzo ai patimenti, penso così poco a pregare! Concedetemi, o caro Gesù, che comprenda l’importanza e la dolcezza della preghiera, e preghi anch’io e preghi con fervore.

PUNTO 3°.

Gesù Bambino glorifica il suo Divin Padre.

Gesù Bambino appena nato rinnovò l’atto di glorificazione, che al suo Divin Padre aveva fatto sin dal primo istante della sua Incarnazione. Giacché, siccome nessun’altra opera, neanche quanto l’Incarnazione del Verbo eterno, Così ora che l’Incarnazione di lui si era manifestata al mondo con la sua nascita, Gesù dice con slancio: la mia gloria è un niente: gloria mea nihil est (Jo., VIII, 54), non mi preoccupo che della gloria di mio Padre: honorifico Patrem meum (Jo., VIII, 49). Così Egli rese tosto a lui onore e gloria infinita per tutto ciò che aveva stabilito si avesse a fare per la salvezza degli uomini. Che zelo ammirabile! Che purità di amore! Avviciniamoci a questo fuoco sacro, che arde in petto al Bambino Gesù per purificare le nostre intenzioni, guaste così spesso da mire ambiziose, che ci tolgono il merito delle nostre opere, e per accenderci anche noi di zelo per i grandi interessi della gloria di Dio. Non siamo noi tanto caldi per gli interessi della gloria nostra? Per acquistare, o per non perdere questa gloria, che cosa non diciamo, che cosa non facciamo, che cosa non soffriamo? E per la gloria di Dio invece siamo tanto freddi, tanto trascurati? Impariamo, sì, impariamo da Gesù Bambino a non dire, a non fare, a non desiderare nulla per l’amor proprio, per la lode e riputazione nostra, ma tutto per l’onore e la gloria di Dio.

MEDITAZIONE SESTA.

Sopra gli omaggi degli angeli.

Mediteremo sopra gli omaggi resi dagli angeli al Bambino Gesù. C’immagineremo di vederli raccolti intorno al presepio per adorare il Divin Salvatore, lodarlo e benedirlo. Ci uniremo a loro, pregando questi beati spiriti che vogliano congiungere le loro e le nostre adorazioni e benedizioni in una sola oblazione, che riesca così meno indegna del Divino Infante.

PUNTO 1°.

Gli angeli adorano il Bambino Gesù.

Essendo il Divin Salvatore nato pressoché incognito agli uomini, ancorché fosse stato predetto da tanti profeti e aspettato da tutto il mondo, tuttavia ben lo conobbero gli Angeli. Ubbidienti all’ordine del Padre celeste di adorarlo, secondo che ci apprende S. Paolo: cum introduca Primogenitum in orbem terme dicit: Et adorent eum omnes angeli Dei (Hebr., I, 6), discesero tosto dal Paradiso per prosternarsi in adorazione intorno al loro sovrano sotto la forma di tenero bambino. E chi può dire la loro ammirazione, il loro slancio d’amore e di ossequio davanti alle umiliazioni dell’eterno Figlio di Dio! Quanto più lo vedono impicciolito, tanto più riconoscono la sua infinita grandezza e tanto più si fanno con riverenza ad adorarlo. Confrontando le loro perfezioni con quelle di Lui, si riconoscono un nulla al suo cospetto e sentono ad ogni modo che quanto vi ha di bello e grande in loro, da lui l’hanno ricevuto. E col sentimento della più viva gratitudine lo ringraziano e lo esaltano, e confessano che a Lui solo si devono onore e gloria, lode e benedizione per tutti i secoli dei secoli. Oh il bell’esempio, che ci danno in tal modo, del come dobbiamo diportarci con Gesù, che si trova pure realmente presente tra di noi nei Santi Tabernacoli! Quando entriamo nelle dimore del Dio Sacramentato, portiamovi gli stessi sentimenti e affetti, che ebbero gli angeli nella grotta di Betlemme.

PUNTO 2°.

Gli Angeli annunziano la nascita di Gesù.

Gli angeli, non paghi di adorare essi il Santo Bambino, ardono della brama di guadagnargli altri adoratori. Uno, che piamente si crede essere stato l’arcangelo Gabriele, a nome di tutti gli altri, prendendo vaghissima forma umana, apparve, in una fulgidissima luce, ad alcuni pastori che stavano vigilando alla custodia del gregge nei dintorni di Betlemme. E poiché per quella luce i pastori furono presi da gran timore, l’Angelo li rassicurò tosto dicendo: Non temete, perché io vengo ad annunziarvi una grande allegrezza, non solo per voi, ma anche per tutto il popolo: oggi è nato in Betlemme, città dì David, il Salvatore, che è Cristo, il Messia aspettato da tutti i secoli; ed ecco il segnale a cui lo riconoscerete: troverete un bambino involto in pannicelli, messo dentro un presepio. Quando si ama Iddio, si ha zelo di farlo conoscere e amare anche dagli altri, e quanto più vivo è l’amore a Dio, tanto più ardente è lo zelo per acquistargli altri cuori amanti. Le persone religiose, che si sono consacrate a Dio per tendere meglio alla loro perfezione, si sono pure consacrate a Lui per zelare la sua gloria e la salute delle anime in quelle opere apostoliche, le quali

mirano a farlo meglio conoscere, amare e servire. Questo ufficio lo compiamo noi davvero nel debito modo e con rettitudine d’intenzione?

PUNTO 3°.

Gli angeli cantano gloria a Dio e pace agli uomini.

All’Angelo che era apparso ai pastori, si unì la moltitudine degli altri spiriti celesti lodando Dio e dicendo: Gloria a Dio negli altissimi cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà. Gloria a Dio negli altissimi cieli, perchè la nascita del Bambino Gesù ha operato questo primo effetto di procurare a Dio, che abita nel più alto dei cieli, una gloria infinita, essendoché l’abbassamento a cui si è assoggettato Gesù nella sua Incarnazione e nascita, è per Iddio un omaggio di valore infinito. Pace in terra agli uomini di buona volontà, perché la nascita di Gesù ha operato questo secondo effetto di apportare la vera pace a tutti quegli uomini, che, essendo animati da buona volontà, amano praticamente la legge divina, operando il bene e fuggendo il peccato. Anche noi siamo venuti al mondo e vi dobbiamo vivere per dar gloria a Dio. Se persino il sole, la luna, le stelle, le piante, gli animali e tutte le altre creature irragionevoli esistono per dar gloria a Dio, quanto più noi dotati di ragione e d’intelligenza! Il che dobbiamo fare in due modi: praticando opere buone ogni volta che ce ne viene l’opportunità: facendo tutte le nostre azioni, anche indifferenti, per l’onore di Dio. Solo così acquisteremo tesori di meriti per l’eternità; solo così gusteremo intanto su questa terra un preludio di quella felicità, che si gode in cielo nel possesso della pace del Signore, pace che Dio dà realmente a godere a quelli che lo amano e lo servono, anche in mezzo alle tribolazioni del mondo.

MEDITAZIONE SETTIMA.

Sopra la condotta dei pastori.

Mediteremo sopra la santa condotta tenuta dai pastori chiamati dall’Angelo alla grotta di Betlemme. C’immagineremo di vederli davanti alla culla del Bambino Gesù, in atto di vagheggiarlo con gioia ineffabile e di adorarlo col più profondo rispetto. Prostrandoci in spirito accanto a loro, adoreremo anche noi il Divin Salvatore e lo ringrazieremo d’averci concessa una fortuna anche maggiore di quella concessa ai pastori, potendolo noi ricevere dentro i nostri cuori per mezzo della Santa Comunione.

PUNTO 1°.

I pastori si recano prontamente alla capanna.

Con quale prontezza i buoni pastori si recarono alla grotta di Betlemme! Il Vangelo ci dice che appena gli Angeli si furono ritirati da loro verso il cielo, i pastori presero a dirsi l’uno all’altro: Andiamo sino a Betlemme a vedere quello che è ivi accaduto, come il Signore ci ha manifestato. E andarono con prestezza: et venerunt festinantes (Luc., II, 15). Lasciarono dunque i loro armenti e partirono senza indugio, ancorché fosse nel cuor della notte. Le buone ispirazioni sono messaggi celesti che c’invitano a lasciare il male e a operare il bene. Quante volte non ne facciamo caso o lasciamo che si spengano nel nostro cuore, perché differiamo a metterle in pratica! Se in questi santi giorni si faranno sentire più forti le ispirazioni della grazia, che ci chiamino a far sacrifizio di noi stessi, del nostro amor proprio, delle nostre comodità, per dedicarci interamente all’amore del Bambino Gesù, arrendiamoci ad esse con tutta prestezza. I pastori assecondano senza più l’invito dell’angelo, perché sono uomini umili e semplici e credono tosto a quanto è stato loro detto. Così anche noi ci arrenderemo facilmente alle divine inspirazioni, se avremo umiltà e semplicità, scacciando dall’animo nostro quei sentimenti di orgoglio, che soli sono la causa, per cui non seguiamo l’invito dei celesti messaggi.

PUNTO 2°.

I pastori adorano Gesù nella capanna.

I pastori arrivati alla grotta v i trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino giacente nella mangiatoia. Con che devozione e fede l’adorarono! Oh come, piegati i ginocchi e giunte le mani, saranno stati estatici a rimirarlo! Ed ecco a quali persone il Signore manifestò se medesimo prima che ad altre. Oh come il Signore intende le cose a rovescio del mondo, il quale si mostra sempre incantato dallo splendore delle ricchezze, della gloria e dell’umana sapienza, dando le sue preferenze a coloro che di tutto ciò sono ammantati! E la condotta che Gesù tiene dalla nascita è quella che seguirà mai sempre; perciocché, dice San Paolo, il Signore elegge le cose stolte del mondo per confondere i sapienti, le cose deboli per confondere le forti, le cose ignobili, le spregevoli e quelle che sono reputate un nulla per distruggere quelle che sono stimate assai, affinché non vi sia alcun uomo che abbia ardire di darsi vanto dinanzi a lui (I Cor., I, 27-29). – Di qui dobbiamo imparare che non la nostra abilità, sapienza, valentia induce il Signore a farci favori speciali e a chiamarci all’onore di compiere le sue grandi imprese, ma l’umiltà, la semplicità, la rettitudine. Non lasciamo, no, di mettere il nostro impegno ad acquistare scienza, idoneità e pratica per compiere bene certi uffici, essendo pur questo il nostro dovere; ma più di tutto adoperiamoci ad avere in noi quelle virtù, per le quali soltanto possiamo piacere a Dio, ed essere da lui prescelti e aiutati a far del bene.

PUNTO 3°.

I pastori ritornano giubilanti dalla capanna.

I pastori, poiché ebbero resi i loro omaggi al Bambino Gesù, se ne ritornarono alle loro abitazioni pieni di santo giubilo, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e veduto, conforme era stato ad essi predetto, di guisa che tutti quelli, che li sentivano a parlare, restarono meravigliati delle cose da essi riferite ( Luc., II, 18, 20). Ecco quello che dovremmo fare anche noi quando il Signore per grazia sua ci fa sentire le dolcezze della vita cristiana e delle pratiche devote. Col nostro contegno, più ancora che colle parole, dovremmo glorificare e lodare Iddio al cospetto degli uomini, dimostrando loro coi fatti che la vita veramente cristiana, anziché riuscire di peso, arreca consolazioni e gioie ineffabili; che sono veramente beati coloro che abitano per la grazia, per l’orazione, e per la frequenza dei Sacramenti, nella casa del Signore; che vale infinitamente più un’ora passata davanti al tabernacolo, che non mille giorni trascorsi nelle case dei peccatori: così il nostro prossimo sarebbe indotto dal nostro esempio a fare anch’esso la prova.

CORONCINA DELLA MISERICORDIA o DELLE SANTE PIAGHE di N. S. GESU’ CRISTO

CORONCINA DELLA MISERICORDIA O DELLE SANTE PIAGHE DI N. S. GESU’ CRISTO

Immagine di Sr. Marie Chambon (1841-1907 A.D.), suora del Convento della Visitazione di Maria, Chambery, Francia – dove Nostro Signore manifestò la Devozione del Rosario delle Sante Piaghe, nel 1867

Coroncina della Misericordia

ossia delle Sante Piaghe

Questa coroncina si comincia con queste invocazioni:

– O Gesù, Divin Redentore, siate misericordioso per noi, per il mondo intero. Così sia.

– Dio forte, Dio santo, Dio immortale,  abbiate pietà di noi e del mondo intero. Così sia.

– Grazia e misericordia, o mio Gesù, nei pericoli presenti; copriteci col vostro Sangue preziosissimo. Così sia.

– O Padre Eterno, fateci misericordia, per il  Sangue di Gesù Cristo, vostro unico Figlio: fateci misericordia, noi ve ne scongiuriamo. Così sia

Indi sui grani piccoli della corona si ripete per dieci volte

Gesù mio, perdono e misericordia per i meriti delle Vostre Sante Piaghe.

(Ind. 300 gg. o. v.)

E sui grani grossi:

Eterno Padre, vi offro le Piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo per guarire quelle delle anime nostre.

(Ind. 300 gg. o. v)

Si termina la corona ripetendo tre volte quest’ultima preghiera.

preghiera: Eterno Padre, etc.

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“Le invocazioni delle Sante Piaghe

otterranno una vittoria imperitura alla Santa Chiesa “.

LE 17 PROMESSE di GESU’ CONCESSE A COLORO CHE

PRATICANO LA DEVOZIONE DEL ROSARIO DELLE SANTE PIAGHE :

1. Ad ogni parola pronunciata della Coroncina delle Sante Ferite, permetto che una goccia del Mio Sangue cadrà sull’anima di un peccatore.

2. Ogni volta che offri a Mio Padre i meriti delle Mie Divine Ferite, otterrai un’immensa fortuna.

3. Le anime che avranno contemplato ed onorato la mia corona di spine sulla terra, saranno la mia corona di gloria in cielo.

4. Concederò tutto ciò che mi viene chiesto attraverso l’invocazione delle mie Sante Piaghe. Si otterrà tutto, perché ciò avverrà attraverso i meriti del Mio Sangue, che ha un prezzo infinito. Con le mie Piaghe ed il mio Divino Cuore, tutto può essere ottenuto.

5. Dalle mie piaghe procedono frutti di santità. Come l’oro purificato nel crogiolo diventa più brillante, così devi mettere la tua anima e quella dei tuoi fratelli nelle Mie sacre Piaghe; lì saranno perfezionate come l’oro nella fornace. Puoi sempre purificarti nella mie Piaghe. 

6. Le mie Piaghe ripareranno le tue. Le mie Piaghe copriranno tutte i tuoi difetti. Coloro che le onorano avranno una vera conoscenza di Gesù Cristo. Nella loro meditazione, troverai sempre nuovo amore. Le mie Piaghe copriranno tutti i tuoi peccati.

7. Immergete le vostre azioni nelle mie ferite ed esse prenderanno valore. Tutte le tue azioni, anche le più piccole, intrise del Mio Sangue, acquisiranno solo da questo meriti infiniti e soddisferanno il Mio Cuore.

8. Nell’offrire le Mie Piaghe per la conversione dei peccatori, anche se i peccatori non sono convertiti, avrai lo stesso merito davanti a Dio come se lo fossero.

9. Quando hai qualche problema, qualcosa da soffrire, mettilo rapidamente nelle mie ferite ed il dolore sarà alleviato.

10. Vicino agli ammalati deve  ripetersi spesso questa invocazione : “Mio Gesù, perdono e misericordia per i meriti delle tue piaghe!” Questa preghiera consolerà l’anima ed il corpo.

11. Un peccatore che dirà la seguente preghiera otterrà la conversione: ” Eterno Padre, ti offro le ferite di nostro Signore Gesù Cristo per guarire quelle delle nostre anime”.

12. Non ci sarà morte per l’anima che si rifugia nelle Mie Sacre Ferite; esse danno vita vera.

13. Questa coroncina è una contrapposizione alla Mia giustizia; essa reprime la mia vendetta.

14. Coloro che pregano con umiltà e meditano sulla Mia Passione, un giorno parteciperanno alla gloria delle Mie Divine Piaghe.

15. Quanto più avrai contemplato le mie dolorose ferite su questa terra, tanto più alta sarà la tua contemplazione di esse, gloriose in cielo.

16. L’anima che durante la vita ha onorato le ferite di nostro Signore Gesù Cristo e le ha offerte al Padre Eterno per le anime del Purgatorio, sarà accompagnata al momento della morte dalla Santa Vergine e dagli Angeli; e Nostro Signore sulla Croce, tutto brillante nella gloria, la riceverà e la incoronerà.

17. Le invocazioni delle Sacre Ferite otterranno una vittoria imperitura alla Santa Chiesa.

PREGHIERA ALLE CINQUE PIAGHE

SIGNORE mio Gesù Cristo, adoro la Piaga della vostra mano destra, e per quel sangue che dalla medesima versaste, vi prego a darmi una invincibile fortezza contro i miei capitali nemici: demonio, mondo e carne, onde io possa dire col Profeta; La vostra destra mi ha difesa dalle insidie infernali; la vostra destra operò in me ogni virtù e benedizione. Amen. Pater, Ave, Gloria

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga della vostra mano sinistra e per quel sangue che dalla medesima versaste, vi prego a munirmi con lo scudo di una viva Fede, di una ferma Speranza e di una Carità perfetta, per non avermi a trovare nella valle di Giosafat con i reprobi alla sinistra. Amen. Pater, Ave , Gloria .

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga del vostro Piede destro e, per quel sangue che dalla medesima versaste, vi prego a guidarmi per il diritto sentiero delle sante Virtù, perchè giunga a quel beato fine per cui mi avete creato e redento. Amen . Pater, Ave. Gloria.

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga del vostro Piede sinistro e, per quel sangue che dalla medesima versaste, vi prego ad innamorarmi dei patimenti e delle umiliazioni, perché, morto a me stesso, viva unicamente in Voi, che siete la Via, la Verità, e la Vita … Amen. Pater, Ave, Gloria.

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga del vostro SS. Costato, e del vostro Cuore amoroso, e per quel sangue e quell’acqua che dalla medesima versaste, vi prego a non permettere, che io passi all’ altra vita senza esser munito dei SS. Sacramenti da quella misticamente emanati, affinché esali lo spirito mio in quel Porto sicuro dì eterno riposo. Amen. Pater, Ave, Gloria.

Adoramus te, Christe et benedicimus tibi;

Quia per Sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Oremus.

Deus, qui Unigeniti Filii tui Domini nostri Jesu Christi Passione, et copiosa per sancta vulnera sui Sanguinis effusione humanam naturam peccato perditam reparasti, concede propitius, ut qui ejus Stigmata venerando colimus, haec in nostris cordibus impressa moribus et vita teneamus, Per eumdem Christum etc.

Signor mio Gesù Cristo, per la vostra SS. Vita , Passione, e Morte, per la crudelissima Coronazione di Spine, e per i sublimi meriti di Maria Vergine Addolorata vostra beatissima Madre, e di tutti i Santi, caldamente vi supplico ad esaltare sempre più la S. Romana Chiesa, ad unire in pace i Principi Cristiani, a distruggere l’Eresie, a conservare nella Grazia i Giusti , a convertire i peccatori e gli increduli, a liberare le anime purganti, e a concedermi il frutto delle Sante Indulgenze, affinché tutti cantiamo in eterno le vostre misericordie. Amen”. Pater, Ave, Gloria.

Domine, exaudi Orationem meam.

Et clamor meus ad te veniat.

Oremus.

Ecclesiae tuae, quæsumus, Domine, preces placatus admitte, ut destructis adversitatibus, et erroribus universis, secura tibi serviat libertate.

Deus omnium Fidelium Pastor et Rector, Famulum tuum Gregorium, quem Pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti, propitius respice; da Ei, quæsumus, verbo, et exemplo, quibus præest proficere, ut ad vitam una cum grege sibi credito perveniat sempiternam. Per Christum etc. (per l’adorazione alle Sante Piaghe, 10.000 mila anni di indulgenza)

[“Via del Paradiso” – terza ed. Siena; 1823 -impr.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (4)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(4)

La efficienza del sacramento

Pare logico occuparsi di questo: che il Sacramento raggiunga tutti i suoi capi, ossia che diventi realmente efficiente. Tutto quello che abbiamo detto fin qui serve alla efficienza del Sacramento, ma occorre una puntualizzazione più diretta e precisa. Infatti nel Sacramento della Penitenza esistono cause, effetti e loro rapporto: bisogna parlare dei penitenti e di quello che i confessori debbono promuovere nei penitenti.

1. – La causa prima dell’effetto del Sacramento è Dio nella Sua infinita bontà. A Lui non dobbiamo ricordare nulla. Ma esistono delle cause strumentali ed è di queste che ci dobbiamo occupare, perché non sono né incoscienti, né automatiche, e pertanto chiamano in causa coscienza, consapevolezza, diligenza, responsabilità. Causa seconda dell’effetto del Sacramento è il segno sacramentale, scelto da Dio ad essere mezzo della Sua superna larghezza. – Il segno sacramentale consta, come accade in tutti i Sacramenti, di materia e di forma. Materia prossima del Sacramento della Penitenza sono i ben noti atti del penitente. Si ritenga il principio generale che il confessore ha la responsabilità di curare che gli atti del penitente siano buoni. Non ci dilunghiamo su tutta la dottrina relativa alla accusa dei peccati ed alla integrità formale della accusa, perché tale dottrina è troppo nota ed ampiamente e dettagliatamente proposta negli accreditati testi di teologia morale. Basta il richiamo. Ecco quello che in merito ci occorre dire. Potranno mutare leggi positive della Chiesa, siccome sono mutate la legge e la obbligazione relative alla astinenza e al digiuno, ma non muta affatto la obbligazione della integrità, almeno formale, della accusa. Riteniamo sia necessario ribadire questo perché taluni andazzi liturgici, dei quali si parla, e dei quali non si può giustificare né la legittimità, né la ignoranza teologica, pare riducano l’accusa dei peccati a un semplice intermezzo tra coreografie appariscenti e certamente assai adatte a distogliere da un raccoglimento interiore. La Penitenza è e resta, per chiara volontà di Cristo, una scelta autoritativa ed efficace tra due estremi positivi e contrari, quindi un «atto di giudizio». Ora non esisterà mai la possibilità di un giudizio in materia penale dove non esiste la accusa. Sappiamo benissimo che quando l’atto di pentimento si estende a tutti i peccati ricordati, non ricordati e possibili, Dio nella Sua infinita bontà si accontenta della integrità semplicemente formale; ma questo non significa che sia infranto o trascurabile il dovere della stessa integrità. Anche perché, in sovrappiù, questa integrità permette al confessore di compiere i doveri di padre e di maestro.

2. – Tra gli atti del penitente il principale e insostituibile è l’atto di dolore, che, di natura sua, include il proponimento.

Cominciamo da precisazioni fondamentali.

Se l’atto di dolore è talmente importante che la sua assenza rende il Sacramento stesso invalido o per lo meno informe, non può essere soffocato da nessun’altra cosa, sia pure coreografica o comunitaria, e deve raccogliere attenzioni minuziose e coscienti. – Il confessore – giudice non deve giudicare solamente della colpa (se c’è o meno, se è piuttosto l’una che l’altra), ma – poiché la Penitenza è essenzialmente volta alla assoluzione – deve giudicare del «meritum causae», ossia se esista o meno la ragione per la quale possa onestamente assolvere. Questa ragione sono le «disposizioni del penitente» in quanto in qualche modo manifestate (il Sacramento esige il signum) e di queste disposizioni la principale è la penitenza interiore, il dolore vero e soprannaturale. Le conseguenze di questi principi teologici assolutamente certi diventano evidenti.

a) Il confessore non può sempre ed a priori «presumere» che il penitente abbia il dolore dei suoi peccati, anche se il suo presentarsi alla penitenza è già un segno.

b) Una presunzione dovrebbe essere sufficientemente fondata su dati, relativi alla persona, all’ambiente etc.

c) Di fatto, salvo il caso in cui ci sia stata una evidente manifestazione di dolore di tutti i peccati prima della confessione e questa sia appresa dal confessore, in via di massima è piuttosto teorico si dia sempre una presunzione legittima. Ed in via generale bisogna sconsigliarla.

d) Ne viene che ordinariamente il confessore deve formulare un giudizio se il penitente ha fatto o fa l’atto di dolore nella forma richiesta dalla serietà del Sacramento. Questo accertamento non deve diventare un supplizio per il confessore e per il penitente, d’accordo. Ma non può neppure essere preso alla leggera. Consigliamo a tutti di non presumere mai il pentimento adeguato, quando si tratta di anime «dette» pie ed abituate al metodico uso del Sacramento. Riteniamo che il fatto della abitudine di confessarsi costituisca nel numero maggiore dei casi una ragione contro la «presunzione» del dolore. “Ab assuetis non fit passio”. Gli abituati al confessionale sono più degli altri in pericolo di non porre molta attenzione al pentimento. Stiano attenti i confessori su questo punto allorché si tratta di scrupolosi e di anime ansiose: queste, impigliate nei loro scrupoli o nelle loro ansie, vi sono talmente concentrate che spesso — più di quel che si creda – non hanno alcun dolore e fanno confessioni invalide od informi. – È da esortarsi perché la attenzione impiegata per l’atto di dolore sia sempre attiva, cosciente, calda e mai frettolosa o meccanica. Per quanto riguarda, non Dio che perdona, ma il penitente, è l’atto di dolore quello che opera il distacco libero dall’affetto al peccato. La grazia di Dio eleva e convalida agli effetti soprannaturali il distacco dal peccato, ma, se questo non è anche nella chiara coscienza del peccatore, nulla ha da elevare e convalidare e il Sacramento non ha esito. – La confessione delle anime che vivono abitualmente in grazia di Dio e si confessano o solo sottoponendo peccati veniali o addirittura solo presentando peccati preteriti e già rimessi, va soggetta ad un pericolo particolare. L’avversione al peccato veniale non è in genere e psicologicamente così decisa come quella al peccato mortale; si aggiunga la coscienza di una vita sostanzialmente buona e perseverante e la mancanza del ribrezzo per uno stato di mortale e corrotta decadenza; è così facile temere che un sentimento superficiale, abitudinario e affatto insufficiente – sia pure senza alcuna coscienza attuale di commettere una deformità – possa prendere il posto dell’autentico e soprannaturale atto di dolore. – La serietà del penitente la si misura anzitutto dall’atto di dolore e la serietà del confessore dal grado attuale di coscienza che ha e mantiene in tutto questo. La efficienza della penitenza è legata profondamente all’atto di dolore. – La grandezza di efficienza che ha la penitenza interiore o atto di colore, anche se il signum sensibile richiede la sua manifestazione, porta a considerazioni gravi. – La prima è l’alta interiorità che irrora e intride tutto il Sacramento della Penitenza. Abbiamo già notato le differenze che corrono tra la prassi penitenziale e la psicanalisi; qui vale richiamarle, sottolineando che la interiorità del Sacramento della Penitenza non è essenzialmente insita in una sfera di sentimento — pur non escludendolo – , di istinto, di passione, di aggrovigliato subcosciente, ma è allo stesso livello degli atti liberi, intelligenti, nobili, coscienti. Non è la interiorità dei fondali dove si accumulano solo rifiuti ed incubi, ma è la interiorità di quella zona pura e illuminata, fatta per gli incontri forti e sereni con il Padre che sta nei Cieli. – La seconda considerazione è che la volontà sostenuta dalla grazia è il grande motore in questo atto decisorio con il quale l’uomo si stacca liberamente dal peccato, giudica e condanna se stesso lealmente e nobilmente, prima di essere assolto dal confessore. La volontà è il distintivo più efficiente della virile levatura ed un uomo non è mai tanto grande e tanto giusto come quando arriva, senza violenza e senza passione, per motivo ben più alto di se stesso, a condannare umilmente e veritieramente se stesso. Poiché l’atto di volontà con il quale si impone il distacco dal peccato include – a causa del proponimento – anche un aspetto relativo al futuro del quale decide, decreta, impone la linea luminosa, diventa atto di grandezza sovrana, in qualche senso profetica. – Su taluni tentativi che, non da noi, ma altrove si fanno per portare la confessione ad un atto coreografico e ben poco o per nulla interiore non si può che pronunciare la più netta, decisa ed aperta disapprovazione. Solo la ignoranza teologica può commettere certe distruzioni.

3. – La efficienza del sacramento è legata pure alla penitenza imposta in soddisfazione almeno parziale del peccato commesso e perdonato. Questo elemento, ove non fosse curato, diminuirebbe qualcosa nella grande e fondamentale «terapia» delle anime. La minor efficienza dell’opera penitenziale talvolta si concreta in due difetti: monotonia e inadeguazione. La monotonia consiste nell’avere un modulo unico di sole orazioni, distinto solo a proposito della quantità, e assunto per tutti o quasi tutti i casi. E frequente, anche se si deve ammettere che talvolta ha qualche scusante nella allergia dei penitenti agli atti penitenziali. Questa allergia può rivelare, se mai, ai pastori d’anime che tutta la catechesi e tutta la preparazione alla confessione va rinforzata, irrobustita, allargata e metodicizzata. E un sintomo che in se stesso scusa solo fino ad un certo punto. – La inadeguazione è la conseguenza logica della monotonia. Consiste nel fatto che non contiene elementi adatti ad ottenere in un determinato penitente l’effetto capace di riempire una lacuna o stimolare una reazione. In pratica bisogna accogliere il principio che per atti penitenziali non ci sono solo preghiere facilissime da far recitare, ma azioni da far compiere e queste di varietà ben maggiore. – Le «azioni», che non vanno affatto considerate come «unico» atto penitenziale, possono aiutare il penitente ad acquistare una più netta convinzione, una ripresa su se stesso, una indicazione abituale, un antidoto diretto. Si dipana una immensa casistica della quale i confessori zelanti e illuminati sanno tenere conto. Questo va detto specialmente per quelle pie persone, non troppo spiritualmente elevate, delle quali si è detto sopra, che corrono talvolta il pericolo di non fare un atto di dolore sufficiente. In esse la abitudinarietà che fa sbiadire il dolore, fa sbiadire anche più l’atto penitenziale con la sua efficienza. Spesse volte, per il confessore che pensa e fa sul serio, la scelta accurata e la imposizione di atti, anziché di facili e troppo comuni preghiere, costituiscono un grande mezzo per scuotere dalla indifferenza spirituale le anime cosiddette «buone» e diventano uno strumento di vittoria sulla imperseverante mediocrità.

4. – La efficienza del Sacramento della Penitenza è legata pure all’assolvimento del compito di padre e maestro, che il confessore ha oltre quello di giudice. Quando si dice «padre e maestro» non si intende dire che il confessore debba sempre compiere, oltre il giudizio assolutorio e la imposizione dell’atto penitenziale, molti altri atti e avventurarsi in lungaggini. Può benissimo in molti casi assolvere ogni dovere con un solo atto. Ma quello quanto più è breve, tanto più deve essere pensato, ponderato, preparato dal confessore mentre ascolta. E in questa funzione di padre e maestro che il confessore illumina, dipana idee imbrogliate, informa per riparare lacune di nozioni, mette il dito sulla piaga, rivela i lati deboli, fa conoscere il temperamento, indica rimedi, conforta, rasserena, consolida. – Non abbiamo enumerato tutto: il nostro elenco è solo un campione, ma è sufficiente per arrivare ad una conclusione importante: la confessione ben condotta secondo la interna logica della confessione diventa in genere un atto di direzione spirituale di per sé. E a questo punto che si capisce come il Sacramento della Penitenza contenga sempre in qualche misura la direzione spirituale delle anime e come ogni direzione spirituale, anche se non necessariamente, ordinariamente bene si collega per un intrinseco motivo al Sacramento della Penitenza, il foro interno sacramentale al foro interno extrasacramentale. – Di questo completamento dell’ordine sacramentale della Penitenza parleremo appresso. Infatti in genere la confessione, quando si intende al vero e completo bene delle anime, esige di essere integrata da una vera e propria direzione spirituale.

5. – La efficienza del Sacramento della Penitenza è legata pure in qualche modo ad una preparazione remota e prossima. È logico si parli prima di una preparazione remota; la quale impegna assai dal punto di vista pastorale. La prima e insostituibile preparazione remota è la catechesi, sia teorica che pratica, a proposito del Sacramento. La catechesi deve rendere a poco a poco familiari soprattutto i seguenti concetti: Dio, la Legge, la obbligazione morale, il peccato sia veniale che mortale, la redenzione, il Sacramento in tutti i suoi particolari, la virtù e la vita integralmente cristiana alla quale la Penitenza deve conferire. Tra i particolari del Sacramento occorre dare rilievo alla necessità del dolore e del proponimento, alla sua vera natura, alla integrità della accusa. Questa catechesi non basta assolutamente farla alla sola dottrina dei ragazzi o – dove ancora esiste – alla catechesi per gli adulti. Bisogna in una parte o nell’altra farla uscire fuori in tutte le circostanze possibili, nei fervorini (tanto cesso così vuoti ed inutili!), nelle ore di adorazione, in tutte le predicazioni a ciclo come le novene, nelle predicazioni degli esercizi al popolo, dei quaresimali, del mese di maggio etc. Questa catechesi teorica deve essere stimolata, sostenuta ed orientata in modo veemente da questo principio: la catechesi per la confessione è un vero breviario della fede, della morale e della ascetica. Si tratta di un’autentica costruzione della vita cristiana, fissa tutto lo spirito cristiano e tutto l’ordinamento dell’uomo a Dio. La catechesi pratica riguarda la procedura concreta, lo svolgimento, le ragioni di quello svolgimento, le formule, almeno nel loro generale significato, gli stessi atti esterni da compiere, e deve continuamente ammaestrare in modo semplice e vero sulla distinzione dei peccati quanto all’aspetto teologico e quanto all’aspetto morale. Questa catechesi pratica è tanto importante che il primo giudizio su di una popolazione il missionario lo formula quasi sempre dal modo e dalla precisione o meno con cui i fedeli si confessano. In tutto ciò nulla è piccolo, trascurabile o, peggio, risibile; tutto ha invece la sua profonda capacità di impressione pedagogica. La catechesi pratica deve essere inserita nella catechesi teorica, quasi a giusto e necessario complemento e può essere inserita nella preparazione prossima, di cui parliamo subito. – Fa parte della preparazione remota al Sacramento la preparazione dell’ambiente e del sito ove esso viene amministrato. Rimandiamo alle istruzioni date in proposito. Qui richiamiamo solo alcune norme:

a) il confessionale deve essere decente e munito di quanto occorre alla spirituale comodità del penitente;

b) è migliore il confessionale debitamente aerato che nasconda non solo il confessore, ma anche il penitente. Ciò è utile per i confessionali degli uomini: si faccia ben caso come la mancanza di separazione, a mezzo parati, o grata del sacerdote dal fedele, diminuisce la facilità di accesso, di sincerità, di libertà;

c) il confessionale deve essere situato ove non impone una ricerca, una esposizione, degli attraversamenti impegnativi. Con queste circostanze molti fedeli, soprattutto uomini, sono inibiti dal confessarsi;

d) possibilmente ci siano i mezzi segnaletici, che dispensano il penitente – soprattutto se ignorante o imbarazzato – dal fare ricerche di un confessore. Per tutti questi motivi ordinariamente consigliamo, nelle nuove chiese, di mettere i confessionali per gli uomini, ben protetti e chiusi, vicini alle porte di ingresso e non troppo esposti. La preparazione prossima, non solo è conveniente, ma è necessaria. – Essa riguarda anzitutto il penitente. Questi deve mettersi nella situazione di ricordare e di staccare in modo completo la sua anima dal peccato. È difficile pensare possa raggiungere questo scopo senza la preghiera previa, la quale, pertanto, deve essere inculcata. – Egli deve preparare il suo materiale di accusa diligentemente; infatti è da questa diligenza, né superficiale, né infirmata da eccessivi scrupoli, che egli potrà approfondire il ricordo dei suoi atti, in modo da offrire una informazione obiettiva ad una utile direzione spirituale. Per questa diligenza, con tutta probabilità, arriverà a conoscere se stesso e ad individuare le ragioni della immobilità nella via della perfezione. Il dolore dei peccati, anche se deve essere manifestato in confessione, è bene sia eccitato prima della medesima. – Siccome questo dolore è essenzialmente atto di volontà, ma può venire spinto o facilitato dall’affetto, è opportuno che, ad ottenerlo, sia mosso tutto un meccanismo psicologico. Di esso si avvale la serietà grande dell’atto di dolore. Questo meccanismo adiuvante richiede attenzione, raccoglimento, riflessione e tempo per la mozione degli affetti. Sopra abbiamo parlato del pericolo di confessioni nulle od informi al quale soggiacciono specialmente gli abitudinari della confessione. Per essi, la diligenza della preparazione prossima va aumentata, non diminuita. Questo per il pericolo troppo vicino di agire per abitudine, cioè meccanicamente. – Credo che il clero debba ritornare con insistenza su questo punto. – Bisogna diffondere l’uso di servirsi di appositi manuali o fogli, deve propagarsi la consuetudine di fare in comune l’esame di coscienza e l’esercizio per il dolore dei peccati, specialmente facile quando si tratta di bambini. E raccomandabilissimo che si affiggano ai confessionali piccoli direttori per la preparazione e che se ne lascino, inquadrati, degli esemplari sulle sedie o panche dove ordinariamente i penitenti attendono il loro turno. – Noi dobbiamo reagire vivacissimamente alla moda del nostro tempo che è quella di fare tutto correndo, senza profondità di riflessione e, il più possibile, con atti meccanici, in modo disattento e quasi divertito. – Il buon confessore fa anche lui la sua preparazione prossima: si segna, assume la stola, si raccoglie in breve preghiera, mettendosi con questa in assoluta chiarezza davanti al dovere che assolve e davanti all’anima della quale diventa giudice, padre e maestro. Senza questo raccoglimento previo facilissimamente e colpevolmente diventerà meccanico e distratto pure lui.

6. – Per completare le considerazioni sulla efficienza del Sacramento deIla Penitenza, occorre vederlo in un quadro complessivo. Esso è costituito da alcuni elementi che qui enumeriamo. – I due concetti di peccato e di redenzione o giustificazione debbono diventare abituali, profondi, famigliari ed in un certo senso polemici. Si tratta dei due concetti che fanno da sfondo al Sacramento della Penitenza, ne alimentano il bisogno, ne danno l’esatta e valida ragione. Come entrerà nella stima e nell’uso il Sacramento della Penitenza se si dissolve il senso e la condanna del peccato? Abbiamo usato la parola «polemica» e a ragione, perché, per tenere al giusto livello di visibilità e di importanza i concetti di peccato e di redenzione, bisogna prendere fieramente posizione contro l’andazzo del «mondo» il quale sta dissolvendo l’idea del peccato, illudendo, con mistificazione ingannevole e velenosa, che l’uomo non deve avere più preoccupazioni morali. I nostri rilievi in fatto di opinione circa la moralità ci segnalano una discesa ogni anno del livello al quale si colloca il margine dell’osceno. In questo campo si hanno le manifestazioni più vergognose e violente della tentata volatilizzazione del senso di peccato. Dissolto il peccato è dissolto il cristiano, è dissolto tutto l’ordine morale. E non perché il peccato costituisca l’ordine morale, ma perché la sua nozione come peccato lo afferma decisamente. – Attraverso tutta la istituzione ascetica deve crearsi nei fedeli il senso della penitenza, non solo come generosa dedizione a Dio, come rimedio contro la debolezza, ma come necessaria riparazione, anzi come elemento equilibratore della vita. Diciamo «equilibratore» perché gli scompensi creati dai peccati e dai difetti sono una realtà presente, più o meno, nella vita di tutti. E ovvio che il senso della penitenza nasce anche dalla giusta valutazione di se stessi, peccatori e imperfetti, sempre perfettibili. Questa realtà non la si conosce e non la si accetta senza una notevole umiltà. Sicché la penitenza si lega per natura sua alla umiltà e fa da sfondo a tutta la vita cristiana, giustifica un modo di pensare che ci è inoculato da tutta la rivelazione evangelica. – Il Sacramento della Penitenza fa parte di una metodologia cristiana. Ossia: non deve considerarsi il solo singolo Sacramento della Penitenza, ma la sua parabola nel tempo. Infatti, poiché detto Sacramento non è solo rimedio dei peccati passati, ma erogazione di forza contro i possibili futuri, richiede sia usato metodicamente. Chi vuol passare indenne tra le molte tentazioni deve avere il Sacramento della Penitenza come un abituale traguardo a scadenze fisse. Esso non è solo il rimedio alla caduta, ma è l’ordinario sussidio di chi deve combattere nel mondo la sua battaglia per poter serenamente e meritoriamente tornare a Dio Padre. In termini poveri: il Sacramento della Penitenza non è fatto straordinario; esso è invece elemento abituale del quale si arma la vita dei cristiani. – Il Sacramento della Penitenza, quando entra nella vita coscientemente, tiene alto ogni concetto di serietà, giustifica a seconda delle circostanze e delle vocazioni la pratica della austerità, modifica le leggerezze alle quali tenta abituarci la instancabile spinta della materia, sempre nel tentativo di degradare l’uomo e la sua convivenza.

La direzione spirituale

1. – L’argomento è completivo di quello della penitenza, perché lo stesso Sacramento ne contiene, come si è già detto, il nucleo e diventa esigitivo di una direzione spirituale. Questa può essere svuppata all’interno del S acramento e può essere sviluppata al di fuori di esso. Non per nulla esiste un foro interno sacramentale ed un foro interno extrasacramentale. La prima può svilupparsi con il senso del penitente al di là di quanto è necessario dire per la integrità della accusa. Infatti tanto più il confessore può orientare e decidere, in caso di dubbio, quanto più conosce. La seconda ha di natura sua bisogno di una informativa che deve andare oltre quanto è richiesto per la integrità formale nel Sacramento.

2. – La direzione spirituale guida praticamente verso la perfezione il singolo fedele. Diciamo «praticamente» perché la direzione spirituale fornisce certamente, ove occorra, dei principi generali e dà nozioni teoriche, ma, anche senza necessariamente enunciare tali principi, li applica al caso circostanziato e definito da particolari di fatto. Essa pertanto illumina su tutto quanto occorre, indica i mezzi del procresso spirituale, porta alla più dettagliata autoconoscenza, sprona all’esercizio della volontà, risolve i dubbi, snebbia lo spirito dai quanto inutili tormenti, fornisce la visione dall’esterno tanto difficile ad aversi dall’interno, prende quelle decisioni per le quali l’animo del fedele sarebbe tentennante ed incerto. Questi compiti della direzione spirituale rispondono ad altrettanti stati o carenze della vita interiore e basterebbe dir questo per dimostrare la necessità di una direzione spirituale.

3. – Quando si parla di necessità della direzione, si fa una affermazione da intendersi in senso relativo, almeno per quello che sta oltre il dovere del penitente nel Sacramento della Penitenza. – Tutti comprendono che non si tratta della stessa necessità che ha la Penitenza per chi ha peccato mortalmente. Tutti possono vedere che molti fedeli, i quali per ignoranza o per le circostanze in cui vivono non hanno altra direzione oltre quella propria del Sacramento, tuttavia vivono bene ed hanno anche un certo progresso spirituale. Bisogna ricordarsi che Dio supplisce con la Sua grazia molte carenze umane.- Ma, se la Chiesa ha il compito e la divina autorità di guidare le anime, affermare che la direzione spirituale è cosa al tutto superflua e non in qualche modo necessaria sarebbe come attribuire inutilità e irragionevoli pleonasmi all’opera di Dio. In altri termini: se «divinamente» esiste la «funzione», deve essercene l’uso. – Ma oltre questa fondamentale ragione teologica, si possono considerare altre ragioni che mostrano la necessità della direzione spirituale.

a) Vi è una zona, che non appartiene affatto alla psicanalisi, siccome già si è detto all’inizio di questa Nostra lettera, che ha bisogno di essere manifestata e che non può avere il suo dignitoso sfogo ottenendo la necessaria luce se non ordinariamente nel foro interno sacramentale ed extrasacramentale. Si pensi che quello che non può essere espulso diventa facilmente veleno o causa di dolorosi complessi.

b) La umana debolezza è sempre volta a velare se stessa. E difficile conoscersi senza l’ausilio di chi sta fuori di noi. La mancata conoscenza di sé sta all’origine, non solo di inganni e disillusioni interiori, ma ancora di tutti i difetti nella vita di relazione, ossia nei contatti e nella convivenza umani.

c) I dubbi e le incertezze attendono tutti a qualche traguardo. Le depressioni non meno. Le fantasie, i falsi ideali e i non meno falsi entusiasmi hanno spesso bisogno di un solvente o di un registratore esterno. Tutte queste ragioni si trovano ordinariamente coadunate, almeno come allucinazioni o tentazioni, nelle anime che vogliono salire per un cammino di perfezione.

d) La non reazione, la stanchezza, l’afflosciamento, la pigrizia tendono ad aumentare con il crescere delle forze abitudinarie e con il passare del tempo. E tuttavia agiscono in qualunque tempo. Qui la direzione spirituale agisce come stimolo, rialzo del tono, incitamento e continuato progresso. – In realtà molti sacerdoti non hanno più un direttore spirituale. È perché pensano di bastare a se stessi e di non aver bisogno d’altri. Sbagliano, perché resteranno quali sono e progressivamente prigionieri della loro unilaterale visione, inconsci del proprio temperamento, intiepiditi, forse persino atoni. – Alcuni non hanno direzione spirituale per pura pigrizia. Sbagliano essi perché resteranno privi di quella rugiada che in ogni età e perfino nei deserti riporta la freschezza della primavera. Essa ripaga naturalmente quanto il sacerdote ha donato a Dio. È assai difficile che una vocazione si schiuda senza direzione recale, che si abbia la spirituale resistenza a lottare, ad intraprendere il piano decisivo senza l’ausilio di un sacerdote che faccia per noi visibilmente la parte di Dio. L’esperienza dice che le Associazioni cattoliche fioriscono veramente quando vi fiorisce, compresa, invocata e corrisposta, la direzione spirituale. – Essa offre ai sacerdoti il migliore giardino della loro spirituale esperienza e dà loro di cogliere i frutti più maturi.

4. – L’esercizio della direzione spirituale comporta per i sacerdoti che danno questo grande servizio le stesse attitudini e le stesse diligenze che occorrono per confessare e delle quali abbiamo prima parlato. Ma le esigono maggiorate, infatti nella direzione spirituale il campo diviene più vasto, più largo vi è l’impiego della ascetica, più dettagliata la responsabilità. Pertanto riflettano i sacerdoti che, se grande e fondamentale è per loro il dovere di offrire la direzione spirituale a tutte le anime, più grande è l’impegno, più netta la serietà e profondità con la quale vi si debbono applicare. – Siano sempre pronti e serenamente disposti, incoraggino i timidi, ma si guardino dal ricercare penitenti, quasi potesse dar gioia l’esercizio di un potere. Si guardino i sacerdoti dall’offrirsi in esclusiva, dall’impedire che i penitenti liberamente vadano a chiedere l’aiuto di altri sacerdoti. Siano severissimi con se stessi nell’evitare che la direzione spirituale diventi un loro gusto, un mezzo per legare a sé, un istrumento per esercitare un potere su oggetti che non entrano nella sfera di loro competenza. Non presumano entrare in cose che non riguardano il bene dell’anima. Soprattutto si sorveglino, perché non accada loro di rendere i loro penitenti partecipi di tutti i loro difetti e di tutti i loro limiti, delle loro simpatie e delle loro antipatie, dei loro discutibili gusti e non meno discutibili originalità. – La cura delle anime va fatta con la mano degli Angeli, va immersa nell’orazione, deve restare servizio distaccato, sofferenza accettata, generosa rinuncia.

Conclusione

Cari sacerdoti! L’esercizio santo, assiduo, responsabile del Sacramento della Penitenza è il grande «regolatore» della vostra vita. Non abbiamo la «grande sorgente», perché quella è l’Eucarestia. Ma è regolatore. Per dirigere altri, bisogna saper governare se stessi; per illuminare altri, bisogna essere illuminati; per mostrare ad altri la giusta via, deve esserci la coerenza che viene dalla giustizia della propria via. Così non graverà sul confessore la vergogna di non avere e non fare quello che esige da altri. – La santa assiduità nella direzione delle anime finisce con l’impregnare di orrore per il peccato, di sete della perfezione. Arriva a far assorbire la mentalità della purezza e della penitenza. Aprendo il mondo delle anime, tiene lontano il mondo della carne e della umana superbia. L’ufficio di redimere mette in primo piano il continuo problema della propria redenzione. L’azione sacramentale, dove agisce soprattutto Iddio e dove si porta il proprio umile merito, finisce con l’ergersi ad allontanare dalla mente, in modo deciso ed austero, tutti gli orientamenti mentali poco ortodossi, più superficiali e leggeri. Il Sacramento della Penitenza fa diventare austeri con sé, sorridenti con gli altri, perché la visione delle miserie ne rinsalda la obiettiva condanna, mentre apre il cuore ad una paternità senza confini. – Non fate a meno di questo «regolatore» che Dio vi ha dato, intendendo Egli santificarvi con il vostro stesso ministero. Riportate il Sacramento e quanto gli è collegato a quel livello di primato nella formazione del popolo di Dio, al quale Egli stesso lo ha posto. Guardiamoci dalla colpa di far svanire qualcosa di quello che Cristo ha stabilito!

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GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (3)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(3)

La prudenza nell’esercizio della Penitenza

La prudenza è una virtù cardinale che compone nel modo debito la obiettiva riflessione e deliberazione con la motivata e serena decisione. È una sintesi e per questo è una virtù difficile, non eccessivamente usata e più facilmente svisata in precipitazione o irresolutezza. La prudenza nel Sacramento della Penitenza riguarda il contegno generale e riguarda il giudizio in particolare.

1. – Cominciamo dalla prudenza nel contegno in generale. Consta dei seguenti elementi.

– La netta coscienza della propria umana debolezza, della propria emotività, le brecce nella sfera affettiva, le reazioni comuni agli uomini comuni. Questa conoscenza porta ad una umile accettazione di uno stato di fatto ed a tutte le conseguenze. Per taluni entra utilmente la memoria a documentare la debolezza preferita. Quando si sa di esser debole, non si fa l’eroe. Oggi si sfornano teorie per distruggere questo buon senso; purtroppo tali teorie in uomini non molto provveduti distruggono il buon senso, ma non distruggono la realtà dei fatti e delle condizioni. Si dice che i pericoli li creiamo noi con le inibizioni morali e che pertanto basta annullare le inibizioni morali per annullare i pericoli. – La risposta a questa teoria è data dalle conseguenze della medesima: l’accresciuta immoralità, anticipazione di tutte le brutture, crescente inconsistenza della famiglia, degenerazione del tessuto sociale, dilagare della pazzia e della anormalità. Questo, senza tener conto dell’esame obiettivo della natura, al di fuori di quanto è spaventosamente cresciuta la infelicità degli uomini e, si direbbe, la stessa incapacità di godere, nonostante l’aumento generale e vorticoso del benessere. Qualcuno dice anche che il male non esiste, che, comunque agiamo, siamo tutti buoni. Difatti. Lo spettacolo del simile che mangia il proprio simile – per fermarci solo a quello – cresce a tutti i livelli e qualche volta si esibisce anche dove non dovrebbe. Non anestetizziamo il mondo con teorie stupide e ricordiamoci che un mondo anestetizzato è un mondo prossimo a morire. La debolezza c’è e con essa tutti dobbiamo fare i conti: non basta la pubblicità o la popolarità a coprire le sue insufficienze e le sue vergognose deformazioni.

– La netta coscienza delle debolezze degli altri. -Si conoscono a poco a poco e proprio per questa distribuzione della esperienza nel tempo la cautela deve essere aumentata. Il novellino abbia la umiltà di accettare questo, altrimenti sarà facile per lui cadere. Ora, il sesso, le anormalità ben diffuse, la sfera affettiva in cerca di appoggi, sono argomenti che spingono tutti i confessori a rivestire la autentica corazza. E difficile accorgersi subito come e quanto questi elementi si insinuino nella confessione. Pertanto è necessario sempre sospettarne la presenza, ammetterne la possibilità e contenersi con tutti i riguardi. Tale atteggiamento interiore ed esteriore può subire un certo rallentamento quando si è arrivati a conoscere a fondo di che stoffa è fatto il penitente. – Parliamo, anche in questo caso, solo di un «certo» rallentamento, perché anche se c’è posto nella vita per la onesta amicizia, questa non ha come sede delle sue effusioni un Sacramento in cui si agisce in nome e per deputazione divina. L’argomento dovremo riprenderlo in sede propria.

– La netta coscienza dei «limiti» nei quali agisce il Sacramento.

Il salotto, il pettegolezzo, la agenzia di informazione, gli sfoghi di sentimenti di rabbia, di invidia e di gelosia, le dolci conversazioni, il rilassamento della amabile compagnia etc. si trovano tutti fuori dei limiti del Sacramento. Il sacerdote, quando entra in confessionale, è e deve essere un altro uomo da quello che agisce fuori del confessionale. La stessa confidenza, finché indica semplice e pura apertura dell’anima in materia che riguarda il Sacramento o il dovere da esercitare nel Sacramento, potrà ammettersi; diversamente va esclusa. La delicatezza, la soavità senza smancerie, la dolcezza, la amabile pazienza, la educazione – tutte cose che stanno bene nel Sacramento – non debbono arrivare alla pericolosa confidenza. La osservanza delle regole canoniche per il locus aptus della confessione sia mantenuta; ha una profonda giustificazione umana e psicologica. Da venti anni andiamo insistendo con tutti che i confessionali degli uomini vanno assimilati in gran parte a quelli delle donne, almeno per quanto riguarda la distinzione e separazione della sede e l’uso di una certa grata. Sconsigliamo qualunque confessore dall’uso di carezze, abbracci, etc. Dirà taluno: «ma questo si legge di certi santi». Ecco la risposta: si faccia prima santo, comprovi veramente di esserlo con il dono dei miracoli e dopo ne discuteremo. Se noi pensiamo che certe ganghe, note nella storia grande e piccola, sono nate dai confessionali nei quali queste regole non si osservavano, troviamo pieno motivo di insistere con i nostri consigli.

La chiara coscienza dell’ufficio.

L’ufficio è quello del giudice e – dopo – del medico e del padre. L’ufficio del medico e del padre è in ordine al fine del Sacramento che è quello di togliere il peccato e di prevenire il peccato accrescendo la virtù. Non si tratta dunque di fare il medico a tutti gli effetti pensabili. Per questi, se saranno giustificati, ci sarà posto fuori del confessionale, a norma delle leggi canoniche. Il confessore non è un conversatore, un assistente sociale, un amicone. Deve confortare, certamente, ma sempre nella dignità e carità confacenti al Sacramento, mai nella forma, magari diluita, – che potrà essere onesta o disonesta a seconda dei casi – che appartiene ad una sfera di sentimento, al tutto impropria e sconveniente per il Sacramento. Il Sacramento della Penitenza è un contatto spirituale profondo: deve essere terribilmente difeso, anche per il rispetto verso le anime, dal pericolo di diventare un contatto meno che purissimamente spirituale e funzionale.

Il chiaro avveduto giudizio su tutte le colleganze possibili con il Sacramento della Penitenza. Le colleganze sono tutti gli incontri fuori confessionale, i discorsi spirituali a due, le direzioni spirituali. Sembrerebbe che quanto accade fuori del Sacramento sia pure fuori dell’oggetto di cui trattiamo. Non è così, perché esistono, tra il Sacramento e fuori, sia il rapporto di causa ed effetto, sia il rapporto circostanziale od occasionale, sia la identità delle persone che hanno agito nel Sacramento; e pertanto la prudenza, regina in questo, ha il diritto di continuare ad essere regina anche in quanto è a questo per qualunque titolo collegato. – Le chiacchiere prima e poi non sono mai necessarie, se non contenutissime e giustificate da educazione, conoscenza, ragioni di fatto emergenti e valevoli. Esse generalmente servono a far perdere al penitente la pietà e la devozione, che è pur conveniente se non addirittura necessaria, prima e dopo la amministrazione del Sacramento. – I discorsi spirituali a due possono essere santissime cose e possono essere preludio di pessime cose. La maggior parte di coloro che hanno perduto le penne nel loro ministero hanno cominciato con incontri di carattere spirituale e persino mistico. Accadde anche a Tertulliano. Per questo motivo i discorsi spirituali fuori del confessionale e collegati con quello vanno prudentissimamente razionati e cautelati. Il luogo dove si tengono è bene sia controllabile dagli altri; la diversità di sesso, o le particolari caratteristiche degli interlocutori sono da soppesarsi severamente agli effetti della cautela; ogni forma confidenziale va esclusa. Il sacerdote prudente, prima di concedere tali colloqui, ragioni, preghi e sia deciso quando occorre dire di no. –

La direzione spirituale è congeniale con il Sacramento della Penitenza.

Infatti lo stesso Sacramento, con la sua parte di giudizio e di illuminazione, contiene una direzione spirituale. È logico che questa in clima più disteso e più diffuso possa estendersi fuori del Sacramento. Anzi molte volte deve estendersi fuori di esso, perché è uno degli ausili più afferenti alla vera formazione delle anime. Qui ci è sufficiente ricordare che tutte le ragioni di prudenza vanno considerate a proposito della direzione spirituale, con la sola aggiunta che, essendo questa bene spesso necessaria, non può e non deve evitarsi, deve favorirsi e pertanto richiede maggiori sussidi spirituali e la massima serietà in chi la attua. Riparleremo a suo tempo dell’argomento.

– Netta coscienza del dovere del distacco del cuore, della modestia, della vigorosa e pronta rinuncia. Nessuno che non sia libero è in grado di guidare utilmente gli altri, solo le cose or ora enunciate danno la necessaria libertà.

La indipendenza di spirito necessaria al confessore

Nessuno penserà che qui parliamo della indipendenza contraria alla verità, alla legge, alla virtù. Si tratta di altro. Il penitente con le sue doti fisiche, intellettuali e morali, con la sua maggiore abilità può esercitare una influenza indebita sul confessore. Parliamo di influenza indebita, perché, finché si tratta, ad esempio, di dare edificazione, nulla potrebbe essere ritenuto indebito. È adunque da questa indebita influenza che si deve sottrarre il confessore ed è esclusivamente in questo senso che parliamo di indipendenza.

– Tutto ciò che è piacere umano deve essere cautamente ed anche energicamente respinto. Anche se il piacere non è in sé peccaminoso, ma a più forte ragione se fosse peccaminoso. Attenti che parliamo di piacere «umano» per indicare quello che parte dai sensi ed arriva ai sensi, dalla naturale sfera affettiva ed in quella agisce, dalla vana compiacenza ed in quella compie le sue evoluzioni. Un piacere puramente spirituale sul bene che si compie, sulla luce che irradia, sul mutamento di purificazione che viene operato, non potrebbe essere chiamato «piacere umano». Tuttavia certi sentimenti possono quasi incoscientemente mutarsi in piaceri d’altra natura.

– Con non minore rigidità deve respingersi dall’esercizio del Sacramento ogni umano interesse, nel senso che – nell’ambito di esso – nulla deve ammettersi che abbia per fine un interesse. Amministrare il Sacramento ad un certo modo, con particolare selezione di penitenti, con particolari cure e magari attrazioni per taluni di essi, in modo da cavarne un lucro, una possibilità di potere su vicende umane e magari politiche, un dominio di famiglie… sarebbe cosa al tutto dissona dalla santità e dalla indipendenza di un tale sacramento. Vi sono delle conseguenze del genere, che possono venire senza alcuna anche lontana intenzione da parte del confessore. In tal caso nulla gli si potrebbe imputare con giustizia, però bisognerebbe ricordargli che di tali effetti egli deve usare con infinita cautela (talvolta potrebbe esser nel caso di respingerli), sicché non ne venga direttamente od indirettamente danno al Sacramento, alla Religione, all’Ordine ecclesiastico. – Ci sono sacerdoti i quali, per essere i confidenti spirituali di taluni personaggi a loro devoti, possono avere la tentazione di influire su persone e su fatti, su affari e vicende, che non sono assolutamente di loro pertinenza. Non si lascino ingannare scendendo su un terreno che può non essere il loro, evitando ambizioni e vane compiacenze, ricordando che la grazia del loro stato è per guidare anime verso una maggiore purificazione e perfezione. Fa parte del loro obbligo rispondere a quesiti sulla moralità di affari, vicende, imprese; rispondano serenamente per quanto sanno e possono, ma sempre in ordine ad indicare la giusta via secondo Dio e mai in ordine a far essi l’uomo d’affari, l’uomo politico, il gestore d’un qualunque potere umano.

Il Sacramento della Penitenza non è un ponte per raggiungere la posizione o l’esercizio di un potere estraneo a quello del Sacramento.

La serietà del Sacramento domanda che non si faccia sfoggio di una competenza che non si ha. Nessun sacerdote presuma di dare consigli medici. Se ha conoscenze di medicina se ne serva, ove occorresse, per quanto può fare come sacerdote e soprattutto per formulare il ragionevole dubbio di inviare il penitente da un medico. Fosse lui stesso medico, sempre salve tutte le convenienze, il consiglio, è meglio lo dia fuori confessione. Nessuno si prenda responsabilità per le quali Cristo non ha istituito il sacramento della Penitenza. Vi sono tante altre faccende umane per le quali può prendere il prurito di trattare in confessione. Si resti estremamente cauti, perché quella non è per sé materia di confessione. Se una giusta causa, ad esempio di carità, ci fosse, pare consigliabile parlarne dopo aver assolto l’impegno del Sacramento. – La questione è delicatissima allorché si tratta della convenienza o meno di contrarre matrimonio. Finché la convenienza riguarda l’aspetto morale e religioso il confessore, dopo aver pensato a fondo e pregato, potrà cautamente arrivare a dare anche un consiglio risolutivo. Ma quando si è fuori dell’aspetto morale e religioso, il confessore eviti ogni responsabilità che non gli competa. Se fuori del Sacramento, per esperienza, competenza, argomenti ben noti potesse dire in materia qualcosa di più, vada estremamente cauto, perché non ne venga danno a quelli che intenderebbe beneficiare e non scenda un ombra sul suo ministero. Nel nostro, ormai lungo, ministero episcopale abbiamo conosciuto casi nei quali sarebbe stato meglio il sacerdote avesse parlato solo di quello cui era deputato, non oltre. – Nessuno presuma di guidare affari pubblici attraverso qualificati penitenti. Questa di guidare è una tentazione che può venire e non è detto che nessuno ci caschi. Ma, oltreché una grave presunzione ed equivalente responsabilità, costituirebbe una aberrazione nel Sacramento. Se si sa si risponda sul valore morale delle azioni; per il rimanente si rispetti la libertà di chi ha diritto a decidere. Insomma la indipendenza del Sacramento e del ministro stanno in questo: nel distacco del cuore da tutte le cose terrene, nella purezza per cui resta alieno da ogni profana contaminazione. – Non si può finire il discorso senza parlare anche della indipendenza dalla curiosità. Il pericolo di soggiacervi è quasi sempre immediato, sia per la materia, sia per la facilità con cui troppi penitenti indulgono ai particolari, alla prolissità, alla chiacchiera. Per la seconda volta rimandiamo la materia ai testi approvati sul modo e sui limiti della interrogazione al penitente. Chi indulge in confessione alla curiosità non sa mai dove e come può finire.

[Continua …]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (2)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(2)

La morale soggettiva ha allargato il campo delle sue esperienze

Delle azioni di un uomo due giudizi occorrono: quello oggettivo, ed è il confronto tra l’atto in se stesso e la Legge; quello soggettivo, ed è il confronto tra l’atto medesimo ed il modo o il limite con il quale era appresa la legge nel momento di offenderla obiettivamente. Questo indiscusso principio ammette la possibilità di un divario tra il giudizio morale oggettivo ed il giudizio morale soggettivo, tanto è vero che esiste un peccato meramente materiale ed un peccato formale. Il primo giudizio deve essere sempre completato dal secondo, ma non deve il secondo mai perderlo di vista, avendolo invece come base e criterio. – In altri termini: la situazione soggettiva in concreto (di uno che non sapeva o addirittura non capiva, od era comunque in stato di ignoranza o di disattenzione), può essere diversa da quella che deciderebbe la obiettività della Legge. – Su questo divario si possono inserire gravi abusi ed è necessario chiarire doverosamente la questione. Ecco taluni punti in proposito.

1. – Che una situazione soggettiva modifichi il giudizio dato secondo la legge obiettiva non lo si presume mai, se non ci sono ragioni per presumerlo od almeno per generare il dubbio. L’essenziale è sapere che cosa modifichi soggettivamente il valore oggettivo dell’atto. La risposta è semplice: modifica il valore oggettivo dell’atto tutto ciò che modifica sufficientemente il «volontario». E il «volontario» dipende dal grado di conoscenza intellettuale e dal grado di intervento della volontà. Sono esse le due radici della imputabilità e della responsabilità. Ciò significa che anche uno stato patologico influisce nella valutazione soggettiva dell’atto compiuto, tanto quanto influisce sul «volontario». Il confessore potrà constatare che esiste uno stato patologico, potrà averne soltanto il dubbio e formularne la ipotesi, ma il punto divisorio tra il suo ufficio e le competenze specifiche in fatto di patologia resta sempre e solo il volontario. – Nessuno nega che chiare ed organiche cognizioni di psicologia e di una prudente psicanalisi gli possano giovare, ma il suo ministero non è né quello dello psicologo, né quello dello psicanalista. Questo deve essere affermato con estrema chiarezza, per evitare delle situazioni ibride, quali sorgono allorché si vuole entrare in un campo dove non si ha specifica e vera competenza e dove, spesso, non hanno competenza sufficiente neppure quelli che se ne intendono sul serio. In altri termini, la morale soggettiva ha come confine il limite di coscienza, che è dato intellettuale. Al di là ci saranno cose interessanti e strane, ma che non entrano di per sé nelle valutazioni necessarie alla amministrazione del sacramento della Penitenza. Il dato soggettivo sta nel tener conto di quello che uno ha intellettualmente creduto ed ha voluto. Il rimanente è oggetto di un altro discorso.

2. — Non si può negare che la esperienza e lo studio moderni abbiano attirato l’attenzione su molti fatti interni all’uomo. Un tempo era difficile sentire parlare del «subcosciente»; oggi il subcosciente» è diventato addirittura un mondo. Dell’uomo sappiamo qualcosa di più. Ciò significa che potremo trovare relazioni tra i fatti, scoprire meglio loro cause o concause. E per ciò che al giudizio del confessore sul dato soggettivo, questo presenta oggi elementi più vari, maggiori e più profondi. Per tale motivo i l Concilio Vaticano II ha ripetutamente inculcato l’uso delle nozioni scientifiche circa la pedagogia e la psicologia, chiedendo un progressivo allargamento delle nozioni solite a darsi ai futuri sacerdoti. [In questo il Sommo Pontefice si è tenuto cauto, viste le circostanze, ma egli ben sapeva che la psicoanalisi moderna è solo una congeria gnostico-giudaica di natura luciferina, quindi di nessuna utilità per il “vero” sacerdote … tutt’altro! Ne riparlerà più avanti. -ndr. -] Una migliore conoscenza del «soggetto», portata da questa più ampia prospettiva, sarà certamente utile al confessore. Egli non capirà molte cose, se non avrà cercato di allargare il campo delle sue nozioni. Tuttavia l’oggetto proprio del ministero della Penitenza resta quello che è indicato sopra: la situazione determinata dal volontario. Se il campo soggettivo, utile a conoscersi, si è indubbiamente allargato, non ne viene che il ministero della Penitenza debba adottare una complicazione di procedura, che si converrà all’onesto psicanalista [anche qui “onesto” psicoanalista è una parila molto grossa! -ndr. -], non al confessore. L’allargamento delle nozioni è per capire» e per poter, con la maggiore comprensione, essere più utili al penitente. Né pedagogia, né psicologia, né psicanalisi hanno mutato l’animo umano. Tutt’al più registreranno meglio i suoi fatti superficiali e reconditi. L’esperienza e lo spirito soprannaturale restano per i confessori i primi necessari piloti della loro azione sacramentale.

3. – C’è un senso nel quale il giudizio sul valore morale soggettivo allarga affatto la sua esperienza. Pertanto è falso e va evitato. Ecco di che si tratta. C’è un modo di considerare il comportamento dell’uomo che ha le seguenti caratteristiche:

– è generico, e pertanto non realizza gli aspetti e i particolari definienti e determinanti;

– è collettivista, ossia considera le azioni dei singoli come attività della massa, con l’effetto di trasferire almeno parte della responsabilità dal singolo alla folla, che è come dire farla svanire. Questa caratteristica è il frutto di un modo sbagliato e forse non avvertito di parlare della socialità;

– è farcito di termini e di slogans alla moda; tali termini hanno il potere di sfrangiare talmente tutto, di coprirlo sotto un suono talmente gradito da allontanare tutti i confini tra il bene ed il male. In tali condizioni tutto passa e lo vediamo benissimo. – Ora tutti i confessori sono in pericolo di giudicare molte azioni del penitente nel modo falso sopra denunciato. Stiano attenti.

La finalità sacramentale della Penitenza non muta.

– Il sacramento della Penitenza deve attuarsi attraverso un giudizio. Il giudizio deve rifarsi ad un criterio. Per questo motivo ci siamo preoccupati di avvertire che il criterio, ossia la legge obiettiva, non cambiava e che l’aspetto soggettivo delle azioni umane, pur cangianti in se stesse, doveva farsi con principi che sono immutabili. Ma ora dobbiamo guardare al Sacramento ed agli effetti che come tale gli convengono.

Perché questi effetti non mutano?

Perché la loro esistenza è legata al dogma, alla dottrina cattolica certa ed immutabile. Infatti per ammettere una evoluzione del sacramento della Penitenza bisognerebbe ammettere la evoluzione del dogma. Ora il dogma si approfondisce e approfondendolo se ne aumenta la ricchezza, la efficacia, la applicazione, ma in sé non muta. La considerazione degli effetti del Sacramento come tale merita un discorso serio e porta a conclusioni assai impegnative.

1. – Materia prossima del sacramento della Penitenza sono gli atti del penitente. Ciò significa che, ove mancano gli atti sufficienti del penitente, non esiste il sacramento e che la mancanza di compitezza negli atti menzionati per lo meno mette a repentaglio la efficacia della confessione. Quindi il soggetto è estremamente attivo. Deve esserlo in modo sufficiente, pena il non raggiungere l’effetto del sacramento. Questo dà la retta indicazione sulla pedagogia e sulla procedura della confessione, come vedremo. – Il penitente dovrà accusare, per quanto sa, specie morale e teologica, il numero dei peccati mortali. Infatti senza cognizione non si può fare giudizio. La umiliazione che porta con sé la accusa dei propri peccati è lievissima espiazione, meritata, per il peccato commesso. Tutto ciò che reintegra nella giustizia, anche se è doloroso, non mortifica, ma completa la personalità umana. La quale senza questa reintegrazione di giustizia resterebbe sempre nella ipocrita situazione di chi è coperto, ma incompleto. La accusa deve essere completata dal pentimento o manifestato o tale che dalle circostanze possa essere supposto. Questo pentimento deve essere serio. Non occorre trascriviamo qui una pagina del catechismo. Questo pentimento serio, e pertanto completato dal proposito di non ricadere nel peccato, è il più importante, anzi essenziale concorso che il penitente dà alla effettuazione del Sacramento. Esso è l’atto che deve esigersi più di tutti gli altri ed alla cui verità tutto deve concorrere nella preparazione del sacramento, nella elaborazione delle disposizioni, nella cauta e ferma esigenza da parte del confessore. Dio con atto sovrano di Sua competenza distruggerà il peccato, dopo che l’uomo libero peccatore lo avrà rinnegato nelle forme debite. Non prima. – È chiara la conseguenza di metodo: la catechesi della Penitenza, la metodologia di una preparazione, debbono puntare soprattutto sulla verità dell’atto di dolore, ornato delle ben note caratteristiche. – Ora, la pedagogia di preparazione del penitente su questo punto è gravemente trascurata: non se ne parla quasi mai (ed è senza fallo una colpa), non si creano (salvo che nelle confessioni dei collegi e dei bambini) quasi mai le condizioni di stimolo, di istruzione, di avviamento per la preparazione agli atti della confessione; pochissimi mettono facilmente a disposizione gli strumenti che richiamano un tempo ed efficacemente alla preparazione seria. Non si va errati se si afferma che la maggioranza delle confessioni non sono preparate. La gravità della cosa sta nel fatto che il pericolo di non portare la sufficiente penitenza dell’animo nelle confessioni non preparate è veramente grande. Per la santa Messa almeno si preparano i paramenti, la materia del sacrificio, le candele; per la penitenza, in genere, si prepara e si insegna a preparare nulla. Ripetiamo: la mancanza della penitenza, ossia del dolore ornato di tutte le caratteristiche fissate dal catechismo, compromette tutto il sacramento della Penitenza. – È questo il punto delicato per cui il sacramento della Penitenza viene tenuto ben lontano dal puro formalismo, dalla mera e meccanica tradizione, dal semplice gesto esterno che soddisfa la opinione di chi vede. Se la pastorale non torna ad occuparsi fino in fondo della preparazione delle disposizioni del penitente, si cancella in parte la efficacia di un fondamentale sacramento. – Il luogo adatto è condizione preliminare; per questo i confessionali non si possono mettere dove la gente ciarla e si distrae. I sussidi per la preparazione, tabelle e libretti, devono essere considerati non meno necessari delle candele per celebrare la Messa. Una disciplina osservata nel luogo ove si attende e ci si prepara la si deve inculcare a tutti, cominciando dai bambini. Insomma il sacramento, che è un atto divino, è anche un atto compiuto da uomini (penitente e confessore), umano, e che impegna a fondo tutta la responsabilità e la dignità degli uomini. Anche i peccatori hanno una dignità, nonostante la colpa; quella dignità superstite che hanno la devono portare integra e con solennità al compimento dell’atto divino. Le azioni fatte per direttissima sembrano essere entrate nel margine morale della esperienza moderna. Ma questo è un errore, perché l’uomo impreparato ad un atto, il quale di per sé esige preparazione, è veramente e non nobilmente incompleto. Il che non vale solo per il sacramento della Penitenza.

2. – Il principale effetto del sacramento della Penitenza, ricevuto con tutte le condizioni richieste è la remissione del peccato. Consideriamo anzitutto questo: la stima del sacramento della Penitenza sarà sempre proporzionata al concetto severo che si ha del peccato. – L’orientamento di non parlare di peccato, di non allarmare ed allarmarsi, di non temerlo e vergognarsene è orientamento deleterio della vita cristiana. Non c’è amore del mondo che tenga, rispetto per i non credenti che valga, a questo proposito. Il peccato grave è la morte dell’anima e la conclusione, almeno per il momento, negativa della stessa ragione della propria esistenza. A che prò, in fin dei conti, un sacramento della Penitenza, se il peccato è una trascurabile cosa, è una organizzazione del complesso di inferiorità che distrugge la persona umana, che la dissolve in un mito pietoso e ridicolo, etc? – La valutazione del peccato e del sacramento della Penitenza sono perfettamente correlative: insieme stanno, insieme cadono. Né basta che la valutazione del peccato la si tiri fuori per i bambini, allo scopo di impaurirli e contenerli, in certi momenti in cui brandelli di pratica cristiana istillano o richiedono una certa stima dell’Inferno. No, o questa valutazione sta intellettualmente e coscienziosamente alla base della vita o prende le dimensioni della ipocrisia e la inconsistenza della semplice paura. Tutta la educazione impartita, tutto il contegno, tutti gli enunciati intellettuali debbono fedelmente concorrere alla perfetta valutazione del peccato. – Bisogna spiegarsi. Chi maneggia senza alcun ribrezzo certa stampa, senza dare chiaramente a vedere quale motivo di dovere lo spinge a maneggiarla, educa chiunque lo vede alla svalutazione del peccato. Chi apre incautamente il video, senza ragione e senza cautela, mostrandosi stranamente tranquillo davanti ad esibizioni che per molti temperamenti sensibili possono costituire occasione grave e prossima di peccato, ottiene lo stesso risultato ed è inutile che tuoni contro la ingiustizia o la immoralità. Chi copre con i facili slogans azioni ed orientamenti al tutto alieni in qualsivoglia comandamento di Dio aiuterà tutti coloro che cadono nel raggio della sua influenza a farsi una idea di minimizzazione della colpa e ad ammetterla con allegria comunitaria. – Chi rimane non solo impassibile di fronte a certe esibizioni, ma tenta quasi di sembrare galante semplicemente non crede più al peccato, almeno in modo sufficiente. – La valutazione del peccato ha taluni particolari che debbono colorare sempre la catechesi abituale. Per esempio: è verità certa ed indiscutibile che la persona macchiata dal peccato mortale è incapace di qualsiasi vero merito, retribuito soprannaturalmente nella eternità. Infatti il merito soprannaturale ha per base lo stato di grazia, che non coesiste con il peccato grave. Ciò significa che una volta in peccato mortale è inutile agli effetti della gloria eterna, tanto qanto per essa si è esteso od è durato lo stato di peccato. Potrà non essere inutile ad altri effetti di minore e diversa portata. – Ancora: la valutazione del peccato grave non si separa dal senso di incombente pericolo della dannazione eterna. Sappiamo bene che questa parola da taluni la si pronuncia sottovoce o la si sottace. Non credano per questo di abolire l’Inferno, dato che, mentre per andare in Paradiso bisogna assolutamente crederci, per andare all’Inferno non occorre in alcun modo crederci. – È facile e doveroso prevedere che con questa moda di «non far caso al peccato del mondo», magari per poter meglio gettare ponti con esso, il sacramento della Penitenza avrà zone e livelli di paurosa desuetudine. Nessuno si metta in grado di doverne rispondere a Dio. A forza di far mostra che il peccato non esiste, non macchia e non contamina, se ne distrugge la valutazione, con le conseguenze sopra esposte. – Il peccato non muta nelle sue condizioni essenziali, nella sua fisionomia ontologica, nelle sue conseguenze teologiche. Pertanto muta la principalità del sacramento della Penitenza nel mondo del peccato. E credere che quello in cui viviamo sia diventato mondo di angeli e di profeti è semplicemente una stupidità.

3. – Non muta la grazia sacramentale della Penitenza. Essa è obiettiva nella grazia attuale, erogata per causa sua durante e dopo il sacramento, per un certo tempo con uno scopo ben determinato. Eccolo: contenere la debolezza per cui si pecca, aumentare le capacità reattive alle pericolose attrazioni della colpa, irrobustire la perseveranza alla quale si è impegnati nell’atto di dolore, emesso nel sacramento stesso. Ciò significa che il sacramento della Penitenza, mentre restituisce la santità essenziale, aiuta a perseverare nel bene ed è uno dei più grandi rimedi con i quali si provvede alla propria debolezza. È difficile, in circostanze ordinarie, esista la continua fuga del peccato, almeno grave, senza la periodica immissione della grazia sacramentale della Penitenza. Chi crede di essere intangibile per i propri filosofemi, superbamente affermati, per la propria intoccabile dignità personale, è sull’orlo della caduta tutti i giorni e probabilmente cadrà nel modo più stolido e pacchiano. Ha bisogno del Sacramento. Qui non ci si dimentica affatto della grazia sacramentale della santa Comunione; ma resta vero che, per divina istituzione, i due sacramenti non si sostituiscono in modo da lasciare – per chi ha peccato – una libera alternativa. Essi si integrano. – Finché la debolezza degli uomini non cambierà, ci sarà bisogno della grazia sacramentale del sacramento della Penitenza. Cambierà forse la debolezza degli uomini? Credete? Perché stanno aumentando le suggestioni, tanto che sono l’astuto fondamento della politica di massa, i conformismi, la corruzione di tutti gli organismi umani? Il discorso sarebbe lungo, la risposta è una sola ed è ora di farsela risuonare alle orecchie, prima che sia troppo tardi: la debolezza aumenta, per lo meno nella proporzione con cui aumentano le apparecchiature che impressionano gli uomini oltre misura. – In conclusione: la clientela bisognosa della Penitenza non è diminuita, è spaventosamente aumentata. Abbiamo detto e ripetiamo: «spaventosamente».

4. – Il rito sacramentale è finora immutato.

Infatti il rituale è tradotto in volgare, ma non ha ancora subito una vera riforma. Il rituale costituisce una Legge che obbliga in coscienza e che nessuno può a suo arbitrio alterare. Il Concilio Vaticano [il conciliabolo, il falso concilio c. d. Vaticano II, scomunicato con largo anticipo dalla bolla Exsecrabilis di Pio II, e che come tale non possedeva alcuna autorità ed i cui documenti sono da rigettare in blocco cme abominio della desolazione, cosa che Gregorio XVII sapeva molto bene da profondo teologo e canonista quale egli era, e che lascia sottoindendere a chi ha occhi per vedere ed orecchie per ascoltare ndr. – ] nella Costituzione Liturgica, ha disposto una «recognitio», ossia un ritocco ed eventualmente una riforma dei libri liturgici, ma non ha dato a nessuno l’autorità di innovare. La «recognitio» è affidata ad un Consilium, che trae il suo potere dalla suprema Autorità pontificia [quella vera, che allora come oggi è esautorata ed in esiliondr. – ]. Ci sono poi elementi che una qualunque «recognitio» non potrà mai toccare, perché non sono soltanto elementi rituali, passibili di mutazione, sono invece richiesti dalla sostanza teologica del Sacramento della Penitenza, così come lo ha concepito Cristo e il Magistero della Chiesa ha finora insegnato [fino cioè al 1958, finché c’è stato in successore di Pietro liberamente operantendr. – ]. I due campi: quello liturgico e quello – più grave – teologico sono chiusi alle libere iniziative dei privati e dei Vescovi stessi, le cui conferenze dovrebbero, in ogni caso, avere il benestare della Sede Apostolica [quella vera, naturalmente – ndr. – ]. Quello teologico e sostanziale è chiuso alla innovazione di chicchessia nella Chiesa, la quale non può mutare la dottrina certa e acquisita [questa è una chiara allusione ed un avvertimento per far comprendere da quali mani fosse gestita l’«apparente» chiesa dell’apostasia vaticanandr. – ]. Non ci consta che qui da noi ci siano stati abusi o innovazioni risolubili nell’esercizio del Sacramento della Penitenza. Da noi però si è parlato assai di innovazioni indotte o tollerate altrove e, se abbiamo scritto, ciò è anche perché i cattivi esempi non attecchiscano là ove Noi abbiamo responsabilità davanti a Dio. – Eleviamo la nostra accorata protesta contro tutti gli abusi che sono stati fatti: eleviamo tale protesta perché è nostro il diritto di difendere dai cattivi esempi i nostri figli. I sacerdoti si sappiano regolare secondo quello che abbiamo qui esplicitamente richiamato. – Non siamo disposti a tollerare abusi, qualunque sia il luogo da cui si importano. Sia ben chiaro che certi tentativi illegittimi di innovazioni sono solo la testimonianza di una inquietudine, di una deficienza di criterio teologico e forse di ignoranza, da ispirare vera e profonda pietà. – Il mondo attende da noi un ancoraggio, non delle avventure.

La soprannaturalità deve dominare la amministrazione del Sacramento

Cerchiamo di fissare gli elementi concreti, con i quali si attua questa soprannaturalità.

– Lo spirito di Fede.

Nell’amministrare il Sacramento della Penitenza lo spirito di Fede, per intervento positivo e virtuoso della volontà, obbliga a vedere, con la chiarezza della luce di Dio, alcune cose. Eccole:

– La dignità dell’anima del penitente, chiunque egli sia, dato che per redimerla Cristo è morto in Croce:

– l’avverarsi, a proposito della stessa anima, in quel momento di tutto il mistero della Redenzione;

– la enormità della macchia dalla quale Dio in quel momento libera; anche quando si tratta di colpe veniali, valutandole nella eterna luce della grandezza di Dio, appare chiara la infinita misericordia;

– l’avvenire glorioso dell’anima, che viene ristabilito;

– la debolezza alla quale la grazia sacramentale provvede;

– il passo compiuto verso il compimento del numero degli eletti.

Certo, perché questa visione soprannaturale si componga nell’anima del confessore, siccome richiede il rispetto al Sacramento, occorre che egli faccia «sempre», prima di ascoltare qualunque penitente, uno sforzo di raccoglimento, magari per un solo attimo, e veda l’immenso sfondo sul quale egli in quel momento agisce. Riteniamo che il proponimento di un attimo di raccoglimento faccia parte del dovere sacerdotale e che solo il rispetto a quel proposito lo possa portare al livello, al quale sta un Sacramento. – L’effetto certo sta nella devozione, ossia nella pietà profonda, con cui agisce nel Sacramento.

2. – Combattere la «abitudine», che può prevalere nella amministrazione del Sacramento. Spesso i penitenti sono numerosi e si succedono. Spesso i casi si succedono ripetendosi con monotonia. Raramente salta fuori un complesso spirituale che sveglia l’attenzione, acuisce l’interesse. Tutto questo, unito alla immobilità, al dispendio fisico, ad altre circostanze di fatto o di ambiente, conduce ad una sorta di ripetizione meccanica. Questa lascia intatto il Sacramento in sé e nel suo effetto, tuttavia non si potrebbe dire che il confessore abbia assolto bene e reverentemente il suo compito. Egli deve reagire alla meccanicità con tutte le forze dell’anima sua, aiutandole con una preparazione di preghiera e con il ricorso brevissimo alla stessa preghiera, allorché avverte l’infiacchimento psicologico, che tende a pervaderlo. Solo con queste pie avvertenze egli circonda di ambiente soprannaturale il Sacramento che amministra. Questi piccoli consigli sono «determinanti» per avere una degna amministrazione della Penitenza.

3. — Non confondere il Sacramento con qualcosa di profano.

Non si può ammettere l’esercizio della curiosità. Questa è facile, perché si è nel momento in cui un’anima apre se stessa. Essa è generalmente disposta o rassegnata a lasciarsi «leggere». Questo rende facile la soddisfazione della curiosità. Ma tale soddisfazione nulla ha a che vedere con il Sacramento, perché in esso si rappresenta tutto di Dio e nulla di noi stessi ed il servirsene per uso proprio, per lo meno, prepara una possibile profanazione. Per lo stesso motivo non è ammissibile la divagazione della chiacchiera. La chiacchiera, ammesso che sia onesta, non trova assolutamente il suo collocamento nella Penitenza, deve andare altrove. Resta inteso che quanto è necessario alla integrità della accusa ed all’espletamento del multiplo dovere del confessore non è mai chiacchiera. Questa spesso è desiderata da taluni penitenti e da tutto un settore di penitenti, facilmente individuabile. Ma si deve risolutamente resistere, anche se la resistenza può esser fatta – finché hanno effetto — con modi contenuti, sereni e dolci. La chiacchiera ha la capacità di insinuarsi come l’aria e tutto può esser buona scusa per non ostacolarla: conoscenza, direzione, stanchezza, un po’ di varietà in tanta monotonia. Attenti, quanto entra la chiacchiera, altrettanto se ne va quella soprannaturalità, che dipende dal contegno dei due attori, penitente e confessore. – Il discorso della chiacchiera che sfiora o insozza la sfera dei sentimenti verrà appresso. Il senso soprannaturale del Sacramento esclude nel confessore una certa anche confusa mentalità psicanalista. Cerchiamo di mettere le cose in chiaro. Molti ingenuamente e per fare qualche elogio al Sacramento della Penitenza lo avvicinano alla psicanalisi; qualcuno anzi asserisce che la psicanalisi è una profana imitazione della confessione. La differenza tra i due istituti è netta, totale, enorme. Ed ecco il perché. Anzitutto la psicanalisi ha un presupposto ideologico che non può accordarsi né con la natura obiettiva delle cose, né con la dottrina cristiana. Anche se quel presupposto ideologico è piuttosto tramontato, continua però a sostenere tutta la travatura della pratica psicanalitica e facilmente la contamina. In secondo luogo esiste una linea precisa di demarcazione: la confessione comincia dal «cosciente» in su; la psicanalisi comincia dal «subcosciente in giù». Quindi, anche per chi non credesse al Sacramento, sono due «livelli» al tutto diversi. Spieghiamoci. La confessione considera solo il peccato e questo comincia solo da un atto cosciente e libero. Quanto si è svolto prima o al disotto della attuale coscienza responsabile non interessa direttamente la confessione. – La psicanalisi pesca in tutte le costruzioni fatte al disotto del livello di coscienza e, se anche qualche volta lo psicanalista ascolta il racconto di un fatto libero, non è quello che lo interessa, per definizione. – La psicanalisi sguazza in tutto quello che è istinto, reminiscenza, fantasia e sentimento; ama i fondali dove la umanità conserva ed accumula tutte le testimonianze della sua miseria. La confessione tratta il peccatore in quanto ha mancato per un atto interno di consenso spirituale e non rimescola quanto può umiliarlo. – E qui c’è un punto importante a considerarsi: la persona sottoposta a psicanalisi uscirà dalla seduta sapendo di aver rivelato vergogne, che forse non sono neppur sue perché fluiscono da una registrazione subcosciente di sensazioni dall’esterno; il penitente che esce dal confessionale ha rivelato il peccato, non la deformazione costituzionale, alza la testa e si sa redento. – Nella confessione la persona è rispettata e non solo per il sigillo del segreto, ma per una valutazione teologica; nella psicanalisi il soggetto si trova ravvolto dal manto innominabile delle anomalie patologiche e indicibili. [In pratica la falsa scienza psicoanalitica, che non ha nessuna caratteristica di scienza sperimentale, non essendo dimostrabile in nessun modo, tanto meno con i risultati clinici, è piuttosto “ideologia gnostica”, nella quale la “scintilla divina”, cioè l’essenza divina ingabbiata nella materia “corpo”, e che secondo la gnosi è parte stessa di Dio, sua emanazione, non è corruttibile, per cui i conflitti si instaurano sulla componente “anima”, che viene lasciata ed incitata ad estrinsecarsi libertinamente, soprattutto attraverso il peccato, che per tale ignominiosa pratica, è metodo terapeutico liberatorio da nevrosi, psicosi ed altre psicopatie … una vera idiozia di origine luciferina, in assoluto e diametrale contrasto con la teologia cattolica, quindi da respingersi in toto e sotto ogni aspetto, come ci suggerisce opportunamente il Sommo Pontefice Gregorio XVII! – ndr. – ] I confessori chiariscano bene le loro idee e non indulgano mai alla tentazione di fare un po’ di psicanalisi, quasi che questo aggiungesse un prezzo umano ad un deficiente valore divino. Netta separazione: si tratta infatti di assurde e imperdonabili contaminazioni. La vera cura contro tali contaminazioni consiste in una chiara coscienza dell’argomento e in un solido rispetto a tutte le regole, ben strette, che la tradizionale teologia morale ha dettato e circa i limiti di accusa del penitente e circa i limiti di interrogazione da parte del confessore. – La psicanalisi ha già infettato teste, pratiche, costumi, letteratura, politica, ogni mezzo di comunicazione sociale: sta a noi impedire che infetti il sacramento della Penitenza. La preoccupazione non è fuor di luogo perché taluni moralisti, che sono senza alcun dubbio fuori di ogni consenso teologico, le hanno aperte le porte. – I sacerdoti della nostra Diocesi [e del mondo intero -ndr. -] sono avvertiti. Noi non neghiamo affatto che la terapia psicanalista possa dare dei risultati. No. Ma parliamo di terapia, non di filosofia. Quello che importa è che il possibile onesto nella psicanalisi venga lasciato ai medici specialisti e che i preti non pretendano sostituirsi a detti medici, tanto più contaminando un Sacramento.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (1)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(1)

Lo scopo di questa lettera

Il sacramento della Penitenza è il primo tipico strumento per la remissione dei peccati, nonché il massimo mezzo per la profonda formazione cristiana dei fedeli, come singoli. Il nostro scopo non è quello di ripetere qui quanto può essere facilmente letto in qualunque testo approvato di Teologia morale. Per questo sarebbe sufficiente pubblicare una nota bibliografica con la raccomandazione di servirsene.Il nostro scopo è solo quello di illustrare la proposizione espressa in apertura di questa lettera e di concorrere, per quanto ci è possibile, a crearne nei nostri Sacerdoti il convincimento serio e operante. Riteniamo che, per conseguire questo scopo, si debbano trattare diverse questioni.

Perché la Penitenza è il primo tipico strumento per la remissione dei peccati personali?

Perché, nella ipotesi esistano peccati personali, la penitenza è necessaria, ossia senza di essa in re od almeno in voto non si dà perdono dei peccati. Ciò pone, nel caso esistano peccati mortali personali, una alternativa netta ed impreteribile: o penitenza, almeno in voto, o dannazione. Gli altri mezzi per ottenere il perdono dei peccati senza la attuale amministrazione della Penitenza sono validi e raggiungono l’effetto in quanto contengono in qualche modo il «voto» e pertanto il riferimento al sacramento stesso della Penitenza. La affermazione – estremamente grave – non è una sottigliezza teologica, è un dato fondamentale ed elementare del semplice catechismo. – Per vedere chiaramente la gravità della affermazione, bisogna aver precise e stagliate due verità altrettanto elementari. Il peccato è la più vergognosa e terribile macchia che possa incogliere l’uomo, perché la legge divina – contro cui si lancia il peccato – è condizione impreteribile di salvezza eterna. Legge e peccato sono termini collegati: per dimenticare l’uno bisogna dimenticare anche l’altro. La incarnazione del Verbo ha una sua ragione fondamentale nella redenzione dal peccato; Gesù è l’Agnello che toglie i peccati dal mondo.Il sacramento della Penitenza, collocato nella cornice di queste due verità, assume la sua grandiosità imponente. Se il nostro ministero non compie quello che occorre per togliere i peccati dal mondo, resta un ministero sostanzialmente sterile. Il sacramento della penitenza è la riduzione sacramentale della vicenda espiatrice del Verbo fatto uomo.

Perché la Penitenza è il massimo mezzo per la formazione dei fedeli come singoli?

Perché il confessore, che è nella Penitenza padre e dottore, deve compiere le funzioni di medico dell’anima ed in tale veste deve rendersi conto delle radici dei peccati, deve prescrivere rimedi congrui, deve dare consigli salutari, deve pensare ad evitare le ricadute. Tutto questo fa nel segreto del sigillo, per il quale più facilmente le anime si aprono, nella intimità discreta della cognizione, la quale dispone con singolare naturalezza il penitente alla umiltà, nella dignità di un sacramento del quale non si evita il soprannaturale prestigio. Ossia: nella Penitenza il confessore agisce in maniera diretta sulla vita interiore, vi ha una ineguagliabile capacità incisiva, si impone con giustificata autorità, quanto compie è accompagnato da una divina grazia che supera ogni altra umana efficienza. Nella Penitenza il confessore, ben conscio del suo ministero, illumina, corrobora, orienta, rassicura. Ciò dimostra la capacità educativa dello strumento sacramentale. Nessuno in questo mondo entra nell’anima altrui con la nobiltà, intimità ed efficacia, offerto dalla Penitenza. La psicanalisi entra nella situazione psicologica di fatto, che è un’altra cosa, perché l’anima di un uomo non è da confondersi con la sua fantasia, con i l suo istinto e con il suo subcosciente. Alle spalle della psicanalisi non ci sta un ordine ed una efficacia di ordine divino.

Perché preoccuparsi dello scopo specifico della Penitenza?

Perché si tratta di uno scopo essenziale della nostra Fede. Dove si arriva, infine, se non si tolgono i peccati dal mondo? Poiché nasciamo peccatori, liberi ed immaturi, abbiamo bisogno di una educazione. Poiché la nostra fisionomia interiore e la indefinita varietà degli atti personali che ci seguono portano ad una non minore varietà di situazioni personali, il più delle volte indecifrabili dall’esterno, non è affatto sufficiente ed adeguata una educazione esteriore e di massa. Occorre che il tocco educativo attinga le singole anime. Finalmente a nessuno può sfuggire che l’avvenire del popolo di Dio, formato di fedeli singoli, è intimamente legato alla esistenza di una educazione cristiana, specifica e pertinente. – Questo è necessario capire: che nessuno strumento per quanto ingegnoso, per quanto tecnicamente perfetto, ha nel sacro ministero la potenza penetrativa, la capacità forgiatrice del sacramento della Penitenza. – C’è tuttavia un motivo che dimostra la urgenza di occuparsi dell’argomento. La tecnica ministeriale, che deve pur essere considerata con fiducioso rispetto, tende per un complesso di fatti (che non possiamo esaminare qui) ad invadere e dominare il campo dell’apostolato sacerdotale. I mezzi sacramentali vengono ricercati meno, spesso troppo poco. Un certo umanesimo, di sapore del tutto pelagiano, nel campo intellettuale tende a mettere in primo piano risorse, anche oneste in sé (come la tecnica psicologica, età), ma che in molti servono a distogliere dalla stima per i superiori mezzi: origine divina, quali sono il Sacrificio e i sacramenti. Il naturalismo acquista ogni giorno espressioni scaltre, che paiono accreditarlo non meno del soprannaturale, specialmente se presentato come un ragionevole compromesso per incontrare il mondo, mentre l’incontro con il mondo deve essere fatto nell’ambito segnato dall’Evangelo applicato dai santi Apostoli. Il demonio gioca la tattica di far sostituire ai mezzi dell’Evangelo i sotterfugi di una vacua razionalità mondana. E talvolta ci riesce. Non esitiamo affatto a giudicare tutto questo preoccupante e spaventoso. Ed è per questo che questa Nostra lettera è un grido di allarme. Avevamo cominciato a stenderla or sono diciannove anni allora ci preoccupavamo di richiamare la perfetta e santa amministrazione del sacramento della Penitenza. Quella lettera non fu allora compiuta perché attendevamo l’esito di talune avventure intellettuali. Gli anni sono passati ed oggi a farci ritornare sull’argomento non è solo la preoccupazione della santa amministrazione del Sacramento, bensì il dovere di ridare al Sacramento il prestigio e la preminenza, perdute purtroppo nell’anima di taluni ministri di Dio. Il confronto tra la lettera mai pubblicata e la lettera presente è testimone che talune cose si sono volte al peggio e non al meglio. Contro questa diminuzione di un prestigio della Penitenza si levano alcuni fatti o difetti, che avremo occasione di esaminare appresso. Si leva soprattutto la fame e la sete, che del Sacramento e della direzione spirituale (così legata al Sacramento) prova un numero infinito di anime, pur senza saperlo. Non si dimentichi che il sacramento della Penitenza è la porta più ordinaria al sacramento della Eucaristia, cibo e vita delle anime, ed allora si capirà quanto sia vera la equazione: la formazione profonda dei cristiani è pari alla frequenza ed alla santità con le quali si amministra il sacramento della Penitenza! – C’è un’ultima generale ragione per preoccuparsi assai dello scopo specifico del sacramento della Penitenza. Essa è la necessità della educazione individuale delle anime. Cioè: per educazione non basta affatto quella cosiddetta comunitaria, semplicemente ecclesiale, collettiva, di massa, perché le anime si formano ad una ad una. Nessuno vuol negare che la educazione collettiva sia complementare e qualche volta suppletiva della educazione individuale; si afferma solo che generalmente non è sufficiente. – Sta il fatto che la opinione di comodo scivola verso la convinzione di occuparsi della educazione collettiva, abbandonando la educazione individuale come colpevole di opprimere la libertà della persona umana. E proprio la persona umana, che in ogni caso è ontologicamente persona e in moltissimi casi non è affatto «moralmente» persona, ad invocare l’intervento della formazione individuale. – Ora nella testa di coloro i quali credono alla educazione esclusivamente comunitaria, disprezzando la educazione individuale, entra altrettanto la convinzione che in fin dei conti la Penitenza è solo per rimettere i peccati, una sorta di lavatrice automatica. Noi dobbiamo reagire con tutta la forza contro una simile erratissima concezione che non ha nessuna verità ed un solo pregio: quello di essere molto, ma vergognosamente, comoda. Ecco le principali ragioni per le quali le anime, finché è possibile, vanno formate una per una. Si ammette che è difficile ottenere questo, ma Dio non ci imputerà ciò che diventasse praticamente impossibile, per il numero dei fedeli, per la insufficienza delle forze, per la riottosità delle stesse anime a lasciarsi guidare verso Dio. Mentre dovremo rendere conto di tutto quello che potevamo fare. Le anime sono dissimili. Riesce difficile sostenere che le anime siano o possano essere ontologicamente dissimili. Però, poiché entrano per la unione sostanziale in un composto umano che porta con sé tracce di tutte le generazioni preterite e queste tracce compone e scompone in svariatissimi modi, senza tener conto della intrusione di molti dati di fatto, le anime sono praticamente dissimili tra di loro. A noi poco importa che la ragione della dissomiglianza sia una piuttosto che l’altra; basta il fatto che la dissomiglianza c’è. – La dissomiglianza mette fuori gioco la efficacia di molti mezzi, altri riduce, altri altera. La azione educativa per questo motivo deve partire non solo da una base di principio teorico ed astratto, ma dalla conoscenza del singolo caso in concreto. Spesso accade che lo stesso metodo rende un educando amico ed un altro educando nemico e tanto basta a far capire che i metodi educativi non si possono applicare sempre e dovunque indiscriminatamente. – Le esperienze interiori – oltre che esteriori – delle anime sono dissimili. Queste esperienze infatti dipendono da ambienti, da contatti, da persone, dal grado di doti di relazione, dalle reazioni esterne e finalmente dalla stessa recettività o reattività del singolo. Anime simili possono avere esperienze non solo dissimili, mai addirittura opposte. Tutto ciò porta l’impegno educativo sempre alla considerazione e all’impegno individuale. Affinità ed analogie non mancano, si danno accostamenti che possono permettere anche qualche classificazione, ma con tutto questo non si arriva a poter abitualmente provvedere alla educazione spirituale in una formai semplicemente collettiva. Tanto quanto questa verità entrerà nella convinzione dei nostri confratelli, altrettanto aumenterà la giusta stima del sacramento della Penitenza. – Si potrebbe aggiungere che infinite compressioni di anime trovano uno sfogo giusto solo nell’ombra discreta del sacramento della Penitenza. Pensiamo che i dolori e le solitudini angustiose degli altri debbano avere il loro peso nel farci giudicare con saggezza in merito alla presente questione. Il fatto che lentamente si stia facendo una diversione falsa e dalle incalcolabili conseguenze, – dalla educazione anzitutto individuale alla educazione anzitutto od esclusivamente collettiva, dalla educazione che si adatta alla indefinita ricchezza e varietà delle anime a quella ispirata semplicemente al tipo standard, moda, folla… – deve attirare la nostra attenzione. Esso, soprattutto se entra inavvertitamente (come accade nella maggior parte dei fenomeni), ci fa mettere da parte il sacramento della Penitenza quale lo ha concepito e configurato Gesù Cristo. Infatti da qualche parte – non qui – qualcuno si è provato a dispensare dalla accusa individuale, dando larghe e gratuite assoluzioni generali alla massa. Forse qualcuno ha fatto a meno persino di quella.

La regola morale ed oggettiva divina non cambia

Il sacramento della Penitenza viene amministrato in forma di giudizio, per il fatto che si opera una scelta tra due estremi e questa scelta non è arbitraria, ma guidata dal merito delle cose tra cui si sceglie. I due estremi tra cui si sceglie sono: rimettere o ritenere il peccato. Quale il criterio per scegliere? Gli atti e le disposizioni del penitente. Le disposizioni del penitente in che consistono? Nel pieno rinnegamento del peccato. Allora, presuppongo che qualcosa sia peccato, qualcosa no. Che cosa decide tra i due casi? La Legge, ossia la regola morale obiettiva congiuntamente con la situazione soggettiva. – Comunque tutto comincia a dipendere dal fatto che vi è una regola o legge morale oggettiva, e cioè indipendente da noi, superiore a noi, anche ammettendo la esistenza di leggi positive variabili. Ecco perché in tema di confessione sarebbe inutile continuare ogni discorso ed ogni uso se non esistesse una regola morale oggettiva, capace di discriminare tra il bene ed il male. Ecco perché è importante rispondere alla laconica domanda: cambia la morale? La regola morale oggettiva e divina non cambia. Ed ecco il perché. Il piano di Redenzione delineato nella rivelazione divina ha fissato un tipo dell’uomo con una legge precisa e degli scopi ben definiti. Questo piano non cambia. Per cambiare dovrebbe cadere – contro tutte le affermazioni di Cristo e degli Apostoli – il piano divino. La natura umana non cambia. La sua costituzione, la essenzialità sei suoi rapporti sono immutabili. L’ambiente presenta infinite inazioni accidentali, che non toccano mai l’essenza dell’uomo. La Legge è stata data come definitiva ed eterna. Le norme morali date da Cristo hanno valore fino a che Egli non «verrà di nuovo», e cioè per tutti i tempi fino al momento escatologico. La fissità della norma fino all’ultimo giudizio è una delle cose che risaltano nella predicazione evangelica. – La Chiesa ha in tempo recente chiaramente disapprovato la cosiddetta «morale della situazione» ed il Vaticano II ha richiamato – fatto di morale, sia pure interpretandola secondo lo sviluppo dei tempi [chiaramente questo è criticare il conciliabolo senza che i suoi insipienti “censori” se ne rendessero conto, viste poi le successive affermazioni in evidentissimo contrasto -ndr.-], le norme sempre affermate dal magistero ecclesiastico. Contro questa fissità della regola morale si levano talvolta voci discordi, o – piuttosto – si insinuano «modi» di considerare le cose, i quali dovrebbero a poco a poco arrivare a dissolvere la norma stessa. La confusione in materia, la incompetenza teologica e la presunzione di facili scrittori possono creare il miraggio di una fata morgana possono sedurre anche dei confessori. Noi li mettiamo severamente in guardia. – A tale fine osserviamo più da vicino taluni punti sui quali è facile creare il rovesciamento della norma divina.

1. – Qualcuno ha creduto che nel Concilio venisse indotto qualcosa di nuovo a proposito del matrimonio con tutte le sue conseguenze. Vediamo anzitutto il «creduto nuovo». Si tratta dell’amore coniugale. In effetti a questo amore si dà una attenzione non consueta ai Documenti antecedenti del Magistero. Non è mancato durante la elaborazione conciliare qualcuno che avrebbe voluto si asserisse l’amore essere fine essenziale del matrimonio [tesi eretica -ndr.-]. La verità è che questa asserzione non venne e che quanto detto sull’amore coniugale era già ben noto ed è tutto uno sviluppo di quanto san Paolo afferma al capo 5 della lettera agli Efesini. Vediamo le conseguenze. Essa – la novità – sarebbe stata, nei desideri di qualcuno, una tale precedenza dell’amore sulla fecondità da consentire al primo almeno qualche sbizzarrimento ai danni della seconda. Ma questo non accadde. Si dice invece (1. c. 50) espressamente: «Il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il preziosissimo dono del matrimonio». Si è fatto un gran parlare di qualche rimedio costrittore e riduttore della fecondità coniugale. I principi della morale non hanno mai ammesso mutilazioni né anatomiche, né fisiologiche, né biologiche. Restava a vedere se il conclamato rimedio fosse nulla di tutto questo, ma solo un vero ed onesto regolatore nell’ambito della natura. Dire se lo fosse e lo fosse nel senso voluto dalla morale accettata non appartiene ai teologi, ma agli scienziati. Per studiare la cosa il Sommo Pontefice [quello falso del falso concilio -ndr.] ha costituito una numerosa commissione, la quale ha già presentato il frutto dei propri studi. Ma la Santa Sede non si è ancora pronunciata in alcun modo. Pertanto le regole morali restano quelle di prima. [e tali resteranno sempre! – ndr. – ]

2. – Si è notata una certa tendenza qua e là a dare più importanza alla persona umana che alla legge divina. Il che è inammissibile, perché non esiste nella persona umana alcun diritto di legittima emancipazione dalla legge. E non che tutto questo lo si dica chiaro, ma si inducono tali accentuazioni, tali toni e tali sfumature, dalle quali è facile dedurre un qualche lenimento della legge a favore della emancipazione umana. Questi toni sdrucciolevoli si trovano generalmente negli scritti superficiali, dall’andamento più giornalistico che ragionato, tuttavia creano delle perplessità nelle anime. Noi mettiamo severamente in guardia tutti i sacerdoti contro quello che si accenna, nei facili scritti, verso una maggiore emancipazione del volere umano e li esortiamo a stare accuratamente agli insegnamenti dei testi di Teologia morale che la scuola ha messo loro in mano [cioè quelli antecedenti al conciliabolo! -ndr.-]. Facciamo qualche esempio per spiegarci meglio. Quando si mette troppo l’accento sulla incomprensione che taluni giovani constatano da parte dei rispettivi genitori ed educatori, si tace troppo e volentieri che, ad onta di qualsivoglia incomprensione, intatta – e per diritto divino — la patria potestà con le sue emanazioni. Così, per compiangere i giovani, si giunge praticamente ad asserire la loro emancipazione dalla virtù della obbedienza, dal dovere della disciplina, sostituendo un certo colloquio, che sarà sempre utile, ma non è un equivalente della obbligazione voluta da Dio. Per lo stesso motivo si finisce con l’addurre le generazioni giovanili a disprezzare l’apporto insostituibile della esperienza e ciò con danno enorme dei giovani stessi, spinti in tal modo a ricredersi per la via dell’esperimentato e generalmente tardivo dolore inutile. – Pare che molti lentamente stiano arrivando ad ammettere che tutto diventa morale quando è afferente alla libertà ed alla personaumana. Ciò in contrasto con il dato fondamentale della vita che è una prova di come ci si sa diportare di fronte ad una Legge, non deterministica, ma obbligante in linea morale.

3 — E cambiato qualcosa in materia di castità, di purezza, di modestia? (Modernamente si direbbe: «in materia sessuale», ma preferiamo mantenere la vecchia e più cauta terminologia). È certamente cambiato in molti il modo di considerare il sesto comandamento, ma non è cambiata la Legge. Vediamo dunque come è cambiato questo «modo». – Anzitutto si parla della materia come se il parlarne non implicasse più ragioni di educazione, di pudore, di cautela, di difesa dal fomite della concupiscenza. Di conseguenza se ne parla troppo. Ciò è connaturato al diffondersi della teoria freudiana. Ma, riteniamo, è dovuto molto più all’esagerato senso della personalità umana, per cui si cerca di eliminare tutto quanto alla stessa è limite, contenimento, sacrificio. Questo, dopo aver dimenticato che la persona umana è soggetta alla Legge e non è arbitra della Legge. Finalmente se ne parla troppo per non esser da meno della grande stampa, la quale ostenta abitualmente in materia la più grande procacità o la più voluta indifferenza, salvo ad abbandonarla contradditoriamente quando una regola morale le viene bene per creare lo scandalo e l’utile dello scandalo. Guardandosi intorno si può avere anche la impressione che si debba considerare morto il senso del pudore. Ma, stiano attenti i sacerdoti: non esiste un consenso nel male, ossia, il largo consenso nel male non modifica in nulla la legge del bene. Si dovrebbe osservare la Legge di Dio, anche se si restasse soli! Una ben intesa psicologia ed una retta pedagogia, considerando l’insieme del quadro in cui oggi avviene lo sviluppo e la educazione, potranno variare certe impostazioni affatto secondarie e probabilmente nocive nella situazione moderna; ma non toccano né la debolezza, né il fomite, né il rapporto di attrattiva, né la sostanza del peccato e della virtù. Siamo d’accordo nel dire che la sola modestia degli occhi oggi non basta più, data la esibizione del contegno e di tutte le comunicazioni sociali. Ma ciò significa che si deve tutelare la virtù piuttosto con il metodo attivo, positivo e combattivo, e che occorrono maggiori riserve interiori; non significa affatto che la modestia degli occhi oggi non sia più necessaria. Il pericolo di peccato è aumentato, non diminuito. Il rapporto tra l’anima ed il corpo rimane lo stesso; le conseguenze del peccato originale non si sono affatto affievolite; il rumore, la fretta e la incessante varietà delle sensazioni non dispensano dai problemi, ma ne creano uno nuovo togliendo concentrazione e indipendenza all’azione dello spirito. Il mistero del quanto il materiale attinga lo spirito e del quanto lo spirito incida sul materiale è ben grande; rimane non meno il dovere obiettivo di difendere lo spirito, di prendere tutte le necessarie cautele contro le debolezze proprie del composto umano. – Dovremo appresso ritornare sull’argomento.

4. – Non è mutata la fisionomia teologica del sacramento della Penitenza. E dottrina cattolica che esso è intrinsecamente, oltre che un sacramento, un giudizio. La interpretazione che la Tradizione ha sempre dato di tutte le parole evangeliche riferentisi alla istituzione del sacramento ed al conferimento del perdono non lascia dubbi al riguardo. Il consenso di tutta la Chiesa, durato tanti secoli, chiama in causa la sua infallibilità e pertanto la divina garanzia. Chi volesse toccare il carattere giudiziario del sacramento della Penitenza sarebbe obbligato a distruggere la Tradizione ed il magistero ecclesiastico. Per questo motivo la fisionomia teologica e giuridica del sacramento non viene né può venire in discussione, come non possono discutersi tutte le conseguenze della essenza; anche giuridica. È per questo motivo che, salvo il caso di necessità urgente o di impossibilità, nessuno può arbitrarsi di manomettere in qualsivoglia modo la integrità formale della accusa dei peccati, sostituirla con accuse generiche e collettive o trovate simili.

5. – Fino a questo momento non è cambiato neppure il rituale del Sacramento. Il rituale costituisce una Legge, che vincola in coscienza. Pur sapendo che anche il rituale dei sacramenti andrà soggetto ad una riforma, bisogna attendere che venga e nessuno è autorizzato a sostituirsi nelle innovazioni ad una Autorità, quale risiede solo nella Chiesa. In conclusione: solo la Legge può addurre mutazioni; prima della legge, quando non si voglia garantire la perfetta osservanza, non resta altro che la indisciplina e la anarchia. Il diritto liturgico è stato legittimamente per molti secoli riservato al potere supremo della Chiesa; attualmente il Concilio Vaticano II ha riconosciuto alcuni poteri ad organi inferiori [altra chiara stoccata alle mutazioni del falso concilio – ndr.-]. Nella materia di loro competenza bisogna attendere che questi decidano. L’ondata pseudoculturale di estrazione hegheliana che ha investito tutte le manifestazioni intellettuali, impoverendole, ha investito anche talune scuole e persone ecclesiastiche. Si tratta di ignoranza di quella estrazione (come abbiamo già molte volte ammonito), si tratta di complessi di inferiorità rispetto ai grandi colori della messinscena pubblicitaria, si tratta in ultima analisi di uno svanire nella distinzione del bene dal male, della verità dall’errore, di una pretesa creativa dell’essere nel vero e nel buono: gli ecclesiastici se ne guardino specialmente a proposito di un sacramento fondamentale per la salvezza dell’uomo peccatore. L’idea della indifferenza tra bene e male è praticamente presentata in concreto dalla grandissima maggioranza degli attuali mezzi di comunicazione, in termini espliciti da imprese editoriali, che non si occupano né del bene né del male, ma solo del danaro. Essa, immessa dalla lettura quotidiana, a poco a poco, si può insinuare e di fatto in qualche modo si insinua anche nel clero. Questo denunciamo altamente e contro questo pericolo mettiamo tutti in guardia. – Il sacramento della Penitenza è legato con situazioni che non muteranno mai; neppur esso cambierà, quanto alla sua sostanza ed alla base morale che sempre suppone il giudizio morale.

[Continua… ]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: IN DOMINICO AGRO

S. S. Clemente XIII

In questa Lettera Enciclica, il Santo Padre Clemente XIII, propone all’attenzione dei fedeli un argomento centrale per la fede cattolica: il Catechismo! Opportuna ne è la diffusione e la spiegazione, da parte di persone competenti e pieni di amore per le anime da salvare. Non a caso, è infatti pure il motivo per il quale i modernisti usurpanti, insediati dal 1958 nella Chiesa Cattolica ai livelli più elevati (o più abissali), trasformata in sinagoga di satana, hanno provveduto a compilare un catechismo falso, in cui accanto a verità che non potevano essere cancellate senza dar manifesti sospetti, hanno trovato posto espressioni sibilline, biforcute, che dicono una cosa negandola dopo due righi, cose mai contemplate nè dalla tradizione, nè dalla Sacra Scrittura, nè dal Magistero Apostolico … senza parlare dei pseudo-catechismi olandesi di chiara fattura gnostico-massonica, allegramente sdoganati dalle false autorità della setta gnostico-massonica vaticana, infestante tutto l’orbe un tempo cristano [l’urbe è diventata invece una indegna babilonia pagana …!]. Pertanto, ligi alle disposizioni dei Sommi Pontefici, Clemente XIII e successori, abbiamo tutti l’obbligo “sub gravi”, di abbeverarci al catechismo del Concilio di Trento, a quello del Bellarmino, o a quello del Santo Pio X, e fuggire come la peste e la lebbra, i catechismi di lucifero, quelli cioè concepiti, scritti e diffusi dopo l’infame conciliabolo c. d. Vaticano II, soprattutto il deviante e devastante C.C.C., vero obbrobrio e abominio agli occhi di Dio e … dei veri cattolici. Nell’attesa di procurarci, per chi non li possedesse ancora, onde studiarli con somma attenzione e profitto, i testi non manipolati dei Catechismi della Chiesa Cattolica, leggiamo il documento Apostolico ricco di importanti indicazioni ed insegnamenti infallibili ed irreformabili.

In Dominico agro

1. Nel coltivare il campo del Signore, cui per divina provvidenza siamo preposti, nulla richiede sì vigile cura e perseverante attività quanto la custodia del buon seme gettato, cioè della dottrina cattolica affidata da Cristo Gesù agli Apostoli ed a noi consegnata. Se questa viene trascurata a causa di pigra oziosità o inerte accidia, mentre gli operai dormono il nemico del genere umano vi semina sopra zizzania; motivo per cui avviene che al tempo della mietitura, invece di trovare ciò che si deve riporre nei granai, si trova ciò che deve essere bruciato dalle fiamme. – A difendere la fede una volta consegnata ai Santi, Ci spinge ardentemente il beatissimo Paolo, il quale scrive a Timoteo che custodisca il buon deposito (2Tm 1,14), perché sovrastano tempi pericolosi dal momento che si trovano nella Chiesa uomini cattivi, e seduttori, per opera dei quali l’insidioso tentatore cerca di inficiare le menti incaute con questi errori, che sono nemici della verità evangelica.

2. In verità se (come spesso accade) nella Chiesa di Dio cercano di farsi strada idee tendenziose le quali, pur contrastanti tra di loro, in questo solo collimano, nel minacciare in qualche modo la purezza della fede cattolica, allora davvero è molto difficile, nel cautelarci tra l’uno e l’altro nemico, calibrare talmente il nostro discorso da sembrare di aver voltato le spalle a nessuno di loro, ma invece di aver evitato e condannato egualmente l’uno e l’altro nemico di Cristo. Talvolta avviene che facilmente una diabolica falsità, con una certa sembianza di vero, si ricopra di menzogne colorate, mentre l’efficacia delle sentenze viene corrotta da brevissima aggiunta o da mutamento, sì che la testimonianza che portava salvezza, talora con sottile passaggio porta alla morte.

3. Perciò da questi sentieri sdrucciolevoli e angusti, sui quali difficilmente puoi camminare od entrare senza caduta, sono da tenere lontani i fedeli e specialmente coloro che hanno ingegno più rozzo e più semplice: le pecore non si devono guidare ai pascoli attraverso vie impraticabili, né si devono proporre loro talune singolari opinioni, anche di Dottori cattolici; ma deve essere loro insegnata la parte certissima della verità cattolica, la totalità della dottrina, la tradizionale, quella sulla quale c’è consenso. Inoltre, non potendo il volgo salire il monte (Es 19,12) sul quale è scesa la gloria del Signore, e poiché nel tentativo di violare i confini per contemplarla perirebbe, i Dottori devono fissare al popolo i limiti di un circuito, in modo che il discorso non vada oltre quelle cose che sono necessarie o almeno molto utili alla salvezza, ed i fedeli obbediscano al suggerimento dell’Apostolo: “Non voler conoscere più di quanto è necessario, ma conoscere a sufficienza” (Rm 12,3).

4. I Romani Pontefici Nostri Predecessori, conoscendo perfettamente ciò, posero tutto il loro impegno per stroncare non solo con la spada dell’anatema i germi velenosi degli errori fin dal loro nascere, ma anche per amputare certe idee effervescenti che, magari per eccesso, impedissero nel popolo cristiano un più generoso frutto di fede, o potessero nuocere agli animi dei fedeli per un’eccessiva vicinanza all’errore. Perciò, dopo che il Concilio di Trento condannò quelle eresie che avevano cercato allora di offuscare lo splendore della Chiesa, e riportò la cattolica verità in più chiara luce, avendo in certo modo allontanato la nebbia degli errori; i medesimi Nostri Predecessori, avendo compreso che quel sacro Convegno della Chiesa universale aveva adoperato sì prudente saggezza e tanta discrezione nell’astenersi dal riprovare opinioni fondate sull’autorità dei Dottori della Chiesa; secondo il pensiero del medesimo sacro Concilio vollero dar mano ad un’altra opera che comprendesse tutta la dottrina sulla quale era opportuno che i fedeli fossero istruiti, e che fosse assolutamente lontana da qualsiasi errore. Divulgarono, stampato, un libro intitolato Catechismo Romano, e per questo meritano doppia lode. Infatti in esso riposero la dottrina che è comune nella Chiesa ed è lontana da qualsiasi pericolo; e proposero con eloquenti parole di farla conoscere al popolo, obbedendo così al precetto di Cristo Signore, che ordinò agli apostoli di divulgare nella luce (Mt 10,27) ciò che egli avesse detto nelle tenebre, e ciò che avevano udito in un orecchio lo predicassero sopra i tetti, fedeli alla Chiesa sposa, conforme all’espressione: “Dimmi dove riposi nel meriggio” (Ct 1,6). Dove infatti non sia meriggio, e quindi la luce non sia così chiara che apertamente si conosca la verità, facilmente al suo posto si recepisce la falsità a causa di un certa verosimiglianza, che nell’oscurità difficilmente si discerne dal vero. Sapevano infatti che c’erano stati precedentemente, e ci sarebbero stati nel futuro, coloro che potevano invitare i pascenti e promettere più abbondanti pascoli di sapienza e di scienza: verso questi, molti sarebbero accorsi, perché le acque furtive sono più dolci ed il pane nascosto è più soave (Pr 9,17). – Perché dunque la Chiesa sedotta non vagasse al seguito di greggi di complici, vagabondi essi stessi, privi di alcuna certezza di verità, sempre discenti (2Tm III,7) e non mai giunti ad una scienza di verità, proposero fosse chiaramente ed in forma trasparente spiegato e consegnato al popolo cristiano soltanto quello che fosse necessario e sommamente utile per la salvezza.

5. In verità l’amore di novità danneggiò questo libro preparato con non indifferente fatica e zelo, approvato dal consenso comune e ricevuto con le massime lodi in questi tempi dalle mani dei Pastori: furono esaltati altri Catechismi in nessun modo paragonabili col Romano. Ne derivarono due danni: nello stesso insegnamento fu quasi tolto quel consenso, e fu offerto ai pusilli d’animo un certo scandalo, al punto che non sembrava loro di trovarsi sulla stessa faccia della terra (Gen XI,1) e con un linguaggio unico; il secondo, poi, che dai diversi modi d’insegnare la verità cattolica sorsero delle contese; dalla emulazione, mentre uno si dice seguace di Apollo, un altro di Cefa, un altro di Paolo, nacquero divisioni di animi e grandi dissidi. Riteniamo che niente sia più dannoso nel diminuire la gloria di Dio che la crudezza di tali dissensi, niente più rovinoso per impedire di cogliere i frutti che giustamente i fedeli potrebbero ottenere dalla disciplina cristiana. Infine, per allontanare dalla Chiesa questo doppio malanno, ritenemmo opportuno ritornare colà donde alcuni, con poco prudente consiglio, guidati dalla superbia, vantandosi di essere i più saggi nella Chiesa, avevano appunto allontanato il popolo fedele. Ritenemmo opportuno offrire di nuovo ai Pastori d’anime il medesimo Catechismo Romano, in modo che le menti dei fedeli siano distolte il più possibile, anche ora, dalle nuove idee non suffragate da consenso o da tradizione, e siano corroborate in quella che fu la fede cattolica e nella dottrina della Chiesa, che è colonna di verità (1Tm III,15). Affinché fosse più facile avere il libro, emendato dai difetti che aveva contratto per colpa dei lavori, decidemmo che fosse nuovamente stampato con somma diligenza nell’alma città di Roma, sull’esempio di quello che il Nostro Predecessore San Pio V divulgò con decreto del Concilio di Trento; il testo che per ordine del medesimo San Pio fu tradotto in lingua volgare e stampato, ben presto parimenti sarà di nuovo edito per ordine Nostro.

6. Dunque è vostro dovere, Venerabili Fratelli, fare in modo che nel presente difficilissimo tempo della Cristianità questo libro sia ricevuto dai fedeli quale sussidio molto opportuno, offerto per cura e diligenza Nostra, per rimuovere gl’inganni di false opinioni e propagandare e rafforzare la vera e santa dottrina. Pertanto, Venerabili Fratelli, vi raccomandiamo questo libro, quasi norma di fede Cattolica e di cristiana disciplina perché, anche nel modo di riportare la dottrina, vi appare il consenso di tutti i Romani Pontefici: vi esortiamo ardentemente nel Signore perché diate ordine che sia adoperato da tutti coloro che hanno cura delle anime nell’insegnare la verità Cattolica ai popoli, affinché siano conservate l’unità di erudizione, la carità e la concordia degli animi. È compito vostro provvedere alla tranquillità di tutti: questi sono i doveri del Vescovo: il quale perciò deve avere gli occhi attenti perché qualcuno agendo superbamente per la propria gloria, non procuri scismi, dopo aver rotto la compagine dell’unità.

7. Questi libri non porteranno certamente alcun frutto utile, o ben poco, se coloro che devono presentarli e spiegarli agli ascoltatori saranno scarsamente idonei all’insegnamento. Pertanto importa assai che per questo compito d’insegnare la dottrina cristiana al popolo scegliate degli uomini non solo provvisti di scienza delle cose sacre, ma molto più di umiltà e di zelo per la santificazione delle anime, e ardenti di carità. Infatti, tutta la disciplina cristiana consiste non nell’abbondante eloquio, non nell’astuzia del disputare, non nell’appetito di lode e di gloria, ma nella vera e volontaria umiltà. Vi sono infatti taluni che una scienza maggiore innalza, ma disgiunge dalla comunità degli altri; e quanto più sanno, tanto più mancano della virtù della concordia: essi sono ammoniti dalla sapienza stessa, dalla parola di Dio: “Abbiatesale in voi (Mc IX,49) e abbiate pace tra noi“: così infatti è da ritenersi il sale della sapienza, affinché da esso l’amore del prossimo sia custodito, e le debolezze siano temperate. Se essi sono animati dallo zelo della sapienza e sono distolti dalla cura del prossimo ed orientati verso le discordie, essi hanno un sale senza pace, non dono di virtù, ma motivo di dannazione; quanto più sanno, tanto peggio peccano. Li condanna veramente la sentenza di Giacomo apostolo con quelle parole: “Se avete una rivalità amara, e nei vostri cuori albergano contese, non vantatevi di essere mendaci verso la verità: codesta sapienza non viene dall’alto, ma è terrena, animale, diabolica” (Gc 3,14): dove infatti ci sono invidia e contesa, colà si trovano incostanza e ogni opera cattiva. Ma la sapienza che viene dall’alto è anzitutto pudica, quindi pacifica, modesta, docile, consenziente nel bene, piena di misericordia e di frutti buoni, non ipercritica, senza emulazione.

8. Mentre dunque preghiamo Dio con umiltà di cuore e animo afflitto, perché conceda indulgenza alla nostra diligenza ed agli sforzi del nostro operare, e larghezza di misericordia, affinché il dissenso non turbi il popolo fedele, e affinché nel vincolo della pace e nella carità di spirito conosciamo tutti, lodiamo e glorifichiamo un solo Dio e il Signore Nostro Gesù Cristo, salutiamo Voi, Venerabili Fratelli, nel bacio santo; a Voi tutti, e parimenti a tutti i fedeli delle vostre Chiese, con grande affetto impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Castel Gandolfo, il 14 giugno 1761, nell’anno terzo del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DI AVVENTO

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Phil IV:4-6
Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. [Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni]

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.
[Hai benedetto, o Signore, la tua terra: hai liberato Giacobbe dalla schiavitù.]

Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. [Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni.]

Oratio

Orémus.
Aurem tuam, quǽsumus, Dómine, précibus nostris accómmoda: et mentis nostræ ténebras, grátia tuæ visitatiónis illústra: [O Signore, Te ne preghiamo, porgi benigno ascolto alle nostre preghiere e illumina le tenebre della nostra mente con la grazia della tua venuta.]

Lectio
Lectio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses
Philipp IV:4-7
Fratres: Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne et obsecratióne, cum gratiárum actióne, petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. Et pax Dei, quæ exsúperat omnem sensum, custódiat corda vestra et intellegéntias vestras, in Christo Jesu, Dómino nostro.
R. Deo gratias.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Omelie, Vol. I; Torino 1899 – Omelia V.]

Rallegratevi sempre nel Signore: da capo ve lo dico, rallegratevi. La vostra benignità sia nota a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi di nulla: ma in ogni cosa le vostre domande siano manifestate a Dio nell’orazione, nella preghiera e nel rendimento di grazie. E la pace di Dio, che supera ogni mente, custodisca i vostri cuori e le vostre menti in Gesù Cristo „ (Ai Pilipp. IV, 4-7).

Con questi quattro versetti l’apostolo Paolo chiude la sua breve, ma bella ed affettuosissima lettera ai fedeli della Chiesa di Filippi, città principale della Macedonia. Nessuna difficoltà nella spiegazione di queste sentenze dell’Apostolo: ma i documenti, che vi si contengono, sono d’una importanza pratica grandissima e meritano tutta la vostra attenzione. – Rallegratevi sempre nel Signore: da capo vel dico, rallegratevi. „ S. Paolo scrisse questa lettera da Roma, come si fa manifesto dai saluti, che in fine della lettera manda a quei di Filippi. La scrisse certamente dalla carcere, in cui fu gettato la prima volta, circa l’anno sessantesimo dell’era nostra. Uomo veramente ammirabile questo Apostolo per eccellenza! Egli è oppresso da ogni maniera di tribolazioni e in molti luoghi delle sue lettere, e in questa stessa, ne fa una viva descrizione. Da Gerusalemme è condotto a Roma incatenato: è là in carcere, imperando Nerone; si vede innanzitutto il patibolo: molti lo hanno abbandonato ed alcuni dei suoi lo amareggiano perfino in carcere: eppure, ripieno d’un sacro entusiasmo, l’entusiasmo della fede e della carità, grida ai suoi cari: rallegratevi. „ Ciò non gli basta, ed aggiunge: “Rallegratevi sempre; „ non gli basta ancora: lo ripete di nuovo: “Da capo vel dico, rallegratevi. „ Ma come rallegrarsi in mezzo ai timori e ai terrori della persecuzione, con le catene alle mani, lì, a pochi passi di quel mostro di crudeltà, che si chiama Nerone? — L’Apostolo leva in alto gli occhi, li fissa con fede viva in Dio ed è in Lui, in Lui solo, che egli attinge ogni conforto e perfino l’allegrezza, che vorrebbe trasfondere nei suoi cari figliuoli. – Vi è una doppia allegrezza, 1’una celeste, l’altra terrena: l’una che viene dagli uomini, l’altra che viene da Dio; l’una che si fa sentire nel corpo, l’altra che riempie l’anima, la fa trasalire e si riflette eziandio nel corpo. Vi è la gioia dell’avaro, che guarda estatico lo scrigno riboccante d’oro; vi è la gioia del superbo, del vanitoso, che si delizia degli applausi e si inebria dell’incenso, che le turbe gli profondono: vi è la gioia dell’epulone, che si bea tra vini e vivande; vi è la gioia del voluttuoso che lussureggia per ogni fibra: son gioie basse turpi, indegne dell’uomo, inette a farlo felice, perché non sono durevoli, passano rapidamente e se pur saziano per alcuni istanti la parte inferiore, il corpo, che se ne va tutto con la morte, lasciano vuota, desolata, riarsa la povera anima, come se vi passasse sopra un soffio infuocato. Domandate a questi beati del mondo, che corsero tutte le vie del piacere, che colsero tutti i fiori trovati lungo la via; che ammassarono i milioni; che salirono alto e videro le turbe prostrate ai loro piedi; che alla loro bocca non negavano mai né un cibo, né una bevanda, fossero pure a peso d’oro; che ebbero tutto ciò che poterono desiderare; domandate loro: “Siete felici?,, Ad una voce vi risponderanno: “Siamo sazi della vita; la noia ci opprime; il nostro cuore è vuoto. „ – Ecco la gioia del mondo! Vi è poi la gioia dell’umile, che conosce se stesso, del poverello rassegnato e contento dei suo pane quotidiano, dell’uomo, che comanda alle passioni e le vede obbedienti; vi è la gioia del casto, del giusto, del caritatevole; gioia tranquilla, sempre eguale, che inonda l’anima, che ne ricerca tutte le fibre più riposte, che dura in mezzo alle pene ed alle amarezze della vita, che è come un effluvio del cielo, che ci fa sentire Dio presente e quasi ce lo fa toccare: ecco la gioia del Signore, di cui scrive S. Paolo. Non cercate, non amate mai la gioia del mondo, ma la gioia di Dio: Gaudete semper in Domino: iterum dico, gaudete. Questa gioia della virtù, gioia pura e santa, raddolcisce i dolori, che sulla terra sono nostri compagni inseparabili; infonde una forza meravigliosa nell’anima e ci fa correre speditamente le vie del cielo. S. Francesco d’Assisi sul miserabile giaciglio delle sue agonie, cantava. S. Luigi Gonzaga esclamava: Lætantes imus: ce ne andiamo pieni di gioia. S. Francesco di Sales, S. Vincenzo dei Paoli, S. Filippo erano sempre sorridenti e in mezzo alle fatiche, alle cure, alle pene della vita erano lieti e felici. E la gioia dei figli di Dio, quella di S. Paolo, che scrive: Rallegratevi sempre nel Signore. – “La vostra benignità sia nota a tutti gli uomini. „ La parola greca usata da S. Paolo e che io ho voltato nella parola benignità, ha un significato amplissimo e vuol dire modestia, temperanza di modi, affabilità, dolcezza. Qui l’Apostolo in sostanza vuole che nel nostro esterno, parole, opere e contegno c i mostriamo con tutti tali, da non recar loro molestia alcuna e da essere loro graditi. Tutto questo non è che il frutto e la manifestazione della carità, la quale vuole, che per quanto è possibile, non facciamo mai cosa che spiaccia ai nostri prossimi e facciamo loro ciò che onestamente piace. Il cristiano, secondo S. Paolo, deve essere l’uomo più caro, più amabile, più accettevole a tutti nella stessa società civile, perché in ogni cosa è informato alla carità di Gesù Cristo. E perché questa benignità con tutti? Perché, risponde S. Paolo, “Il Signore è vicino Dominus prope est. „ Il Signore è vicino: forseché è vicino il giorno del finale giudizio, come alcuni sognarono? No: perché Gesù Cristo non volle dire quando verrà, e lo stesso Apostolo, nella sua lettera seconda a quei di Tessalonica, vuole che nessuno si turbi, quasi che quel giorno sia vicino (Capo II, 2 ) . — Il Signore è vicino; — vicino, perché il giorno della nostra morte e per conseguenza del giudizio per ciascuno, sia quanto si voglia lontano, è sempre vicino, dacché la nostra vita passa come un’ombra. — Il Signore è vicino; — vicino, perché viviamo in Lui, in Lui ci muoviamo, in Lui siamo; perché in qualunque luogo e in qualunque istante Egli ci vede, scruta i nostri pensieri e i nostri affetti. Siamo in ogni cosa composti, grida S. Paolo, perché siamo sempre al suo cospetto. Qual motivo più efficace di questo per vivere santamente? Segue un altro versetto, nel quale S. Paolo» ci dà un ammaestramento pratico per regolare cristianamente la nostra condotta. Eccovelo: “Non siate ansiosi di nulla. „ In mezzo alle nostre occupazioni, tribolazioni, privazioni ed anche in mezzo alla abbondanza d’ogni bene,, noi siamo facilmente inquieti e inquietiamo quelli, coi quali abbiamo comune la vita. Temiamo, speriamo, affannosamente desideriamo,, ci agitiamo senza tregua e così la pace fugge dai nostri cuori. Quando S. Paolo ci dice: “Non siate ansiosi di nulla,„ non intende già che trascuriamo le cose nostre, che viviamo spensierati, dimentichi del domani, con la stolta pretensione che ogni nostra cura si abbandoni alla Provvidenza divina: se così fosse, S. Paolo avrebbe predicata la negligenza, inculcato 1’ozio, avrebbe condannata l’intera sua vita e ci avrebbe imposto di tentare la Provvidenza. Egli vuole che adempiamo ogni nostro dovere e poi ci rimettiamo alla provvidenza di Dio, perfettamente rassegnati a tutto ciò ch’essa disporrà, senza turbarci, sapendo ch’essa tutto va ordinando al nostro vero bene. E ciò che si fa? Sventuratamente nella nostra condotta cadiamo troppo spesso nei due estremi. Ora noi domandiamo tutto alle nostre forze, al nostro ingegno, alla nostra abilità, dimenticando che se Dio non è con noi, tutto fallisce: ed ora tutto pretendiamo da Dio, come se nulla si esigesse da noi e Dio dovesse premiare i pigri, gli oziosi. La verità è, carissimi, che si domanda sempre in ogni cosa l’aiuto di Dio ed il nostro concorso, e se l’uno o l’altro fa difetto, follia sperare il compimento dell’opera. Può esso il sole illuminare i vostri occhi, se voi non li aprite? Può essa il campo coprirsi di messi, se voi non lo seminate e coltivate? Possono i vostri polmoni respirare se l’aria vien meno? Non dimenticate mai, che se Dio ci ha creati senza di noi, senza di noi non ci salva. Lavoriamo, facciamo il nostro dovere, ma senza ansietà, sicuri che se noi dal canto nostro faremo ciò che è in poter nostro, Dio non mancherà mai dal lato suo, e le due forze unite, l’umana e la divina, ci daranno l’opera compiuta. – E per cessare questa ansietà, che sì spesso turba i nostri cuori, che faremo? Ce lo insegna l’Apostolo : “In ogni cosa le vostre domande siano manifestate a Dio nella orazione, nella preghiera e nel rendimento di grazie. „ Allorché ci assale il timore che le cose nostre volgano male e l’anima nostra è sopraffatta da sollecitudini moleste ed è in preda al turbamento, solleviamo gli occhi a Lui che tutto vede e può; a Lui, che ci è sempre vicino e ci ama teneramente, e come figli a padre amoroso, apriamogli l’anima nostra con l’orazione; e se la tempesta dell’anima non cessa, instiamo più fortemente nella orazione, che allora diventa preghiera. Qui è notata la differenza tra orazione e preghiera; la preghiera è l’orazione con insistenza, con ardore, e quando incalza il bisogno, deve pur crescere la nostra orazione e diventare preghiera. – Se Dio ci esaudisce, noi gli porgeremo rendimento di grazie per l’ottenuto beneficio: se per gli occulti consigli della sua sapienza, Egli ritarda l’esaudimento della nostra preghiera e ci lascia ancora in balia della tempesta, noi lo ringrazieremo egualmente, perché ci conforta col suo aiuto, perché ciò vuole a nostro maggior bene e perché la sua volontà benedetta è pur sempre la nostra legge inviolabile. Non dimentichiamo mai, o carissimi, questo sì prezioso insegnamento dell’Apostolo: in ogni cosa ricorriamo a Dio; la preghiera è il farmaco dell’anima afflitta, è l’ancora della nostra salvezza. – L’Apostolo chiude il tratto della epistola per noi citato con questo augurio, che non potrebb’essere più bello: “E la pace di Dio, che supera ogni mente, custodisca i vostri cuori e le vostre menti in Gesù Cristo. „ La pace! Non vi è cosa che suoni più dolce ai nostri orecchi, che maggiormente si desideri e che più studiosamente si conservi quanto la pace. Tutti cerchiamo, tutti vogliamo la pace: tutti la salutiamo come il sommo bene che si possa avere quaggiù. Che è dessa la pace? Fu definita da sant’Agostino: “Tranquillitas ordinis — Tranquillità dell’ordine! „ Quando serbiamo l’ordine, che è quanto dire, osserviamo la giustizia con tutti, allora abbiamo la pace. Noi tutti abbiamo dei doveri verso noi stessi, verso i nostri simili, verso Dio. Abbiamo doveri verso noi stessi, che ci impongono di vegliare sui pensieri e sugli affetti nostri, di reprimere le passioni scomposte, che ci travagliano, la superbia, l’amore sregolato dei beni della terra, la sensualità, l’intemperanza, l’invidia, l’ira e via dicendo. Vogliamo noi la pace con noi? Ebbene: ristabiliamo l’ordine nell’anima nostra, le passioni ribelli siano ridotte alla ubbidienza, vi regnino le virtù e legge nostra sia la fede, che regoli ogni nostro atto. — Abbiamo doveri coi nostri simili e quanti son padri, sono madri, sono figli, padroni, servi, ricchi, poveri; adempia ciascuno i suoi doveri, sempre e fedelmente: esercitando i nostri doveri, vediamo di non offendere quelli degli altri; pieni di compatimento e di amore vero ed operoso verso di tutti, cerchiamo il bene altrui come il nostro, ed avremo l’ordine, cioè la pace coi fratelli nostri. — Abbiamo doveri con Dio, e sono i primi e il fondamento degli altri; osserviamo la sua legge, temiamo il suo giudizio, amiamolo, come il Padre nostro, non facendo mai cosa che lo possa offendere, ed avremo 1’ordine e la pace con Dio. Oh la pace! come la può avere colui che vive in peccato, che sa d’avere per nemico Dio stesso? Un uomo che sa d’avere commesso un delitto e di meritare l’estremo supplizio; che sa d’avere sulle sue orme gli esecutori della giustizia, che lo cercano, non ha un’ora di pace. Ogni rumore, ogni stormire di foglie, la vista d’un uomo, che muove alla sua volta, tutto lo turba, lo agita, lo riempie di sospetto e di terrore. É l’uomo, che sa d’aver offeso Dio onnipotente, a cui non può sfuggire; Dio, che lo attende e lo coglierà all’estremo passo; questo uomo potrà mai aver pace? É impossibile. Quegli solo ha la pace, la pace di Dio, la pace cioè che viene da Dio, il quale signoreggia le sue passioni, ama i fratelli come se stesso, che fugge il peccato, che vive nella grazia di Dio. Uomo avventurato! Questa pace, tesoro di tutti preziosissimo, custodirà la sua mente ed il suo cuore, gli farà gustare anche sulla terra quanto dolce e soave è il Signore con quelli che lo amano!

Graduale
Ps 79:2; 79:3; 79:2
Qui sedes, Dómine, super Chérubim, éxcita poténtiam tuam, et veni.
[O Signore, Tu che hai per trono i Cherubini, súscita la tua potenza e vieni.]

V. Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph. [Ascolta, Tu che reggi Israele: che guidi Giuseppe come un gregge. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,
V. Excita, Dómine, potentiam tuam, et veni, ut salvos fácias nos. Allelúja. [Suscita, o Signore, la tua potenza e vieni, affinché ci salvi. Allelúia.]

 

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem
R.
Gloria tibi, Domine!
Joann l:19-28

“In illo tempore: Misérunt Judaei ab Jerosólymis sacerdótes et levítas ad Joánnem, ut interrogárent eum: Tu quis es? Et conféssus est, et non negávit: et conféssus est: Quia non sum ego Christus. Et interrogavérunt eum: Quid ergo? Elías es tu? Et dixit: Non sum. Prophéta es tu? Et respondit: Non. Dixérunt ergo ei: Quis es, ut respónsum demus his, qui misérunt nos? Quid dicis de te ipso? Ait: Ego vox clamántis in desérto: Dirígite viam Dómini, sicut dixit Isaías Prophéta. Et qui missi fúerant, erant ex pharisaeis. Et interrogavérunt eum, et dixérunt ei: Quid ergo baptízas, si tu non es Christus, neque Elías, neque Prophéta? Respóndit eis Joánnes, dicens: Ego baptízo in aqua: médius autem vestrum stetit, quem vos nescítis. Ipse est, qui post me ventúrus est, qui ante me factus est: cujus ego non sum dignus ut solvam ejus corrígiam calceaménti. Hæc in Bethánia facta sunt trans Jordánem, ubi erat Joánnes baptízans.”
R. Laus tibi, Christe!

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Omelie: Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Giovanni I, 19-28)

Superbia.

Avevano i Giudei concepita una sì alta opinione di Giovanni il Battista per la sua vita irreprensibile, per l’austera penitenza, per la zelante predicazione, che credettero esser egli il Messia da Dio promesso, e da gran tempo da loro aspettato. Spedirono perciò da Gerosolima Sacerdoti e Leviti ad interrogarlo chi egli fosse, e s’era il Cristo tanto desiderato dalla loro nazione. Giovanni non si dimenticò di sé stesso.. Ben lungi dall’arrogarsi un nome sì glorioso, prese anzi motivo da un’interrogazione lusinghiera di vieppiù umiliarsi; “ … ed io, rispose, e ripeté la seconda e la terza volta, io non sono Cristo. Questi vive, ed è in mezzo a voi, e voi nol conoscete; dopo di me si farà manifesto, ed è tanto nella dignità e nella grandezza a me superiore, ch’io neppur son degno di sciogliere i legacci dei suoi calzari!”. “Chi dunque sei tu? Tornarono a chiedergli, forse Elia, o alcun dei Profeti?” Non sono Elia, rispose, non sono Profeta, ma sono una voce, che va gridando nel deserto: preparate la via del Signore, “ego vox clamantis in deserto; parate viam Domini”. – Fin qui l’odierno Vangelo. Che dite, ascoltatori, di questa umiltà del Precursore di Gesù Cristo, del maggiore fra i Santi? Gl’inviati a far tante interrogazioni erano Farisei, gente gonfia della più fina superbia, dovevan confondersi in sentire l’umile confessioni del Battista. Ma no! Di guarigione difficilissima è un tal vizio; ed oh quanto regna nel mondo, e la virtù a questo opposta oh quanto nel mondo è sconosciuta! Contro di questa superbia è diretta la presente spiegazione, e per ridurre me stesso e voi a sbandirla dal nostro cuore, io passo a dimostrarvi prima il castigo di questa passione detestabile, poscia il rimedio nella virtù della cristiana umiltà …

I. Il castigo della superbia secondo l’ordine stabilito dalla giustizia di Dio, che necessariamente odia i superbi, è comprovato dalla speranza e dalla storia di tutti i secoli, è una vergognosa caduta. Il superbo si può paragonare ad un epilettico. Porta seco quest’infelice una malattia, che o per improvviso sconcerto del Cerebro, o per istraordinaria alterazione de’ nervi, ovunque lo colga, lo getta a terra, senza che possa stendere un braccio a suo riparo, fossa pur egli sull’orlo d’un precipizio. Tal è un superbo. Con questa legge però, dice un gravissimo autore (Scupoli), che quanto egli s’innalza superbamente, tanto miseramente precipita, e l’altezza del suo esaltamento è la precisa misura della profondità della sua caduta. Infallibile è il detto evangelico: “Qui se exàltat, humiliabitur”,..’ .(Luc. XIV, 11). Né ciò deve far meraviglia, entra; qui il reale Profeta, conciossiachè la superbia un mostro, che ha un sol piede, e perciò non può a lungo contenersi in dritta positura. Immaginate un uomo, che si tenga sopra un piede solo. Con qualche sforzo si terrà diritto per poco d’ora, ma non potrà a lungo durare in quella situazione violenta. Se poi a quest’uomo si accosti una mano che l’urti, un nemico che lo spinga, sarà necessariamente stramazzato a terra. – E questa appunto la più viva. immagine della superbia, onde il citato re Profeta, a Dio rivolto, Signore, diceva, “non veniat mihi pes superibiæ, et manus pcccatorìs non moveat me” (Ps. XXV). E poi soggiunge. “Ibi cecidcrunt qui operantur iniquitatem .. èxpulsi sunt, nec potuerunt stare”. Un’esperienza funesta, prosegue lo stesso reale Salmista, mi mostrò quanto sia certa e inevitabile la caduta de’ superbi. Ben mi ricordo d’un Saul, che sebbene da Dio riprovato, pure, sulle armi fidando e sui suoi armati, fu sconfitto da’ Filistei vincitori, e per disperato rimedio a sottrarsi dai loro insulti, si lasciò cadere sulla punta della sua spada applicata al petto. “Non salvatur Rex per multam virtutem (Ps. XXII, 16). Ben mi rammento del superbissimo Filisteo gigante, dispregiatore delle falangi del popolo di Dio, che. sfidando a singolar tenzone i prodi d’Israele, fu a terra steso pel colpo di un semplice pastorello qual io già fui, “et gigas non salvabitur in multitudine virtutis suæ” (ibid.). Ben mi si sveglia l’acerba memoria del mio figlio Assalonne, che per sfrenata ambizione di regnare mi mosse guerra, e in questa abbattuto, mentre sperava salvarsi su veloce destriero, per quel mezzo stesso sospeso pei suoi capèlli ad un ramo perdé la vita, ferito da tre colpi di lancia. “Fallax equus ad salutem in abundantia virtutis suæ non salvabitur”: (ib. V. 17). – Un ritratto al naturale d’un gran superbo, e del suo straordinario e obbrobrioso castigo, ci presenta il Profeta Daniele nella persona di Nabucco re di Babilonia. Stava passeggiando costui nella sua reggia tutto gonfio; tutto in compiacenza di sé stesso, “in aula Babilonis deambalabat”; (Dan., IV, 26) e inebriato dalla propria stima si fa a rispondere a chi non l’interroga, a chi neppur è presente, “responditque” (Reg. XXVII). E come avesse intorno la turba de’suoi adulatori, “ … e non è questa, dice egli, quella gran città, quella Babilonia da me edificata? “Et ait: nonne hæc est Babilon magna, quam ædificavi?” (Ibid.). Falso; Babilonia fu edificata da Belo, e da lui soltanto ingrandita: bugia manifesta, vizio proprio de superbi millantatori, che alla propria gloria fanno anche servir la menzogna. Indi crescendo la sua pazza alterigia, attribuisce alla forza di sua virtù, e a lustro della sua gloria, quanto vi ha di splendido e di grandioso nella sua reggia e nel suo regno, “in domum regni, in robore fortitudinis meæ, et in gloria decoris mei” (Ibid.). Nello stesso, tempo in cui parlando il borioso si pascea di vento, ecco una voce improvvisa discende dal cielo: “a te Nabucco, a te si parla, tu sarai privo di regno, cacciato dalla reggia, e dalla comunanza degli uomini e da strana mania spinto al bosco e alla foresta, abiterai colle fiere, e ti pascerai come bestia irragionevole di fieno e d’erbe selvagge. “Regnum tuum transibit a te, et ab hominibus eiicient te, et cum bestiis et feris habitatio tua, foenum quasibos comedes (Idem). – Fin qui il castigo di questi superbi umiliati è piuttosto nell’ordine delle umane cose, ed è meno a temersi. Quel che deve incutere timore e tremore è lo spirituale castigo, per cui si chiude al superbo il fonte d’ogni grazia celeste. “Deus superbis resistit” (Jacob. IV, 6). Io, dice il Crisostomo, amerei meglio aver tutt’i peccati del mondo coll’umiltà del pubblicano, che le virtù di tutti i santi del cielo con la superbia del fariseo. Con la prima si dileguano tutte le colpe, come neve in faccia al sole: con la seconda si dissipano tutte le virtù, come polvere in faccia al vento. Iddio neppur un istante soffrì nel cielo empireo il superbo Lucifero: la sua superbia da angelo lo fece demonio. Le ruinose cadute degli Eresiarchi s’attribuiscono tutte da S. Girolamo alla superbia. “Hæreticorum mater superbia”. Oltre la perdita inestimabile della grazia e dell’eterna salute, permise Iddio a loro perpetua confusione che cadessero nel fango della disonestà, castigo proprio de’ superbi, che avvilisce lo spirito altero fino ad abbassarlo alla condizione de’ bruti. Così l’Anticristo, che sarà il più superbo degli uomini, sarà altresì’, dice il Profeta Daniele, il più immerso nelle carnali immondezze, “erit in concupiscentiis fæminarum” (Dan XI, 37).

II. A tanto male quale rimedio? Gesù Cristo, dice il Pontefice S. Gregorio, medico celeste, ha prescritto a tutt’i vizi l’opportuno rimedio; agli avari la liberalità, ai disonesti la continenza, agl’iracondi la mansuetudine, e l’umiltà ai superbi. Quest’ultima si distingue in umiltà d’intelletto e umiltà del cuore. L’umiltà d’intelletto è una cognizione del proprio essere, secondo i lumi della ragione e della fede. Per acquistarla basta uno sguardo al passato, al presente, e al futuro. “Semper in mente sabea”, avviso di S. Bernardo, “quid fuisti? quid es? quid eris?” (in for. Honest. vitae). Uno sguardo al passato. Quid fuisti? Che cosa era io venti, trenta, cinquanta, cento anni addietro: un nulla. Senza di me esisteva questo gran mondo. Se Dio s’eccettui, io né pur era nel numero delle cose possibili. Era dunque infinitamente più di me un filo d’erba, un atomo di polvere; dappoiché dall’essere al non essere passa un’infinita distanza. Era io dunque un nulla. Così è, così di sé stesso diceva il reale Profeta, “substantia mea tamquam nihilum ante te” (Ps. XXXVIII, 6); e il nulla di che può gloriarsi, di che può insuperbire? Uno sguardo al presente. Quid es? Che cosa è l’uomo se si separi il prezioso dal vile? Cioè quel che è dell’uomo, e quel ch’è di Dio? In quanto al corpo egli è un composto di quattro tra loro contrari elementi, che per la minima alterazione cagionano in noi tante infermità, tante doglie, tanti malori. Egli è, dice S. Bernardo, un vaso pieno di putredine, “vas stercorum”, un letamaio, di cui non può trovarsi il più vile, “vilius sterquilium numquam vidisti”. La putredine, soggiunge il S. Giobbe, è come il padre che lo genera, la madre che lo nutrisce, la sorella che l’accompagna col seguito di vilissimi vermi, Putredini dixi: Pater meus es: mater mea, et soror mea, vermibus”. (Giob. XVII, 14). Gran cose! Entra qui Papa Innocenzo parlando del disprezzo del mondo, gran cosa! gli alberi producono foglie verdeggianti, fiori odoriferi, gustosi, e l’uomo vili e molesti insetti, putridi umori, flemme stomachevoli, fecce puzzolenti. O vergognosa condizione dell’umana viltà! “O indigna vilitatis humanæ conditio!”(Lib. 8 c. 3). In quanto poi allo spirito, è vero essere egli uno spirito nobilissimo, una immagine viva del suo Creatore, ma questa eccellente prerogativa non è sua propria. Ed oh quanto fu deformata dal peccato originale immagine sì bella! Ferita l’anima nelle sue facoltà, leso restò l’intelletto e propenso all’errore, lesa la volontà ed inclinata al male. Immaginate un serraglio di fiere selvagge, che affamate digrignano, ed alzano ruggiti, e poi dite, tal’è il cuore dell’uomo prevaricato, le cui passioni ne fanno crudo governo. – Sente ora le spinte dell’iracondia, ora gl’impulsi della concupiscenza, quando l’odio l’infiamma, quando l’agghiaccia l’accidia, la superbia lo gonfia, l’invidia lo strugge, l’avarizia lo dissecca. In questo ammasso di tante disordinate pendenze, di tanti brutali appetiti, di che l’uomo potrà invanire, di che gloriarsi? – Uno sguardo finalmente al futuro. “Quid eris”? Che sarà un giorno di questo grande uomo? Già si sa, la morte lo spoglierà di tutto, lo toglierà per sempre dall’umana società, lo getterà a marcire in un sepolcro, ove divorato da schifosissimi vermi diverrà un nudo scheletro, che si ridurrà poi in tanta “polvere da poter capire nel concavo a una mano, e con un soffio di bocca disperdersi per l’aria. “Quid superbis”, si può qui giustamente insultare all’umana alterigia, “quid superbis, terra, et cinis?” (Eccles. X, 9). Ma questo non è il tutto. Verrà tempo in che non si saprà se quest’uomo sia mai stato al mondo, perirà la sua memoria, e cadrà il suo nome in dimenticanza totale e perpetua: “oblivione delebitur nomen eius(Eccli. VI,4). Queste serie riflessioni ben ponderate ci portano all’umiltà di cognizione e d’intelletto. Ma ciò non basta. Anche un Filosofo è capace di quest’umile cognizione di se stesso. All’umiltà dell’intelletto fa d’uopo accoppiare l’umiltà del cuore. Gesù Cristo, come riflette il mellifluo dottore, non ebbe né aver poteva l’umiltà di intelletto, poiché quantunque vero uomo e in sembianza di peccatore, come vero ed eterno Figliuol di Dio, conosceva la sua divina eccellenza e l’infinito suo merito; “sciebat se ipsum”. (Serm. 42 in Cant.) Non pertanto per farsi nostro esemplare si è voluto appigliare all’umiltà del cuore, e di questa s’è fatto e proposto nostro maestro, invitandoci ad imitarlo, “discite a me, quìa mitis sum, et humilis corde”. (Matth. XI, 29). In effetti, Egli volle nascere umile e povero in una capanna, visse umile ed abbietto in una bottega, morì umile ed umiliato sopra una croce; e con queste divine lezioni ed eroici esempi d’estrema umiliazione potrà fra i cristiani trovarsi un superbo? Oh Dio! Cristo umile soffre gl’insulti e i disprezzi, e il cristiano superbo disprezza i suoi simili; Cristo umile nasce, vive e muore da vero povero, il cristiano superbo, a costo dell’anima propria e della sua eterna salute, vuol vivere e morire da malvagio ricco; Cristo umile implora perdono per i suoi crocifissori, il cristiano superbo vuol vendicarsi dei suoi nemici. Che strano diabolico contrapposto è mai questo? Un seguace di Gesù Cristo che fa tutto il rovescio di quanto insegnò e praticò Gesù Cristo, come merita il nome di cristiano, come può sperare di regnare un giorno con Cristo chi col fatto è nemico di Cristo? – Non ci lusinghiamo, miei cari. Quanto è necessario il battesimo per tutti i figli d’Adamo; quanto è necessaria la penitenza per i caduti in colpa mortale, tanto è necessaria 1’umiltà per entrare nel regno de’ Cieli, “nisi effìciamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum cælorum” (Matth. XVIII, 3). Colle stesse formule sta espressa nelle divine Scritture questa triplice necessità. A finirla. Tutt’i Beati del Cielo furono tutti umili, cominciando da Gesù Cristo, e dalla sua santissima Madre: tutti gli abitatori dell’inferno tutti i superbi, cominciando da Lucifero, e da’ suoi seguaci. La superbia è quella che danna, l’umiltà è quella che salva. Vedeste il castigo, udiste il rimedio, la scelta sta in vostra mano.

CREDO …

 

 

Offertorium
Orémus
Ps LXXXIV:2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob: remisísti iniquitatem plebis tuæ. [Hai benedetto, o Signore, la tua terra: liberasti Giacobbe dalla schiavitù: perdonasti l’iniquità del tuo popolo.]

Secreta
Devotiónis nostræ tibi, quǽsumus, Dómine, hóstia iúgiter immolétur: quæ et sacri péragat institúta mystérii, et salutáre tuum in nobis mirabíliter operétur. [Ti sia sempre immolata, o Signore, quest’ostia offerta dalla nostra devozione, e serva sia al compimento del sacro mistero, sia ad operare in noi mirabilmente la tua salvezza.]

Communio
Is XXXV:4.
Dícite: pusillánimes, confortámini et nolíte timére: ecce, Deus noster véniet et salvábit nos. [Dite: Pusillànimi, confortatevi e non temete: ecco che viene il nostro Dio e ci salverà.]

Postcommunio

Orémus.
Implorámus, Dómine, cleméntiam tuam: ut hæc divína subsídia, a vítiis expiátos, ad festa ventúra nos præparent. [Imploriamo, o Signore, la tua clemenza, affinché questi divini soccorsi, liberandoci dai nostri vizii, ci preparino alla prossima festa.]

V. Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

DIVINITA’ DI GESU’ CRISTO

Divinità di Gesù Cristo.

[G. Bertetti: Il sacerdote predicatore; S.E.I. Ed. Torino, 1919 – impr.]

– 1° Gesù Cristo si rivela Dio nella sua nascita. — 2. Dalle sue parole. — 3. Dalle sue opere. — 4. Nella sua morte. — 5. Nella sua risurrezione.

1°- GESÙ CRISTO SI RIVELA DIO NELLA SUA NASCITA. — Nessun uomo riesce a far parlare di sé, prima della sua nascita … e chi a questo fosse riuscito, non sarebbe più un uomo soltanto, ma un Dio … Gesù Cristo solo fra tutti gli uomini ebbe il privilegio d’aver vissuto prima di nascere nella memoria dell’umanità per lo spazio ininterrotto di quattromila anni:… si fece conoscere, amare, adorare:… non solo presso il popolo giudaico, i cui profeti con tanta profusione ne parlarono, che si direbbe ne abbiano scritta la biografia come di persona già vissuta, … ma anche presso tutt’i popoli della terra, che aspettavano un redentore

– GESÙ CRISTO SI RIVELA DIO DALLE SUE PAROLE. — Gli uomini parlano in nome della giustizia, della scienza, del progresso, dell’umanità … nessuno parla in nome di se stesso;… nessuno si vanta d’essere il perfetto esemplare, degno d’ogni imitazione. Nessun uomo s’è sentito il coraggio di parlare a tutta l’umanità … si parla a una famiglia a una scuola, a un popolo … si parla per un limitato periodo di tempo e non per sempre. Gesù solo ha parlato a tutta l’umanità, senza limitazione di spazio e di tempo;… egli solo ha potuto dire: « Son venuto a portare la verità a ogni uomo; chiunque riceve la mia parola, sarà salvo, chiunque la respinge, sarà condannato… Andate e predicate l’Evangelo a ogni creatura ….. », Solo un Dio può parlare così… Gesù parla e dice: « Io sono il Cristo, il Figlio di Dio: … io e il Padre mio siamo una cosa sola … mio è tutto quello che ha il Padre mio; prima che Abramo ci fosse, io sono … ho posseduto la gloria nel seno del Padre mio, prima che il mondo ci fosse … come il Padre risveglia i morti e li rende alla vita, così il Figlio vivifica quel ch’Egli vuole:….» Gesù non avrebbe potuto proclamarsi in modo più chiaro e in modo più solenne Dio vero e immortale … l’intesero i discepoli che per bocca di Pietro dissero: « Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo »;   l’intesero i Giudei che vollero lapidarlo perché si faceva Dio, » com’essi dicevano, l’intese il gran consiglio della nazione giudaica, che lo condannò a morte come bestemmiatore perché si proclamava Dio. Solo fra tutti gli uomini Gesù Cristo si proclamò Dio apertamente e costantemente: dunque Gesù Cristo è vero Dio. Se ciò non fosse, bisognerebbe ammettere ch’egli fu il più dissennato fra gli uomini nel credersi Dio senza esserlo, … il più scellerato nel proferire la più orribile bestemmia.

3° – GESÙ CRISTO SI RIVELA DIO DALLE SUE OPERE. —

– Gesù Cristo esercitò nell’ordine fisico un’azione veramente divina e illimitata, dimostrandosi padrone assoluto della natura: … cambia l’acqua in vino, … moltiplica i pani, … cammina sui flutti, … calma le tempeste, … guarisce malattie insanabili, . . . risuscita i morti … E tutto ciò con una parola, … con un gesto,… con un segno della sua volontà… E ciò fa al cospetto di tutto un popolo,… al cospetto dei suoi nemici, di cui nessuno osa contestargli la potenza sovrumana e ch’Egli sfida apertamente: « Se non volete, credere alla mia parola, credete almeno alle mie opere, perché le opere ch’io faccio rendono testimonianza di me » Anche i santi fecero dei miracoli, ma operavano come servi di Dio, e semplici servi di Dio si proclamavano;… Gesù invece opera da padrone, opera da Dio, comanda da Dio: « Lo voglio, sii guarito!… Giovanotto, ti dico: sorgi! … Lazzaro, e vieni fuori» Questa potestà sovrannaturale gli è talmente propria da comunicarla ai suoi discepoli: « Nel mio nome cacceranno i demoni, parleranno in lingue sconosciute, leveranno via i serpenti, non sentiranno bracci il mortifero effetto dei veleni, con l’imposizione delle mani guariranno gl’infermi Anzi, chi crederà in me, non solo farà le opere ch’io faccio, ma ne farà ancora delle più grandi » …

– Gesù Cristo operò da vero Dio nell’ordine intellettuale.:… Dio ha dato all’uomo la facoltà di conoscere in modo limitato il presente e il passato; ma s’è riservata a sé la conoscenza del futuro, affinché se qualcuno venisse a noi col dono della profezia potessimo conchiudere che non è l’uomo ma Dio che parla con la sua bocca, e ch’egli è un inviato da Dio o Dio stesso. Molti profeti sorsero prima di Gesù Cristo, ma tutti si professarono soltanto inviati da Dio per annunziare la verità; nessuno si proclamò Dio; … lo stesso Battista, l’ultimo grande profeta, protestò d’essere soltanto la « voce di chi grida nel deserto: preparate la strada del Signore; »… protestò di non essere lui il Messia, ma invece quello Sconosciuto di cui non era degno di sciogliere i calzari Gesù che predisse in modo così preciso e particolareggiato la sua passione e morte, la sua risurrezione, la diffusione dell’Evangelo, la distruzione di Gerusalemme, si proclamò nello stesso tempo Figlio di Dio, Dio come il Padre … dunque Gesù Cristo è Dio Se non fosse Dio, bisognerebbe supporre che Dio stesso avesse posto la profezia in servigio dell’impostura e della bestemmia e che si fosse reso complice nel trascinare il mondo in un errore irrimediabile …..

– Gesù Cristo operò da Dio nell’ordine morale — È umanamente grande quell’uomo, che col suo ingegno s’innalza dal poco o dal nulla alle vette del sapere e delle dignità; … ma farsi piccolo quando si potrebbe essere grande, condannarsi spontaneamente alla povertà, all’oscurità, alla sofferenza suppone una forza morale superiore a quella del cuore umano; … la forza ch’ebbe soltanto Gesù Cristo e ch’Egli seppe comunicare, contrariamente a tutte le idee del mondo, ai suoi discepoli … Lui che sazia miracolosamente migliaia di persone, vive col pane della carità, non ha un giaciglio su cui posare il capo … passa trent’anni di vita nascosta, e nella sua vita apostolica proibisce ai discepoli e agl’infelici da lui beneficati di pubblicare le opere sue stupende, fugge quando vogliono farlo re … va invece esultando verso la passione e la morte …  Gesù Cristo praticò questa povertà, oscurità e sofferenza volontaria, con un entusiasmo superiore a quello onde i mondani vanno in cerca della ricchezza, della fama, dei piaceri … – Solo un cuore divino poteva sacrificarsi tutto a Dio e agli uomini, come fece Gesù …  Si sacrificò alla gloria di Dio, consacrandosi tutto al trionfo della giustizia e della verità, nonostante i disprezzi, gli oltraggi, le fatiche le persecuzioni … dalla Giudea in Samaria, dalla Samaria in Galilea, nelle città e nei villaggi, notte e giorno annunziando il regno di Dio … Si sacrificò alla salute delle anime, insegnando la celeste dottrina, sanando le miserie corporali e spirituali, consolando gli afflitti, sollevando i peccatori, regalandoci il suo sangue e la sua vita … E mentre che noi, solo a costo di grandi lotte con noi stessi, arriviamo ad acquistar la forza necessaria per compiere un sacrificio, Gesù lo fa con tanta calma e semplicità da far chiaramente apparire che in lui la forza del sacrificio è un’emanazione naturale di se stesso e della sua divinità — E solo un uomo Dio poteva estendere a tutta l’umanità il suo sacrificio, abbracciando in un solo amplesso tutti gli uomini, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, Greci e Barbari, Giudei e Gentili. … Il cuor dell’uomo è naturalmente ristretto fra l’amore di se stesso, della famiglia, della patria: e quando cerca di allargarsi oltre questi limiti, se non è attratto da qualche utile, sente la necessità d’un soccorso sovrumano per sorpassare le barriere dell’egoismo … Il cuore di Gesù si dilata all’infinito, senza alcuno sforzo, con un’espansione illimitata e in lui connaturale …

– GESÙ SI RIVELA DIO NELLA SUA MORTE. — Nessun uomo può prevedere come e quando morrà:.., Gesù predice in modo chiarissimo e particolareggiato la sua morte di croce;… e la predice con calma come se si trattasse della cosa più ordinaria… senza lamenti e senza ostentazione — Nessun uomo ha libera la scelta della sua morte:… ma se avesse tale scelta, preferirebbe certo una morte gloriosa a una morte ignominiosa … Gesù fa questa scelta … Gesù solo può dire: «Nessuno può togliermi la vita, ma Io la depongo da me stesso, e son padrone di deporla, e son padrone di riprenderla» (IOAN., 20, 18) … e fin quando non è venuta la sua ora, l’ora da lui voluta, invano i suoi nemici tentano d’ucciderlo … Gesù, supremo dominatore della vita e della morte, non si sceglie una morte placida e soave, non una morte gloriosa, ma la più dolorosa, e la più ignominiosa delle morti … Soltanto un uomo Dio poteva trovare in se stesso la forza di discendere fino a quest’ultimo grado d’umiliazione …

– Solo un uomo Dio poteva conservare nella sua lunga dolorosa passione una pazienza inalterabile, una calma sovrumana; … solo un uomo Dio poteva esclamare sulla croce per i carnefici che l’avevano confìtto: « Padre, perdona loro, perché non sanno ciò che si fanno ».

– GESÙ SI RIVELA DIO NELLA SUA RISURREZIONE (V. Risurrezione).

PERSEVERANZA

PERSEVERANZA

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide ; S.E.I. Ed. Torino, 3a ed. 1930]

1.-Necessità della perseveranza. — 2. Per perseverare ci vuole coraggio. — 3. Motivi di attendere alla perseveranza. — 4. Esempi di perseveranza. — 5. Eccellenza e vantaggi della perseveranza. — 6. Facilità della perseveranza. — 7. Disgraziati quelli che non perseverano! — 8. Mezzi di perseverare.

1. Necessità della perseveranza. — Dopo che Gesù Cristo aveva già detto in particolare della preghiera che « è necessario pregare sempre, cioè perseverare nella preghiera, e non stancarsi mai di pregare » (Luc. XVIII, 1); venne ad una sentenza più generale e disse perentoriamente che « quegli solo andrà salvo, il quale persevererà fino in fin di vita, nella fede, nella pietà, nella religione, nell’adempimento insomma di tutto ciò che costituisce la vita del cristiano » (Matth. XXIV, 13). Perché «chi mette mano all’aratro e si rivolge indietro, non è fatto per il regno dei cieli » (Luc. IX, 62). E con ragione: infatti non è forse l’uomo tenuto a progredire sempre in perfezione? Sì certo: e come potrà egli pervenirvi senza perseveranza? Ricordatevi, dice S. Bernardo, che il cristiano non si obbliga a servire Dio per un anno o per un determinato tempo, come un mercenario; ma per tutta la vita come un figlio; e quindi per quanto corra, non avrà mai il premio, se non corre fino alla morte : e ne ha esempio in Gesù Cristo che fu obbediente fino alla morte.
Ascoltiamo i salutari ammaestramenti che ci forniscono su questo punto gli Apostoli. S. Paolo, per animare i Romani a non più ricadere nel peccato dopo esserne siati mondati col battesimo e con la penitenza, ma a perseverare nel bene, propone loro l’esempio di Gesù Cristo il quale risuscitato una volta da morte, più non muore (Rom. VI, 9); e incoraggiava i Corinzi a mantenersi fermi e saldi, a proseguire anzi più alacri nelle opere del Signore, col ricordare loro che di quanto facessero, Dio nulla avrebbe lasciato senza mercede (I Cor. XV, 58). I Galati ammoniva che stessero nella libertà ricevuta da Cristo, e non si lasciassero più piegare al giogo della servitù del demonio; che non facessero solamente il bene in sua presenza, nè si stancassero qualche volta di farlo, ma fossero sempre zelanti per tutto ciò che vi è di buono (Gal. V, 1) (Gal. VI, 9) (id. IV, 18). – Scongiurava gli Efesini, per le sue catene, che si regolassero in maniera degna della loro vocazione, cioè come figli di luce, perché se altre volte erano stati tenebre, fatti cristiani erano divenuti luce del Signore (Eph. IV, 1) (Id. V, 8). Sì, la vocazione del cristiano è la perseveranza nel bene che egli cominciò a praticare dal punto in cui pose piede nelle vie spirituali. Ma chi cammina, moltiplica i suoi passi, avanza per arrivare alla mèta; voi dunque che avete ricevuto Gesù Cristo, vi dirò col medesimo Apostolo, camminate sui suoi passi, stretti a lui, edificati sopra di lui, e fermi nella fede che vi fu insegnata, ma fermi così ch’ella cresca ogni giorno nella vostra gratitudine (Coloss. II, 6-7). Guardate che nessuno di voi manchi alla grazia di Dio; non lasciate che la stanchezza vi accasci, o la tristezza vi abbatta (Hebr. XII, 15-3). – Crediamo rivolto ad ognuno di noi in particolare quel comando di San Paolo a Timoteo: « Ti ordino innanzi a Dio che tutto vivifica, e innanzi a Gesù Cristo, di osservare questo precetto immacolato e irreprensibile, fino alla venuta del Signore; perchè chi combatte nell’arringo, non è coronato se non ha combattuto come deve » (I Tim. VI, 13-14) (Il Tim. II, 5). – « Voi dunque, o fratelli miei, vi dirò con S. Pietro, che avete conosciuto il bene, custoditelo gelosamente, perchè non vi accada di scadere dalla vostra fermezza; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo » (II Petr. III, 17-18). « Conservatevi nell’amor di Dio », vi dirò con S. Giuda. « Mantenetevi fedeli fino alla morte », vi ripeterò con S. Giovanni (Apoc. II, 10). « Ricordatevi di quello che avete udito e ricevuto, e osservatelo per modo che chi è giusto lo divenga di più; chi è santo, diventi più santo » (Id. III, 3) (Id. XXII, 11). – « Tenetevi fermi dinanzi al Signore », inculcava Samuele al popolo ebreo (I Reg: X, 19). « Sta saldo a tuo luogo, dice a ciascun uomo il Savio, e persevera nell’invocazione dell’altissimo Iddio » (Eccli. XVII, 24). Ben comprendeva questa necessità della perseveranza il Salmista il quale diceva a Dio: « Assodate i miei passi per la strada che conduce a voi, affinché non mi avvenga di barcollare » (Psalm. XVI, 5).

2. Per perseverare ci vuole coraggio. — Tutte le frasi che adopera nella Santa Scrittura lo Spirito Santo, quando parla di perseveranza nel bene, accennano a fortezza, a coraggio, a lotta, a combattimento, a sforzi, a fatiche : « Noi ci sforziamo di piacere a Cristo », confessava di sé l’Apostolo delle genti (II Cor. V, 9); e scrivendo a Timoteo lo confortava che combattesse il buon combattimento della fede, e s’impadronisse della vita eterna alla quale era chiamato (I, VI, 12); altra volta lo esortava a fortificarsi nella grazia della perseveranza che è in Cristo Gesù (II, II, 1).
« Una pietra quadrata, scrive S. Agostino, da qualunque parte si volti, si ferma e sta; così dev’essere del cristiano; egli deve temprarsi ed acconciarsi ad ogni tentazione in modo che per nessun urto cada, per nessun assalto crolli, ma si trovi saldo in ogni circostanza ». Il levriere che scorge la lepre, la insegue tra selve e spine e burroni, né cessa di correre finché non l’abbia presa. Ecco l’immagine del cristiano che aspira alla vita eterna… – Fratelli miei, scriveva S. Paolo ai Filippesi, io cammino verso la mèta che mi fu assegnata dal Signore Gesù Cristo. Non penso affatto di averla raggiunta, ma solamente, obliando quello che mi sta dietro e spingendomi a quello che mi sta dinanzi, tendo al termine, alla ricompensa celeste che Dio mi destina in Cristo Gesù. Noi tutti dunque che vogliamo essere perfetti, siamo di questo sentimento (Philipp. IlI, 12-15). L’Apostolo esamina, non dove è giunto, ma quello che gli resta di via da percorrere, per giungere al cielo. E si sforza e suda per tendere alla vita eterna, dimenticando tutto il resto… « Beati quelli, dice a questo proposito S. Gerolamo, i quali non riposando su le opere di giustizia per lo innanzi fatte, ogni giorno, a imitazione dell’Apostolo, si rinnovano e progrediscono in virtù: poiché la giustizia non giova al giusto dal giorno in cui egli cessa di essere tale. Santità è, non cominciare ma finire ». Quindi S. Cipriano, scrivendo ai martiri, così li esortava: «Se il combattimento vi chiama, se il giorno della battaglia è giunto, combattete da valorosi, lottate con perseveranza: ben sapendo che vi battete sotto gli occhi del Signore, che i generosi vostri sforzi sta considerando ».
La moglie di Lot fu cambiata in una statua di sale, non appena fermò il piede e si voltò indietro : per significarvi che vera sapienza è progredire, dannosa follia è arrestarsi o indietreggiare… Serva questo esempio a incuterci un salutare spavento, mentre ci dà un utile ammaestramento. Il cristiano è raffigurato in quel cavaliere che fu veduto da S. Giovanni nell’Apocalisse, montare un bianco cavallo e partire vincitore con nella destra un arco e in capo una corona, per vincere ancora (Apoc. VI, 1-2). Egli deve, come la Sposa dei Cantici, levarsi la notte, percorrere la città, cercare colui che è l’amore dell’anima sua; cercarlo per le contrade e per le piazze; e trovatolo afferrarlo, stringerlo, abbracciarlo così stretto che non l’abbandoni mai più (Cant. III, 2-4). – « Sta nel luogo, nell’uffizio che ti è toccato e continua nella preghiera », ci dice lo Spirito Santo (Eccli. XVII, 24). Questa parola sta, dimora, sii fermo, significa: 1° la lotta che si deve sostenere contro i nemici per perseverare… ; 2° il coraggio, l’energia con cui si deve combattere per ottenere la perseveranza … Sta, tienti saldo; resisti generosamente; non cedere, non indietreggiare; solo in questo modo tu persevererai… – I soldati, sul campo di battaglia, resistono, combattono con eroico valore; tuttavia qualche volta sono vinti dai nemici. Ma i soldati di Gesù Cristo, se si tengono fermi, sono sempre vittoriosi; poiché nessuno può rapire loro la virtù e la perseveranza nella virtù; nessuno, eccetto la loro propria volontà… Essi si mostrano quali li dipinge S. Cipriano, irremovibili in mezzo alle torture, più forti dei carnefici; e le loro membra scerpate, slogate, peste, resistono alle verghe, ai graffi, alle lame ardenti. Il più lungo e atroce supplizio non può vincere la loro fede; e quando non possono più servire Dio con i loro corpi, perché esanimi, non cessano di servirlo con le loro ferite (De Martyr.)… Sta, invincibile e perseverante contro il demonio, le tentazioni, il mondo, la carne. – Entrate a parte della felicità dei Santi, vi dirò con l’Ecclesiastico, per mezzo delle buone opere; studiatevi di progredire ogni giorno in virtù, perchè entriate nel numero di quelli che vivono e danno gloria a Dio; andate al cielo, vivete per l’eternità (Eccli. XVII, 25). Fruttificate come rosai piantati presso un ruscello (Eccl. XXXIX, 17). Crescete, moltiplicate le vostre virtù, spiegatele; siate fecondi in foglie, in fiori, in frutti di carità, di pazienza, di umiltà, di soggezione, di modestia, di purità, e di ogni virtù… « Studiate a divenire migliori di giorno in giorno, dice S. Basilio; progredite nelle virtù, affinché vi accostiate sempre più agli angeli e diveniate simili a loro ».

3. Motivi di attendere alla perseveranza. — « Io proseguo, dice l’Apostolo, per arrivare allo scopo » (Philipp. Ili, 12). Queste parole cosi spiega il Crisostomo: Io ho tuttavia una vita piena di combattimenti; mi trovo ancora lontano dalla mèta, sono poco avanzato nella corsa. Il grande Apostolo usa il verbo perseguito anziché corro; perchè colui il quale anela dietro un oggetto, se lo fa con ardore, non bada a persona, supera coraggioso ogni ostacolo, v’intende gli occhi, il cuore, il corpo, le forze, l’anima tutta; non pensa ad altro, ma tutto si volge ad ottenere il suo fine (In Verb. Apost.). – « Ecco che io vengo presto, dice il Signore nell’Apocalisse; e porto con me la mercede, per ricompensare ciascuno a ragione delle opere sue » (Apoc. XXII, 12). « Mantenetevi dunque fedeli fino alla morte, ed io vi cingerò la corona di vita» (Apoc. II, 10). « Badate a tenervi ben custodito ciò che avete, affinché non sia data ad altri la vostra corona » (Id. IlI, 11). – Regoliamoci in modo, secondo l’avviso di S. Paolo, che guadagniamo sempre meglio (I Thess. IV, 1). Perché parola certa e degna di fede è questa, che se noi moriamo con Gesù Cristo, vivremo con lui.; se con lui duriamo nei patimenti, con lui regneremo (II Tim. II, 11-12). Noi conserveremo mirabilmente l’acquisto fatto, se studieremo del continuo ad acquistare; invece vedremo diminuire e andare in fumo quello che possediamo, se cessiamo dall’aggiungervene. Come stanno bene su le labbra del cristiano quei detti della Sposa dei Cantici: «Mi sono spogliata della tunica, forse che la vestirò di nuovo? Ho lavato i miei piedi, come mai li imbratterò ancora? » (Cant. V, 3). « Perseveriamo adunque, se vogliamo essere coronati, conchiuderò col Crisostomo; perché nobile ricompensa non può mancare a chi segue il Signore » (In Verb. Apost.) (Homil. VIII); e con Fausto, vescovo di Reims: siamo perseveranti nel servizio di Dio, avendo di mira l’eterna mercede e adoperiamoci a sempre fare meglio ogni giorno. Il desiderio di raggiungere la corona e l’abitudine del bene ci portino a sempre crescere in meriti (In Vita).

4. Esempi di perseveranza. — Gesù Cristo durava le notti intere nella preghiera (Luc. VI, 12). S. Paolo non cessava notte e giorno dall’ammonire con lacrime ciascuno in particolare dei fedeli (Act. XX, 31); e già allora vedeva tanti esempi di Cristiani fermi e costanti nella pratica del bene, che poteva dire agli Ebrei : « Accerchiati da un nuvolo tale di testimoni, deponiamo ogni peso ed ogni peccato, e corriamo con pazienza di carriera per l’arena che ci è aperta » (Hebr. XII, 1). Di S. Barnaba nota il sacro testo, che « esortava tutti i fedeli a perseverare con animo saldo nel Signore » (Act. XI, 23). E tanto valevano presso quei fervidi cristiani le apostoliche esortazioni, che di loro in generale può attestare S. Luca, che « erano perseveranti nella dottrina degli Apostoli, nella partecipazione del pane che loro veniva distribuito, e nella preghiera » (Act. II, 42). – Bisogna fare per la conservazione e l’acquisto della grazia e della virtù, quello che fa l’avaro per l’oro, e imitarne la perseveranza. Oh felici noi! felice il mondo! se si potesse rendere di ogni cristiano quella testimonianza che di S. Agata rendeva Afrodisio, al tiranno Quinziano: « Sarebbe più facile ammollire i macigni e il diaspro, cambiare il ferro in piombo, anziché cambiare l’animo di Agata, e sviarla dall’amore di Gesù Cristo e dal proposito della castità» (In Vita); se su la tomba di ciascun fedele si potesse incidere l’elogio che fece di Tobia lo Spirito Santo : « Stette immobile nel timor di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni del viver suo » (Tob. II, 14). – Così era Davide il quale poteva dire: « Signore, io non ho abbandonato la vostra legge; ma perseverava tra i miei, nella innocenza del mio cuore » (Psalm. CXIII, 87) (c. 2). Tale era Giobbe che esclamava: Finché avrò un filo di vita, le mie labbra non proferiranno parola men che retta, la mia lingua non pronunzierà menzogna, praticherò l’innocenza, non devierò mai di un passo dalla giustizia (Iob. XXVII, 3-6).

5. Eccellenza e vantaggi della perseveranza. — S. Bernardo fa questo elogio della perseveranza: «La perseveranza è il vigore delle forze, la consumazione della virtù, la nutrice dei meriti, la mediatrice delle ricompense, la sorella della pazienza, la figlia della costanza, l’amica della pace, il nodo della carità, il legame dell’unanimità, la cittadella della santità. Togliete la perseveranza, e l’obbedienza non ritrae più premio, il benefizio perde la sua grazia, il coraggio non merita più lode. Solo alla perseveranza si concede l’eternità, meglio, è essa che restituisce l’uomo all’eternità, dicendo il Signore: Chi persevera fino alla fine, sarà salvo ». « La perseveranza, scrive il medesimo Dottore, è la figlia prediletta del gran re, il frutto e il compimento delle virtù, l’arca che contiene ogni bene. E tale virtù, senza la quale nessuno vedrà Dio, nè sarà veduto da Dio, è il termine della giustizia per ogni credente: infatti che cosa giova il correre, e poi stancarsi ed arrestarsi prima di toccare la mèta? Corriamo in modo che arriviamo al premio! ». – Le più munite fortezze cedono agli sforzi di un assedio perseverante… La perseveranza è più potente che la forza; anzi è essa una forza ed una potenza irresistibile… Senza la perseveranza, dice S. Lorenzo Giustiniani, né chi combatte, vince; né chi vince, ottiene la palma. Solo la perseveranza merita la corona della felicità eterna; che più? questa corona le appartiene… – Basti ricordare a questo proposito il fatto della donna cananea e la parabola di colui che va la notte a chiedere tre pani ad un amico. Quella supplica a calde lacrime il Redentore che abbia pietà di lei, e Gesù non la degna di una parola: si prostra per terra e grida: Signore, soccorretemi, e Gesù la rimprovera dicendole che non bisogna gettare ai cani il pane dei figli. La donna non si perde di coraggio, ma con perseveranza nella preghiera volge a suo vantaggio il paragone, facendo osservare al Redentore che se ai cani non si dà il pane, ben si gettano le briciole e gli avanzi della mensa. E questa perseveranza le vale, oltre una perfetta guarigione, un magnifico elogio dalla bocca del divin Maestro: Grande è la tua fede, o donna! (Matth. XV, 22-28). E colui che si vede arrivare nel cuore della notte, mentr’egli è in letto coi chiavistelli alle porte, un amico che gli chiede del pane, non è vero che se, dopo di averlo mandato due o tre volte con Dio, l’altro non si parte, ma continua a chiedere e bussare, egli finisce col levarsi su e, se non in riguardo dell’amicizia, per togliersi almeno la seccatura, dà all’importuno quello che gli bisogna? (Luc. XI, 5-8). Poteva la Sapienza incarnata metterci più vivamente sott’occhio l’eccellenza e l’umiltà della perseveranza? – Perché, osserva qui S. Agostino, colui che è coricato, si alza per dare a chi picchia alla sua porta? Perché questi non cessa dal bussare, perché non ottenendo nulla in su le prime, persiste a domandare. Colui che non voleva dare, vi si risolve alfine, perché il suo amico continua e non si offende del rifiuto. Ora come vorrete che Dio il quale è così buono, Dio che ci esorta a domandare, e si offende se non domandiamo, come vorrete, dico, che non ci dia tutto e più ancora di quello che domandiamo, se perseveriamo! (In Verb. Domini). Questa violenza piace a Dio, ce ne assicura Tertulliano (De Orat.). – Gesù, salito su la nave di Pietro, gli ordina di spingersi in alto mare e di gettare le reti per la pesca. Simone gli fa osservare che già per tutta la notte si erano affaticati indarno, ma che tuttavia fidente nella sua parola non ricusava di rimettersi all’ingrato lavoro : e gettate infatti le reti, le ritirarono tanto piene di pesci, che dovettero chiamare aiuto e poco mancò non si squarciassero (Luc. V, 3-6). Perché questa pesca miracolosa? Per due ragioni : 1° perché avevano continuato tutta la notte a pescare, ancorché loro non venisse fatto di prendere nulla; 2° per la pronta obbedienza di Pietro a ripigliare il lavoro… Qui si adatta la sentenza di Seneca: « Non vi è cosa né cosi ardua, né così sublime che una perseveranza solerte, forte, irremovibile non giunga a conquistare. Molto in alto sta la vita beata, ma la perseveranza la raggiunge. È vergogna soccombere vilmente sotto il peso, e contrastare col proprio dovere. L’uomo forte e animoso non scansa la fatica; la difficoltà dell’impresa gli infonde coraggio anziché togliergliene ». – L’apostolo S. Giacomo ci assicura che colui il quale tiene fisso lo sguardo nella legge perfetta di libertà e vi persevererà, senza dimenticare quello che ha inteso, ma operando secondo la legge, questi sarà beato ne’ suoi fatti (Iacob. I, 25). Anche Gesù aveva detto : « Se dimorate in me, e le mie parole dimorano in voi, voi domanderete tutto quello che vi gradirà, e l’avrete » (Ioann. XV, 7). Chi poi dimora, cioè sta fermo, persevera in Gesù Cristo, costui non pecca, dice il medesimo Apostolo. Ora chi è che si tiene saldo in Gesù, e in cui Gesù dimora? è colui che ne osserva i comandamenti (I Ioann. IlI, 6, 24). Queste parole suggerirono al Venerabile Beda la seguente esortazione: « Sia Iddio la casa vostra, e siate voi la casa di Dio. Dimorate in Dio, e Dio dimori in voi. Dio abita in voi per contenervi nella perseveranza; voi abitate in Dio per non cadere ». – Molti altri preziosi e nobili vantaggi della perseveranza accenna Iddio nell’Apocalisse: « Chi vincerà, mediante la perseveranza, non vedrà la seconda morte » (Apoc. II, 11); cioè egli sarà esente dal peccato che separa l’anima dalla sua vita, che è la grazia di Dio. La prima morte è quella che percuote il corpo nella vita presente; la seconda morte è quella che percuote l’anima nel tempo, e quindi il corpo e l’anima nell’eternità. In altro luogo fa annunziare che al vincitore egli darà una manna sconosciuta ed una pietruzza candida nella quale sta scolpito un nome nuovo, che nessuno conosce, eccetto colui che lo riceve (Id. II, 17). Ora assicura che chi avrà vinto sarà vestito di bianchi lini, non vedrà mai il suo nome cancellato dal libro dei viventi, ed egli, Gesù, lo confesserà per suo innanzi al Padre ed agli Angeli suoi : anzi lo farà sedere accanto a sè sul suo medesimo trono; come egli stesso, avendo vinto, si è assiso sul trono con suo Padre (Id. III, 5-21). Altrove dice che del vincitore ne farà una colonna che starà in eterno nel tempio del suo Dio, che scriverà sopra di lui il nome del suo Dio e il nome della città di Dio, della nuova Gerusalemme che discese dal cielo da Dio e finalmente il nome suo (Id. III, 12). Quanti vantaggi, quante ricchezze, quanta felicità, quanta gloria per quelli che trionfano per mezzo della perseveranza! Essa racchiude adunque tesori infiniti… – Quando Dio vede una generosa perseveranza, immantinente colma l’anima di favori celesti; e più vede fedeltà e fervore, più egli abbonda in grazia ed in gloria, secondo quelle sue parole : « Sarà dato a colui che già ha, ed abbonderà » (Matth. XIII, 12). Poiché la grazia nasce dalla grazia, i progressi aiutano i progressi, i meriti fanno scala ai meriti, i trionfi procurano trionfi; di modo che più uno si adopera ad acquistare ed a perseverare, e più si arricchisce di virtù; più attinge di sapienza alla sorgente della sapienza, e più desidera attingerne. Affrettiamo il passo, cerchiamo, domandiamo, desideriamo, picchiamo fino alla fine, acciocché ci sia dato rallegrarci e godere senza misura e senza fine. Diciamo a Dio col Salmista: « Noi non ci allontaniamo più da te; tu ci renderai la vita e noi invocheremo il tuo nome: e l’anima nostra vivrà sempre per te » (Psalm,. LXXIX, 19) (Psalm. XXI, 30). « Felice l’uomo che a te si appoggia, che da te aspetta il suo soccorso! Egli traversa le sabbiose valli della morte; vi trova sorgenti di acqua viva; le piogge le fecondano; accresce del continuo la sua forza, finché giunge in presenza del Signore su la montagna di Sionne » (Psalm. LXXXIII, 6-8). Diciamogli anche con Salomone: «O Signore, Dio d’Israele, voi conservate l’alleanza e la misericordia ai vostri servi che camminano con perseveranza e con amore innanzi a voi » (III Reg. VIII, 23).87.

6. Facilità della perseveranza. — Certamente, se soltanto dagli sforzi dell’uomo dipendesse il perseverare nel bene, sarebbe cosa non solo difficile, ma superiore alle sue forze; ma quando al buon volere dell’uomo si unisca l’aiuto di Dio, diventa impresa facile e leggera. Ora non vi è pagina nella Scrittura santa che non ci prometta e ci assicuri questo soccorso : « Fedele è quel Dio che vi ha chiamati, scriveva S. Paolo, ai Tessalonicesi, ed egli medesimo verrà in vostro aiuto, vi conforterà e stabilirà e custodirà dal male, purché voi non cessiate per parte vostra di esercitarvi nel bene. Ah sì! noi confidiamo nel Signore, che quanto vi comandiamo, voi lo adempite e l’adempirete » (I Thess. V, 24) (II Thess. IlI, 2) (Id. 13) (Id. 4). – Rammentiamo sempre che Dio è fedele e che non permette che siamo tentati oltre le nostre forze; ma quando la tentazione ci assale, egli la tiene in tali confini, che torna facile, a chi vuole, il superarla (I Cor. X, 13). Prendiamo dunque vigore nella grazia che è in Cristo Gesù; lavoriamo, sopportiamo le fatiche della perseveranza, come valorosi soldati di Gesù Cristo (II Tim. II, 1) (Id. 3). – Di coloro che perseverano, leggiamo nella Sapienza che riceveranno il regno di gloria e il diadema di onore dalla mano del Signore; il quale li coprirà con la sua destra e li difenderà col suo braccio onnipotente: li guarderà dai nemici, li difenderà dai seduttori; li prova con dure battaglie per renderli trionfanti, e loro mostra qual è il valore della sapienza : non li abbandona neppure tra le catene, finché loro non abbia rimesso lo scettro e la potenza reale; paga ad essi il prezzo dei loro lavori, li guida per una via meravigliosa; fa a loro ombra di giorno, e luce di notte (Sap. V, 17; X, 12, 14, 17). – Affinché perseverino nelle vie della giustizia, Dio veglia su quelli che lo amano, dicono i Proverbi (II, 8), e il Signore medesimo ci esorta per bocca del Savio, a combattere per la giustizia, a cagione dell’anima nostra; ma combattere fino alla morte; e Dio sbaraglierà per noi i nostri nemici (Eccli. IV, 33). Alla perseveranza può applicarsi quello che di sè afferma la Sapienza: « Chi si ciba di me, avrà ancora fame; chi beve al mio fonte, avrà ancora sete » (Eccli. XXIV, 29); perché la pena che prova in sul principio chi si dà al bene, gli si cambia, se persevera, in facilità, gioia, felicità, allegrezza… Quando un cristiano comincia a vivere bene e a consacrarsi con fervore alle buone opere, a calpestare il secolo, i cristiani tiepidi e rilassati si burlano di lui, dice S. Agostino; ma se egli persevera, se si mostra superiore a loro con la pazienza, finisce col vedere coloro medesimi che lo canzonavano, mettersi a poco a poco dietro di lui e seguirlo (In Psalm.). . Ben conosceva questa consolante verità il profeta Abacuc, il quale esclamava : « Dio è la mia forza; egli darà a’ miei piedi la velocità del cervo; e mi condurrà, trionfando in vece mia, nelle altezze, mentre inneggerò alla sua gloria » (Habac. IlI, 19). « Siano grazie a Dio, dice S. Paolo, il quale ci fa sempre trionfanti in Gesù Cristo » (II Cor. II, 14).

7. Disgraziati quelli che non perseverano! — A quanti cristiani si può applicare la parola di Gesù: « Quest’uomo ha cominciato a fabbricare, ma non ha potuto terminare » (Luc. XIV, 30). Chi comincia a servire Dio e non persevera, chi volge indietro lo sguardo, è come un edilizio cominciato e non terminato, sul quale non fu posto il tetto; si sfascia a poco a poco, si sgretola, e finisce per cadere affatto in rovina. Perciò quando Gesù guariva qualche malattia, o corporale, o spirituale, sempre diceva ai guariti : Andate, non peccate più, ma perseverate nella sanità dell’anima, affinché non v’incolga di peggio (Ioann. V, 14). Assolse la donna adultera quando seppe che nessuno dei suoi accusatori l’aveva condannata, ma le raccomandò di non più peccare (Ioann. VIII, 10-11). – Quando uno spirito immondo esce cacciato via da un uomo, va errando per luoghi aridi in cerca di riposo, e non trovandone, dice tra sé: Ritornerò là di dove sono uscito e venendo trova la casa scopata, pulita, sgombra e ornata. Allora se ne va a prendere sette altri spiriti peggiori di lui e con questi entra nella casa; e l’ultimo stato di quest’uomo è molto peggiore del primo (Matth. XII, 43-45). – Vi è forse disgrazia più terribile e più grave di quella di essere dichiarato inetto al regno dei cieli? Ora questo appunto affermò il Verbo divino in termini formali, di chi non persevera nel bene, non continua nella retta via : « Nessuno che mette mano all’aratro, disse Gesù, e si volge a guardare indietro è fatto per il regno dei cieli » (Luc. IX, 62). Considerate quello che avvenne alla moglie di Lot, affinché non abbiate da provare l’effetto di quella terribile sentenza del Signore: « Maledetto colui che non sta saldo nei precetti della mia legge e che non ne adempie le opere! » (Deuter. XXVI, 26). – Saullo aveva cominciato bene, ma non la durò e si perdette… Salo-mone aveva cominciato con ottimi principi, non si tenne fermo, e terribile dubbio lascia la Scrittura su la sua salvezza… Aveva cominciato bene Sansone, ma non perseverò, e i Filistei lo accecano, lo costringono a girare, come giumento, una macina; ne fanno il loro ludibrio, l’oggetto dei loro scherni… La Scrittura dice che il giusto è immutabile come il sole, mentre l’insensato è come la luna (Eccli. XXVII, 12). – S. Bernardo deplora la misera condizione di un giovane che aveva egregiamente cominciato, ma poi si era intiepidito, aveva guardato indietro ed era caduto in gravi eccessi. « Amaramente di te mi dolgo, o figlio mio, indicibile è il dolore che per causa tua io provo, o Goffredo. E chi infatti non si rattristerà vedendo il fiore della tua giovinezza, già da te offerto a Dio in odore di soavità, alla presenza degli Angeli che tripudiarono di gioia, ora calpestato dai demoni, lordato delle immondezze del secolo corrotto? Come mai, tu che eri chiamato da Dio, ora segui il demonio che a sé ti richiama? Come mai hai potuto, dalla sequela di Cristo, al quale or ora ti eri dato, rivolgere il passo addietro, e ritrarre il tuo piede dalla soglia della vera gloria? ». – Dal fonte battesimale parte la strada la quale mette capo al cielo; e per perseverare in questa via divina si rinunzia anticipatamente agli ostacoli che s’incontrano nel viaggio; si rinunzia solennemente al demonio, al mondo, alle sue pompe e alle sue opere; là il cristiano si obbliga, in faccia al cielo e alla terra, a vivere e morire per Gesù Cristo; cioè prende formale impegno di perseverare nel bene e allontanarsi dal male. Perciò colui il quale ha la disgrazia di non continuare per il retto cammino, dimentica, trascura, calpesta tutte queste risoluzioni. Allora succede uno sconcerto generale, una deplorabile confusione. Ecco colui che aveva rinunziato al demonio e al mondo, al vizio, alle cattive inclinazioni, al peccato, colui che aveva fatto giuramento di non seguire mai altri, né di servire ad altri che a Gesù Cristo, divenirgli infedele, volgergli le spalle, disprezzarlo e aborrirlo. Rinnega Gesù, abbraccia Barabba.  E furfanti più insigni di Barabba, il demonio e il mondo, gli tolgono tutto ciò che ha di prezioso, grazia, virtù, merito e gloria. Allora si grida come gli Ebrei deicidi al tempo della passione: « Non vogliamo che Gesù regni sopra di noi » (Luc. XIX, 14). Allora si ripete l’infame azione di Giuda che diceva ai principi dei sacerdoti : « Che prezzo mi offrite? ed io ve lo darò nelle mani » Matth. XXVI, 15). Satana, mondo, passioni, concupiscenza, che volete voi darmi? ed io vi consegno l’innocenza del mio battesimo, le mie promesse, i miei voti, la mia anima, la mia salute, la mia corona, la mia gloria, il mio Dio, la mia eternità! Ah! grande purtroppo è il numero di coloro che non perseverano! e piccola è la squadra di coloro che hanno la fortuna di toccare al termine della perfezione! « È di molti l’incamminarsi bene, ma di pochi l’arrivare alla vetta » (Sup. Matth.). Questa sentenza di S. Gerolamo serve di commento a quell’altra del Vangelo : « Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti » (Matth. XX, 16).

8. Mezzi di perseverare. — 1° Chi vuol durarla fino al fine, bisogna che abbia sempre sotto gli occhi il fine. 2° Stare vigilante : « Veglia su di te affinché non cada», dice il Savio (Eccli. XXIX, 27). « E chi si crede di stare saldo; badi di non cadere », dice S. Paolo (1 Cor. X, 12). Chi si è già avanzato per la via del cielo, cammina carico d’oro, deve perciò guardarsi attentamente dai ladri (Hyeron. Epist.). 3° Applicarsi alle cose di Dio. Di Maria Vergine, nota il Vangelo, che raccoglieva attenta, conservava e meditava tutto ciò che sentiva dirsi dai pastori e dagli altri testimoni della nascita di Gesù Bambino (Luc. II, 19). 4° Vivere tutti i giorni come se ogni giorno cominciasse l’opera della salute, o come se fosse l’ultimo della vita, e come vorremmo essere vissuti al punto di morte. 5° Lavorare alla presenza di Gesù Cristo e in sua compagnia. 6° Osservare fedelmente la legge di Dio : « Se la vostra legge, o Signore, confessava il Salmista, non fosse stata la mia continua occupazione, io già sarei perito » (Psalm. CXVIII, 92). 7° Camminare alla presenza di Dio e dei suoi Angeli: « Sia felice il vostro viaggio, disse Tobia; Dio sia con voi nel cammino, e l’angelo suo vi accompagni »  (Tob. V, 31). 8° Rammentarsi che Dio non muta e imitarlo (Malach. IlI, 6). 9° Tenersi strettamente aggrappati alla roccia incrollabile della Chiesa cattolica, apostolica, romana… [la “vera” Chiesa attualmente in esilio -ndr.-] Chi vuole davvero perseverare, deve : 1° riposare l’anima sua in Dio; 2° amare Dio con tutto l’affetto; 3° bramare ardentemente di progredire nella virtù; 4° considerare quanto grandi opere si possono fare da chi ha la volontà ferma e perseverante; 5° non dimenticare mai che brevi sono tutte le pene ed eterna la ricompensa; 6° invocare l’arcangelo Gabriele, che è l’Angelo della costanza e che è chiamato : Fortezza di Dio. 5° non dimenticare mai che brevi sono tutte le pene ed eterna la ricompensa; 6° invocare l’arcangelo Gabriele, che è l’Angelo della costanza e che è chiamato: Fortezza di Dio.