DOMENICA XXIII dopo PENTECOSTE

DOMENICA XXIII dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Jer XXIX:11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV:2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio
Orémus.
Absólve, quǽsumus, Dómine, tuórum delícta populórum: ut a peccatórum néxibus, quæ pro nostra fraglitáte contráximus, tua benignitáte liberémur.
[Perdona, o Signore, Te ne preghiamo, i delitti del tuo popolo: affinché dai vincoli del peccato, contratti per lo nostra fragilità, siamo liberati per la tua misericordia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses.
Phil III:17-21; IV:1-3
Fratres: Imitatóres mei estóte, et observáte eos, qui ita ámbulant, sicut habétis formam nostram. Multi enim ámbulant, quos sæpe dicébam vobis – nunc autem et flens dico – inimícos Crucis Christi: quorum finis intéritus: quorum Deus venter est: et glória in confusióne ipsórum, qui terréna sápiunt. Nostra autem conversátio in cœlis est: unde etiam Salvatórem exspectámus, Dóminum nostrum Jesum Christum, qui reformábit corpus humilitátis nostræ, configurátum córpori claritátis suæ, secúndum operatiónem, qua étiam possit subjícere sibi ómnia. Itaque, fratres mei caríssimi et desideratíssimi, gáudium meum et coróna mea: sic state in Dómino, caríssimi. Evódiam rogo et Sýntychen déprecor idípsum sápere in Dómino. Etiam rogo et te, germáne compar, ádjuva illas, quæ mecum laboravérunt in Evangélio cum Cleménte et céteris adjutóribus meis, quorum nómina sunt in libro vitæ.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XXI– Torino 1899]

 

“Fratelli, siate imitatori miei, e riguardate quelli che procedono nel modo, del qual- avete l’esempio in noi. Perché molti, dei quali spesso vi parlavo, ed ora ve lo ripeto piangendo, operano da nemici della croce di Cristo; fine dei quali è la perdizione, il cui Dio è il ventre, e la gloria è a loro ignominia, che non amano che le cose terrene. Ma noi siamo cittadini del cielo, donde anche aspettiamo il Salvatore, Signor nostro Gesù Cristo; il quale trasformerà l’abbiettissimo nostro corpo, modellandolo sul suo corpo gloriosissimo con quella operazione, con la quale può anche sottomettere a sé ogni cosa. Il perché, o fratelli carissimi e desideratissimi, mia gioia e mia corona, tenetevi così saldi nel Signore, o carissimi! Esorto Evodia e prego anche Sintiche a sentire lo stesso nel Signore. Prego te pure, compagno leale, le soccorri, come quelle che hanno combattuto per il Vangelo insieme con me e con Clemente e gli altri miei cooperatori, i nomi dei quali sono nel libro della vita „ (Ai Filippesi, c. III, 17-21; c. IV, 1-3).

Anche queste sentenze sì piene d’affetto paterno si trovano nella Epistola di S. Paolo ai fedeli della Chiesa di Filippi. Ormai quella lettera quasi per intero nel corso dell’anno ecclesiastico è passata sotto i nostri occhi. Il metodo che noi teniamo di spiegare parola per parola le sentenze delle Lettere apostoliche, ha lo sconcio di dover ripetere non poche volte le stesse verità; ma ha pure dei vantaggi non lievi, tra gli altri quello di seguire passo passo l’Apostolo nelle sue esortazioni sì belle e sì eloquenti, di conoscere i bisogni, i mali ed i beni di quelle cristianità appena nate, che di poco si differenziano dai nostri, e di sentire, direi quasi, ad uno ad uno i battiti di quel cuore tutto zelo per la salvezza delle anime, e di addentrarci in ogni pensiero, anche minimo, di quell’altissima mente. Fu detto, ed a ragione, che il mezzo più facile e sicuro per conoscere un uomo, è quello di leggere le sue lettere: ciò si avvera singolarmente quanto all’Apostolo: la lettura e lo studio, anche ad intervalli, di queste lettere ammirabili, ci fanno entrare nei penetrali di quell’anima incomparabile e ce ne fanno sentire tutta la grandezza. Ma lasciamo da banda qualunque esordio, veniamo alla chiosa degli otto versetti che vi ho riportati. –  Il muratore, che costruisce il muro, prima di porre una nuova pietra, con la mano si assicura che quella già posta sia salda; così anch’io, prima di spiegarvi la lezione dell’odierna Epistola, debbo vedere alcune sentenze che le stanno innanzi, affinché apparisca il legame tra loro e l’armonia delle parti. S. Paolo, dopo aver esortati i Filippesi ad una santa letizia, e messili in guardia contro i giudaizzanti, i quali volevano legare il cristianesimo alla legge mosaica; dopo aver detto che i veri circoncisi, i veri Israeliti sono i cristiani, che hanno la circoncisione dello spirito, non quella inutile della carne; dopo aver detto che anch’egli fu addetto al giudaismo, ma che ora lo reputa fango per seguir Cristo, che lo ha tirato a sè, prosegue esortando tutti a fare lo stesso, e scrive: ” Fratelli, siate imitatori miei — Irnitatores mei estote, fratres. ,, Grande, o cari, è l’efficacia dell’esempio sugli animi nostri, e ben maggiore che non sia la efficacia della parola. Allorché noi vediamo un alto personaggio, il capo nostro affrontare pel primo i pericoli e superare i maggiori sacrifici, quasi nostro malgrado ci sentiamo spinti a seguirlo, e talvolta i codardi diventano eroi. Simone Maccabeo giunse coll’esercito sulla riva d’un torrente impetuoso: bisognava guadarlo: i soldati esitavano dinanzi al pericolo: Simone pel primo gittossi nel torrente e passò, e dietro a lui, pieno di entusiasmo, passò tutto l’esercito. Sulle rive della Beresina si accalcavano a migliaia i miserabili avanzi del grande esercito di Russia: il ponte era distrutto : i cosacchi incalzavano alle spalle: il fiume mezzo agghiacciato: i soldati, intirizziti dal freddo, atterriti, non avevano sotto le palle nemiche ricostruire il ponte: un disastro irreparabile era imminente. Un generale si lancia nel fiume fino alle spalle: l’acqua gli gelava intorno alla persona, e vi stette alcune ore, di là incoraggiando i soldati e dirigendo i lavoranti alla ricostruzione del ponte, e salvò le reliquie dell’esercito (Il fatto è narrato coi colori più vivi dal Thiers nella sua storia dell’Impero; quell’intrepido generale del Genio francese era Eblé, che poco dopo morì). – L’esempio fa prodigi. Noi, uomini di Chiesa, dobbiamo camminare innanzi a voi, o laici, e guai se non lo faremo; ne renderemo conto strettissimo a questo Duce supremo; ma voi pure, o padri e madri, voi, o padroni, voi che tenete un’autorità qualunque, dovete precedere col buon esempio i vostri figli, i vostri dipendenti, i vostri soggetti in guisa da poter loro indirizzare le parole dell’Apostolo : “Fratelli, siate miei imitatori. „ – E non è questo orgoglio, o grande Apostolo? Pòrti innanzi come esempio di perfezione? Perché non dire piuttosto: Siate imitatori di Gesù Cristo? — No, non è orgoglio quello dell’Apostolo, che nelle sue lettere in faccia al mondo confessò tante volte le sue colpe; tre righe più sopra di queste parole egli confessa d’essere stato giudeo, ostinato persecutore della Chiesa: poi, il dire la verità, quando torni a bene altrui, benché ridondi a proprio onore, non è orgoglio, purché retta sia l’intenzione. Finalmente, se qui l’Apostolo propone se stesso in esempio, si associa tosto gli altri, scrivendo: ” E riguardate a quelli che procedono nel modo, del quale avete l’esempio in noi; „ vedete cioè e seguite tutti quelli che tengono con me la stessa via: onde l’Apostolo conforta i fedeli ad imitare non solo sé, ma tutti quelli in genere che corrono la via della verità e della virtù. E d’avere buoni esempi, e seguirli animosamente, avevano bisogno anche i Filippesi, perché pur troppo avevano sotto gli occhi uomini, e non pochi, di scandalo. Udiamo S. Paolo. “Molti, dei quali spesso vi parlava, ed ora ve lo ripeto con le lacrime, operano da nemici della croce di Cristo. „ State sull’avviso, così l’Apostolo; se molti tra voi seguono la via retta, e potete e dovete imitarli, molti camminano per vie torte, e dovete fuggirli. E chi sono? Sono uomini che vi additai quando ero in mezzo a voi, e li conoscete: uomini, che con le perverse loro dottrine e prava loro condotta mi colmano di dolore e mi fanno versare lacrime amarissime; ve lo dico con una sola parola: ” Sono nemici della croce di Cristo — Inimicos crucis Christi. „ Non dovete credere che con la parola croce l’Apostolo intenda significare la croce materiale: con la parola croce indubbiamente vuole indicare la dottrina di Cristo, come noi pure siamo soliti fare nel nostro linguaggio. Nondimeno vi deve essere una ragione speciale, per cui S. Paolo in questo luogo volle usare questa forma di dire, che non gli è famigliare, e deve essere questa: I giudaizzanti, che seguivano e perseguitavano da per tutto l’Apostolo con una rabbia implacabile, insegnavano doversi osservare la circoncisione e tutte le prescrizioni mosaiche, m a non si curavano gran fatto della mortificazione della carne e delle passioni: volevano tutto il bagaglio materiale della legge, ma del culto interno, della vita dello spirito, della crocifissione delle passioni, nulla o quasi nulla. Questi uomini S. Paolo li designa con la frase energica e felice di nemici della croce di Cristo; son gente, secondo san Paolo, che non vogliono patire, che non vogliono rinnegare se stessi, che non vogliono crocifiggere le malnate loro cupidigie, che respingono e combattono la dottrina di Cristo, che si compendia nella croce. – E di questi nemici della croce di Cristo quanti ne abbiamo noi pure, o carissimi! Nemici della croce di Cristo sono coloro che recitano, se volete, lunghe orazioni, che intervengono alle sacre funzioni, che ascoltano la S. Messa, che accettano tutto il simbolo, si dicono cattolici, ma non vogliono rompere quella tresca nefanda, non vogliono restituire il mal tolto, ricusano di dar pace all’offensore, tengono mano a contratti usurai, si abbandonano all’ubriachezza ed ai bagordi, sonieni d’orgoglio, e se fosse possibile convertirebbero in oro le gocce di sudore dei loro operai, avidi solo di arricchire: ecco i nemici della croce di Cristo. Ricordino costoro la sentenza dell’Apostolo: “Quelli soltanto appartengono a Cristo, i quali hanno messo in croce la loro carne colle sue cupidigie e coi suoi vizi. ,, – E quale sarà la fine di questi nemici della croce di Cristo? Risponde l’Apostolo: “La perdizione eterna — Quorum finis interitus. Non ingannatevi, così nel vigoroso suo linguaggio S. Paolo: se fuggite la croce di Cristo, se l’odiate, se accarezzate la vostra carne, finirete nell’eterna perdizione. — Qui l’Apostolo, quasi sfavillante di nobile sdegno contro questi nemici della croce di Cristo, della quale sola egli si gloriava, ch’era tutta la sua sapienza, come protesta altrove, usa una frase piena di forza, ed esclama: ” Questi uomini, il Dio dei quali è il ventre — Quorum Deus venter est. „ – Non vi è dubbio, la frase rovente cade su coloro, che per servire alla gola, col mangiare e col bere, a guisa d’esseri irragionevoli, non curano le leggi sante della temperanza, dimenticano e calpestano ogni dovere, e tutto sacrificano al ventre. Gran cosa! Grande è l’amore degli uomini al denaro, più grande forse ancora alla propria stima, all’onore: sommo poi è l’amore alla sanità ed alla vita del corpo; eppure, per saziare le voglie della gola si consuma il patrimonio, si disprezza il proprio onore e la stima del pubblico, e si fa getto persino della sanità del corpo e si accorcia la vita, tanta è la tirannia di questa passione animalesca. Che dico animalesca! Peggio che animalesca; perché non troverete animale, che, lasciato in balia a se stesso, ecceda i limiti del necessario e del conveniente: poiché ha spento il bisogno naturale di cibo, s’acqueta e cessa di nutrirsi, dove ché l’uomo già satollo ed ebro, ancora domanda cibo, ancora desidera il vino! Aveva ragione Crisostomo di scrivere, che ad alcuni fa più danno il ventre, cioè la gola sregolata, che il mare, allorché uscito dai suoi confini, inonda i campi vicini. Voi lo sapete, o cari, se il valicare alcun poco i confini della cristiana temperanza non è colpa grave, lo è sempre allorché si nuoce (e spesso ciò accade) alla salute del corpo, si perde la ragione, si reca scandalo e si fa soffrire la fame ai figli e alla moglie, e si corre pericolo di proferire bestemmie ed oscenità, e appiccar risse. È vergogna e somma per noi uomini e cristiani, chiamati a servir Dio, servire al ventre! – Un’altra espressione aggiunge l’Apostolo per folgorare questi nemici della croce di Cristo: ” E l a gloria è a loro ignominia; „ e vuol dire: Costoro si fanno un vanto, una gloria di ciò che li dovrebbe far arrossire e vergognare: si vantano delle loro crapule, delle loro immondezze, dei loro vizi, mentre dovrebbero sentire la loro ignominia. È male il darsi in braccio alle passioni, quali che siano; ma il gloriarsi d’essere schiavi delle passioni e menarne quasi trionfo, è cosa intollerabile, è l’essere caduti in fondo al degradamento morale; e a tanta abbiettezza e vergogna si giunge per alcuni cristiani, i quali vanno con la fronte alta e portano in trionfo: i loro viz.! Quorum gloria in confusione est, grida S. Paolo. Davvero costoro, così continua l’Apostolo. “non amano, non gustano che le cose terrene — Qui terrena sapiunt. „ Vedeteli questi uomini, che non han gusto che per le cose materiali; parlate loro di Dio, della vita avvenire, della virtù, delle gioie della buona coscienza, della pace del giusto, della serenità dell’uomo, signore delle proprie passioni; essi si annoiano, si stancano, si offendono: essi non parlano che di passatempi, di affari, di teatri, di conviti, di balli, di piaceri sensuali; han perduto il senso delle cose dell’anima, e non gustano che le cose della terra: Terrena sapiunt. Ci vorrà un miracolo della grazia perché questi, tutto sensi e carne, si riducano ancora sulla via del cielo. A questi uomini, nemici della croce di Cristo, schiavi della gola, che non hanno gusto se non per le cose della terra, S. Paolo, con felice passaggio, contrappone la vita dei veri cristiani, dicendo: ” Noi siamo cittadini del cielo, „ ossia, noi viviamo qui sulla terra come se già fossimo in cielo: Nostra autem conversatio in cœlis est. Codesti uomini dei quali vi ho parlato, son sempre fitti col pensiero e con l’affetto, con la mente e col cuore nelle cose misere e caduche di quaggiù: Terrena sapiunt; noi illuminati dalla fede, sorretti dalla speranza, portati sulle ali della carità, ci solleviamo in alto, viviamo in cielo. Come ciò si intende? Con tutta facilità. Noi abbiamo questo corpo, e finché viviamo, esso non può dimorare che sulla terra. Ma in questo corpo vive l’anima nostra: essa pensa ed ama, e non può non pensare ed amare, come il corpo non può non respirare. Il pensiero e l’amore sono le due perenni manifestazioni dell’anima nostra, sono le due ali, con cui vola là dove le aggrada. Dov’è l’anima nostra? Là dove è il suo pensiero e dove la ferma il suo affetto: il corpo è sempre qui sulla terra, ma l’anima è là dove vuole e come vuole e quando vuole la sua mente e il suo cuore. Mirate l’astronomo: col suo corpo è là sul suo osservatorio, forse seduto sopra la sua sedia: appunta il suo telescopio, e l’anima sua viaggia nei campi del cielo, passeggia d’astro in astro, contempla quelle stelle, la cui luce percorrendo pure 300,000 chilometri ogni minuto secondo, impiega cinque, dieci, dodici anni per giungere su questo atomo della terra! Il corpo è qui, e l’anima va pellegrina più rapida della luce per gli spazi sterminati del cielo. Vedete l’esule ebreo sulle sponde dell’Eufrate: il corpo  è là, l’anima sua s’aggira sui colli della sua Gerusalemme. Quante volte voi, che mi ascoltate, col corpo vi trovate lungi dalla patria, dal focolare domestico! E quante volte sorprendete il vostro pensiero e il vostro affetto che vagheggia le colline che circondano la patria, vi trovate in mezzo ai vostri cari! Si vive in un luogo col corpo, si può vivere altrove coll’anima, e si vive con essa là dove si pensa e si ama. Or bene, dilettissimi: noi siamo condannati a vivere col corpo qui sulla terra quanto piacerà a Dio: ma coll’anima possiamo e dobbiamo vivere là dove è la vera e stabile nostra patria, là dove sono i Santi, là dove è Dio, il Padre nostro, che ci aspetta, là dove staremo eternamente. Quando solleviamo la mente e il cuore a Dio, quando detestiamo il vizio ed amiamo la virtù, quando preghiamo, quando meditiamo le eterne verità, quando disprezziamo le cose della terra e sospiriamo quelle del cielo, allora noi viviamo in cielo, siamo cittadini del cielo: Nostra eonversatìo in cœlis est. Quale felicità, o carissimi! Allora non si sentono, o si sentono più lievemente i mali della terra, e si pregustano le delizie, onde si saziano senza mai saziarsi i beati. In alto adunque, o cari, i nostri pensieri, in alto i nostri affetti e desiderii: Sursum corda! Cominciamo ora a vivere lassù, dove eternamente vivremo, ponendovi, come scrive S. Agostino, le primizie del nostro spirito. Seguitiamo l’Apostolo, il quale, dopo averci esortato a vivere fin d’ora in cielo, coglie l’occasione di rammentare un’altra verità fondamentale, che alla accennata si lega come l’effetto alla causa. Viviamo in cielo, ” donde aspettiamo il Salvatore Signor nostro Gesù Cristo. „ Gesù Cristo risorto e glorioso regna in tutta la sua divina maestà in cielo; nostro capo e modello lassù ci ha preceduto, di lassù guida i nostri passi con la fede, avvalora la nostra debolezza con la sua grazia, e di lassù alla fine dei tempi verrà a coronare i nostri sforzi e a compiere le nostre speranze. Come? “Trasformando l’abbiettissimo nostro corpo, conformandolo o modellandolo sul suo gloriosissimo. „ Rallegratevi, gioite, esclama il nostro Paolo, riguardando il cielo: verrà giorno, nel quale Gesù Cristo, nella sua umanità, raggiante di luce, si mostrerà su questa terra: e come il sole, con la sua luce, riscaldando la terra, fa rigermogliare le piante e copre d’un verde ammanto tutta la natura, richiamandola ad una seconda vita, così Gesù Cristo, mostrando il suo corpo, quasi sole versante luce e calore di vita divina, farà risorgere dalla loro polvere i nostri corpi, li rivestirà di gloria, li riempirà d’una giovinezza fiorente ed immortale. Come doveva essere bello, sfavillante di luce e di gloria il corpo di Gesù Cristo, allorché l’anima sua fu ad esso ricongiunta e apparve alla madre e agli Apostoli! Ebbene: i nostri corpi in quel gran dì saranno foggiati sul corpo stesso di Gesù Cristo, come qui dichiara l’Apostolo, e “risplenderanno come il sole — Fulgebunt sicut sol.,, – ” A che ti lamenti, così S. Bernardo parlava al suo corpo, a che ti lamenti? A che ricalcitri? A che combatti lo spirito? Se lo spirito ti umilia, ti castiga, ti assoggetta, lo fa Per il suo e per il tuo meglio… Pensa, che Colui, che ti ha fatto, ti trasformerà. „ Come potrà egli, Gesù, trasformare il nostro corpo? ” Con quella operazione o con quella forza, con la quale può assoggettarsi ogni cosa, „ vale a dire, usando quella forza stessa, con la quale risuscitò il suo corpo, e con la quale signoreggerà a suo tempo ogni cosa. Gesù Cristo è uomo, ma anche Dio, e come Dio tutto può, e come con la sua parola trasse l’universo dal nulla, così con la stessa parola,  molto più facilmente, richiamerà alla seconda ed eterna vita i nostri corpi. – Ricordate queste sì alte verità, S. Paolo ad un tratto si rivolge ai suoi figliuoli spirituali, e scrive: ” Perciò, o carissimi e desideratissimi fratelli, mia gioia e mia corona, tenetevi così saldi nel Signore, o carissimi! „ In queste affettuosissime parole si sente palpitare il cuore dell’Apostolo e del padre tutto tenerezza per i suoi figli. Uomo veramente ammirabile è il nostro Paolo! Scorrendo la sua vita e leggendo le sue lettere, noi troviamo in lui l’apostolo intrepido, la tempra d’acciaio, il martire: ha pagine d’un vigore, d’una eloquenza irresistibile, rimproveri acerbi, parole di fuoco contro gli scandalosi, i seduttori, i corruttori della verità; e poi ad un  tratto il suo stile si muta, diventa dolce, insinuante, festivo, amabile, lo si direbbe il linguaggio, non d’un padre, ma d’una madre la più tenera. Egli riunisce in sé gli estremi, com’ è dei grandi uomini, e la sua parola veste tutte le forme con una rapidità e facilità singolare. Egli vuole raffermare nella verità insegnata i suoi Filippesi, e nella foga del suo dire per stringerli a sé e quindi a Dio, li chiama “sua gioia — gaudium meum; corona del suo apostolato — corona mea, desideratissimi; „ e quasi non trovasse più altre parole per versare la piena del suo affetto, ripete due volte la parola carissimi. Sembra di vedere questo uomo, già innanzi negli anni, logoro dalle fatiche e dai patimenti, carico di catene in fondo alla sua carcere di Roma, stringere al suo seno l’uno dopo l’altro i suoi neofiti e bagnarli delle sue lacrime. Un uomo, che con sì affocato affetto amava i suoi figli, doveva essere con eguale affetto da loro riamato, ed i Filippesi gliene diedero prova, mandandogli Epafrodito fino a Roma per consolarlo e soccorrerlo nella sua prigione e nei suoi bisogni. L’affetto vivissimo che legava Paolo ai suoi figli di Filippi, e questi a lui, dovrebbe essere il modello dell’affetto che deve stringere ogni pastore al suo gregge e il gregge al pastore. – La vera virtù è sempre graziosa, e non  manca mai di usare quei modi che sono voluti dalla buona educazione, e S. Paolo 1i osserva perfettamente nelle sue lettere, che si chiudono con molti saluti e cordialissimi auguri: “Io esorto Evodia e prego anche Sintiche a sentire lo stesso nel Signore. „ Evodia e Sintiche erano due ragguardevoli donne, e fors’anche signore, di Filippi, convertite probabilmente dallo stesso Apostolo, che avevano resi grandi servigi alla causa della fede, come tosto si dice; in qual modo lo ignoriamo; ma. secondo ogni verosimiglianza, con la parola e con i soccorsi materiali. S. Paolo non le dimentica, e poiché sembra che tra loro fosse sorto qualche dissidio (e dove non vi sono dissidi anche tra persone buone e virtuose?), soggiunge destramente : ” Io le prego ambedue a sentire lo stesso nel Signore, „ che è quanto dire a ristabilire quella concordia, quella pace che deve sempre regnare tra le persone che servono al Signore, che camminano per le sue vie e sono informate dallo spirito di Gesù Cristo. Anche dissentendo tra loro in ciò che è lecito, non devesi mai rompere il vincolo della carità, a talché devesi sempre per amor di Dio avere un solo cuore. Poi, rivolgendo direttamente la parola ad un uomo, che doveva essere notissimo in Filippi, e che era stato suo leale compagno nell’apostolato, S. Paolo scrive: ” E prego ancor te, o leale compagno, aiutale (cioè Evodia e Sintiche), come quelle che hanno faticato nel Vangelo con Clemente e cogli altri miei cooperatori. „ S. Paolo, come Apostolo, poteva certamente comandare; in quella vece prega, insegnandoci che è più conforme allo spirito cristiano, anche in quelli che tengono autorità, il pregare che il comandare, e meglio rispecchia la fratellanza e l’umiltà sì spesso e sì fortemente inculcata nel Vangelo. S. Paolo, tra gli altri suoi cooperatori, nomina Clemente, che può essere quello stesso, che poi tenne la cattedra di S. Pietro e scrisse le due magnifiche lettere ai Corinti, continuando l’opera pacificatrice del suo maestro, S. Paolo stesso. “I nomi di costoro, dice S. Paolo, sono scritti nel libro della vita. „ Certo nessuno di voi, o cari, penserà che Iddio tenga un libro, sia della vita, sia della morte, sul quale siano scritti i nomi, volete degli eletti, volete dei reprobi. Dio non ha bisogno di libri, Dio che tutto vede e conosce perfettamente: è un modo di dire che dobbiamo usare noi, uomini, parlando di Dio. Il libro di Dio è la sua scienza infinita, a cui nulla può sottrarsi, né in cielo, né in terra: e Dio conosce quelli che lo servono e lo amano, e questi sono chiamati alla vita eterna, e perciò si dicono scritti nel libro della vita. Carissimi! Viviamo in modo che i nostri nomi tutti siano scritti su quel libro della vita, a cui aspiriamo, libro che si scrive da ciascuno di noi con le opere sue, e dal quale nulla si scancellerà mai per tutti i secoli dei secoli.

 Graduale
Ps 43:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]
In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja. [In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno..]

Alleluja

Allelúia, allelúia

Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja. [Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt IX:18-26
In illo témpore: Loquénte Jesu ad turbas, ecce, princeps unus accéssit et adorábat eum, dicens: Dómine, fília mea modo defúncta est: sed veni, impóne manum tuam super eam, et vivet. Et surgens Jesus sequebátur eum et discípuli ejus. Et ecce múlier, quæ sánguinis fluxum patiebátur duódecim annis, accéssit retro et tétigit fímbriam vestiménti ejus. Dicébat enim intra se: Si tetígero tantum vestiméntum ejus, salva ero. At Jesus convérsus et videns eam, dixit: Confíde, fília, fides tua te salvam fecit. Et salva facta est múlier ex illa hora. Et cum venísset Jesus in domum príncipis, et vidísset tibícines et turbam tumultuántem, dicebat: Recédite: non est enim mórtua puélla, sed dormit. Et deridébant eum. Et cum ejécta esset turba, intrávit et ténuit manum ejus. Et surréxit puélla. Et éxiit fama hæc in univérsam terram illam. [In quel tempo: Mentre Gesù parlava alle turbe, ecco che uno dei capi gli si accostò e lo adorò, dicendo: Signore, or ora mia figlia è morta: ma vieni, imponi la tua mano su di essa, e vivrà. Gesú, alzatosi, gli andò dietro con i suoi discepoli. Quand’ecco una donna, che da dodici anni pativa una perdita di sangue, gli si accostò da dietro, e toccò il lembo della sua veste. Diceva infatti tra sé: Solo che io tocchi la sua veste e sarò guarita. E Gesù, rivoltosi e miratala, le disse: Abbi fiducia, o figlia, la tua fede ti ha salvata. E da quel momento la donna fu salva. Giunto che fu alla casa del capo, vedendo dei suonatori e una turba di gente rumoreggiante, disse: Ritiratevi, poiché la fanciulla non è morta, ma dorme. E lo deridevano. Ma dopo che la gente venne fatta sgombrare, Egli entrò, prese la giovane per mano ed ella si alzò. E la fama di ciò si diffuse per tutto quel paese.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

Pietà.

La pietà, dice l’Apostolo, per ogni cosa per ogni modo è utile e, vantaggiosa , “pietas ad omnia utilis” (Ad Rom. XIII, 17). Quest’eccellente virtù, prosegue lo stesso, contiene in sé una sicura promessa d’ogni bene per la vita presente e per la futura, “promissionem habens vitæ, quæ mens est futuræ”. Il Vangelo di questa domenica in due esempi ce ne dà la più autentica prova. Ad un Principe della Sinagoga era morta l’unica figlia; privo d’ ogni umano rimedio s’accosta a Gesù e, “Signore, Gli dice nella più umile e rispettosa maniera, la mia figlia non vive più ma se voi vi degnate venire a porre la vostra mano sopra la stessa, io son sicuro che tornerà in vita”. Sorge il pietoso Salvatore, e lo segue accompagnato da’ suoi discepoli. Facendo strada, ecco  una donna da dodici anni languente per un ostinato flusso di sangue, che tra sé va dicendo:se mi riesce toccargli soltanto l’orlo della sua veste, io son sanata.” Così avvenne: toccò la fimbria della sua veste, e guarì sull’istante. Giunto poi Gesù alla casa del Principe, che tutta era in lutto e mestizia, “non è morta., dice Egli, questa fanciulla, ella dorme”. Certi di sua morte gli astanti, presero a scherno le sue parole. Indi entrato nella camera della defunta, la prende per mano, e viva e sana la rende ai suoi genitori. Ecco quanto fu giovevole por quel Principe e per l’emorroissa quella pietà che la fece ricorrere al Salvatore. “Pietas ad omnia utilis”… Di questa pietà, da cui, al dir di S. Agostino, derivano tutte le pratiche d’un retto vivere, “pietas, unde omnia recte vivendi ducuntur officia” (Ep. 25), io vengo a parlarvi; potrei mostrarvi di quanto vantaggio sia alla vita umana, alla vita civile, alla vita sociale, alla vita spirituale, alla vita eterna; ma per adattarmi alle strettezze del tempo , e non abusarmi della vostra sofferenza, ve ne darò un piccolo saggio, onde allettati dall’utilità che apporta, vi risolviate abbracciare cosi bella virtù. – Agli occhi del mondo, agli amatori del secolo suole comparire la cristiana pietà in aspetto d’un mostro, che divora i suoi seguaci. A disinganno di costoro, ed a nostra istruzione, eccovi un ritratto dì questa virtù, madre d’ogni retto operare, in quel che avvenne al giovane Tobia (Tob. VI). Giunto questi alle sponde del Tigri, mentre sta lavandosi i piedi, ecco venirgli incontro a bocca spalancata un pesce enorme. Ohimè, Signore, grida spaventato Tobia, aita, m’inghiotte! L’Arcangelo Raffaele sotto le sembianze d’Azaria gli fa cuore, e, “prendilo, gli dice, per una branca e trascinalo in sull’asciutto”. Ubbidisce Tobia, e trattolo in sull’arena, lo vede, dopo alquanto dibattersi, palpitante ai suoi piedi. “Dov’è, Tobia, il tuo spavento”? dovette dirgli l’Arcangelo, “tu non sai quanto sia per giovarti quel che tanto ti sbigottì. Sventralo orsù, e metti da parte il fiele: sarà questo l’opportuno rimedio a guarire la cecità del tuo buon genitore: fa altrettanto del fégato e del cuore; una porzione di questi posta sopra accesi carboni ha virtù di scacciare il demonio, e lo scaccerà infatti da Sara tua futura sposa: l’altre parti condite con sale ci serviranno per nutrimento nel nostro viaggio”. Tanto disse l’Angelo a Tobia, lo stesso io dico a voi riguardò alla pietà, alla vita devota. Sembra questa un mostro che divori per le apparenti e mal supposte difficoltà ed asprezze, che v’apprendono i mondani, ma non è così. Appigliatevi alla pietà soda e vera, ad un tenore di cristiana e costante devozione, e una dolce esperienza vi farà conoscere quanto sian vani i timori di chi si lascia sedurre dall’apparenza, vedrete in pratica di quanti beni vi sarà apportatrice. Essa v’aprirà gli occhi a conoscere la vanità delle cose terrene e la grandezza dell’eterne, vi scoprirà la bellezza della virtù e la deformità del vizio, la preziosità dell’anima, l’importanza dell’eterna salute, passerete come il vecchio Tobia dalle tenebre di cecità alla luce d’un nuovo giorno. Essa scaccerà da voi il demonio tentatore, vi farà schivar i suoi lacci, ributtar lo sue suggestioni, vincere i suoi assalti. Essa in fine sarà per voi una sorgente di benedizioni, un mezzo ond’essere provveduti di temporale sostentamento nel viaggio di questa vita mortale. Ve n’assicura in più luoghi lo Spirito Santo: per chi teme Dio non v’è da temer povertà, “non est inopia timentibus eum” (Ps. XXXIII, 10-11): a chi cerca il Signore non verranno mai meno i sussidi d’ogni bene terreno, “inquirentes Dominum non minuentur omni bono”. Noi vediamo infatti nella divina Storia, che Iddio ha sempre avuta una cura tutta singolare di quei che camminano nelle vie della giustizia e della pietà, o si tratti di liberarli da generali castighi, o di versar sopra di essi le più generose beneficenze. – Se parliamo dei flagelli, la divina giustizia sommerge il mondo tutto nell’acqua di un universale diluvio: vuol salvare una famiglia per conservare l’umana specie. Si salva la famiglia d’un malvagio? No, voi lo sapete, bensì la famiglia del giusto, Noè e tre suoi figli con le rispettive consorti. La sempre giusta ira di Dio fa piover fuoco sulle infami città di Sodoma e di Gomorra. Si vuol liberare dall’incendio fatale un’altra famiglia; sarà quella d’un impudico o quella di un casto? Ognun lo sa, vien liberato Lot con le due sue figlie, perché nella comune corruzione si è mantenuto incorrotto. Se poi si tratti di spandere le sue larghe beneficenze, mirate di grazia su chi il buon Dio le diffonde; sopra i tanto rinomati Patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, tutti personaggi santissimi, e nel tempo stesso doviziosissimi, abbondanti d’ogni sorta di armenti, di possessioni , di servi, d’oro, d’argento, e di ogni bene più desiderabile. E giacché di Giuseppe si è fatta menzione, vi prego a condurvi col pensiero là in Egitto nella casa di Putifar a dargli un consiglio. Egli è nel fior dell’età giovanile, chi sa che non ne abbisogni. Si trova questi in terra straniera, in casa altrui, in qualità di schiavo. La sua padrona di esso invaghita gli ha chiesto più volte corrispondenza in amore. Accostatevi al suo orecchio, o politici, voi che sul fondamento della nequizia sperate innalzar la vostra fortuna. “E possibile (par di sentirvi) … possibile in te tanta ritrosia? Si vede bene che sei semplice ed inesperto: la tua sorte è fatta se tu sai profittarne. La padrona che t’ama è ricca e potente, se tu la disgusti per uno sciocco tuo scrupolo, tu sei perduto, tu non sai quanto sia da temersi quell’odio che comincia dall’amore; tu non sai che non v’è ira che possa somigliarsi all’ira della donna. Giuseppe non sa di tanta politica, ei teme Dio, ei non v’ascolta, lascia nelle mani dell’impudica padrona la sopravvesta, e fugge dicendo, “come posso far tanto male e tanta offesa al mio Dio”? Oh! questa volta, voi ripigliate, la pietà non l’indovina. Giuseppe calunniato come tentatore vien posto in ferri, condannato ad un’oscura prigione. La pietà non l’indovina? Aspettate in grazia, ed ammirate i tratti stupendi di quell’altissima provvidenza che protegge i suoi cari. Il Faraone fa sogni misteriosi, nessun si trova capace a interpretarli, dal fondo della sua carcere si chiama Giuseppe, spiega i sogni, provvede i popoli, salva l’Egitto, ed eccolo innalzato al primo grado del regno, eccolo assiso sopra cocchio reale, acclamato per le contrade di Menfi e di tutto l’impero Salvatore del mondo. Che dite ora, Signori miei? Avrebbe potuto Giuseppe sperar dal peccato un tanto innalzamento? Sarebbe ora egli tanto celebre nella divina storia, tanto a Dio accetto, e quel che il tutto importa eternamente beato? – E pure, voi replicate, più dell’uomo pio è sovente prosperato il malvagio. Chi fa fortuna al mondo? L’usuraio nascosto, il ladro civile, lo spergiuro sfacciato, il prepotente impunibile, il litigante animoso, il superbo fortunato. È vero, sono alle volte prosperati i malvagi, ma per l’ordinario non è durevole la loro prosperità. Io fui giovane, diceva il Reale Profeta, ed ora son vecchio, “iunior fui, etenim senui”, ed ho veduto l’empio esaltato come i cedri del Libano, “vidi impium superexaltatum sicut cedros Libani” (Ps. XXXVI), … fatti alcuni passi son ritornato per rivederlo, non v’era più, “transiti, et ecce non erat”, e ne ho potuto distinguere il luogo , ov’era piantato, “quæsivi eum, et non est inventus locus eius”. Per lo contrario non ho veduto mai l’uomo giusto abbandonato, né i figliuoli andar alla cerca del pane. “Et non vidi justum derelictum, nec semen eius quærens panem”. – Inoltre gli iniqui sono talvolta felicitati, non già perchè son tali, molto meno per difetto di provvidenza, ma perché Iddio premia in ossi l’atto, o l’abito di qualche naturale virtù. Il sentimento è di S. Agostino, che porta in esempio la Romana Repubblica, da Dio prosperata con tante vittorie fino ad estendere col valor della sue armi dall’Oriente all’Occidente il suo dominio.A tanta gloria innalzò Iddio quegli antichi eroi con lauta estensione d’impero, perché di lor natura erano sobri, temperanti, fedeli nelle promesse, zelatori della giustizia, umani coi popoli soggiogati. Queste virtù naturali non potevano avere né merito, né premio di vita eterna, perché opere morte di gente idolatra: ond’è che Dio, a Cui piace l’ombra eziandìo della virtù, li ricompensò con beni terreni, con onori mondani, con felicità temporali. – Applicate questa dottrina al caso nostro. Non v’è, come è da credere, al mondo uomo così scellerato che in vita sua non pratichi, o praticato non abbia qualche atto naturalmente buono, come sarebbe soccorrere un miserabile, proteggere un oppresso, assistere un infermo, impedir l’altrui danno, amar la verità, praticar la giustizia.Questi atti naturalmente virtuosi, fatti da chi è in disgrazia di Dio, non son certo meritevoli d’eterno premio, sono ombre, sono immagini, sono cortecce di virtù, quali Iddio, autore anche d’ogni naturale onestà, non vuol lasciare senza proporzionata ricompensa.A farvi meglio comprendere quest’importante verità, e adattarmi alla capacità di tutti, fatevi tornare a mente ciò che avrete più volte veduto. Allorché un omicida, un assassino vien condannato a morte, tutta la città è in movimento. Vanno a confortarlo in carcere sacerdoti, religiosi, e i più distinti signori, lo provvedono di cibi scelti, di vini preziosi, di squisiti liquori. Nell’uscir poi della sua prigione per andar al patibolo, se lo tolgono in mezzo, l’accompagnano con carità, con tutto rispetto, come personaggio di merito singolare. Ditemi ora, gli fanno queste attenzioni perché è un assassino, perché ha tolta la vita a tanti suoi simili? Non già, e voi lo sapete, così lo trattano, perché loro prossimo e fratello in Gesù Cristo. Laonde come uomo, come prossimo, come fratello riceve tante finezze, e come omicida, come sanguinario, assassino si sospende ad un infame patibolo. – Dite lo stesso degli empi prosperati; come uomini, come ragionevoli creature, che in atto o in abito han praticata qualche naturale virtù, sono da Dio rimuneratore trattati bene nel breve corso di questa vita; come malvagi poi, e come rei saranno dallo stesso Dio, giusto punitore dell’empio e dell’empietà, condannati all’eterno supplizio. Tanto avvenne precisamente al ricco Epulone: ebbe la sua mercede in questa terra, e poi il suo castigo nell’eternità, “recepisti bona in vita tua” (Luc. XVI), gli disse Abramo dal luogo del suo riposo, ove aspettava la risurrezione del Salvatore: “recepisti”, dunque aveva qualche merito nell’ordine di natura, “recepisti bona”, e furono vestir di bisso, o di porpora, seder quotidianamente a lauto banchetto; dopo ciò, perché stato crudele verso il povero Lazzaro, fu sepolto nell’abisso infernale, “mortuus est dives et sepultus est in inferno”. – Dal fin qui detto, discende questo consolante argomento. Se il nostro buon Dio tanto ama la virtù fino a premiarne la sola apparenza nella persona dei suoi nemici, quanto più largamente ricompenserà la virtù vera, la soda pietà nella persona dei suoi eletti? Così è, così sarà: “Beato l’uomo che teme il Signore, dice il Re Salmista (Ps. I), sarà come un albero piantato in riva a fresca sorgente, che a sua stagione s’arricchirà di frutti, e in tutte l’opere sue sarà prosperato; non così gli empi, non così; ma saranno come polvere, che il vento sbalza da terra, e disperde per l’aria”. Camminiamo dunque, fratelli carissimi, nelle vie della giustizia, della devozione vera, della pietà cristiana, e scenderà copiosa sopra di noi la benedizione dell’Altissimo, benedizione foriera di quella ch’Egli comparte ai beati nel suo eterno regno, ove Dio ci conduca.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Pro nostræ servitútis augménto sacrifícium tibi, Dómine, laudis offérimus: ut, quod imméritis contulísti, propítius exsequáris. [Ad incremento del nostro servizio, Ti offriamo, o Signore, questo sacrificio di lode: affinché, ciò che conferisti a noi immeritevoli, Ti degni, propizio, di condurlo a perfezione.]

Communio
Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis. [In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio
Orémus.
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quos divína tríbuis participatióne gaudére, humánis non sinas subjacére perículis.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (4)

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (4)

  1. — Ortodossia

[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp. 192-245.].

Parte terza: Celeste presenza

Il panorama del nostro piccolo mondo viene vivificato dagli ideali: senza di essi è deserto e deserta resta la vita. Per questo si è parlato di alcuni ideali. Il panorama del mondo vario, pur sempre nuovo e ricco come lo ha creato Dio, può venir guastato da artificiali e irrazionali rughe, quali determinano gli uomini, allo stesso modo con cui artisti senza umanità guastano i paesaggi. Per questo abbiamo parlato di qualche moda. Il panorama del mondo, per chi ha fede, può completarsi con realtà superiori, per nulla chimeriche, sempre operanti. Per questo parliamo qui dei santi. – La presenza dei santi ha sempre trasformato il mondo, che pare attenda la quotidiana visita di questi suoi intercessori, per non restare troppo solo. Ne parliamo perché è utile fare in proposito alcune precisazioni e perché un certo qual processo di disumanizzazione (non si tratta di altro!) pare che qualche volta investa anche i santi. Vorremmo precisare che, per quanto non sia qui oggetto diretto della nostra attenzione, quello che si dice dei santi va detto in forma assai più alta, ampia e singolare della santissima Vergine Madre di Dio. – Se qui, a proposito dei santi, ci interessa la espressione positiva, dobbiamo pure, come è nella natura e finalità di questa nostra lettera, occuparci di fatti (chiamati sopra «disumanizzazione») che possono presentarsi brevemente così: taluni, ossequenti all’andazzo esistenzialista, tendono a ridurre la valenza dei santi, mezzo eccellente per ridurre il culto, altri si direbbe che li considerino un velo frapposto tra noi e Cristo, tali dunque da desiderarne una certa rimozione quasi fossero danno al culto dovuto a Dio; altri finalmente hanno perduto la nozione della funzione complessa dei santi nella economia della salvezza. – Scriviamo perché tali mende non abbiano presa in voi e perché voi possiate educare nella serena tradizione cristiana i vostri fedeli, senza lasciarli in balìa tanto di entusiasmi vuoti che di dimenticanze offensive e dannose.

La dottrina sui Santi

Nella sua sessione XXV, il conciliò di Trento ha dedicato un notevole testo alla dottrina cattolica circa i santi, che è riassuntivo di tutta una tradizione cattolica. Vogliate leggerne qualche brano. «Mandat sancta Synodus omnibus episcopis et cœteris docendi munus curamque sustinentibus, ut iuxta catholicæ et apostolic ecclesiæ usum a primaevis christianæ religionis temporibus receptum sanctorumque Patrum consensionem et sacrorum concilio rum decreta, imprimis de sanctorum intercessione, invocatione, reliquarum honore et legitimo imaginum usu, fideles diligenter instruant, docentes eos sanctos una cum Christo regnantes orazione suas prò hominibus Deo offerre, bonum atque utile esse suppliciter eos invocare et ob beneficia impetranda a Deo per filium ejus Jesum Christum Dominum nostrum, qui solus noster Redemptor et Salvator est, ad eorum orationem opem auxiliumque confugere, illos vero qui negant sanctos æterna felicitate in cœlo fruentes invocandos esse, aut qui asserunt, vel illos prò hominibus non orare, vel eorum, ut prò nobis etiam singulis orent, invocationem esse idolatriam, vel pugnare cum verbo Dei, adversarique honori unius mediatoris Dei et hominum Jesu Christi, vel stultum esse in cœlo regnantibus voce vel mente supplicare, impie sentire» (DS. 984). [«Il Santo Concilio impone a tutti i vescovi e a tutti coloro che hanno l’obbligo d’insegnare, secondo la consuetudine della Chiesa cattolica e apostolica, ricevuta sin dai primi tempi della religione cristiana e secondo il sentimento unanime dei santi Padri e i decreti dei santi Concili, di istruire diligentemente i loro fedeli particolarmente riguardo all’intercessione dei Santi, la preghiera che viene loro indirizzata, gli onori resi alle reliquie e il legittimo uso delle immagini. Che insegnino loro che i Santi che regnano insieme a Cristo offrono a Dio le loro preghiere per gli uomini, che è buona cosa e utile invocarli umilmente e, onde ottenere i benefici di Dio per mezzo del Figlio Suo, nostro Signore Gesù Cristo, che solo è il nostro Redentore e Salvatore, di ricorrere alle loro preghiere, al loro aiuto, alla loro assistenza. Coloro i quali negano che si debbano invocare i Santi che godono in cielo l’eterna felicità; o che affermano che questi non pregano per gli uomini, o che le domande che a loro si indirizzano di pregare per ciascuno di noi sono idolatria; o che sia cosa contraria alla parola di Dio e opposta all’onore di Gesù Cristo, unico Mediatore tra Dio e gli uomini; o che sia stoltezza supplicare vocalmente o mentalmente coloro che regnano nei cieli; tutti costoro hanno pensieri empi. ».] – Il testo che segue è un’ampia conferma, anche nei particolari, circa il culto da rendere ai santi, alle loro reliquie, alle loro immagini. La Sacra Scrittura non è affatto equivoca, né avara per quel che riguarda il culto dei santi Angeli. La prassi ecclesiastica, fin dagli inizi testimone del pensiero rivelato e delle sue applicazioni, ha reso ai Santi un culto analogo a quello che la teologia biblica indica per gli Angeli. Tra questi Santi furono annoverati gli Apostoli, molti presentati o ritenuti sia discepoli del Signore, sia collaboratori degli Apostoli, i martiri. Dopo la sufficiente pace accordata alla Chiesa si diffuse, per lo stesso titolo, il culto reso ai santi non martiri, detti pertanto semplicemente confessori, nonché alle vergini e alle sante donne. – Dal secolo quarto e cioè dal momento in cui la Chiesa poté indisturbata elevare i suoi templi si direbbe che tutto si aggrappa ai Santi, alla loro memoria; e si accentua il bisogno di far passare attraverso i Santi molto di quello che deve salire a Cristo, a Dio. La comunità dei viventi, con questi non più tra i viventi, è un fatto reale, solenne, commovente, continuo. Fu specialmente al tempo della decadenza dell’impero e in tutto il medioevo come se, incombendo una solitudine sulla lenta e talvolta oscura incubazione della nuova civiltà, apparisse imperiosa ed insostituibile la ricerca di questa superna compagnia. La quale era, ancora in qualche modo, tanto umana da attrarre e non intimorire e restava sempre talmente superna da infondere fiducia, serenità e gioia. – La prassi dei secoli cristiani, a proposito dei Santi, è una prassi di compagnia continua con la città superna. Le orme impresse dalla loro vita diventavano travature per la vita pubblica e privata ed erano travature oneste, sagge, dignitose ed utili. Ancora oggi in Liguria tutto il percorso fatto al secolo ottavo dalla salma di sant’Agostino, portata a Pavia da Liutprando, è riconoscibile dalle memorie, mai estinte, che di lui vi sono scaglionate, come analoghe memorie costellano le strade per le quali passò san Bernardo. I Santi apparvero sempre come i felici e sicuri compagni di quelli che erano ancora a meritare, a penare e a combattere nel pellegrinaggio terreno. La storia del culto dei Santi, mentre attesta un dato di tradizione divina, è la storia di una singolare e vera compagnia tra viatori e beati. Resta un fatto pertinente alla vita ed alla sostanza della Chiesa, mentre non cessa di essere un fatto dei più umani e toccanti. – Naturalmente non mancarono le ingenuità, specialmente a proposito di reliquie, che furono contese e talvolta autenticate con fretta, senza indagine sufficiente a scoprire una dubbia e forse ingannevole origine. Ma questo resta un fatto marginale che attesta quanto abbiamo sopra scritto e che non viola la serietà del culto, perché le reliquie trasmettevano l’onore sempre, e per chiara intenzione, a coloro che vivevano in cielo, senza far ristagnare nulla  nei possibili errori della terra. Si trattava e si tratta, nel caso, di culto relativo. –  La liturgia visse sempre anche dei Santi e non li considerò mai ingombri o veli per quello che andava a Dio, ma piuttosto fautori di una comunità vibrante e fremente di vita, nonché strumenti di un maggiore onore reso a Cristo. E strano che molti non capiscano come talvolta sia giusto onorare Iddio, più che con quello che abbiamo fatto noi, con quello che ha fatto Lui. E sua la divina parola, è sua la certezza della verità consegnata alla Tradizione, ma i Santi sono pure opera sua. – Perché dunque qualcuno deve temere di onorarli, di collocarli sulle pareti delle chiese, di narrare la loro storia, di proporre i loro esempi, di leggere e far leggere le loro vite, di rivolgersi a loro con la semplicità dei bimbi bisognosi di fratelli maggiori? Non credano siano gran gloria di Dio quei patiti, i quali sempre hanno da rinfacciargli di aver fatto cose incomplete (quei che si lamentano sempre, e trovano tutto storto; quei che rimpiangono, come i rivoltosi ebrei davanti a Mose, i cibi d’Egitto ed hanno da accusare sempre la Chiesa appartengono a questa categoria); gloria di Dio sono quaggiù, dopo i fatti divini in se stessi, i Santi. La Redenzione trionfa nei Santi. Ma vorremmo che il concetto, sul quale si ritornerà, di questi accompagnatori sereni e caldi della solitudine terrena non vi abbandonasse mai più, e per la estimazione del fatto in se stesso e per il completamento della vita della Chiesa e per il sostegno della vita interiore dei singoli, ai quali tutto può risultare vuoto se nella loro anima non si affaccia la presenza dei Santi. La ragione più grande che ci ha deciso a prendere in mano la penna e scrivere dei Santi è qui. – Noi sentiamo ogni giorno intorno a noi il peso della solitudine cupa di gente che vive nel rumore della folla ondeggiante e nella vicenda frettolosa dei fatti, ed abbiamo pietà di questa solitudine. Con Dio non si è mai soli, ma è piaciuto a Dio, nostro Signore, che noi troviamo la compagnia dei nostri fratelli, ormai certamente sicuri. – L’avvenire degli uomini non è mai chiaro, perché tutti i loro peccati corrodono tutti i sentieri della storia e inducono una dialettica intricata di cause e di effetti, di errori e di nemesi, di esplosioni e di interrompimenti. La certezza che i Santi continueranno ad accompagnare gli uomini è una delle poche garanzie dell’avvenire. – La congiunzione con Cristo Signore e Redentore sta alla base di tutto. Questa congiunzione è affermata dalla verità per cui noi formiamo con Lui un solo Regno, una sola Chiesa, un solo Corpo. – l’ordine della grazia nella sua più larga accezione e la adesione della fede sono i nessi di questa singolare unità: communio sanctorum. La congiunzione rende, quanto è possibile a creatura, partecipabile dai redenti quello che è di Cristo Verbo Figlio di Dio: la vita divina, la reazione eterna, la gloria. La vita degli uomini non può mai essere oscura, dato che si può articolare tra questi termini. – I gradi della congiunzione a Cristo sono diversi, a seconda della grazia e del merito. Un grado netto distingue quelli che sono ormai fuori delle vicissitudini del tempo e regnano in eterno da quelli che sono ancora nella prova terrena. La sublime imitazione di Gesù Cristo può raggiungere il grado di una presentabilità agli uomini per la loro edificazione, garantita dall’intervento dei segni divini: in tal caso alcuni partecipano all’onore stesso di Gesù Cristo, anche in questo mondo: sono i Santi. Insomma i Santi sono lo stato logico e più vero della famiglia di Dio, di quella famiglia nella quale la Incarnazione del Figlio e la nostra assimilazione a Lui ci ha raccolti e nella quale possiamo chiamare Dio «Padre». – Per tale motivo i Santi non sono un’appendice della verità rivelata; essi sono inseriti nella sostanza rivelata e solo così si intende tutta la loro logica. – I Santi sono la parte più autentica della famiglia di Dio, del Regno, se così si preferisce dire, le membra migliori del Corpo Mistico di Cristo. Se noi li dovessimo depennare o trascurare noi toglieremmo al Corpo Mistico di Cristo qualcosa della sua realtà. I Santi partecipano alla gloria del Redentore, tanto quanto gli sono certamente e definitivamente congiunti. I Santi sono il grande e più completo frutto della Incarnazione e della Redenzione, preceduti in questo dalla grandezza unica della Madre del Signore. Ove se ne tacesse o si facesse nella Chiesa quello che equivale a «tacere» si presenterebbero i misteri divini come se fossero sterili. Quando i Santi appaiono nella santa Messa e vi si ricordano, o per merito delle loro azioni terrene edificanti si leggono i passi scelti dalle Sacre Scritture proprio per riferimento a tali meriti, si fa soprattutto questo: accanto al sacrificio che fu ed è causa della salute, si mettono i rappresentanti dei suoi infiniti frutti. Un’ombra sul volto dei Santi getta in ombra la fecondità della Redenzione. Essi intervengono nella storia, nella vita e nella liturgia come il grande autentico e glorioso corteggio di Cristo e della Redenzione, l’esigenza dei Santi deriva dalla realtà concreta della venuta di Cristo nel mondo. La trascuratezza nel confronto dei Santi non può essere che il frutto di una concezione meschina, incompleta e probabilmente erronea di Cristo e dell’opera sua. – Gesù Cristo non ha bisogno dei Santi, ma dal momento che come causa li ha legati a sé, non è più in poter nostro separare il Salvatore da coloro che Egli ha salvato nel più glorioso dei modi. Nella liturgia il «santorale» non è affatto un intruso, da sopportarsi per timore di sconfessare una tradizione. Il «santorale» è al suo posto anche se resta vero che le proposizioni debbono far cedere il passo al «proprio del tempo». – Il modo con cui la Chiesa nello svolgimento della sacra liturgia ha abbracciato i suoi Santi, in tutti i tempi, sotto tutti i cieli, è la attestazione di quanto sopra abbiamo detto. Concludiamo: i Santi sono inseparabili dalla pienezza del mistero di Cristo in concreto, come sono inseparabili dal mistero della Chiesa, santa, anche per la loro qualità di documento e trionfo delle sue divine sorgenti. – Per sottrarci decisamente alla ventata di esistenzialismo distruttore che educa al disprezzo ed al rinnegamento di tutto anche certi sedicenti cattolici è necessario vedere con cristallina chiarezza come i Santi siano inscindibilmente inseriti, e con quale forza, nel mistero stesso di Cristo. – La canonizzazione dei santi è, tra l’altro, atto solenne col quale si propone l’esempio delle loro virtù, autenticate in tal modo per esser guida dei fedeli e per allargare l’assortimento dei mezzi e delle applicazioni atte a rendere più intensa e vigorosa la vita spirituale dei fedeli stessi. Non si può dunque negare che le canonizzazioni includano un atto di Magistero. Questo Magistero riguarda la capacità di esempio di fatti, è vero; però questi fatti appartengono al materiale documentario col quale si dipana attraverso i secoli il deposito della tradizione divina. Errerebbe chi credesse di trovare questa soltanto nei testi di autore, magari scelti con preconcetti restrittivi: la Tradizione si ha attraverso tutto quello che accade nella Chiesa ed essa si ritrova nella unità e nel consenso legittimo. Non possiamo negare, e neppure nascondere, lo stupore col quale abbiamo osservato in autori recenti la piena dimenticanza del modo con cui cammina attraverso i tempi la divina tradizione, fonte della Rivelazione divina. – E dunque necessario vedere i collegamenti tra i Santi e il Magistero o la Tradizione, per comprendere la funzione teologica che compiono i Santi e che è del massimo interesse. La funzione teologica dei Santi è duplice: essi sono in maniera diversa dei testimoni, anzi dei mirabili «portatori» della divina tradizione; essi sono un’apologia perenne, un motivo di credibilità.

La funzione teologica dei Santi

l a divina tradizione va avanti nella Chiesa. Molte verità certe non possono sostenersi perentoriamente che con documenti presi dalla Tradizione. Sarebbe violenza far dire a certi testi biblici talune verità, a meno che non sia intervenuto un consenso od un atto del magistero circa il loro valore. Questa Tradizione non è attestata, ossia non ha i suoi testimoni esclusivamente in documenti scritti e reperibili presso scrittori ecclesiastici (oltre che presso i Padri), ma in tutto quello che è nella prassi e nel fatto ecclesiastico. L’umile parroco il quale insegna il catechismo secondo il testo approvato dall’autorità competente è testimone della Tradizione non meno di un teologo, e sovente lo è assai più per la semplice ragione che utilmente e reverentemente trasmette; il teologo può sentirsi invece in dovere di introdurre qualcosa di personale, di opinabile, di dubbio, di polemico. Le consuetudini di un monastero sono testimoni della Tradizione, quando naturalmente stanno nell’intonato concerto di vita della Chiesa, allo stesso modo. Gli scalpellini che su tante pietre delle antiche cattedrali italiane, inserite qua e là tra i conci, hanno scolpito, anche rozzamente, figure sognate dalla loro pietà sono testimoni. La più umile carta d’archivio, quando è, ripetiamo, in un concerto che è universale e che continua, è testimone di Tradizione. Insomma la «vita» di ogni tempo della Chiesa, colle infinite forme per le quali si rifrange, è testimone della verità che la Chiesa custodisce attraverso i secoli. Ed è soprattutto in questi Testimoni, si direbbe di minore e minimo rilievo, che si assiste ad una funzione di equilibrio, di buon senso, di perenne scelta tra quello che, dell’ardita indagine teologica, può passare e quello che deve andare a ristagnare tra le opinioni e le liti. E in questo che spesso si rifrange cristallino, selezionatore, rassicuratore il magistero ordinario della Chiesa. E in questo complesso documentario dalle immense sorgive che si ha il legame forse più autentico tra i vari tempi nella perennità della tradizione divina. – Abbiamo poi usato le due parole «testimoni e portatori», perché i testimoni richiamano piuttosto quello che «fu» (e ciò è certamente vero), mentre i «portatori» sono coloro che di fatto trasmettono, in questo divino alone dove gli uomini vengono assunti in un fatto divino, la verità. La divina tradizione non è fatta solo con le carte, ma con tutto quello che accade nella Chiesa, che è vivente, proprio perché  intimamente guidata e sorretta e difesa dallo Spirito Santo. I Santi, anche prescindendo da quello che hanno scritto (e i loro scritti hanno abitualmente pregi singolari), sono dei testimoni e portatori della divina tradizione. Essi ricevono dalla Chiesa nel periodo di loro formazione, e quante volte qui si incontrano umili genitori senza alcuna presunzione e con tanta scienza di Dio, appresa nel continuo contatto con la Chiesa, con la liturgia, con Cristo stesso, la Vergine e i Santi. Essi mantengono tutto quello che hanno ricevuto, fuori delle dispute e delle avventure di pensiero, in una luminosità di virtù, di orazione, d’amore. Essi riesprimono, con la ricchezza che la comunione con Cristo è capace di produrre, ed in infiniti modi, insegnamenti, applicazioni, risoluzioni chiarificatrici di princìpi, orientamenti spirituali fermi, sicuri, protesi ai secoli; sintesi e conseguenze di vera e altissima dottrina. Mentre fanno questo in vita spesso – non sempre – su di loro si fissa l’attenzione ammirata della stessa autorità che assiste, approva, incoraggia, giudica serenamente e pacificamente; realizzando così un consenso teologicamente valevole, o iniziando a concretare così un consenso teologicamente valevole. Per i Santi, che sono stati giuridicamente ed espressamente canonizzati, c’è una disamina intorno a loro, c’è una sanzione che aumenta assai il valore di quanto detto fin qui. Noi potremmo comporre tutta la tradizione divina affidata alla Chiesa, lasciando tutto da parte e guardando solamente ai Santi. – Che sia proprio questa la ragione per cui taluno guarda i Santi come fastidiosi? Quando si tratta di fare una teologia della orazione, santa Teresa, a parte il suo valore personale e il suo genio, con la riforma che fece, con le approvazioni implicite ed esplicite che ottenne, con quello che iniziò di duraturo nella prassi conventuale, ascetica e mistica, è certamente testimone della Tradizione assai più di molti teologi messi insieme, perché raramente le pagine di questi si sono fuse col respiro stesso della Chiesa, come invece è accaduto per santa Teresa di Gesù. – L’ufficio, anche inconscio, di testimoni e di portatori, è di tanto maggior rilievo nei Santi, in quanto essi sono tra gli uomini che più hanno allontanato le impurità e le scorie raggiungendo la vera e piena libertà dei figli di Dio attraverso il distacco del cuore da tutti i beni terreni. Poiché non avevano umani interessi, né impacci, si sono offerti alla grazia illuminante, all’azione dello Spirito Santo con una capacità potenziale maggiore di tutti gli altri: spesso coi miracoli Dio è intervenuto a porre il suggello diretto su quello che facevano od insegnavano. – Noi riteniamo di potere e dover attribuire ad una certa disattenzione verso questa loro singolarissima ed eminente funzione la minore stima e valutazione complessiva che i Santi godono presso certuni. Consideriamo pertanto del massimo interesse questa funzione teologica dei Santi. – I Santi hanno anzitutto un valore apologetico, ossia dimostrativo della verità della nostra fede e della santa Chiesa cattolica apostolica romana, perché concorrono anch’essi a realizzare in concreto la «nota» fondamentale della Chiesa, che è appunto «la santità». I Santi hanno un valore apologetico fortissimo per il carisma taumaturgico che si manifesta spesso nella loro vita e sempre – ciò consta almeno per i canonizzati nelle forme ordinarie – dopo la loro beata morte. – Non occorre noi illustriamo ai nostri confratelli, bene a giorno dell’argomento dai loro ordinari studi teologici, che quanto ricordato ha valore dimostrativo con obiettivo rigore logico. Una tale apologia, avente in sé reale capacità di generare logicamente una certezza, quando si tratta dei Santi, è del tutto popolare e cioè facile, intuitiva. Il popolo crede alla virtù vissuta nell’eroismo, crede soprattutto quando avverte il miracolo. E sa che i Santi significano «miracoli». Li conosce anzitutto come virtuosi, ma, non meno, come operatori di miracoli, od almeno come coloro che ne hanno fatti o ne possono fare. Il popolo ha una singolare facilità a credere al miracolo, tanto che bisogna stare attenti non s’inganni, vedendoli dove non sono; ma ha perfettamente ragione quando connette il fatto della santità al miracolo e quando a questo attribuisce la forza di divina inderogabile attestazione, ossia di prova. Ragiona molto semplicemente quando dice: la nostra fede è vera perché i Santi, questo, quel Santo, operano od hanno operato miracoli. – Ora riflettiamo bene. Molta gente non ha studiato nessuna apologetica e nessuno gliel’ha insegnata. Eppure ha esigenze logiche; ha in testa un rudimentale abbozzo di logica; si pone dei quesiti relativi alla fede e spesso non trova nessuno cui parlare dell’argomento per averne una soddisfacente risposta. Accade allora tante volte che sul suo orizzonte si affaccino i Santi. Meglio se ne ha sentito parlare molto, se ha sentito raccontare, se può evocare meraviglie già udite. Allora dice a se stesso: ci sono i Santi; andiamo avanti. È una logica od apologetica rudimentale; se è rudimentale nelle movenze semplificata, è tutt’altro che priva di contenuto logico. E intanto la fede è salva, senza che a salvarla sia intervenuto un inganno. – Spesso accade a noi, che abbiamo abbastanza studiato, di non porci il problema della logica dei poveri e degli ignoranti, che pure hanno, come tutti, bisogno di argomenti per conservare la saldezza della propria fede. Ma quando questo problema lo si pone, si capisce l’importanza dei Santi a sostegno della fede stessa. E vero che la ignoranza o la esiguità di esigenze logiche può dare valore dirimente in ordine alla fede, a esperienze o fatti per sé incapaci logicamente di dare una certezza circa il motivo della fede stessa. E ringraziamo Iddio, che prende da tutte le parti e convoglia al bene. Ma non si tratta di valori obiettivamente logici. Nel vecchio seminario di Genova si raccontava di un lattaio, annoso peccatore impenitente, il quale si intrufolò una volta, dopo aver lasciato i recipienti del latte al cancello, nella aula magna. Là si teneva una gran tornata accademica del Collegio teologico. Il Gran Cancelliere stava pronunciando un discorso in latino, di cui il povero lattaio non riusciva a capire assolutamente nulla: convinto da ciò di trovarsi sotto la maledizione divina per i suoi peccati, se ne spaventò, cominciò a piangere e ad accusarsi. Finì, quel momento stesso, con l’andare a confessarsi dopo quasi mezzo secolo di disprezzo della pratica religiosa. Evidentemente il buon Dio converte anche con prediche delle quali non si capisce nulla. Ma questo non accade tutti i giorni; soprattutto accade assai meno con persone dalle esigenze logiche. Claudel si convertì al canto del Magnificat a Natale in Notre Dame di Parigi. Non era un argomento logico, quello era solo la schiarita finale della grazia in un lungo processo interiore. – La questione dell’apologetica infantile, popolare, facile, adatta là ove la cultura non ha sedimento o dove ha sedimento una cultura al tutto pratica, in realtà e di fatto non può fare a meno dei Santi. Le conseguenze sono importanti e le vedremo. Ma, stando così le cose, che dire del sadismo dimostrato da taluni in nome della cultura, nell’annientare i Santi e nel cercar di dimostrare in loro dei difetti? La verità è la verità. Non parliamo di quella; parliamo del sadismo. Il godere di restituire la storia al posto della leggenda è sano e doveroso; ma il godere di abbattere e di calpestare è solamente patologia. E lo è perché, quando uno vuole annientare i miracoli, basta sia unilaterale, reticente, incompleto e ci può, apparentemente, riuscire; ma non ha affatto servito la verità. Tutti sappiamo che di miracoli ne basta uno, perché ci sia una certezza. Diminuire la fede in questo sovrano divino intervento, perché talvolta miracoli apocrifi hanno potuto entrare nella storia, non è servizio né alla verità (in ragione del latius), né all’apostolato, ossia alla salvezza delle anime. E vero che non manca chi vorrebbe abolire l’apologetica o si scandalizza, se si fa dell’apologetica od anche solo se se ne parla. Perché? Forse che non esistono persone che ne hanno bisogno? Ma ne hanno bisogno tutti! Forse perché non la chiedono? Ma questo è fuori della realtà. Forse perché è impossibile farla? Ma questo è razionalismo, se non modernismo!

La funzione educativa dei Santi

Teologicamente parlando, uno scopo della canonizzazione è la presentazione ufficiale dei Santi come esempi di vera vita cristiana. È ovvio che i santi compiono la parte educativa anzitutto con l’esempio che danno. Questo esempio mostra l’attuazione pratica dell’Evangelo; articola la norma evangelica secondo le diverse situazioni, capacità e congiunture; risolve problemi e dubbi; stimola alla perfezione; e infine, rianima contro lo sconforto. – Tuttavia la funzione educativa dei Santi si attua non solo con l’alto esempio della loro vita terrena, ma pure per il fatto che sono dei «santi» quali vengono concepiti e venerati nella tradizione cattolica. E questo un punto da non trascurare. – La funzione educativa è già apparsa là dove si è trattato dei Santi come perenne apologia e pertanto vero aiuto della fede. Se la fede è fondamento della vera educazione cristiana, noi rileviamo, anche solo in questo, una funzione educativa. Coll’aiuto della fede va in atto una presenza soprannaturale dei santi. Ne abbiamo già parlato. Questa presenza è fautrice di fiducia, coraggio e serenità. Se queste tre preziose risorse sono ideale di una educazione, bisogna concludere che per altro titolo la presenza dei Santi è educativa. – La presenza dei Santi è un richiamo continuo a cose supreme, al cielo, alla vita eterna, alla gloria data ai meriti. In tal modo, quanto più è viva, tanto più abitua ad un clima di elevatezza, adduce quella nobiltà di stile e di costume che è proprio di chi sta in compagnia di cose superiori. I Santi sono dei fratelli già arrivati alla casa del Padre, intorno a loro si costruisce l’alone della famiglia di Dio, della quale facciamo parte. In questa famiglia, ed in ragione della gloria raggiunta, i Santi sono dei fratelli maggiori, che restano a disposizione dei fratelli minori intercedendo per loro. Sono chiamati, in seno a questa soprannaturale famiglia, verso i deboli; mentre i loro meriti, senza nulla detrarre alla gloria loro dovuta, diventano ricchezza, risorsa e sussidio per la debolezza dei fratelli minori, ancora impegnati nella lotta o prova della vita. E così che i Santi fanno l’ambiente della famiglia di Dio. Al disopra dei Santi, la Vergine Madre di Dio completa con la maternità questo stupendo ambiente. – Se ne arenerà un influsso educativo permanente. Altra è la vita che scorre in una famiglia sentita, altra è la vita che si perde nella freddezza di cose materiali, quantitative, senza anima né suprema speranza. Vivere in una famiglia soprannaturale è impostare ad un livello più alto la propria esistenza. E l’influsso della presenza dei Santi. E difficile calcolare a dovere questo influsso attraverso la storia del Cristianesimo, tanto esso è grande e continuo. Il clima di famiglia, l’intercessione, l’apporto ai deboli costruiscono l’ambiente e l’esempio alla carità. – Naturalmente il realizzarsi di questa salutare azione educativa, questa suprema compagnia, è legato anche al modo con cui noi trattiamo i Santi. – Vediamo allora alcune risorse pratiche per rendere operante l’azione educativa dei Santi.

– Le loro immagini. Le sacre immagini sono il mezzo più diretto, semplice ed intuitivo per stimolare l’attenzione e dare il senso della presenza. Le chiese che si riducono ad un Crocifisso e tutt’al più ad una immagine della Vergine, rimanendo ferme a questo minimo indispensabile perché non c’è modo di fare di più, non meritano una condanna, ma lasciano un desiderio ed un bisogno insoddisfatti. Tali chiese non danno il senso della famiglia di Dio: mancano i veri fratelli maggiori, i Santi. – Oggi è difficile affrescare le chiese, per motivi più che evidenti. Ma resta vero che le storie dei Santi, anche ingenue, affrescate o riportate in bassorilievi, sono state parte notevole nella Biblia pauperum e lo stimolo ad imitazioni anche eroiche in generazioni intere. L’eliminazione non è una semplice dimenticanza, è un oscurarsi del senso di famiglia di Dio e dello stesso senso di umanità. Siamo ben lontani dal raccomandare l’intasamento delle chiese con immagini esposte al culto senza decoro di materia e di arte, senza piano architettonico, per generazione spontanea ossia per la richiesta, sovente capricciosa, di qualche devoto parrocchiano, con incoraggiamento a forme di devozione né serie, né equilibrate. Abbiamo anzi eliminato molte di tali immagini. Noi intendiamo parlare di quelle immagini la cui collocazione dipende da un criterio anzitutto educativo e poi logico, coerente con un insieme e con una tradizione, illuminato, architettonico. – Le sacre immagini dei Santi, oltre l’immagine crocifissa del Salvatore e quella della Vergine, trovano giusta ed utile collocazione anche nelle case dei fedeli. Saranno le immagini dei patroni personali, dei patroni della Chiesa, della città, i più conosciuti e venerati. Meglio le immagini dei duraturi Santi che degli effimeri «divi». Però questo ritorno delle immagini dei santi nelle case di fedeli deve attuarsi con un’adatta illuminazione catechistica, non abbandonato a una pura emotività, dalla quale la ignoranza può far arrivare anche dell’esagerazione e della superstizione. Le immagini dei Santi, anti, come, in grado minore, le immagini dei propri cari, portano calore nelle chiese e anche nei focolari domestici.

– Le sacre reliquie. Tutti sanno che sono oggetto di culto relativo e che il culto relativo può, entro certi limiti, tranquillizzare la coscienza rispetto alla incerta autenticità di reliquie sacre assai antiche che, accompagnate da notizie storiche talvolta dubbie o anche solamente dal sigillo di un’autorità competente. Ma, questo premesso, le reliquie sacre vanno rispettate. Il decoro, l’attenzione con cui vengono circondate, il culto, la stima, l’uso serio e diligente hanno parte grandissima nel rafforzare il culto dei Santi con quel desiderabile influsso formativo, di cui si è ora parlato. La sistemazione decorosa, evidenziata, rilevata delle reliquie sacre, specialmente se insigni, è per il sacerdote un impegno soprannaturale in cui egli si riconosce membro della famiglia vivente di Dio.

– La lettura della vita dei santi. Anzitutto occorre reagire al senso di disprezzo che viene facilmente diffuso per le mende in cui cadono senza dubbio scritti affrettati, troppo laudativi, retorici e persino stucchevoli. Censura per influire sugli scrittori, sì; disprezzo no. – Perché se c’è una forma, che può meritare rimproveri, resta una sostanza che domanda solo ammirazione. Purtroppo sono pochissimi oggi gli agiografi che meritano con serietà un tale nome e c’è da augurarsi che le stesse postulazioni si rivolgano, per redigere vite di servi di Dio, a persone di competenza scientifica che amino il soggetto, piuttosto che a qualche retore superficiale, facilmente reperibile sulla piazza. Ammettiamo dunque i difetti, che si biasimano, ma non dimentichiamo che una vita cristiana in cui manchi la lettura di biografie di Santi è una vita privata d’un soprannaturale fascino e d’una recondita forza. – Resta sempre vero che sono gli esempi a suscitare slanci generosi e dedizioni grandi. E poiché abbiamo menzionato la parola «esempio», vale la pena di sottolineare che la forza suggestiva sta proprio nell’episodio opportunamente inquadrato, mentre sta poco o nulla nelle considerazioni generali, anzi generiche, alle quali indulgono assai gli agiografi da strapazzo. L’episodio, su tutti, ma specialmente sui ragazzi e sui giovani, con quel suo stagliare concreto, con quella sua definizione rivelata di contorni, con quella singolarità netta anche se semplice, imbriglia attenzione e fantasia, stimola slanci del cuore, suscita energie. – È tempo che gli episodi dei Santi rientrino nella predicazione, che adesso si fa arida per il suo cerebralismo e inaccessibile perché priva di tradizione umana in fatti alla portata di tutti e capaci di portare le idee al livello delle logiche infantili. Per chi ha scarso sviluppo mentale, ogni membro del ragionamento deve essere dedotto da una rappresentazione concreta e descrittiva. Ed è tempo che non si abbia paura di raccontare miracoli veri e seriamente interpretati. Forse ha errato Gesù Cristo lasciando miracoli come segno della sua verità per tutti i tempi? (cfr. Mc. XVI,17 sgg.). Noi ci auguriamo una vera fioritura (e già qualcosa si delinea) dell’agiografia, priva dei pedaggi pagati al razionalismo ed al positivismo da coloro che hanno troppa paura della storia e, per averne troppa paura, la deformano o la snervano.

L’intercessione dei Santi

Fa parte della fede cattolica la dottrina sulla intercessione dei Santi che ha delle radici profonde e stupende: la loro partecipazione all’opera e alla gloria di Gesù Cristo; il valore imperituro dei loro meriti; la reversibilità degli stessi meriti. Non è questo il momento di spiegare a voi, bene edotti, tali solenni verità. Sia sufficiente l’averle richiamate. Sono le verità delle quali si sostanzia la fede nel Corpo Mistico di Gesù Cristo e nella sua ineffabile vita. Non dunque chimere o pie supposizioni, ma realtà. Per questa intercessione la Chiesa del cielo accompagna la Chiesa militante non solo moralmente, ma ontologicamente. Questa intercessione nei suoi effetti non è certamente da meno dell’effetto della fede propria dei pellegrini in terra, la quale può spostare le montagne. Anche per questa intercessione né la Chiesa, né i fedeli sono nella solitudine. I Santi in verità popolano la terra più dei viventi. L’intercessione dei Santi, per il modo con cui si attua e per gli effetti che opera, costituisce una delle pagine più interessanti della vita sotterranea della Chiesa. Con essa i Santi adempiono missioni postume, realizzano presenze specifiche, compiono cicli di straordinaria partecipazione alle vicende della Storia: la Chiesa con l’istituzione giuridica dei patroni asseconda questo fatto e la relativa fede. Se ne ha una varietà, una ricchezza di sfumature che solo i grandi storici cristiani e i grandi agiografi sono in grado di cogliere e di rendere. Per i Santi la primavera non cessa mai! La liturgia, la prassi, la devozione, la iconografia sono un tratteggio di questa storia. – Non si dimentichi che come la gloria segue i meriti, così la intercessione dei Santi segue anche la loro missione terrena e continua a compierla. È questa verità che richiama al culto particolare dei propri Santi. I Santi hanno dato la vita ad una terra, ad comunità, ad una missione; abbiamo il diritto di ritenere la loro intercessione fecondamente se non esclusivamente ancorata a quella terra, a quella comunità, a quella missione. Sono vicini. Non sempre indicati da una moda, hanno il diritto di essere particolarmente onorati da coloro che continuano a camminare sulla loro via. – Per questo noi intendiamo non risparmiarci per inculcare la devozione ai nostri Santi. Ne abbiamo nei nostri antecessori, ne abbiamo tra i fedeli dei due sessi, tra i religiosi. – Le loro memorie, le loro reliquie, la loro tradizione deve essere preziosa e noi dobbiamo mantenerle nel vivido calore di un affetto cosciente e profondo. La tradizione cristiana della nostra terra arriva al primo secolo: che i santi Nazario e Celso abbiano irrorato della loro predicazione la riviera ligure non è soltanto una leggenda. Noi speriamo di vedere presto restituita all’uso la cripta del Santuario di nostra Signora delle Grazie, rimontante al secolo IX, che consacra in tempo non sospetto la vivacità di questa tradizione, perché quella cripta è stata voluta prorio per ricordare i Santi Nazario e Celso, qui approdati verosimilmente dal mare. Tutte le chiese e tutti gli oratori dedicati ai martiri sull’arco ligure indicano la potenza e la vastità di una tradizione che, quanto più è potente e vasta, tanto più ha diritto di essere considerata elemento scientificamente valido per avvicinarci ad una verità storica. – Il mondo è solitario. Circondato dalle sue macchine e dai suoi ordigni esplosivi, intriso delle sue esperienze prevalentemente materiali, vede ridursi la letizia delle anime; ricco di fatti assordanti, a mala pena intende le voci che si levano irruenti dalla stessa natura. Ha bisogno di essere ripopolato spiritualmente. Per questo, nell’intendimento di tutelarne tra voi, contro pericolose deformazioni il giusto senso, abbiamo parlato di ideali santi e dei Santi stessi, dando ai due argomenti un qualche risalto per opposizione alla snervante esperienza di certe mode terrene. Voi avrete capito, cari confratelli, che abbiamo voluto invitarvi ad alzare lo sguardo verso la Terra Promessa che è e rimane l’unica prospettiva importante nella storia degli uomini, pur quando gli uomini rischiano di dimenticarsene, per propria colpa o anche solo per distrazione.

[Fine]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (3)

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (3)

  1. — Ortodossia

[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp. 192-245.].

Parte seconda: Mode

Qualcuno stenterà a vedere la connessione tra la prima e la seconda parte di questa nostra lettera. Gli risolviamo subito le difficoltà. Gli ideali santi sono tra quelli ai quali si possono applicare gli uomini con frutto e fecondità. Ma davanti agli uomini non stanno solo, ad attrarli, degli ideali santi; stanno anche altre cose che ne possono prendere il posto quando la colpevole ignoranza, la malvagia ingenuità ed il marcato interesse si radicano troppo nell’anima degli uomini stessi. Nella grande fiera non ci sono solamente i fiori del giardino di Dio, ma anche i parassiti del deserto. Il contrasto è forte. E qui che si collocano le mode. Tutti vedono che piuttosto di seguire ideali santi, molti seguono le irrazionali mode correnti. Bisogna dunque parlarne. Le mode appannano i cristalli e li appannano al punto da impedire ogni visione, che si spinga oltre. Le mode sono molte. Ma qui la discrezione ci fa restringere il discorso a talune solamente, che hanno il potere di offuscare, se accettate, gli ideali santi dei quali abbiamo parlato, nonché tutti gli ideali in essi contenuti come parte implicita o potenziale. Che cosa è la «moda»?. «Moda» è un costume, che prescinde dalla nazionalità — e ciò significa che può essere ed è spesso di fatto irrazionale – e che viene imposto da una pressione emotiva, non razionale. Sono dunque due gli elementi costitutivi: il costume «logico e la imposizione dall’esterno per via di suggestione. Il prescindere dalla razionalità (che ci può essere, ma che non è intesa) è fatto deteriore in chi, intelligente, libero e responsabile dovrebbe sempre usarla. L’accettare una imposizione dall’esterno, senza motivi, mette in pericolo di seguire una via cattiva; perché il criterio non è quello della bene informata coscienza. In più c’è una cessione ed una capitolazione, che è a scapito della dignità. Questo altro aspetto implica qualcosa di deteriore. Si tratterà in ogni caso di un peccato? Sarebbe imprudente affermarlo, perché le mode possono svilupparsi in campi sui quali non grava l’obbligo morale di fare piuttosto a un modo che all’altro, e perché sovente il loro processo di penetrazione è così poco avvertibile da giustificare un certo velo di disattenzione, se non proprio d’incoscienza. Moda ed incoscienza si trovano bene insieme. Tuttavia anche quando non si può affermare il peccato, resta una certa sconvenienza, per le ragioni dette sopra.

La teologia senza raziocinio

Appaiono qua e là delle malcelate antipatie per la teologia speculativa, per l’assunzione di principi certi della filosofia perenne ai fini di una migliore intelligenza del dato rivelato; appaiono contrasti a san Tomaso d’Aquino (in quanto corifeo, ma la ragione varrebbe anche per Scoto, S. Agostino, etc), alla sistemazione scolastica, al lavoro compiuto dopo l’epoca dei grandi Padri occidentali ed orientali. – Contemporaneamente non mancano persone alle quali piace occuparsi di teologia semplicemente cucendo insieme brani scritturali e brani patristici, soprattutto, se non esclusivamente, dei primi secoli, con meticolosissima cura nell’evitare qualsiasi terminologia scolastica, precisazione, definizione di cose e di termini. Questo fino è onestissimo, se si può escludere che il procedere a quel modo suppone o vuole un pregiudizio negativo nei confronti di quanto non è pura citazione di testi, per di più ristretti ad un certo alveo. – Riesce difficile dare un giudizio negativo ed affermare con certezza che quella procedura è dettata dalla precisa volontà di eliminare ogni dato di indagine scolastica. Tuttavia il sospetto che così possa essere viene, e non viene in modo del tutto gratuito. Noi ci siamo occupati nell’argomento in una precedente lettera a proposito delle varie accezioni della kerigmatica. Neppure possiamo documentatamente affermare che tutto questo sia caratteristica di una «teologia nuova», alla quale si raccolgono qua e là allusioni. Pertanto non intendiamo giudicare o attaccare qualcuno. – Siccome però è possibile che tali indizi abbiano una realtà e un significato negativo ed è possibile che si pensi veramente da taluni a costruire una «teologia nuova» sulla antipatia a qualsivoglia approfondimento scolastico, noi ci sentiamo davanti ad un pericolo. E, in forma del tutto ipotetica, dichiarando esplicitamente che non intendiamo giudicare nessuno, trattiamo dell’argomento come se ormai si potesse parlare di una corrente che intende fare una teologia nuova alla insegna della irrazionalità o della relatività rispetto ai principi naturali noti e fin qui assunti a spiegare i dati rilevati. Se il pericolo è inesistente, tanto meglio. Ne ringrazieremo Iddio! Ma, siccome il pericolo non è del tutto chimerico, avremo fatto il nostro dovere; perché un Pastore deve prevenire anche i pericoli solamente possibili con qualche grado di probabilità. Esistono malcelate antipatie per la teologia speculativa? Non ci può essere dubbio. Tali antipatie hanno il valore solamente di evitare esagerazioni, pleonasmi e poco uso della diretta parola di Dio, nel qual caso si dovrebbe solo rimproverare la intemperanza o la imprudenza di linguaggio? Non possiamo rispondere affermativamente, perché è difficile indagare le intenzioni. Tuttavia non possiamo escludere che si debba rispondere affermativamente. – In via di ipotesi, supponiamo di dover rispondere affermativamente. Le considerazioni che seguono le facciamo solo subordinatamente a tale ipotesi.

– La teologia speculativa è necessaria e non per una sola ragione. Gli uomini, anzitutto, vogliono capire almeno qualcosa in quello che si sentono dire. Quando sentono dire «incarnazione», vogliono avere una definizione almeno approssimativa della cosa, perché senza questa non capiscono nulla. La risposta dovrà essere data componendo insieme dati positivi della Scrittura e della Tradizione; ma questi dati sono espressi con parole che hanno un significato umano e che rimandano a concetti e principi usati nel lavoro concettuale degli uomini. Prendere questi termini, questi concetti e principi, vedere se possono essere assunti in pieno diritto e sicurezza per spiegare, mettere insieme i dati rivelati, farne una sintesi e delle deduzioni, significa fare quello che la intelligenza di un uomo normale domanda, soltanto per capire qualcosa. Ma fare tutto questo è fare della speculativa. Se ci si rinuncia, si rinuncia a spiegare, a intendere, e si domanda agli uomini non solo la fede, ma anche una cecità non necessaria alla purezza e integrità della fede. Chi sa che la parola di Dio porta con sé una ricchezza inesauribile sa per ciò stesso che può crescere la scienza di quella e che può e deve crescere il tesoro tratto da quella. Trarre è dedurre, esplicitare, applicare. La deduzione corre sempre su un ragionamento. La esplicitazione difficilmente fa a meno del ragionamento, la applicazione per lo meno esige un giudizio. Tutto questo significa far uso dell’umano raziocinio. O lo si presume, o si condanna la parola di Dio a chiudere la profusione delle sue ricchezze. Il lavoro sul dato rivelato non può essere affidato né al sentimento, né alla poesia, né alla fantasia; esso deve procedere secondo norme sicure, frettate e sperimentate da secoli, passate pertanto al vaglio del buonsenso comune e del magistero, quali vengono presentate nel Trattato De locis theologicis. La opposizione alla teologia speculativa è: o la opposizione a che intelligenza eserciti un suo diritto di intendere quello che accetta, arche se non può pretendere di esaurire e comprendere; oppure la accettazione di una impotenza e di un relativismo, che sono contrari a tutto il fatto della stessa Rivelazione.

– Esiste una contrarietà e alla assunzione di principi filosofici per la esplicazione del dogma e al riconoscimento di un valore sicuro e perenne in taluni principi filosofici? Tutto sommato si deve propendere per una risposta affermativa. Diciamo: «propendere». – Certo si leggono testi dei quali si dovrebbe dire: qui c’è la sfiducia della obiettività della conoscenza e nel ragionamento intellettuale. Si tratta di infiltrazioni kantiane e, più ancora, hegeliane. – In verità esistono ragioni certe per poter non avere più alcun timore né di Kant, né di Hegel. Non è nostra intenzione trattare qui dell’argomento, che merita, se mai, lunghe ed appropriate considerazioni a parte. Ma qui dobbiamo richiamare ad un punto, già espresso in una nostra lettera antecedente: dalla parola di Dio non si può avere (sia pure limitatamente) intelligenza certa, sicurezza, vera guida, fondamento di serena speranza, se non si attribuisce valore certo ed obiettivo ai termini e pertanto alla comprensione dei termini e alle altre necessarie operazioni dell’intelletto. Se questo valore di apprensione e di operazione intellettuale non esiste in maniera sufficiente, diviene inutile la Rivelazione di Dio, perché l’uomo non apprende quella, ma solo una sua mutevole ed inconsistente fantasia. La cosa sarebbe troppo grave. – Tutto ciò non cambia se si pretende affermare un relativismo nei principi, mutevoli secondo le età. A parte il fatto che questo modo di pensare è autentico modernismo, non si vede quale stima potremmo avere e quale tranquillità nutrire a proposito di un complesso rivelato, che per noi rimanesse sempre al di là di un velo, sicché non potessimo sapere mai se è sicuro o no. – È dunque necessario accettare i placita di una filosofìa perenne, che di fatto emerge con evidenza e dalla storia della filosofia e dalla storia umana. Pretendere di staccare violentemente la intelligenza della Rivelazione dal dato filosofico è non solo agire contro la tradizione della Chiesa, ma contro il più elementare buon senso. – Coloro che (contro le certezze raggiunte in campo filosofico e contro le definizioni del Concilio Vaticano I, a proposito della cognizione certa di Dio) si comportano come se non ci fossero principi certi naturali e non ci fosse il pieno diritto di servirsene perdono il diritto stesso di parlare (DS. 1785). E non vale, per riacquistarlo, fare il ricorso ad esperienze mistiche, ad afflati, perché se non siamo certi della obiettività del pensiero umano nessuno potrà distinguere gli afflati mistici dalla pazzia. Si traggano le conseguenze. — L’antipatia per san Tommaso o la messa in tacere della sua opera possente, che qua e là affiora, non è che una forma di opposizione e alla teologia speculativa e alla sicurezza dei principi filosofici naturalmente conosciuti, nonché alla obiettività della nostra cognizione. In verità non è opposizione a san Tommaso, ma è opposizione a tutto. Nei principi fondamentali necessari effettivamente gli altri grandi pensatori non differiscono da lui, qualunque possa essere la impronta personale del genio. San Tommaso in teologia vale anzitutto per il consenso che ha avuto e per la fiducia a lui decretata dal Magistero; vale perché espressione di una filosofia perenne; vale finalmente per il suo genio. Non si dimentichi tutto questo. Molti non lo hanno mai letto e tanto meno lo hanno considerato senza pregiudizio.

– L’antipatia per la sistemazione scolastica ha le stesse radici e pertanto non occorre si prolunghi il discorso. Ma c’è un dubbio più che legittimo ed è il seguente: nel campo filosofico al di fuori (Dio non voglia dentro!) degli studi cattolici, il canone che spesso appare supremo, quando non si tratta di mera ricerca critica e storica, è quello di non dire cose già dette e dire decentemente cose che altri non abbiano detto. Si tratta di un orgoglioso criterio che vuol fare l’uomo creatore della verità e non servo della medesima. Ed è orgoglioso criterio fuori d’ogni saggezza, perché è evidente che all’uomo, schiavo della morte e spesso di molte altre cose, non compete il diritto di «fare la verità». Sarà molto se la raggiungerà. – Affermazioni forse non intenzionali, raccolte qua e là, ingenerano il dubbio che in una nuova concezione della teologia si avrebbe oltre la estromissione della speculativa un restringimento della stessa teologia positiva. – Non c’è alcun dubbio che la testimonianza degli scrittori e Padri dei primi secoli acquista un valore storico particolare per la più vicina connessione cogli apostoli e con l’era della Rivelazione divina. Neppure c’è dubbio che il contributo dei grandi Padri nell’epoca aurea, e per l’intrinseco vigore e per la vittoriosa difesa contro le eresie e per l’influenza decisiva nel far entrare il Cristianesimo al livello intellettuale dei popoli allora veramente civili, debba essere considerato con fiducia e riverenza specialissime. Il che sempre è stato fatto e tuttavia si fa. Ma il valore sostanziale della testimonianza e del Magistero, che la garantisce, è lo stesso al quarto ed al ventesimo secolo. La Chiesa è «vivente» ora come allora; la trasmissione della verità è garantita ora, come allora. E pertanto non solo è infondata una distinzione sostanziale tra scrittori antichi e consenso moderno dei teologi, tra magistero dei primi quattro concili e odierno magistero della Chiesa; ma è indice di una posizione di fondo al tutto erronea. Infatti si ritiene la Chiesa non un corpo vivo, ma una mummia da conservare, sempre rifacendoci a quello che ha fatto, per la ragione che oggi non «può» far di più. Bisogna ammettere che questo giudizio non impedisce affatto il maggiore uso dei Padri antichi e dei padri orientali. Ma ciò non è questione teologica, è questione solamente tattica. Le due cose non vanno confuse. E sempre norma di metodo cominciare da quello che nei diversi interlocutori di un dialogo è base da tutti accettata o anche solo da tutti meglio compresa. – E allora, che pensare di una «teologia nuova»? Questo termine può essere facilmente equivoco e, se proprio lo si volesse assumere, dovrebbe essere spiegato e purificato da ombre non rassicuranti, e tanto meno convincenti. – Diciamo che è termine in sé equivoco per i motivi seguenti:

– Potrebbe insinuare che quanto fatto fin qui a proposito della verità rivelata abbia bisogno di riforma. Sarebbe la fine della divina Tradizione, la quale nel frattempo avrebbe dormito al punto di alterarsi; sarebbe la fine della efficacia e garanzia del Magistero, che nel frattempo avrebbe pure dormito. Sarebbe la fine, probabilmente. di gran parte di quello che è insegnato nel trattato De locis Teologicis, da tutti fino a questi anni ritenuto dottrina certa. Sarebbe principio della fine di tutto. – Potrebbe insinuare che nella Chiesa vi sono «epoche diverse» con profonde differenze tra di loro. Ritorneremmo al punto di vista non ignoto a qualche sognatore. Nulla nel dato rivelato autorizza a fare la più piccola supposizione di queste epoche «diverse». Appartiene invece alla fede che la Chiesa è immutabile e indefettibile pur camminando sempre in avanti fino alla pienezza del numero degli eletti.

— Potrebbe insinuare che nel mondo esistano un progresso ed una evoluzione tali da subordinare la Rivelazione che vi si dovrebbe adottare. In tal caso non la Rivelazione subordinerebbe gli uomini e quanto li riguarda in questo effimero passaggio terreno, ma sarebbe il complesso ristretto nell’effimero passaggio terreno a subordinare la Rivelazione divina. Non il mondo al giudizio di Cristo, ma Cristo al giudizio del mondo. Il rovesciamento sarebbe completo. Se Cristo fosse passabile di essere aggiogato al carro del mondo, non sarebbe più il Verbo eterno incarnato. – Per capire il valore delle piccole e crespuscolari deviazioni bisogna aver il coraggio di spingerle alle loro ultime conseguenze. Se ogni età dovesse adattarsi alle situazioni supposte nuove, dovesse spaventarsi di quello che succede e credere che una dilatazione di conoscenze nel campo meramente quantitativo debba portare squilibri in quello spirituale (che è al di fuori della quantità), noi assisteremmo non alla storia, ma alla vergognosa fuga dei deboli. E chiaro dunque che le insinuazioni poste dalla posizione equivoca del termine vanno respinte, nel caso in cui qualcuno fosse veramente invaghito del termine. Dietro a tutto questo c’è una ragione, della quale ci siamo occupati nella lettera diretta al nostro clero sui complessi di inferiorità.

Ecco quello che si auspica avvenga.

— Ulteriore perfezionamento dei metodi nell’identico perenne criterio teologico. Ciò significa impiego aggiornato delle migliori e cattolicamente serie esegesi dei testi, del loro valore storico, al quale può essere ammesso il valore teologico; quando lo merita, della nuova indagine filosofica; giusta dose nei particolari di fronte alle sintesi: purificazione da ristagni d’arzigogolo, di forzatura e di esagerate sottigliezze, nonché dalla gazzarra di facile opinabilità più adatta alla vanità dei singoli che alla migliore illustrazione della verità: credo Deo revelanti et non theologo opinanti.

— Ulteriore studio di «presentazione» alle diverse età. Questo importa un impiego di tutta la cultura contemporanea e di tutte le risorse dello studio psicologico. Ciò importa una scelta di diverse sistemazioni, di sintesi, che adatti meglio e non alteri la verità in se stessa. Importa ancora, quando occorresse, un superamento di troppo severe distinzioni tra diverse parti ed aspetti della teologia.

– Ulteriore approfondimento, ulteriore deduzione, ulteriore sintesi. Ulteriore ricerca storica e ulteriore perfezionamento del metodo e delle attitudini apologetiche. Non si dimentichi che abbiamo sempre davanti un mondo che vuole essere «convinto». – Concludendo. Il «nuovo» non può ledere quello che è stato fin qui certo, non può apportare quello che sia in contrasto con quanto fin qui «certo». Al di là di questa posizione non c’è che il relativismo e un relativismo improntato alla corsa nello spazio e nel tempo di un mondo che ci ospita così poco tempo. Il relativismo non si può comporre con la Rivelazione cristiana, ma, considerando quanto ora detto, appare che non vale la pena di dare qualsivoglia importanza al relativismo. – Perché abbiamo parlato qui della teologia senza raziocinio? Esiste in questo mondo la suggestione di abbandonarsi agli schemi metodologici di filosofie già superate. Nella frenesia del movimento e delle complicazioni esiste la tentazione di lasciarsi sedurre dalla paura di fatti e di ombre di tempi ormai andati. E una moda. Abbiamo timore che la teologia senza raziocinio, se esiste o se ne esiste la voglia, trovi là la sua spiegazione.

Il mito della disobbedienza

Prima di essere mito è fatto e diventa mito perché al fatto si vuole dare una giustificazione teorica e più che teorica una giustificazione violenta, la solita: tutto è cambiato e tutto deve cambiare. Come se fossero già cambiati nascita, morte, amore, debolezza, giovinezza, vecchiaia, limiti, decadenze, leggi interiori, etc. Quando delle cose si dà una giustificazione violenta e non razionale, siamo nel caso della «moda». L’argomento è qui per questo motivo e perché sta dissolvendo la disciplina ecclesiastica di molti del clero secolare e, non meno, regolare. – Guardiamo il fatto. La disobbedienza a Dio non ha bisogno neppure di essere giustificata per il gran mondo. Ogni tanto la opinione pubblica è intrattenuta su qualche celebre processo che mette bene in mostra come la ragione di colpire i delitti è in sostanza quella di essersi fatti colpire dalla legge per averne quadrati i termini. – I figli che proclamano la piena indipendenza ed allontanano i genitori per incapacità a capirli trovano difensori in tutto il mondo. Anzi ci sono intere scuole le quali insegnano che ai figli si deve dare solo e molto rispettosamente un’istruzione, perché l’educazione se la debbono scegliere e dare da sé e il tentare di darla loro è una vera manomissione della libertà e dignità personali. L’obbedienza nel gran mondo si salva ancora nel settore militare. Per quello civile l’obbedienza resiste ancora fino ad un certo punto, ma come dolorosa e per il momento indeclinabile necessità. – Il fatto, anche tra persone per bene, si afferma in un altro modo: creando un certo mito della personalità e dei suoi indefiniti diritti, il mito della libertà anche all’interno della coscienza, il mito della dignità, attenuando tutto ciò che è autorità e che risplende nella autorità. Questo modo è uguale agli altri, con la sola differenza che è insincero. Le fazioni, le correnti, sono quello che tutti sanno; ma sono anche una delle scappatoie più facili per sottrarsi allo spirito di obbedienza ed alla obbedienza stessa. Esse sembrano fornire buone ragioni per sottrarsi, con artificiali sembianze di saggezza, ad una dipendenza. La fazione politica riesce a minare la dipendenza a statuti, a patti, ad ogni cosa; basta semplicemente che in qualche momento sia predominante. E non è affatto difficile diventi predominante. – Correre la via della vita senza assolutamente impacci e remore, bere all’agitato mondo in rivolta contro ogni freno e legge, con l’impressione di tuffarsi nell’aria libera e inebriante, di correre veramente la cresta dell’onda, di rompere qualcosa per godere dello sconquasso come in una diabolica ma frenetica musica, è mito dorato di gioventù. I rotocalchi fotografano ogni settimana soprattutto questo diabolico mito dorato. L’estensione del mito è tale che anche i buoni si chiedono se per l’avventura non sono sciocchi a non seguirlo. Esso è il mondo, l’anima, tutto, assolutamente tutto, a rovescio. Come sogno pieno dura poco; ma le ombre di questo sogno possono accompagnare un’esistenza. Tutto questo tocca, sia pure in genere senza i colori più foschi ora ricordati, anche molti ecclesiastici e religiosi. – Il mito della disobbedienza ha un grande strumento suggeritogli dal metodo freudiano di dragare i fondi dei laghi per farne risalire tutto il pantano. Si parla di quello che è più umano e debole, che spoetizza; i particolari – appunto perché stralciati a piacimento da un contesto che li doterebbe d’altra interpretazione – prendono l’aspetto della miseria, della cattiveria, della meschinità, della passione e di tutti i prodotti e sottoprodotti della superbia. Abbiamo letto in diverse lingue vari rapporti, racconti, informazioni sul Concilio e non siamo stati affatto confortati da una simile letteratura, libertina quanto alla stima dei superiori e alla obbedienza verso i superiori. – Quando le firme, vere o mentite, erano di taluni, ci siamo chiesti a che punto era giunta la loro coscienza. Tutto hanno messo in piazza, tutto stralciato dall’insieme, tutto presentato nella luce falsa di uno scopo pregiudiziale. La verità, certo, è compromessa; ma l’educazione alla disistima, al disprezzo, alla rivolta, è fatta! – Ed ecco il controluce del mito della disobbedienza: la tirannia. Quando c’è la prevalenza, quando si è instaurato politicamente qualche «regime», allora è la dedizione folle alla piaggeria, alla adulazione, alla farsa delle adunate e delle acclamazioni alle regie di immortalità, alla delazione mortale, alla macabra orgia delle vendette. Questo secolo ha una bella collezione e la collezione continua. Tutto questo non parrebbe disobbedienza. No! Nasce sullo stesso tronco della disobbedienza. E fiore dello stesso mito, fatto, sì, a rovescio, ma egualmente testimone! – Il mito della disobbedienza ha la sua teoria. Non parlo della teoria positivista della necessità esterna, alla quale si riduce l’obbligo di obbedienza, e neppure di altre illustri teorie rivoluzionarie che sono talmente contraddittorie da imporre cose contraddittorie, nella sola variante di tempo; oggi insubordinazione rivoltosa, domani obbedienza cieca in clima di terrore. Parlo della teoria «felpata» espressa in termini rispettabili e apparentemente onesti. La teoria felpata procede così:

– democrazia soprattutto (ma certo che la democrazia è buona e può essere ottima, ma non viene prima nella guida morale degli uomini; basta metterla prima, perché l’ordine sia rotto);

– personalità anzitutto (può essere vero, se si considerano le cose in un campo ristretto soltanto, nel quale effettivamente il rispetto alla personalità viene per primo. Non è forse dedicata tutta al principio di rispettare la personalità umana la enciclica Rerum Novarum Ma non si scosta dal principio primo: che è Dio e la sudditanza a Lui);

– saggezza nella obbedienza (e chi può dire che la saggezza sia cosa di cui diffidare? Ma quando saggezza nella obbedienza significa, come generalmente significa, riserva di obbedire, subordinando al proprio personale giudizio la validità del comando e la saggezza della norma, allora la obbedienza vera è semplicemente morta);

– niente piaggeria verso il superiore (giustissimo in sé. Ma, quando ciò significa: lesinargli tutto, anche quello che si dà ai cani, perché nessuno possa pensare che si sia dei devoti della autorità, dei profittatori di situazioni, dei codini etc …, allora si considera il superiore come un «male da contenere» attraverso la propria giusta severità. Così si può arrivare alla asfissia del superiore e alla palliata completa rivolta). – Basta una intelligenza mediocre, basta un po’ di debolezza, basta una qualunque passione, perché tale teoria trovi posto persino in mezzo ad atteggiamenti mistici. Ma è solo la capitolazione al mito della disobbedienza. Questa è la situazione, dalla quale, cari confratelli, dovete difendere voi e i giovani che vi sono affidati. Diciamo: difendere voi e loro, non diciamo: difendere l’autorità (anche se possiamo legittimamente dirlo), perché come vedrete appresso, l’obbedienza è in favore dell’obbediente e la disobbedienza è già di per se stessa un castigo del disobbediente. Al «mito» si oppone la realtà, ossia la verità. Vogliate riflettere ad alcune proposizioni che sottoponiamo appresso.

– L’obbedienza trova la sua ultima radice nel volere divino. Si obbedisce perché Dio vuole si obbedisca. Davanti a questa verità si capisce che motivo dell’obbedienza non è né il valore né la benevolenza, né la saggezza di coloro ai quali si obbedisce. Il motivo è la intrinseca moralità dell’obbedire, in ultima analisi è la conformità al volere divino.

– Dio ha formulato la legge naturale e quella positivo-divina. Ma esse non sono l’unico strumento per il quale arriva a noi la divina volontà, soprattutto nel dettaglio concreto e minuto. Ci sono le conseguenze dell’uno e dell’altra, ad esempio la legge ecclesiastica e la legge civile. Ci sono le persone, gli statuti, le norme, le azioni contrattuali, le situazioni, dalle quali, per giusta connessione e derivazione alle sorgenti prime della legge, giunge a noi la norma generale e la norma singola. Questo collegamento rende molti fatti e persone umane portatori legittimi della volontà divina. Naturalmente potranno accadere casi nei quali tali portatori si mettano fuori della legittimità di comandare in genere e in dettaglio. In tal caso non saranno più portatori legittimi della volontà divina. Ma tale caso non si presume mai, che si presume il contrario, mentre esso dovrà essere dimostrato, applicando le norme ordinarie della teologia morale. In sostanza: non si obbedisce mai puramente ad un uomo, ma si obbedisce solamente a Dio. E ciò basta a insinuare il carattere serio, interiore della obbedienza. Diciamo interiore, perché Dio è signore e giudice anche dell’interno dell’uomo. E si capisce come esiste anche una obbedienza intellettuale (la fede lo è di fatto), purché esista una autorità legittimata a questo. Dio può chiedere perfettamente tale obbedienza. E ovvio che l’obbedienza non ammette la riserva di verifica se il comando sia saggio. Tale riserva oltraggia il motivo ultimo per cui solamente si obbedisce: «è Dio che vuole si obbedisca. – Ci si potrebbe fermare qui. È detto quanto occorre. Ma non possiamo dispensarci dal proporre alcune altre riflessioni integrative, che servono a costruire la profonda filosofia della obbedienza.

– L’obbedienza diventa merito davanti a Dio, anzi diventa amore. Lo stesso Redentore ha insegnato… «non chi dice Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre…» (Mt. VII, 21).

– L’obbedienza ha merito tanto più grande e tanto più realizza l’amore di Dio, quanto più sono invisibili le ragioni per le quali diventerebbe ovvia a chiunque una obbedienza, quanto più costa il ricevere la norma da persone indigeste, inferiori, etc. In tutta la economia divina è norma generale, proprio per aumentare il valore del merito, inserire dei «medi» ed allungare le distanze. Non è forse vero che noi amiamo Dio veramente quanto amiamo i fratelli anche se sono in sé odiosi? – L’obbedienza, per questo, al di sopra ed al di fuori della saggezza di chi comanda, ha sempre una soprannaturale saggezza, perché si adegua alla saggezza superiore divina ed al piano della Provvidenza. Che si adegui ad una soprannaturale saggezza è certo, perché si adegua al volere di Dio. Poiché si adegua al volere di Dio, si adegua al piano della Provvidenza e pertanto giunge sempre ad un buon fine, anche se potrebbe apparire difettosa la prudenza ed intelligenza di chi ha comandato. Dio non chiede che si dia prova di hrbizia nell’obbedire, ma prova di amore al di là di ogni furbizia. Chi disobbedisce potrà anche dar prova di intuizione e prudenza ed ottenere meglio uno scopo; ma, poiché in definitiva non si adegua alla volontà di Dio, sbaglia certamente. La Provvidenza non aiuta la disobbedienza, ed il suo piano ultimo è per dar ragione alla verità ed il bene. Questo è il motivo per cui chi disobbedisce ha sempre da temere: ha messo l’errore e la giustizia vendicativa sulla sua strada. Il che vale tanto più quando la disobbedienza è ad una autorità sacra, la quale trae il suo valore da una soprannaturale positiva costituzione.

– L’obbedienza dona il completamento agli uomini, perché permette ci si completi con l’altrui saggezza ed esperienza. Questo «completamento» va meditato bene, anche se non è l’aspetto maggiore della virtù e dello spirito di obbedienza. Il bimbo che obbedisce sommerà la inesperienza ed ingenuità propria colla esperienza e la conoscenza altrui; il bimbo che non obbedisce sommerà solo le carenze proprie aprendo le porte a tutte le carenze altrui. Il discepolo che apprende obbedendo e non affidandosi alla presunzione otterrà lo stesso risultato. Anche se in questo mondo esistono leggi ingiuste, sciocche e superate o dannose, in via generale la legge deve presumersi frutto di una collettiva esperienza e l’osservarla, sotto questo profilo, aumenta la saggezza e la prudenza di chi la osserva.

— L’obbedienza dona il più costoso esercizio di volontà. L’esercizio aumenta la caratura della volontà ed è questa che fa gli uomini forti.

— L’obbedienza è il sostegno della responsabilità, che è la lima di chi la porta; perché è quando si ha la fortuna di obbedire che non si resta nel dubbio e nella colpa: la obbedienza manleva.

— L’obbedienza, finalmente, è la custode del diritto, della concordia e della pace. Questioni che nessun accordo può sistemare si chiudono fecondamente con l’obbedienza. Il mito della disobbedienza è un inganno: questa affermazione è conseguenza di quanto detto fin qui. Se la obbedienza è nella verità dell’«ordine», la disobbedienza è per natura sua nella linea dell’errore e pertanto dell’inganno. La obbedienza sola mette sul piano della Provvidenza: è per questo che la disobbedienza mette sulla via sbagliata. Che cosa significa la via sbagliata? Ogni «no» che si dice a Dio nella vita sposta su un angolo erroneo il lato che la delimita; per la nuova ampiezza d’angolo la via è diversa da quella che dovrebbe essere. Le infinite risorse della divina bontà e la penitenza possono rimediare; ma potrebbe accadere che il rimedio non si effettui. I nostri atti ci seguono: non sappiamo fin dove arrivi il loro svolgimento. Potrebbe superare di molto la nostra vita. La coscienza non può essere impunemente tranquilla, quando ha violato la linea dell’ordine divino. Allorché si tratta di disobbedienza alla Chiesa, la cosa diviene più grave, perché Dio ratifica il comando della Chiesa (cfr. Mt. XVIII,18). Quando le cose portano in qualche modo la firma di Dio, al di là di quella superna sanzione può stare il disordine di tutto: «Vir obœdiens loquetur victorias» (Prov. XXI, 28). – In conclusione, obbedire non è una vergogna: è un ordine, è verità, è saggezza, è acquisto, è merito ed amore. Domani sarà gloria. Occorre più forza per obbedire, che non per disobbedire. In genere la disobbedienza è l’arma dei deboli come la bugia; la obbedienza è l’espressione dei forti. Sarebbe un errore sottovalutare questo aspetto anche puramente umano dell’obbedienza e della disobbedienza. Tutto conduce a concludere che il mito della disobbedienza ha con sé la nemesi della sua stolta impudenza. Si noti bene che noi non abbiamo parlato direttamente di disobbedienza o di obbedienza; abbiamo parlato di un mito. La disobbedienza è un peccato, il mito della disobbedienza è una stortura patologica permanente, anche quando c’è apparenza di obbedienza, Perché io posso aver le arie di osservare tutto il diritto canonico, ma, se si ha nell’anima il mito con tutto quello di fantastico, irreale e magari demoniaco che il mito porta seco, la interpretazione del diritto canonico sarà alterata, come tutto risulterà alterato. È pertanto sul mito irrompente dappertutto, che potrebbe sedurre anche voi, che noi abbiamo attirato la vostra attenzione. ».[In questa magistrale esposizione il Santo Padre enuncia il principio al quale ha ispirato la sua vita di Papa “prigioniero”. Ecco il principio per cui, obbedendo pure ai falsi papi, Gregorio XVII obbediva a Dio stesso ed alla Sua volontà che, seppure umanamente incomprensibile al momento, era sempre “volontà divina” inaccessibile alla mente umana limitata al solo ambito spazio-temporale della sua breve vita – è sicuramente così che la Chiesa di Cristo, proprio per l’ubbidienza a Dio del Sommo Pontefice “impedito” ed “esiliato”, potrà perpetuarsi, anzi si è già perpetuata secondo la promessa evangelica, ad onta delle azioni sataniche distruttive degli gnostici modernisti, dei marrani della quinta colonna, delle sette massoniche e dei “disobbedienti” sedevacantisti e fallibilisti gallicani, di coloro che odiano Dio e tutti gli uomini, degli ignavi pastori “cani muti, rosicchianti l’osso e con la testa nella ciotola di lenticchie”! – ndr. -]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (2)

IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (2)

— Ortodossia-

[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp.192-245.] – Parte Prima: Ideali santi -B-

Verso i lontani

Il provvidenziale rifiorire dell’ideale ecumenico e dell’ideale pastorale, intesi secondo le indicazioni dell’Evangelo, porta ad una importante conseguenza pratica, la quale, pur appartenendo alle considerazioni pastorali, ha più di una ragione d’essere considerata a parte. Infatti l’ideale ecumenico è generalmente inteso verso i fratelli cristiani separati e verso i non battezzati. Esso ha addotto nuova luce e circa il dovere e circa il metodo, siccome brevemente si è visto sopra. Ma si tratta di un indirizzo che è valevole per un altro soggetto: i lontani di casa nostra, ossia i battezzati nella Chiesa cattolica che hanno perduto in diversi gradi la pratica, o la stessa fede. Chi ha spirito ecumenico e pastorale – e tutti gli ecclesiastici debbono averlo – logicamente arriva a sentire impegno e amore per questi «lontani». Rischierebbe di essere ipocrita l’afflato ecumenico che si arrestasse ai separati e ai non cristiani, E dunque argomento da trattarsi per la logica forza di quanto premesso, per se stesso ed anche per difenderne il concetto da indirizzi sospetti e pericolosi. Costituisce pur esso un ideale santo. Radice dell’obbligo di occuparsi dei «lontani» è la volontà salvifica universale di Dio, di cui si è parlato sopra, la quale diventa legge per coloro ai quali Cristo ha affidato di proseguire la sua stessa missione. – Del resto esplicitamente il codice di Diritto Canonico richiama i Pastori a tale dovere (can. 1350). Altro fondamento dell’obbligo è nella natura di società e di famiglia di Dio, propria della Chiesa; tale natura non può ammettere che qualcuno sia abbandonato a se stesso. Non si può tacere, per coloro che tengono un ufficio adeguato, il corrispondente obbligo di giustizia e, per tutti, il dettame della carità. – Vale la pena di riflettere anche su notevoli ragioni di convenienza, che da sole avrebbero funzione determinante. I lontani sono molti. Questo è vero, se si parla dei «relativamente lontani». Nella nostra città di Genova in una sola notevole parrocchia il numero di coloro che ascoltano la santa Messa arriva al 60-70%. Un’altra parrocchia si avvicina a questa consolante percentuale. Le altre stanno più basse nella graduatoria. Se prendiamo la pratica della S. Messa festiva come punto di distinzione tra i praticanti e i poco o nulla praticanti, bisogna dedurne che non esiste parroco il quale abbia la facoltà di disinteressarsi dei lontani, anche nei monti dove, in qualche paese, solo tre o quattro persone talvolta non fanno Pasqua. – I «lontani» sono in vario modo dei potenziali vicini. Più o meno profondo resta in tutti qualcosa del catechismo della infanzia o d’altro. Non possiamo dimenticare che un giorno, celebrando la santa Messa nel carcere giudiziario di Genova, alla Comunione per la sezione minorenni e non solo per quelli, abbiamo visto ritornare i comportamenti e i gesti di ex chierichetti in un numero non indifferente di detenuti. Lo abbiamo voluto dire e le lacrime, che abbiamo colto su molti visi a questo accenno, ci rassicuravano che non avevamo sbagliato. Ma era vero che l’antico chierichetto riviveva anche in prigione e riviveva per spingere alla Comunione con un sentimento forse più profondo di quello della infanzia. In molti, che si giudicano lontani, resta, magari sigillato accuratamente, l’antico membro di qualche buona scuola, di qualche buon collegio. Niente va perduto. – I lontani finiscono sempre coll’avere in qualche modo «sete di Dio», magari a modo loro, agitati e scontrosi. Non vi inganni il fatto che talvolta, cari confratelli, vi guardano male. Può essere una forma di debolezza. Ma una cosa è certa: è più facile recuperare chi ci guarda male che chi non ci guarda affatto. Chi guarda male, sente qualcosa: un contrasto, un problema; e tutto questo diventa un amore a rovescio. E più difficile ricuperare chi ha o affetta la più completa indifferenza. I lontani sentono la lima degli anni che passano, della caducità ed insufficienza di tutte le cose terrene; spesso hanno consumato la capacità di godere ed hanno così toccato il limite di saturazione. Esistono delle male azioni che si possono definire una forma di pianto. I lontani sono nella posizione di apprezzare di più quello che non hanno. Questa è del resto legge generale. Abbiamo sempre notato che il fascino della divina liturgia produce, in coloro che vanno poco o mai in chiesa, effetti maggiori che nei fedeli abitualmente praticanti. – Riassumiamo. Nella massa dei «lontani» noi possiamo trovare chi sta attendendo gli si porga la mano ad onta del suo viso ostile; chi soffre e nascostamente prega; chi ha incredibili affinità cogli ideali santi, non appena gli vengono rivelati o rinfrescati nella memoria; chi può essere tra i maggiori collaboratori nell’apostolato. – Questa massa non deve far paura, bensì deve ispirare fiducia e amore. Essa può ispirare un coraggio teso a tentativi nei quali anche i vecchi possono trovare la primaverile passione della loro giovinezza. Chi si restringe a coloro che vanno a lui, può finire in esigua e persino meschina compagnia. – Dopo una notte di lavoro insonne ed infruttuoso, Pietro il pescatore si lamentava col Signore di non aver preso neppure un pesce. Gesù diede a lui e a tutti i secoli il grande ordine: «Duc in altum» (Lc. V,4), va al largo. Pietro, ad andare al largo, ci guadagnò l’avventura di una pesca la più fruttuosa (miracolosamente) che si potesse pensare. Ma il fatto era pure un simbolo. Noi abbiamo applicato ed applichiamo tuttavia, umilmente sempre, questo ordine del Salvatore di andare al largo e potremmo, di oltre trent’anni, scrivere volumi sulla fecondità dell’«andare al largo». – Parliamo ora della «metodologia» verso i «lontani». E qui che troviamo la giustificazione al fatto di trattare l’argomento in una lettera sulla «ortodossia». Infatti il metodo deve ispirarsi a concetti giusti e deve evitare indirizzi erronei. Abbiamo conosciuto persone che hanno svisato se stessi, seguendo, in un apostolato per i «lontani», direttive e idee sbagliate. L’argomento è del massimo interesse, anche perché pensiamo che dopo il Concilio esso entrerà in una più universale ed attenta considerazione [questo naturalmente in chiave ironica! –ndr. -]. – Riassumiamo le riflessioni che ci paiono fondamentali.

— La visione soprannaturale. Per essa si vedono cogli occhi della fede (continuamente esercitata): le anime, il sangue di Cristo versato per ognuna di esse, il Padre che attende ognuno sulla «soglia di casa» e che muove tutto colla sua grazia dentro ognuno (grazia interna) e dal di fuori di ognuno (grazia esterna), la Provvidenza che nel governo del nostro mondo tende supernamente a realizzare il Regno di Dio e si serve di tutto in tutta la Storia. Questa visione rassicura, incoraggia, arma; rende intraprendenti, suggerisce risorse, infonde perseveranze inaudite. Nessuno pensi che questa visione, necessaria alla partenza e a tutto il decorso della azione pastorale ed apostolica, possa resistere senza una adeguata vita di preghiera. Questa visione soprannaturale è l’abolizione della paura e dei complessi di inferiorità, dà il passo del legionario vincitore, libera dalla complicata e miserella casistica dei «sé» e delle ipersensibilità psicologiche; aiuta ad uscire dai difetti di temperamento, primo fra tutti la timidezza. Questa visione fa incontrare la grande parrocchia, dove è parroco Dio stesso e dove si vedono i balzi dal vizio al chiostro, dalla diffidenza alla dedizione eroica, dalla insignificanza al rilievo. Dio vi lavorò in un modo ineffabile! Insomma per questa battuta bisogna partire con la coscienza che non si è soli!

– Diffidare del piacere umano, credere solo al dovere. Il piacere o, se volete, la umana soddisfazione che si può provare facendo del bene, finisce col tenerci prigionieri; il dovere ci fa liberi. Ad ispirare apostolato dei lontani non può essere insomma la propria esibizione, la personale conquista, il fascino da offrire agli altri con la propria intuizione e scioltezza, l’esercitazione di una ginnastica d’avventura, deve essere solo il servizio di Dio. Così si dà agli altri la sensazione del distacco da un interesse terreno, ed è proprio il distacco a costituire il primo umano mezzo di convinzione per chi è lontano dalla pratica religiosa. Se c’è difficoltà a capire un ragionamento, la difficoltà è certamente e notevolmente minore per capire il distacco di un uomo da interessi terreni e una sua vera levatura morale.

– La verità netta, la procedura intelligente e, occorrendo, graduale. Infatti è sempre negativo l’effetto di chi si presenta nascondendo, manipolando, minimizzando qualcosa. Nei rapporti d’anima, e tutti lo capiscono, la sincerità siede regina. Guai ad offenderla.

– La dimostrazione di serena fiducia, di affettuosa attesa. Si comincia col fare il bilancio del bene. Poi, se sarà necessario, si farà nello del male.

– Passare attraverso tutti gli onesti incontri e rapporti umani, senza mai arenarsi a quelli. La strumentazione di questo umano incontro va all’infinito ed è variabile sempre; quello che importa è non scambiare lo strumento con lo scopo: lo strumento è sempre e solo un passaggio. A questo fine, la amicizia è una salita, non un piano di riposo. Molte conquiste sono impedite dalla dimenticanza di questa regola fondamentale. Dunque (una volta chiaro il criterio): strumentazione larga! Attenti, che è in sede di scelta di strumenti che si corrono i rischi maggiori di dirottamenti dalla via giusta, di complessi di inferiorità, pleonasmi, inutili a tutti e dannosi a chi li inventa. Noi pensiamo ai casi, incontrati nella nostra vita, in cui il banditore rimase egli stesso fuori della porta! Tra gli strumenti ci stanno tecniche e metodologie, anche eccellenti se usate al loro posto, tenendo fermo che nessuna tecnica sostituisce i basilari elementi coi quali si fa per volontà di Cristo l’apostolato. Quegli elementi basilari possono sostituire tutte le tecniche. Dovendosi scegliere si sa a che cosa dare la preferenza. – Non occorre qui se ne faccia un esame analitico, perché ad indicarvi quello che va e quello che non va c’è l’attenzione ordinaria delle autorità. Qui occorrono i criteri limpidi. Forse, però, non è inutile esemplificare un caso concreto. Oggi le adunanze amichevoli sotto un certo aspetto private – è il caso di Rinascita, delle Domus Christianae etc. — sono un mezzo facile di incontro. Anzi riteniamo che senza mezzi di questo tipo, in una normale parrocchia di città, non si arriverà mai da parte dei parroci a compiere tutto il dovere catechistico che a loro incombe. Però sarà sempre grave la questione del sacerdote che deve fare in tali incontri la sua parte; sia perché deve essere intellettualmente ferrato, sia, soprattutto, perché, trovandosi in facile posizione di esibirsi, di essere ammirato e seguito, ne può patire danno il suo spirituale equilibrio. Bisogna lasciare il posto a Dio solo, per camminare senza inciampi. – Nel disporre la azione pastorale verso i lontani, occorre evitare taluni notevoli errori di impostazione anzitutto mentale e poi di metodo. Ripetiamo: è questo il punto che giustifica la trattazione nella presente lettera. Prima di enumerarveli, evitiamo un equivoco. In qualunque metodologia ogni uomo entra colla sua personalità tipica, col suo temperamento, colla sua capacità, colla sua arte. Deve essere così, perché nella unità la varietà è principio della stessa natura creata. Lungi da noi pertanto il lasciare anche solo supporre che si intenda annullare questa legittima libertà. Noi parliamo solo di principi generali, ben fermi e documentati.

– È errore credere che per avvicinare i lontani si debba assumere una patina mondana o comunque scanzonata e spregiudicata. Su tutto il nostro agire pendono sempre due chiare direttive date da Gesù Cristo: «Vos estis in mundo… sed non estis de mundo»

(Gv. XIV,17). «Videant opera vestra bona et glorifìcent Patrem vestrum…» (Mt. V,16). Dunque: niente di comune col mondo e «da esibire», scegliamo le opere buone in se stesse, quelle che Gesù Cristo giudicherebbe buone; non le opere inutili, incoerenti col proprio sacro carattere, pantomimiche, sciocche, svenevoli. Non si nega che tutte queste cose possano fare degli amministratori e dare soddisfazioni a chi usa strumenti mondani. Ma questi lavorerebbero per se stessi e non per Dio. Avrebbero i seguaci, la ammirazione, la cosiddetta opinione pubblica favorevole, prenderebbero persino il ruolo di «divi» (ne abbiamo conosciuti), ma non sarebbero né apostoli, né veri sacerdoti. Molta gente ha in un primo momento il piacere di aver contatti con ecclesiastici che si avvicinino più ai loro difetti e che, parteggiandoli, in fin dei conti li scusino, emulandoli li piaggino. Certo! Ma questa gente rientra pure in se stessa e finisce sempre col provare una gioia amara ed una disillusione: il prete lo vogliono prete. La esperienza ormai lunga ci dice che quanto più sono lontani, tanto più il prete lo vogliono prete. Ci sono molti vicini che, ben provveduti spiritualmente (se pur è sempre così!), sono disposti a concedere largheggiando col contegno dei propri sacerdoti. Costoro non fanno un buon servizio. Sarà bene che chi si trova nella situazione di cui trattiamo, pensi sempre non a quello che gli concedono i vicini, ma a quello che con sacrosanto diritto esigono da lui i lontani. Non diciamo la mondanità, ma le sue stesse più innocenti lustre esterne diventano ripugnanti per i moltissimi che dal «non uso» hanno tratto in fin dei conti un alto concetto del sacerdozio (anche se questo pare un controsenso, e non lo è perché è regola generale si stimi di più quello che non si ha, sull’altro!) allo stesso modo che onesti, ma incongrui segni di affetto possono sembrare addirittura sacrileghi. – Leggete dunque bene il Vangelo ed osservate se Cristo ha fatto qualcosa per mettersi al livello della mondanità del suo tempo!

– E errore credere che per avvicinare i lontani si debba accettare un confronto ed un contegno che annulli, anche solo formalmente, la sacra ed indistruttibile differenza tra chi è consacrato con l’Ordine e chi non lo è. Il sacramento dell’Ordine è il segreto di tutto nei pastori, è di esso che tutti hanno la profonda anche se spesso incosciente percezione e l’istintivo rispetto. Non si commetta l’errore di laicizzarci di fronte a gente che non ha bisogno di noi altro che per il sacramento scolpito in noi e per la missione avuta da Cristo. Di compagnoni, di divertenti, di interessanti, di bellimbusti ne hanno di meglio altrove. E non illudiamoci quando i meno provveduti fanno le mostre di ammirarci per cose che non sono né il sacramento dell’Ordine, né il mandato evangelico. È il caso di mettersi all’erta. A fare il Diogene, il grossolano, l’imitatore, il rinunciatario, il proletario (prendendo il termine nel senso deteriore e relativo alla educazione), ci si guadagna nulla e tanto meno ci si guadagna in estimazione produttiva ai fini dell’apostolato. Si dà spettacolo, e forse si dà spettacolo di visibile ingenuità. Ciascuno rimanga se stesso.

– E errore credere che per avvicinare i lontani si debba modificare qualcosa nella nostra fede e si debba dare a taluni punti altra interpretazione e dimensione. In tal caso saremmo addirittura su una strada ereticale. Ma l’errore ci sarebbe anche a dare versioni edulcorate e infiacchite di quello che nostro Signore ha lasciato alla sua Chiesa. Qualunque lontano sa che per avvicinarsi a Cristo bisogna fare dei sacrifici coraggiosi ed arrivare ad accettazioni energiche. Ci diceva il capo di una comunità protestante: «il disagio dei nostri è nel non avere punti fermi ed un magistero indiscutibile. I migliori, quelli che si pongono seriamente il loro problema religioso, cercano quello. Guai a toccarlo». Il degno uomo che ci diceva questo fa il suo esperimento religioso ogni anno su non meno di diecimila suoi correligionari. Nella nostra lunga esperienza in proposito abbiamo sempre constatato che la stessa angolosità apparente delle verità serve. Insomma: chi si muove, non si muove per poco.

— E errore ritenere che per avvicinare i lontani si debbano rilassare le briglie della morale. Non diremo che si debbano stringere più di quello che le ha strette sempre la sana accettata dottrina. Un metodo che coltivasse una simile illusione oltre l’inganno otterrebbe un successo minore, perché la vera sete interiore delle anime, la grande attrattiva è in loro verso ideali seri e più alti di loro. Il mimetismo viene bene nelle azioni tattiche di guerra, ma nel caso nostro non serve che a raccogliere sfiducia, disistima e persino disprezzo, da parte di quelli che, dopo un giudizio di inadeguatezza delle cose umane, domandano assistenza per ritrovare una solida piattaforma al piano divino. Per andare verso i lontani non bisogna partire da una disistima degli uomini, quasi che essi non possano essere capaci d’altro che di sopportare pietose bugie. Non è sull’attenuazione della legge che occorre puntare, ma su una emancipazione da linguaggi triti e formalistici, da atteggiamenti e risorse pietistiche, insincere ed artificiali, da manifestazioni interessate, da stile untuoso, da inscenature prive di convinzione, da spettacoli di debolezza propri di uomini troppo comuni. – Si osservi come molti diventano «lontani». Alle prime grandi tentazioni non hanno chi li sorregga. Quelli che sono stati avviati da una seria direzione spirituale hanno chi li sorregge. Altri ascoltano discorsi, leggono smontature e falsità e non hanno chi li riporti ad un senso critico, a risposte chiarificatrici e sufficienti. Altri sono presi nel gorgo di passioni divoratrici, di seduzioni. Altri, forse i più, mancano semplicemente di cibo spirituale e a forza di anemia sono portati alla deriva, anche non avendone una precisa coscienza. La «lontananza» comincia da qualcosa in cui noi ministri di Dio abbiamo spesso la nostra parte di negligenza colpevole. Ad ogni modo l’argomento sul come nascono le «lontananze» è tale che dovrà essere da noi ripreso. – Il ricupero dei lontani è il problema di fondo di tutta la pastorale, se si avverte che lo stato di fatto nei rapporti col mondo è di lotta accanita. Esso ha messo in opera tutto per spegnere la fede, perché gli uomini non pensino e siano suoi facili e docili strumenti, perché la materializzazione meccanica della vita arrivi a costituire od a sostituire una sorta di determinismo meccanico. Infatti il protestantesimo del XVI secolo indusse il determinismo teologico; a tappe la cosiddetta Riforma, sfuggita di mano agli stessi Protestanti, è arrivata a dare il determinismo meccanico: «gli uomini guidati dalla macchina loro creatura». In questo stato di cose – autorizzata la amoralità, quando non è oggetto di codice penale, con palese contraddizione – la battaglia è su tutto il fronte. O c’è una pastorale vitale sul modello di Cristo o le file dei lontani sono destinate ad ingrossarsi paurosamente. Ed è quello che bisogna evitare in ogni modo.

L’ideale della Chiesa

Il Concilio Vaticano II ha fatto di taluni punti pertinenti alla dottrina della Chiesa un oggetto fondamentale [ma invertendoli completamente! … questo Gregorio XVII non lo poteva scrivere! –ndr. -]. Poiché questo è derivato e dalla logica del Vaticano I e da un afflato dei Vescovi, se ne deve dedurre che la considerazione della Chiesa è impegno ed ideale sentito. – Il mondo, a modo suo, porta alla stessa conclusione; perché presta attenzione alla Chiesa; perché è sensibilissimo – cristiano e non cristiano, cattolico e non cattolico — alla presenza e funzione della Chiesa Romana. Negli ultimi tempi è significativo che tale attenzione sia rilevata, soprattutto e senza confronti per fatti similari, in occasione della morte di Papi e di elezione di Papi. Il che riguarda la Chiesa perché Romana. Si direbbe che esso, il mondo, più che in posizione di antitesi, ad onta delle sue colpe (delle quali si è parlato sopra), sia in verità in una segreta posizione di attesa. I segni non mancano. E infatti, portato ormai a considerazioni abituali sul piano mondiale, di organizzazione che si levi con unitaria imponenza spirituale, convinzione, realtà e fiamma interiore, non trova che la Chiesa cattolica apostolica romana. Forse, da questa attenzione prestata dall’esterno, noi siamo portati a considerare la Chiesa in se stessa e per se stessa un ideale. Quelli tra noi che sono, si può dire, nati colla loro vocazione, che sono fioriti sempre e solo all’ombra nella Chiesa e non hanno vissuto che pensando e volendo nei suoi termini [come il Cardinal Siri, poi dal 26 ottobre 1958 Gregorio XVII – ndr. -], non trovano nulla di strano in questo, essendo diventato per ero una seconda natura. Tuttavia l’ideale della Chiesa in un mondo che si sente monco per il suo unilaterale materialismo è cosa da considerarsi; non certo per trovare novità, ma per apprezzare e vivere il mistero del più singolare avvenimento nella vita associata umana. Noi scriviamo di questo, sia per rispondere ad una esigenza che è nei fatti; sia perché questo senso della Chiesa è potente e risolutivo fondamento della disciplina ecclesiastica e dello spirito di obbedienza; sia perché è opportuno assicurare alle formulazioni una piena esattezza dottrinale. – Intenzionalmente, invece di parlare di «piano costituzionale della Chiesa», noi parliamo di «mistero» della Chiesa ed usiamo questo termine perché il «mistero» ci porta non solo a vedere delle proposizioni di teologia come solitamente si enunciano, ma accusa delle proporzioni, delle rispondenze, dei ritmi i quali avviano ad intuire la realtà posta «oltre», e cioè il «mistero». Ecco una serie di enunciati che permettono o facilitano la percezione di tali proporzioni, ritmi, rispondenze. – Dio è vicino per presenza, essenza, potenza alle sue creature; la Provvidenza è un aspetto di questa sublime realtà. Questo è il dato fondamentale di tutto: la vicinanza di Dio alla creatura, all’uomo ed a quello che lo riguarda. Il dato (anche se non ci fosse rivelato espressamente), se si tien conto della necessità che ha la creatura del Creatore e della nessuna necessità che il Creatore ha della creatura, finisce coll’essere espressivo di un amore eterno sotto il cui calore si dipana la storia di tutte le cose. La elevazione all’ordine soprannaturale dilaterà oltre ogni misura da noi concepibile il dato di questa «vicinanza»; ma resterà nella linea di essa. La stessa elevazione non può capirsi che nella luce della verità ora enunciata. La cosa ha tale importanza che l’intelligenza degli illuministi ha cominciato di lì a demolire (in vano tentativo) il prestigio di Dio, confinandolo nella dignità di un sovrano, ma sovrano costituzionale, lontano dagli uomini e troppo grande per occuparsi minutamente delle sue creature. Tutto va posto sullo sfondo di quella «comunità divina». La «vicinanza o presenza» di Dio alle sue creature è indipendente in se stessa dal loro modo di essere, ossia dalla loro natura. Questo è ovvio; perché diversamente Dio non sarebbe più Dio. Ma l’effetto di essa nelle creature avviene secondo la loro natura anche quando la eleva. Ciò perché la «natura» delle cose rappresenta anzitutto un «ordine» di eterna sapienza e perché stabilisce la loro possibilità recettiva anche solo potenziale. E così che nel ritmo si incontra questa grande parola fondamentale e la corrispondente realtà: «Natura». – Tutte le cose che seguono correranno sempre su questi due parametri con stupendi sviluppi: vicinanza intima di Dio, natura delle cose e dell’uomo. Ma l’una e l’altra realtà non possono separarsi. – Con l’elevazione all’ordine soprannaturale, la presenza di Dio alla sua creatura acquista qualcosa di ineffabilmente nuovo. Dovunque, a studiarlo bene si troverà nell’uomo il riflesso del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Taluni elementi nel piano naturale appaiono predisposti, perché l’uomo abbia ad intendere qualcosa della superiore realtà in cui viene immesso dalla Rivelazione. Questo accade, ad esempio, coll’ordine del «relativo» nel creato, che serve da chiave per poter entrare umilmente nella analogica conoscenza del dogma trinitario. – Ma, accanto ai riflessi di una realtà soprannaturale, o superiore alla natura, perseverano le modanature richieste, in questa nuova intima vicinanza, dalla natura dell’uomo. Si comincia a vedere una «dualità» della quale troveremo tra poco una impressionante conferma. Infatti la natura umana è composta di anima e di corpo. Si capisce perché, di questa unione sostanziale, si sia occupato con fervore il Concilio ecumenico di Vienne: creature superiori spirituali creature inferiori materiali, mondo celeste e mondo terrestre si uniscono nell’uomo che acquista la caratteristica del «ponte». I ponti avvicinano e, per il fatto del corpo materiale, l’uomo non solo è legato fisicamente a tutti gli uomini (la generazione vi provvede),  porta in sé una materia che perennemente ruota, che appartiene a innumerevoli esseri successivi, che ritornerà certamente ad essere solo la sua, quella da cui si distaccherà morendo e colla quale, identica, risorgerà. Anche lui è presente a questo modo a tutti i tempi della creazione, come sta documentando la scienza genetica. Ecco come l’uomo entra nel cosmo, senza alcun bisogno, come qualcuno ha fatto, di alterare la fisionomia della verità di Cristo. Alla materia è unita l’anima, la quale è in qualche modo condizionata dalla materia. Questo condizionamento ha sempre urtato le gnosi di tutti i tempi, e le gnosi sono andate per questo fuori della realtà: la spiritualità deve accettarlo e farlo sorgente di merito, non deve rinnegarlo, o pretendere non esista. L’uomo, costituito di anima e di corpo, è per natura sociale e tende alla famiglia, e la famiglia tende alla comunità maggiore. – Quando, realizzando la Redenzione per riportare la famiglia umana alla perduta dignità e speranza, Dio volle attuare una presenza più intima tra gli uomini passò – ecco la unità del coerente disegno – attraverso il tratteggio della umana natura. Per la Incarnazione, il Figlio di Dio prese una natura umana come la nostra, ebbe un corpo ed un’anima, ebbe natura umana e natura divina. Non restò così tra gli uomini, ma dando a tutto la impronta del divino ed umano in perfetto ritmo, passò attraverso gli altri divenendo sociale: costituì la Chiesa! La Chiesa o Regno di Dio abbraccia il cielo e la terra. In terra coincide colla Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica può essere raggiunta anche col martirio e col votum baptismi. Il disegno soprannaturale di Dio ha camminato su linee segnate dalla natura. – La Incarnazione del Verbo diventa tipo di tutto. Le due nature sono il testo sul quale si stende il fatto divino, mantenendo di questo una analogia impressionante nel ritmo. La Chiesa ha un elemento divino ed un elemento umano. Come in Cristo la natura divina non altera la natura umana e la natura umana non condiziona quella divina, così nella Chiesa. L’umanità vi è piena e può arrivare nei singoli al peccato, nei molti al difetto, all’avventura ed alla sofferenza. Ma nulla è toccato della istituzione divina. La libertà resta intatta agli individui ed alla storia. L’umanità porta con sé tutto il suo patrimonio e la sua possibile zavorra: nessuno può scandalizzarsene. Nel suo elemento di costituzione divina la Chiesa è disegnata con elementi anche noti all’esperienza umana, per quanto arricchiti di soprannaturale realtà, capacità, garanzia nonché di soprannaturali collegamenti. La costruzione della società, l’autorità, gli strumenti della autorità sono analogici a realtà terrene. Si noti bene che diciamo «analogici». La società terrena ha una comunità, una autorità centrale, ed ha società minori che sono derivanti non da diritto positivo, bensì da quello naturale: come è la famiglia che. vivendo di suo diritto inalienabile, è tuttavia subordinata alla comunità. Nella Chiesa noi abbiamo qualcosa di analogo. Le singole famiglie, le Chiese particolari poggiano sul diritto divino, e tuttavia i Vescovi loro capi, non meno delle stesse Chiese particolari, sono soggetti alla Chiesa Romana, che è quanto dire al Romano Pontefice. – Il disegno continua con lo stesso ritmo. Il Sacrificio e i sacramenti sono costituiti sempre intervenendo un elemento sensibile ed un elemento divino. La «dualità» è la misteriosa articolazione per cui tutto resta intatto alla dignità divina, tutto resta intatto alla funzione umana. La stessa Chiesa ha un’operazione ed una realtà esterna e giuridica (è società necessaria alla salvezza); ma oltre all’espressione esterna ne ha una interna: si parla infatti di appartenenza al corpo e all’anima della Chiesa. Su questa articolazione si allarga la porta del Regno di Dio, che ha una vita visibile e ne ha una invisibile, sotterranea, mirabile. – Qui occorre ritornare per un istante al punto di partenza: la presenza e la intima relazione che c’è tra le cose create e l’Increato. Nell’articolazione della «dualità» di cui si è parlato sopra, si ha la comunicazione della vita divina, la filiazione adottiva a Dio. La vita divina si dilata a tutti coloro che ne hanno i l principio e ne rispettano la legge. Ma coloro che stanno nella Chiesa acquistano una fecondità da tutti gli altri attraverso la riversibilità dei meriti. Nella comunità divina, nella grazia, nella comunicazione dei meriti per connessione a Cristo, Dio e uomo, dal cielo e dalla terra si realizza la comunione dei Santi, il Corpo Mistico di Cristo stesso. – Il Corpo Mistico sta di fronte al mondo, che corre sulla sua grande traiettoria del tempo, dello spazio, delle mutazioni. Il mondo è non solo il piccolo sfondo del grande dramma ma, constando e delle cose e degli uomini, e avendo con sé scritta la tavola della legge naturale divina, è il terreno di radicazione dello stesso dramma, il quale di quella legge ha rispettato ed impiegato le linee. Questa e non altra è la funzione cosmica rispetto a Cristo e la funzione di Cristo rispetto al cosmo, che non può andare oltre perché il cosmo è sempre ristretto nei limiti quantitativi della sua struttura. – Nel mondo e nel cosmo, la parte principale non si chiama storia delle variazioni, ma storia delle azioni degli uomini. Sì, la storia del genere umano è più grande del cosmo, e non è il caso di mettere in vergogna questa dinnanzi a quello; perché quello è solo l’ambiente ed il terreno di radicazione di questa. Anche qui il ritmo continua: la vita del cosmo non inibisce la storia del Regno di Dio che, almeno in questo ordine, ne è causa finale. Il Regno di Dio non inibisce nulla del ritmo e della libertà della storia. Influisce, certo, per amplificare i poteri di quella libertà e di quella ricchezza. – Tutte le parole che abbiamo detto, che si collegano l’una all’altra, che si riprendono in ritmo perfetto attraverso tutti gli sviluppi, hanno dietro di sé verità e realtà che si perdono all’infinito. I miracoli, la santità, l’esperienza mistica, la temerarietà delle esperienze, dalle quali solo la Chiesa esce viva, sono, come sul Tabor, piccoli sprazzi di luce rivelatrice di ben più alta grandezza. Si intravvede qualcosa oltre il disegno, si ha la certezza che esso radica all’infinito, se ne mutua lo stupore per la unità e l’articolazione, per la inalterata coerenza del ritmo; ma, ad un certo momento, si sa che la realtà continua e l’intelligenza si arresta. E il punto ove si incontra veramente il mistero. – Il mistero della Chiesa deve apparire e nella sua completezza e nell’inserzione dalla quale supera le nostre prospettive. I concetti meramente giuridici sono veri e necessari, ma solo particolari di un tutto. Dio, che solo causa senza restringere il potenziale dell’effetto creato, ha messo «dualità anche nel nostro ordine». Mondo e corpo mistico procedono di pari passo senza che sia diminuito nulla di nessuno. Come quando il Verbo entrando nel mondo lasciò vergine la Madre sua e come quando entrando nel cenacolo il giorno della Resurrezione non ebbe bisogno di aprire le porte. Così si dispiega lo stile di Dio dagli infiniti richiami in esattezza ritmica su tutti i punti della Rivelazione divina. Niente di nuovo. Ma la Chiesa bisogna abituarsi a vederla così. Se il mondo oggi ha orizzonti più ampi è anche perché noi siamo spinti dai limiti dilatati del suo paesaggio a meglio abbracciare la solennità divina del fatto che ospita. Ecco come la Chiesa diventa ideale; senza aver paura di nulla, senza mutare nulla, dando alle azioni degli uomini umili e grandi una aumentabile dimensione. Essa porta con sé il vero, unico, grande ideale della avventura umana. E per questo che sono fortunati i chiamati all’altare. Ecco perché diventano singolarmente venerabili i portatori di Cristo nel sacramento dell’Ordine, circonfusi di spirituale decoro i vescovi, di unica maestà il romano Pontefice. – Ecco perché l’arte ed il gusto non sono mai menzogneri quando, alle cose e persone di venerando decoro, di spirituale autorità, di rappresentativa maestà, prestano la loro grazia, il loro potere espressivo, il loro dignitoso commento, aiuto per la comprensione dei pellegrini in terra, modulazione d’un canto a cui solo l’eternità risponde. La Chiesa si staglia sul cosmo e non è serva del cosmo. Gli uomini, redenti da Cristo e liberi per Cristo, non hanno alcun motivo di lasciarsi impressionare dalla grandezza quantitativa del cosmo. Il mistero della Chiesa è anche il mistero della sua indipendenza dal cosmo: della sua superiorità rispetto ai confini di quello.

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GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (1)

IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (1)

  1. — Ortodossia

[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp. 192-245.]. Introduzione e Parte Prima:

Ideali santi -A-

 Cari confratelli, se le folate di vento non si seguissero incessantemente, potremmo benissimo dispensarci dal riprendere in mano la penna sul tema della Ortodossia. Ma non è così. Lo stesso nostro Santo Padre Paolo VI nel discorso dell’incoronazione ha ritenuto di dover accennare ad «errori» anche nell’interno della Chiesa. [L’ “Illuminato” antipapa, il marrano Montini, sedicente Paolo VI, sapeva bene quel che stava succedendo nella Chiesa essendo lui il principale agente di satana che doveva, mediante la sua fasulla elezione, minare dalle fondamenta la Chiesa di Cristo – sed non prævalebunt! –ndr. -]: «Noi riprenderemo con somma riverenza l’opera dei nostri predecessori: difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano la integrità e ne velano la bellezza…» («L’Osservatore Romano», 1-2 luglio 1963) [che spudorate menzogne –ndr. ]. Quella augusta parola l’abbiamo ascoltata con riconoscenza a Dio, perché non potevamo avere più alto incoraggiamento a perseguire il nostro dovere di «vigilanza» sulla integrità della fede e della dottrina Cattolica nella Chiesa genovese. [Questo era il tributo che il Santo Padre Gregorio XVII era tenuto/costretto a versare ai suoi carcerieri che oltretutto gli “aggiustavano” i testi per renderlo loro complice … ma il Santo Padre riesce sempre a conservare intatta la dottrina cattolica, beffando i censori … -ndr. ]. Le folate di vento ci sono. Tra i motivi per cui ci sono, dobbiamo sottolinearne uno, che più di tutti ci lascia in ansia per il giusto indirizzo del nostro clero. Scorrendo pubblicazioni anche periodiche, italiane ed estere, siamo rimasti dolorosamente colpiti dal fatto che certuni, pur non essendo Padri del concilio [il falso concilio, quello del ribaltone dottrinale! –ndr.]] anche se ecclesiastici, si sono attribuiti prerogative che solo i Padri del concilio godono, dimenticando il rispetto dovuto alla libertà della augusta assemblea e facendo oggetto non solo di ardita discussione, ma di discutibile se non erronea proposizione, materie sulle quali possono pronunziarsi solamente il romano Pontefice o il concilio. – Non solo; molti, ecclesiastici o laici, hanno creduto di poter frivolamente trattare il concilio, i suoi personaggi e gli stessi papi che si sono succeduti, con l’allegra disinvoltura, con cui talvolta il giornalismo tratta argomenti diversi da un concilio e pertanto non segnati come un concilio da divini parametri. Abbiamo letto proposizioni sapientes hæresim, erronee, spregiudicate sia per la verità, sia per i fatti dogmatici. Abbiamo avvertito acri ventate di ribellione intellettuale e morale, forse più incauta o superficiale che malvagia, dalla quale scongiuriamo ogni giorno Iddio di preservare la nostra Chiesa genovese. Chi è attento e preparato, purché libero da faziosi entusiasmi o da intenti non chiari, comprende agevolmente che un errore o un indirizzo morale non diventano veri e legittimi per il solo fatto che molti li dicano tali, approfittando del momento in cui i Pastori, veri e soli responsabili, o sono impegnati nel concilio o debbono attendere con somma solerzia ad assicurarsi la preparazione necessaria alle discussioni conciliari. I grandi transatlantici quando passano fanno sobbalzare tutte le imbarcazioni minori che si ritrovano ad essi troppo vicine. Nessuna meraviglia che lo stesso effetto possa provenire dal fatto più grande del nostro secolo. Tocca a noi dar sulla voce e mettere in guardia. – Tuttavia noi non scriviamo solo per difendere. Scriviamo anche e soprattutto per aiutare la maturazione di questi santi fermenti che le circostanze hanno additato o sottolineato, non solo come conseguenza, ma come contenuto della Redenzione stessa. Se qualche volta dobbiamo cedere allo stimolo del pianto, dobbiamo molto più sentire quanto la munifica effusione della Provvidenza autorizzi il cantico della gioia e la operosità, cui la gioia presta il suo energico impulso. Ed è per questo che prima di trattare argomenti relativi alla difesa della ortodossia preferiamo trattare argomenti nei quali è splendida la fecondità della ortodossia.

Parte prima: Ideali santi

La grande missione assegnata dalla Provvidenza a Giovanni XXIII di santa memoria, lo diciamo per quanto ce lo consente la prospettiva storica, è stata di riportare tra gli uomini un’apertura nelle loro relazioni, comprensiva, fraterna, confidente, sottolineandola come realizzabile anche là ove gli errori obiettivamente li dividono, e realizzabile, ad un certo livello morale, senza alcun danno alla stessa verità [questa è chiaramente uno forzatura imposta, anche se viene sottilmente additata l’eresia “ecumenica” e “pastorale-non dogmatica” del falso papa, il “figlio della vedova”, il 33° Roncalli, agente dei grembiulini! –ndr. ]. – Concretando di fronte al concilio questa sua missione, Giovanni XXIII [occorre aggiungere una X e farlo diventare: Giovanni XXXIII° grado – ndr. ] ha attirato l’attenzione dei cattolici e del mondo sull’ideale ecumenico e sull’ideale pastorale della Chiesa. – Noi tratteremo ora dei due argomenti e di qualche loro importante conseguenza od applicazione. Giovanni XXIII ha fornito ai due argomenti un commento con tutta la sua vita [nelle logge! –ndr. ] e crediamo che, quando si vuol sapere che cosa egli intendesse, si debba guardare stentamente a quello che ha detto, ha scritto e soprattutto ha fatto. – Della sua predicazione abbiamo avuto una documentazione press’a poco quotidiana. E una predicazione parenetica in prevalenza, coi motivi propri della predicazione di un pastore di anime saggio, concreto, affettuoso. Sono i motivi della predicazione tradizionale, quella che sempre ha formato i veri cristiani, né presuntuosi, né equivoci, né impressionati dal mondo. Soprattutto è una predicazione dalla quale è, si può dire, assente il frasario di moda convenzionale, tanto caro a non pochi nostri contemporanei [questa è il ritratto di un “vero” Papa, naturalmente, non di un antipapa: il testo “sviolinato” è chiaramente manipolato, tanto più che oggi sappiamo bene come andarono le cose in quel 26 ottobre del 1958! – ndr.] Egli, il Papa, ha sempre parlato della fede, della speranza, della umiltà, dell’obbedienza (l’aveva nello stemma) [l’obbedienza massonica – ndr.], della fedeltà, della carità. Con tono elevato, con afflato unico e con visione universale, ricevendo gente comune, sapeva parlare, in immediata comunione di anime, come avrebbe parlato loro il migliore e più santo dei parroci. Per sé tollerava gli onori, ma come rivolti al vicario di Cristo; il suo contegno rimaneva semplice, sorridente, umile, conciliante. Per la sua Roma, finché gli fu consentito, si comportò come si potrebbe comportare il Vescovo di una diocesi non grande, che ha il potere di essere in trattenimento domestico e immediato con tutti. Andò a visitare ammalati, carcerati, ospedali, parrocchie, nell’atteggiamento di un padre, senza retorica e senza recitazioni. Per questo il popolo lo comprese, lo amò, lo pianse e, credo, lo ricorderà. Nella mente di Giovanni XXIII [33° -ndr.] era inconcepibile una pastorale che fosse una sferza contro qualcuno, un ecumenismo che si staccasse dalla limpida tradizione e prassi della Chiesa, se non per valutare e rivalutare l’umiltà, il sacrificio, la comprensione e la carità. Egli non vide mai queste cose da un livello politico, ma sempre e solo sacerdotale; vorremmo aggiungere sacerdotale con quel tipico sapore che una luminosa tradizione ha reso familiare alla sua terra di origine. Bisogna mettersi al livello degli umili per capire la grande saggezza di Giovanni XXIII nella sua missione, breve, ma dal duraturo influsso. [infatti Gregorio XVII, in un momento di “libertà”, parlerà di: danni che non sarà possibile riparare prima di 50 anni!]

L’ideale ecumenico

Fino a pochi anni fa, nell’ambito della Chiesa, il termine «ecumenico» fu sinonimo di universale o cattolico e servì soprattutto a qualificare i concili generali della Chiesa stessa. Il termine «ecumenico» servì pure fin quasi ad oggi ad indicare le iniziative sorte in campo prevalentemente protestante per realizzare una certa unione tra cristiani. Il valore del termine era evidentemente diverso da quello precedente, appunto perché poteva realizzarsi con una certa unione di ristrette esigenze. Questo ecumenismo è sempre stato tollerante con idee e massime diverse e, proprio per il buon viso che faceva ad una tolleranza molto intinta di relativismo, non ebbe, se non con profonde riserve, le simpatie dei cattolici. Lo si riguardò solamente come un principio e si rimase in attesa di attuazioni migliori e più complete. Sarebbe un errore credere che questo tipo di ecumenismo goda o possa godere oggi di un giudizio stanzialmente diverso da quello che se ne dava prima. Il termine di «ecumenico» e, almeno talvolta, perfino quello di ecumenismo» hanno assunto sfumature, anzi valore più marcato e più comprensivo. Questo lo si deve alla impronta voluta per il concilio da papa Giovanni e alla elaborazione che il concetto ha avuto nel Concilio Vaticano II [il “conciliabolo” riunito per dissolvere la dottrina cattolica pian pianino, smontandola un pezzo per volta; ricordiamo solo per inciso che un tal conciliabolo era stato ampiamente scomunicato dalla celebre bolla Exsecrabilis di Papa Pio II, che commina ancora oggi, scomuniche “ipso facto”-“latæ sententiæ” a tutti coloro che, non costretti, vi hanno partecipato a qualsiasi titolo, lo hanno favorito e ne seguono i falsi e deliranti insegnamenti! –ndr.-]  Così lo «spirito ecumenico» è quell’anelito che mira in concreto al maggiore incontro possibile, senza danno alla verità e con riguardo alla situazione obiettiva, coi fratelli separati, ma battezzati; all’incontro, sul terreno e sugli ideali comuni, con tutti gli uomini non battezzati. Ai primi, nulla sacrificando della verità e della dignità di quanto ha stabilito il Salvatore, va incontro con maggiore dono di virtù, senza affatto lasciar intendere che sia cessata la verità di fede sulla assoluta necessità della vera Chiesa; ai secondi va incontro con lo stesso metodo, guardandosi bene dal confermarli in posizione di indifferentismo religioso. Per gli uni e per gli altri resta spirito sostanzialmente missionario. Tanto per la precisione dei termini e dei concetti [come si vede il Santo Padre ha un concetto antitetico a quello dei modernisti conciliari! … i censori evidentemente dormivano a quell’ora! –ndr. -]. – Passiamo ora a richiamare i principi esplicitamente formulati da nostro Signore e relativi a tutta questa materia. Essi sono i seguenti. – Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla cognizione della verità. La Redenzione ha scopo e valore per tutti gli uomini. Chi vuol essere con Cristo, deve volere quello che vuole Lui.  Nessuno pertanto è autorizzato a fare limitazioni o a porre restrizioni: l’afflato cristiano è di natura sua universale come universale è la caratteristica assegnata dallo stesso Vecchio Testamento al tempo del Messia. La volontà di Cristo è superiore e vince contro le passioni e le concezioni particolaristiche o di vendetta che possono avere gli uomini. Né nazione, né razza, né grado di civiltà può avere valore contro questo chiaro volere del Redentore.

– Dio, pur volendo salvi tutti gli uomini, ha condizionato la loro salvezza ad elementi precisi ed impreteribili: se ne hanno l’esercizio gli uomini debbono usare della loro libertà e con questa libertà debbono prestare ossequio a quanto ha posto come strumento necessario di salvezza: la fede, la vita coerente con la fede, la soggezione alla vera Chiesa. A nessuno di noi, neppure per misericordia, è dato di alterare quanto il Signore ha stabilito. Nulla può essere indebolito di quanto riguarda la morale, nulla svincolato di quanto riguarda la Chiesa. Il giudizio sulle situazioni soggettive dei singoli uomini è proprio di Dio, e per questo sappiamo avere Iddio mezzi per i quali possono salvarsi molti uomini che non sembrerebbero sulla via della salute. È tuttavia certo, per la verità sopra esposta, che i mezzi noti a Dio non defrauderanno mai tale regola e la attueranno sempre, anche se il modo resta a noi ignoto.

– Gesù Cristo ha dato alla sua Chiesa ed ai suoi seguaci un indirizzo dinamico; li ha voluti cioè tesi sempre alla illuminazione ed alla salute di tutte le genti (cfr. Mt. 28,19; Mc. 16,15; Lc. 24,48, At. 1,8 sgg.).

– Gesù Cristo ha promulgato la legge della carità, la quale ha per oggetto, dopo Dio e per lo stesso motivo dell’amore di Dio, tutti i fratelli. Essa ha la ricchezza con cui è possibile somministrare ogni forza ed ogni ardire per superare gli ostacoli messi dagli stessi uomini e dalle conseguenze dei loro atti, contro la possibilità o facilità di farsi amare. – Lo spirito ecumenico è così nettamente definito da Cristo e, quel che più conta, è voluto da Lui. Le conclusioni sono chiare:

– l’ideale ecumenico è del Vangelo;

– non è affatto una novità, è soltanto una ripresentazione di una verità in modo più urgente per la urgenza degli avvenimenti, che rapidi si svolgono nella storia contemporanea ed invocano con insistenza più intensa luce e più caldo amore tra gli uomini, la vita di relazione dei quali cresce e si fa pericolosa;

– l’ideale ecumenico può «ispirare» un «metodo» fatto di maggiore virtù, di più forte pazienza, di più profonda comprensione; ma non può ispirare né alterazioni della verità, né falsi concetti di tolleranza rispetto ai diritti degli uomini davanti al loro Creatore. Non si può infatti essere così infrolliti da ammettere che si debbano fare riduzioni a carico di Dio ed in favore degli uomini;

– l’ideale ecumenico è di fatto un ideale missionario, che non sottolinea solo il balzo della conquista, ma anche la serenità e la pazienza del dialogo con tutti gli uomini o fuori della Chiesa o fuori dello stesso Vangelo;

– il modo migliore per snervare l’ideale ecumenico, ideale evangelico, è quello di contaminarlo con generosità ambigue, con silenzi pericolosi, con silenzi e reticenze furbe, con tolleranze di dubbia marca, le quali appartengono assai più alla debolezza od alla scaltrezza degli uomini, che non alla chiara, forte, lealissima fedeltà dei figli adottivi di Dio. – Possiamo veramente dire che l’ideale ecumenico, quale è stato lanciato da Giovanni XXIII e sentito dal Concilio [che è esattamente l’opposto di ciò che in Santo Padre ha precisato, facendo comprendere effettivamente da che parte era, e da che parte opposta si trovano anche coloro che lo criticano ancora oggi per aver aderito all’ecumenismo, evidentemente ignorando colpevolmente ed in mala fede la posizione del Sommo Pontefice, impedito e costretto a scrivere cose che però riconduceva subito sulla linea del più rigoroso cattolicesimo, eludendo con astuzia “teologica” anche il lavoro dei censori che non hanno potuto impedire la sua perfetta adesione alla dottrina cattolica di sempre – ndr. -], ha completato l’ideale missionario, aggiornandolo secondo immutabili principi di umiltà e carità alle esigenze di tempi in cui i missionari troveranno meno selvaggi, ma maggiori complicazioni proprie del materialismo pratico ovunque diffuso. – Vorremmo riflettere molto su questo e vorremmo ci riflettessero non meno quelli che sentiranno una vocazione missionaria. Questa deve perdere l’alone di avventura romantica in un mondo sognato secondo antichi e sorpassati moduli, semplificato fino alla ingenuità. Non è certo questo il nostro argomento, ma non potevamo fingere di ignorarlo, rinunciando a richiamare al sapore «nuovo» che dovranno avere le vocazioni missionarie. Ed ecco un effetto pratico, cui per ora solo accenniamo, dell’ideale ecumenico. Il mondo intero, bisognoso di luce, di amore e di perdono, diventa componente della vera pietà cristiana, dell’orazione, della considerazione dei piccoli problemi nel proprio piccolo campo o nel proprio piccolo cenacolo. Così nella immutabile verità e nella immutabile tradizione si avrà una ricchezza nuova e necessaria; la carità ne guadagnerà una sua amplificata perfezione, perché sarà aiutata a mettere in pratica «veramente» e non solo teoricamente» il precetto di amare tutti gli uomini! E tempo che le centrali missionarie non restino isolate in grandi organismi specifici, ma siano contornate da tante piccole centrali dall’umile apparenza, quanti sono i veri adoratori di Dio in spirito e verità, riuniti in modo da essere più forti del mare. – Questo è l’ecumenismo dal volto franco senza belletti, dallo sguardo quale i deboli reclamano, portatore della vera carità di Cristo [ci sembra abbastanza per poter sbugiardare apertamente tutti i vari “Giuda”, i “soloni” modernisti o ancora i peggiori falsi tradizionalisti che unanimi, salomonicamente, emettono giudizi sul Santo Padre impedito, esiliato, dimostrando così solo la loro ignoranza profonda e la ancor più grande malafede nel sostenere le loro posizioni settarie e di comodo massonicamente conseguite! –ndr.- ]

L’ideale pastorale

L’ideale pastorale ha avuto il suo momento glorioso, ha polarizzato l’attenzione di tutto il mondo. Noi vedremo che, come si è detto per l’ideale ecumenico, anch’esso, nell’alone del Concilio Vaticano, traendo la infinita ricchezza della immutabile verità e della immutabile tradizione, ha rivelato qualcosa di nuovo. E questo che vorremmo il nostro clero cogliesse anche se talvolta questo ideale pastorale, nelle intenzioni di taluno, può aver servito scopi non precisamente pastorali e intendimenti polemici. Né l’una né l’altra intenzione furono mai nella mente di Giovanni XXIII [… c’era infatti, e putroppo, ben altro! –ndr. -]. – Chiediamoci anzitutto, per non correre sull’impreciso e sul generico, che cosa sia «pastorale», avvertendo che vogliamo sapere di un termine evidentemente metaforico e che interessa solo per quanto concerne il lavoro e il metodo dei sacri ministri di Dio. – Per rispondere non abbiamo da costruire teorie. Dobbiamo soltanto leggere l’Evangelo. Gesù Cristo ha detto di essere Lui stesso il «buon pastore» per antonomasia. Se la metafora o il traslato può dare qualche indicazione, il significato vero ce lo ha messo Gesù Cristo. Vediamo allora come Egli ha concepito se stesso quale Pastore.

– Anzitutto Egli è il «buon pastore», ossia il «buono» in modo antonomastico e non solamente epesegetico. Vi prego di calcolare la diversità che c’è tra antonomastico ed epesegetico. Se li confondessimo mutileremmo la verità e snerveremmo quello che il Salvatore ha voluto dire (cfr. Gv. X,11). Dunque la «bontà» è sostanziale carattere del pastore. Lasciamo stare i cavilli esegetici possibili. Tutti comprendono che la «bontà» è fatta di amore profondo, manifestato, concreto, efficace; che affonda le radici nella intelligenza ed impiega tutto il sentimento. Il buon pastore non deroga al diritto, perché è sacro pur quello, come non deroga all’«ordine» riflesso di Dio, ma il suo livello sta più in alto di quello del diritto e non è contenibile nelle sole norme ordinarie del diritto. Il rapporto tra il pastore e le pecorelle, non disdicendo, anzi sommando tutti gli altri giusti rapporti, sta però ad un livello più alto, più luminoso, più cordiale di tutti. La bontà vuole il bene delle persone amate e con questo sta fuori dei limiti e delle remore dell’orgoglio e dell’interesse. Essa proprio perché vuole il bene suppone la intelligenza e la verità, perché solo la verità è in grado di indicare quale sia il bene. Tanto è necessario dire perché non accada di fraintendere, in modo da ritenere che la bontà del pastore sia una somma di impulsi di benevoli istinti e di sentimenti affettuosi, senza ombra di proposizioni sicure, di canovaccio provato per l’intelletto, senza il suggello di una proporzione, quale solo la verità conosciuta è in grado di dare.

– Il pastore dà la vita per le percorelle (cfr. Gv. X,11). Questo rapporto si è realizzato in modo supremo con Gesù Cristo attraverso la Incarnazione e la Redenzione ed è rapporto di «dono» totale. Per quanto riguarda il Salvatore, la Eucarestia è la espressione continuata e commovente di quel «dono totale». Osserviamo bene che cosa vuol dire da parte di Cristo «aver dato la vita per le pecorelle». Certo si intende la sua passione in Croce, ma non solo quello. Egli ha preso sopra di sé i peccati degli uomini (cfr. Is. LII,4-6) sostituendoli nella necessaria espiazione (soddisfazione vicaria). Egli ha abbassato se stesso, umiliandosi fino alla morte ed alla morte di Croce (cfr. Fil. II,8), in una obbedienza al Padre che fu il titolo della sua vita. Egli si è fatto uomo, ossia ha fatto di se stesso quello che sarebbe stato utile ed esemplare per tutti gli uomini. Colle parole «il buon pastore dà la vita per le pecorelle», Gesù ha detto molte e grandi cose e, se queste si riflettono su altri che da Lui mutuano il carattere e l’impegno di pastori, da questi esigono grandi cose.

– Il pastore conosce le pecorelle ed è riconosciuto da esse (cfr. Gv. X,14). Qui Gesù insiste sul rapporto di conoscenza, ad indicare che non è affatto bastante un rapporto di sentimento e di utilità, comunque. Ma la reciproca conoscenza indica chiaramente il regime di affinità e di intimità instaurato da Gesù Cristo.

– Il pastore pasce (cfr. Gv. X ,1 sgg.). Ossia dà alle pecorelle il necessario alla vita. Dà il tesoro del Regno di Dio.

– La qualità di pastore è trasmessa ai capi della Chiesa. Lo indicano nettamente il discorso che Gesù ha fatto a Pietro sulle rive del mare di Galilea dopo la risurrezione (cfr. Gv. XXI) e tutta la predicazione formativa degli apostoli. Naturalmente il trasferimento del concetto di pastore agli uomini eletti a far parte della gerarchia della Chiesa implica che la ragione di pastore in questi subisce l’adattamento ai limiti umani. Ma quei limiti sono onesti solo dove incontrano l’impossibile ad un singolo uomo; prima di quel punto debbono riprodurre la figura del buon Pastore divino, come del Pastore divino prolungano la missione di salvezza. – Da quanto detto deriva che a proposito di «pastore» nella Chiesa due sono le cose da considerarsi: il modo e il contenuto. Per quanto riguarda il «modo», i princìpi sono stati enunciati abbastanza al numero precedente. Per quanto riguarda il contenuto dell’azione di «pastore» il discorso deve farsi più attento. Infatti la «pastura», il «cibo» da darsi alle pecorelle è tutto il tesoro del Regno di Dio. Questo tesoro del Regno comincia dalla «semente gettata», ossia dalla predicazione della Parola di Dio, che ha come scopo immediato di dare la fede (cfr. Mt. XIII,27 sgg.; Rm. X,17). E la fede è essenzialmente un atto di intelletto. Il «pastore» deve anzitutto dare la verità rivelata, la sua certezza, con le qualità senza delle quali non esiste né certezza, né fecondità. Se trascura il patrimonio «dato» (tradizione) da Cristo alla Chiesa nella Rivelazione, potrà – il pastore – sentirsi soddisfatto di distribuire carezze, soddisfazioni ed affetti, ma non farà certamente il suo dovere. Il pastore deve dare e facilitare alle pecorelle i mezzi della grazia. Deve dare il completamento sociale e giuridico che ai fedeli viene dalla appartenenza alla società visibile della Chiesa e che essi realizzano bene solo con l’obbedienza e la riverenza. Si tratta di un pastore che deve guidare ai campi eterni. La visione del «tesoro» che deve elargire riflette su di lui una luce ed una dimensione incredibilmente grandi e giustifica perché egli, solo in grazia di un continuo sacrificio di se stesso, quello che comincia dal celibato e si matura nella sudditanza perfetta alla sacra disciplina, è in grado di essere portatore d’un simile tesoro. A portare quel tesoro non può abilitarsi chi se ne vuol stare nella levatura del semplice laico senza mettersi al necessario livello di sacrificio del proprio io e della materia con l’accettazione umile dell’obbedienza e del celibato. E nessun laico può pretendere di sostituire, o coartare, o diminuire il pastore, per il fatto che non è consacrato. – Il vero punto sostanziale per capire il pastore e il pascolo sta nell’adeguato concetto del tesoro del Regno di Dio, nell’impegno che esso adduce, nella responsabilità alla quale lega. Insomma non c’è posto per del linfatico romanticismo. La misura del pastore resta quella del buon pastore: la Croce. Volevamo dire questo: che nel Vangelo non è solamente il «modo» quello che fa da parametro alla idea di pastore, ma ancora e ben più il «contenuto» della azione pastorale, e che il «modo stesso» – amore e sacrificio portati all’ultimo dono — viene giustificato appunto dal contenuto. – Non è possibile ritenere adeguati all’Evangelo coloro che dipingono la pastoralità come cosa estranea all’interesse per la precisione dogmatica della verità di cui nutrire le pecorelle; come non è concepibile il linguaggio di coloro i quali pare ritengano il pastore una sorta di protettore bonario e condiscendente degli uomini, messo là perché li salvi e li storni dai rigori della verità, della legge di Dio e, in sostanza, dal numero maggiore di pesi. [Penso che queste e le successine considerazioni magistrali del Sommo Pontefice, eliminino ogni dubbio sulla sua presunta “connivenza” con la “pastoralità-suina” del Vaticano II e dei suoi adepti attuali. –ndr.]. Non confondiamo il «modo» adatto per portare gli uomini alla Croce col compromesso di stornarli da essa. Il pastore ha tanto bisogno del sorriso, perché è la porta più facilmente simpatica agli uomini, ma ha molto più bisogno della forza per portare sulle proprie spalle pecorelle deboli, sperdute ed ignoranti. – Ora siamo in grado di rispondere al quesito posto. La pastoralità è la imitazione di Gesù Cristo, il buon pastore. In essa il maestro vero ed assoluto è uno solo, Lui stesso. Definire la pastoralità è facile ed il criterio evidente. La definizione non può avvalersi, quasi fossero fonte prima e decisiva, di tutti gli atteggiamenti edulcorati, remissivi, romantici, sentimentali, quali è possibile trovare nella esperienza umana. La pastoralità non è materia da trattarsi col sistema col quale le prime società di assicurazione crearono l’arte e la scienza della propaganda, ispirate al criterio di piacere alla gente perché meglio accettasse il loro retribuito servizio. – Cari confratelli, ora veniamo al pratico. Se qualcuno tra voi trascurasse il catechismo, trascurasse di battersi per dare ai suoi parrocchiani l’antidoto circa gli innumerevoli errori, potrebbe avere della popolarità e della gloria, ma sarebbe un cattivo pastore. Se qualcuno di voi curasse i propri comodi e fosse contento di adempiere la legge sì da non avere mai riprensioni canonicamente orientate e nulla più volesse fare oltre la stretta legge, non desse insomma ad oltrepassare senza misura il limite del puro dovere, – ne sia ben certo – sarebbe burocrate, forse principe munifico, ma non certamente pastore. Se qualcuno di voi abbandona indebitamente e quando può il suo posto, per attendere ad altro che non sia il suo dovere, ama le vacanze, le gite, i passatempi, giustificandoli colla necessità della variazione, sarà un uomo come gli altri, non un pastore. Ed i fedeli capiranno questo assai prima di lui. Anche se non glielo diranno in faccia. – Se qualcuno di voi si mette in testa che sono gli altri a doversi adattare a lui e non lui agli altri, e pretenderà di imporre esagerati limiti di orario per essere più libero ed esigerà riguardi costosi, esimendo se stesso dal quotidiano sacrifìcio della pazienza, del silenzio, del perdono e della fatica, anche quando le pecorelle fossero ordinate e balzane, creda pure, sarà funzionario magari degno di rispetto, ma non pastore. Se crederà di essere esentato dall’andare ai singoli e gli basterà l’altare o il pergamo; se rifuggirà dal paterno e continuo accostamento della povertà e della sofferenza, per fare una continua questione di dignità e di autorità, sarà vanesio, ma non pastore. Se qualcuno di voi dimenticasse che l’accesso alla pratica qualità di pastore gli è dato dalla perfezione e dalla elevatezza della sua vita, credendosi pastore ingannerebbe se stesso. Dio passa dappertutto, e la sua grazia può fare a meno di noi. Ma la via più ordinaria è che passi attraverso il ministero sacerdotale. Ora, ciò che nell’animo dei fedeli la porta alla fiducia ed alla stima per quel mistero, sempre pastorale, è la vita virtuosa. I fedeli debbono con evidenza constatare che i pastori sono applicati ad una vita più santa dellaloro (can. 124 CJC). Se qualcuno di voi non riflettesse bene che la qualità di buon pastore, in Gesù Cristo, porta con sé la soddisfazione vicaria e non ne deducesse che egli deve pregare, espiare e sacrificarsi per le pecorelle, sostituendole quanto è possibile nel bene che omettono di fare, limiterebbe la sua concezione di pastore a qualcosa di parziale, ossia di incompleto. Questo diviene assolutamente chiaro: l’azione di pastore non si svolge solo in quegli atti qualificati che diventano «rapporti» o «vita di relazione»; essa prende tutto, soprattutto quello che non appare alla prima nella stessa vita di relazione. E qui sta la sincerità del pastore. Il clima del Concilio Vaticano II è stato propizio a ulteriormente sviluppare la dottrina sulla pastorale, senza affatto mandarla fuori del suo alveo duraturo, che è la imitazione di Cristo sommo pastore [testo manifestamente manipolato, ma il Pontefice si era espresso già in termini chiarissimi ed inattaccabili soprattutto oggi che si notano le derive pastorali della setta del “novus ordo”, con la “sponda” dei sedevacantisti e dei gallicani fallibilisti – che ha preso il posto della Gerarchia cattolica – in cui i principi qui delineati sono desueti e profondamente calpestati! – ndr. -]. – Anzitutto si è delineata una salutare reazione all’istinto mondano. Pensiamo che più d’uno si meraviglierà di questa affermazione. So bene che molti i quali hanno parlato o scritto di pastorale qua e là in questo periodo di tempo non hanno dato grande prova di avere le idee chiare, ma ne hanno parlato e questo è l’importante: che se ne sia parlato. Perché quando un argomento entra in campo e diviene discorso comune, potrà sul principio ed in qualche angolo avere un delineamento improprio, ma dopo va avanti da sé, secondo il suo peso, la sua natura, la sua obiettiva affinità. Ora l’obiettivo peso dell’argomento pastorale pende verso la definizione che in parole e in fatti ne ha dato Gesù Cristo. Ed accade così che l’argomento pastorale e l’ideale pastorale non solo sboccano sulla giusta via, ma finiscono col richiamare ad aspetti ai quali non era data la necessaria, costante attenzione. Il grande richiamo pastorale, che lentamente acquista tutta la illuminazione dall’Evangelo, mette in rilievo la dedizione, il sacrificio, la generosità, la umiltà, la pazienza, la spiritualità soprannaturale nell’amore proprio dei pastori secondo Dio. La figura viene energicamente sbalzata e crea un contrasto. Quale contrasto? Con chi? Eccolo. Tutto si fa meccanico. Tutto disegna l’ideale della comodità come quotidiano supremo appetito. Tutto tende a materializzarsi. La missione lascia il posto volentieri al funzionariato, il mondo della libertà al mondo delle accurate e predisposte programmazioni totali, il dare al pretendere, l’uomo al robot, il dono alla retribuzione, la natura all’artificio. La grande maggioranza degli uomini si giustifica dicendo che deve farsi la propria onorata sistemazione e si direbbe che tutti dicano essere ciò giustissimo. Il mondo è «pensare a se stesso». In realtà si comporta così. Il pastore non pensa più a se stesso, allo stipendio, al mangiare, al bere, alle sue vacanze; perché egli è in atto di dare giorno per giorno, goccia a goccia la sua vita per le pecorelle. Contrasto più energico non si può immaginare. Esso porta uno dei gaudiosi segreti del sacrificio dei sacerdoti: non hanno concorrenti temibili, finché danno tutto, come il Buon Pastore. Più i sacerdoti diventano rari, più diventano preziosi e insostituibili. Operai, gente disagiata spesso a pensare a voi, al di là delle parole seducenti, rimangono solo i «pastori» e rimangono in forza di quel contrasto. Spesso non abbiamo saputo sottrarci al più sapido umorismo, voltando le proposizioni o leggendo gli epifonemi di taluno sulla pastorale. Abbiamo detto tra noi: attento, perché questa è una bomba che ti scoppia in mano. Ecco come l’aver portato in primo piano l’argomento pastorale ha messo sulla via di demarcare profondamente la reazione al modo di essere del gran mondo. Questa reazione non è ancora completa, ma temiamo che lo diventerà. I santi pregano! Si è disegnata limpidamente la «unicità» nella Chiesa del senso pastorale. Fuori della sequela di Cristo, da nessuna parte si ha il coraggio di disegnare un tale contorno per coloro che prestano a parole o a fatti il loro servizio agli altri, dal primo all’ultimo gradino della scala sociale. Questi uomini, questi pastori che unici attraversano la giungla da soli, e da soli perché accettano e conservano un celibato «onesto», che proprio perché «soli» sono in grado di sacrificare tutto anche in un istante, stagliano nel cielo! La divaricazione del carattere pastorale dall’andazzo mondano diviene naturalmente divaricazione e immunità dalla patologia del mondo. Perché patologia c’è. La troppa materia, i troppi squilibri tra impegno spirituale e terreno, le violenze fatte alla normalità biologica da estranee ragioni aumentano il contingente della anormalità. L’esame di questa non appartiene per ora al nostro argomento. Qui ci interessa solo mostrare che c’è divaricazione. – Sotto la grande luce di questa visione pastorale, noi assistiamo a questo fatto: che il vero ammodernamento della Chiesa, anche se non a tutti riesce evidente, si è messo in moto e continuerà la sua strada. – Sì. Perché l’ammodernamento non sta in una imitazione del mondo, o in un adattamento delle cose nostre al mondo, il che equivarrebbe a un tradimento nei confronti di Gesù Cristo; ma nell’aumentare la forza per controbilanciare gli errori, i peccati e le debolezze del mondo in uno slancio di amore per gli uomini, attuando coll’immutabile criterio e con nuove dedizioni la figura del pastore. Di questa figura perfetta bisogna illuminare ogni cosa nella Chiesa. – Qui il Concilio cammina da sé. È dove si sente, e non è solamente qui, l’azione dello Spirito Santo. [Continua …]

 

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (15), capp. XXVI-XXVII

CAPITOLO XXVI.

RICOMPENSA DEL BUON LADRONE.

Delizioso mistero compiutosi nella sua anima. — Egli sente di essere perdonato. — È assicurato di perseverare. — Assicurato di possedere una gloria immacolata, una felicità pura ed immortale.— Godimento di questa felicità. — Ammirazione di S. Bernardo. — Ora misteriosa in cui il paradiso gli fu promesso. — Qual è questo paradiso. — Spiegazione di S. Agostino e di S. Tommaso.— È egli entrato il primo ìu paradiso?

Disma aveva fatto ciò che deve fare ogni peccatore penitente. Egli era rientrato in se stesso, si era pentito, confessato, ed erasi rivolto a quel Dio che in tanti modi e sì lungamente aveva offeso. Tutto ciò lo aveva fatto con perfetta sincerità e con un coraggio eroico: e la Misericordia, non trovando più ostacoli, entra ben tosto nella di lui anima, come la luce in un appartamento spalancato ai suoi raggi. Ma ciò non basta: la misericordia si getta su lui, come l’ape sul fiore, come la più tenera Madre sul figlio dell’amor suo da lungo tempo perduto. –  E che di più possiamo dire per dare un’idea di un sì delizioso mistero? Un gran colpevole è condannato a morte. Egli è solo, legato mani e piedi nel fondo di un nero carcere. Sta innanzi alla sua coscienza una vita intera di iniquità. Prima di salire al patibolo, due manigoldi lo flagellano: nel passato i rimorsi; nell’avvenire la vista dell’estremo supplizio. Finalmente uno strano rumore gli ferisce l’udito: è il carceriere che viene colle sue grosse chiavi ad aprir 1’uscio della prigione agli sgherri della giustizia. Il reo è condotto via: per poco ancora, ed avrà subito una morte obbrobriosa e crudele. In mezzo a sì lugubre e funesto apparecchio, il re giunge e gli dice: « Tu sei assoluto. » E chi potrà mai esprimere la gioia, la impressione di contento che una tal parola produrrebbe sul povero condannato?… Ma mille volte più grande fu il gaudio di Disma, allorché intese il Salvatore dirgli: « Oggi sarai meco in paradiso. A provarlo basta svolgere il senso di quelle ineffabili parole. Dapprima vogliono dire: Tu sei perdonato. « Io son perdonato! Ed è ciò possibile? Io invecchiato nel delitto; io giustamente condannato al supplizio il più infamante; io, la cui anima è più nera del carbone; io l’orrore dei miei simili; io già destinato all’inferno, io son perdonato, io son 1’amico di Dio! Sì, lo sento, io son perdonato! Non v’ha più un peso che opprime la mia coscienza; non più rimorsi! Una pace sconosciuta m’inonda l’anima, e la inebria, e la fa uscire fuori di se! » E ben si comprende che una simile parola, uscita da una tal bocca, e diretta ad un uomo qual si era Disma, era capace di farlo morire. Disma è perdonato; ma sarà durevole la sua felicità? Non ha egli da temere di perderla con ricadere nel peccato? No. Fatto certo del suo perdono, il fortunato penitente non lo è meno della sua perseveranza. Egli ne ha pegno la parola infallibile; che dico? Il giuramento, il solenne giuramento del suo Redentore. – La parola Amen dicono i santi Dottori, è il giùramento di Dio. Usandola a riguardo del Buon Ladrone, Nostro Signore gli dà l’inalterabile sicurezza, ch’ei persevererà fino alla morte nella fede, nella speranza, nella sincerità del suo ravvedimento. Né ciò è tutto. Quasiché il divino Maestro avesse temuto che il suo caro Disma potesse rimanere in qualche inquietezza, replica quella solenne parola: Amen, Amen,, in verità in verità io tel dico. Oblio pel passato, sicurezza per l’avvenire … immensi favori, e pure essi non sono che un primo saggio della misericordia verso il Buon Ladrone e una debole parte della sua ricompensa. Vediamone il seguito. Se non contento di accordare la sua grazia, al reo di cui facemmo parola, il Re avesse detto: oggi stesso io ti condurrò meco alla Corte, e prenderai parte alla mia gloria, alla mia potenza, ed a tutti i miei godimenti: la lingua umana non potrebbe sicuramente esprimere le emozioni dì un uomo, richiamato ad un tratto dalle porte della morte ai più vivi splendori della vita, e dal fondo di un carcere all’altezza di un trono. Ma anche più grande è la sua impotenza ad esprimere i sentimenti di Disma nell’udire il re dei re dirgli: « In verità, in verità ti dico: oggi tu sarai meco in Paradiso. » – Quello che può affermarsi con uno dei suoi panegiristi si è, che l’annunzio di una siffatta felicità assorbì ogni sensazione di dolore: Latro plagarum immemor, dilectione dilatatur. [Arnold. Carnot., De sept. verb.]. – Precursore di un altro insigne convertito, Disma può egli pur dire come s. Paolo: « Sono inondato dall’allegrezza in mezzo a tutte le nostre tribolazioni. » [II Cor., VII, 4.] – Precursore dei martiri, egli provò quello che essi provarono. In mezzo ai più crudeli tormenti, furon veduti ebbri di gioia cantare sugli eculei, sorridere sotto le ruote, e coi piedi sugli ardenti carboni dire ai loro giudici: « Giammai noi ci trovammo ad una sì lieta festa, ad un sì lauto convito: nunquam tam jucunde epulatìs sumus [Ad. SS. Mar. et Marc.]. – Questa coesistenza del dolore e della gioia è chiaramente spiegata da s. Tommaso [3. p. q. 46. art. 8, ad I.]. – La sola cosa che il Salvatore promette al suo diletto compagno di morte non è già di renderlo felice in mezzo ai suoi mortali affanni: Egli lo assicura di una felicità assoluta, e non già nel corso di un anno, di un mese, ma per quel medesimo giorno. I Padri della Chiesa sen vanno in estasi nel considerare i tesori di tenerezza contenuti in quelle divine parole. Per essi tutti ascoltiamo s. Agostino ed un contemporaneo di s. Bernardo. Il primo si esprime così: « Sovvengati di me, disse il Buon Ladrone; e non ora, ma quando sarai rientrato nel regno tuo. Io son reo di tanti delitti, che non posso sperare un pronto riposo. Che le mie pene si prolunghino pure fino al tuo definitivo trionfo, non è certamente soverchio per i miei peccati. Allorché sarai rimesso nel tuo trono di gloria, allora mi perdonerai. Egli rimetteva ad un avvenire non vicino la sua salvezza; ma il Salvatore gli offrì il Paradiso che egli non osava domandare. » Ecco le parole del secondo: « In verità, ti dico, oggi sarai meco in paradiso. E chi mai? Tu che mi hai confessato tra i tormenti della croce, tu sarai meco nelle delizie del Paradiso. Con me, egli disse! Bontà ammirabile! Egli non disse semplicemente: tu sarai accolto in Paradiso, o tu sarai in Paradiso con gli angeli; ma con me. Tu sarai ricolmato di gioia vedendo Colui che tu desideri. Tu vedrai in tutta la sua maestà colui che tu confessi in mezzo ai dolori. Io non fo attendere ciò che prometto: oggi stesso tu verrai con me. – « Il dolce e pietoso Gesù ascolta subito, promette subito, e subito dà. Chi può dunque disperare di un Dio sì facile a dare ascolto, sì pronto a promettere, e sì puntuale a dare? … E noi pure che conosciamo la vostra benignità, noi speriamo in voi, perché non abbandonate mai coloro che vi cercano s. » Tal’è la premura del Salvatore d’introdurre nel cielo il suo diletto, che passa sopra a tutte le regole dell’ordinaria sua provvidenza. Egli stesso ha stabilito S, Pietro a custode della celeste Gerusalemme: a lui solo dava il diritto di aprirne le porte. Ma nella circostanza della quale parliamo, Nostro Signore non bada a quella disposizione, riprende le chiavi e senza consultare altri, apre Egli medesimo il suo regno al suo fedele compagno. Si è questa un’ingegnosa riflessione di Arnaldo di Chartres. Non vi adombrate, dice egli a S. Pietro, voi principe degli Apostoli e portinaio del cielo, lo non vi vedo a piè della Croce: il timore vi tiene lontano, e non avete nemmeno il coraggio di accompagnare la Madre del vostro Maestro, né le pie donne che intrepidamente si stanno appiè della Croce. Voi non fate uso alcuno dell’apostolica vostra autorità di legare e di sciogliere. Mentre inchiodati alle loro croci il Salvatore ed il peccatore si trattengono a parlare insieme, voi siete assente, e, permettete ch’io ve lo dica, trascurate il vostro officio di portinaio. Il sommo Sacerdote vi supplisce forzando le vecchie serrature; ed il Ladrone primizia dei disperati introdotto dallo stesso Signore nel regno dei cieli, è collocato sul trono stesso di Lucifero: e colui, al quale voi forse non avreste perdonato più di sette volte, benché colpevole più di settantasette volte, è assolto dal buon Gesù e regna con gli Angeli. – « Riassumete le vostre funzioni, ed imparate a perdonare … non contate né il numero né la lunga durata dei peccati. La divina clemenza non conosce limite alcuno, non è circoscritta dalla quantità né limitata dal tempo. Vi sia pure qualcuno che implori, e vi sarà qualcuno che esaudirà. Che vi sia qualcuno che si penta, e vi sarà qualcuno che perdonerà. Notate l’ora, che è l’ora estrema; osservate la persona che è un gran peccatore. Peccati enormi, peccati in gran numero, peccati antichi, in un batter d’occhio son cancellati per l’azione della grazia, e così totalmente scompaiono che non rimane ombra di macchia in quell’anima lavata dal battesimo della misericordia! « Modello di ravvedimento, esemplare di speranza, predicatore della misericordia, il Ladrone del Calvario si pente, ed in un attimo ei trova ciò che cerca; e ciò ch’ei domanda, l’ottiene. Per lui non v’hanno fiamme espiatrici. Ei va diritto al paradiso, messaggero del nostro perdono, primizia e testimonio del nostro riscatto, e per primo egli vi entra in mezzo agli applausi dei cori angelici. Oggi stesso tu sarai con me nel Paradiso: Hodie me cum eris in Paradiso » [Arnold. Carnot.in Bibl.Max. PP., t. XIII. part. 4, p. 1266]. In qual momento preciso furono pronunziate queste parole, le più dolci che mai risonar possano ad orecchio umano? il dicemmo: anche nelle più piccole circostanze della passione del Redentore del mondo ogni cosa è mistero. Meditandole al lume della tradizione, i santi Dottori vi scoprono armonie ammirabili. La parola che schiudeva il cielo al buon Ladrone, e nella sua persona al genere umano tutto quanto, fu pronunziata precisamente all’ora del mezzodì. E perché? Perché all’ora precisa del mezzodì il vecchio Adamo fu cacciato dal Paradiso, la cui porta restò chiusa fino alla morte del novello Adamo. Deriva da ciò che l’ora del mezzogiorno è sempre stata pei Cristiani un’ora santa. Notiamo le osservazioni di alcuna di quelle alte intelligenze. Noi preghiamo a mezzogiorno, perché essa è l’ora nella quale il Figlio di Dio fu posto in Croce. Creato all’ora sesta del giorno, Adamo peccò alla sesta ora: perciò la riparazione ebbe luogo all’ora stessa della caduta. Mostrando in figura la sua persona e la sua Chiesa agli antichi patriarchi, il Desiderato delle nazioni, all’ora di mezzogiorno si fece vedere ad Abramo sotto la quercia di Mambre. Era mezzodì, quando Giuseppe mangiò coi suoi fratelli che lo calarono nella vuota cisterna. Fu all’ora di mezzogiorno che l’ammirabile Ruth, bella figura della Chiesa, si avvicinò a Rooz nel suo campo, come la Chiesa a Nostro Signore, e divenne sua sposa, e si nutrì del suo bene. Fu all’ora di mezzogiorno che la Samaritana, figura della Chiesa de’ Gentili, s’imbatté nel Redentore, seduto al pozzo di Giacobbe. A cagion di Adamo, e per riparare al suo fallo nel medesimo giorno e all’ ora medesima, nella quale era stato commesso, Nostro Signore montò sulla croce all’ora sesta, nella sesta età del mondo, alla sesta ora del medesimo milionario, e della sesta settimana; infine alla sesta ora del sesto giorno. Tutto questo era misteriosamente annunziato dal sesto giorno della creazione che durò sei giorni. – Ma qual è il paradiso, del quale il Buon Ladrone fu posto in possesso il giorno medesimo della sua morte? Egli è certo che Nostro Signore in quel giorno non salì al cielo col Buon Ladrone, ma discese al Limbo per annunziare, come dice S. Pietro, la loro liberazione alle anime dei giusti. L’anima del Buon Ladrone vi discese con Lui, e come quella degli altri giusti, godè della visione beatifica: ora la visione beatifica è quella che forma la perfetta felicità, o il paradiso. « Si scioglie, dice S. Agostino, da ogni ambiguità il senso delle parole di Nostro Signore, se si considerano dette da Lui non come uomo, ma come Dio. Infatti, come uomo, il Cristo doveva essere in quel giorno nel sepolcro, quanto al corpo; e quanto all’ anima nel Limbo. Ma, come Dio, egli è sempre per tutto: e ovunque sia il paradiso, tutti i beati vi sono da che son con Colui che è dappertutto » – S. Tommaso ragiona allo stesso modo di S. Agostino: « Subito dopo la sua morte, Nostro Signore discese all’inferno, e liberò i Santi che vi si trovavano, non già cavandoli fuori di là in quel momento, ma illuminandoli con lo splendore della sua gloria. E conveniva che l’anima sua rimanesse nel Limbo tutto quel tempo che il corpo suo doveva giacere nel sepolcro. La parola del Signore al Buon Ladrone: Oggi sarai meco in Paradiso, deve dunque intendersi, non di un paradiso terrestre e corporale, ma di un paradiso spirituale, ove son tutti quelli che godono della gloria divina. Così quanto al luogo, il Buon Ladrone discese al Limbo con nostro Signore, perché si verificasse la parola: Oggi sarai meco in Paradiso : ma quanto al premio, egli fu nel Paradiso, perché là egli ebbe la visione beatifica come gli altri Santi. » [p 3 p., q. 52, art. 4. Ad 4 et 3.].Ma fu egli il primo a goderne, innanzi a tutti i patriarchi e profeti, e a tutte le anime giuste ch’erano nel Limbo? S. Agostino, il Crisostomo, S. Eulogio, ed altri Padri ancora pare che lo credano, poiché dicono, che il Buon Ladrone fu il primo che entrasse nel cielo Se le parole di questi grandi Dottori debbono esser prese alla lettera, è forza concluderne che il Buon Ladrone godè della visione beatifica dal momento stesso, in cui Nostro Signore gli disse: Oggi sarai meco in Paradiso; altrimenti egli non ne avrebbe goduto che dopo gli abitanti del Limbo. Infatti, Nostro Signore essendo morto prima di lui, la sua anima discese al Limbo innanzi a quella di Disma, e vi recò il Paradiso, ossia la visione della gloria divina. Checché ne sia, appena spirato, il buon Ladrone si trovò in possesso, e possesso eterno di una felicità, di cui l’occhio umano non ha pur potuto veder l’ombra la più leggera in tutte le maggiori felicità della terra, e della quale non potrebbero i più magnifici racconti destare la minima idea, e che sopravanza tutto ciò che il suo cuore può desiderare di più grande in potenza, in bellezza, in soavità, ed in gloria. È ella questa tutta la ricompensa che per la sua fede conseguì il buon Ladrone? Lo vedremo nel seguente Capitolo.

CAPITOLO XXVII.

RICOMPENSA DEL BUON LADRONE

( Continuazione)

La risurrezione complemento della felicità. — I resuscitati del Calvario. — Apertura dei sepolcri. — Risurrezione. — In qual momento avvenne. — Insegnamento di Suarez. — Numero dei resuscitati e loro apparizioni. — Chi eran essi. — Sentimenti dei Padri.— Loro ascensione in corpo ed in anima. — Quella del Buon Ladrone.

La felicità dei Santi che sono ora nel cielo, è una felicità inalterabile e senza fine; ma può essere accresciuta. E lo sarà effettivamente quando avverrà la risurrezione della carne, allorché riunita l’anima al corpo glorificato, l’uomo diverrà nuovamente un essere perfetto. Questo aumento di felicità, la ragione ben lo comprende, e la teologia lo insegna. [S. Thom ., Suppl, p. 93. art. 1, corp.]. II Buon Ladrone attende ancor egli questo accrescimento di beatitudine? Tale si è la interessante questione che andiamo a discutere. Noi leggiamo nell’Evangelio: « Ma Gesù, gettato di nuovo un gran grido, rendé Io spirito. Ed ecco che il velo del Tempio si squarciò in due parti da sommo a imo: e la terra tremò, e le pietre si spezzarono, e i monumenti si aprirono: e molti corpi dei santi che si erano addormentati risuscitarono. E usciti dai monumenti, dopo la risurrezione di Lui entrarono nella città santa, e apparvero a molti. » S. Matth., XXVII, 50, 53.] Tutti questi prodigi erano la prova e la conseguenza del più grande di essi, la morte dell’Uomo-Dio su di una croce. Il velo del tempio si squarcia, perché il regno della legge Mosaica è finito. Le pietre si spezzano, la terra trema, si oscura il sole, e tutta la natura è sconvolta, perché fa manifesto, come può, il suo dolore per la morte del suo Creatore, ed annunzia l’estremo sconvolgimento, dal quale sarà preceduto il finale Giudizio. L’un dei due ladroni è convertito, riprovato 1’altro: figura profetica di quanto avverrà a tutto il genere umano. Si aprono i sepolcri, e la morte vinta rende le sue vittime, annunzio dell’universale redenzione e della futura risurrezione. Non è del nostro compito il trattenersi su ciascuno di questi miracoli: uno solo fra essi deve occuparci, ed è quello della risurrezione de’morti. Quando quei morti risuscitarono? a chi apparvero? Chi furono quei morti? E che fu poi di loro? Cosa certa è che Nostro Signore, il capo dell’ umanità, risuscitò il primo; quindi s. Paolo lo appella il primogenito dei morti, primogenitus ex mortuis. Veruna risurrezione pertanto ebbe luogo prima del giorno di Pasqua. S. Matteo lo dice in termini precisi : « Usciti dai monumenti dopo la risurrezione di Luì: Exeuntes de monumentis post resurrectionem suam. » Che così dovesse avvenire, si comprende facilmente. Perché quei santi personaggi erano richiamati alla vita? Per rendere testimonianza della risurrezione di Nostro Signore; ma non potevano essi renderla prima che questa si adempisse! [S. Hier., in Matth XXVII, 52 Se il Vangelo parla della risurrezione di quei morti, nel medesimo tempo in cui parla degli altri prodigi avvenuti alla morte del Salvatore, egli è perché il sacro storico nel suo rapido racconto riunisce tutti i fatti miracolosi, benché non tutti avessero luogo nel medesimo giorno. Non v’ha compendio di storia antica o moderna che non offra esempi di un simile modo di racconto. Del rimanente l’apertura dei sepolcri avvenne al momento stesso che Nostro Signore spirò: emisit spiritum. La Provvidenza lo permise per rendere più evidente la risurrezione di quei morti, che per la durata di due giorni, si poterono vedere giacenti senza vita nei loro sepolcri. [Suarez, De Myster. Christi, quaest. LIII, art. 3, n . 7. p . 802]. – Ora il giorno di Pasqua, immediatamente dopo che il novello Adamo fu uscito dal suo sepolcro vincitore della morte e dell’inferno, apparvero nelle vie e sulle piazze di Gerusalemme, in gran numero, quei risorti dicendo: « Il Cristo è risuscitato, e noi ha risuscitato con lui. Riconosceteci; non siamo già dei fantasmi. Vedete e toccate: il dubbio non e più possibile. Credete adunque in Lui; adoratelo come Figlio di Dio; amatelo come vostro Redentore, e piangete su quanto venne fatto contro di Lui. » Può bene immaginarsi quale impressione dové produrre, nei diversi quartieri della città, la presenza ed il linguaggio di tali testimoni! Abbiam detto nei diversi quartieri della città, ed il sacro testo ci autorizzava a dirlo. Venerunt in sanctam civitatem. E ci autorizza ancora ad aggiungere, che quegli strani ma irrecusabili testimoni furono veduti e sentiti, non già da alcune persone soltanto, ma da un gran numero: et apparuerunt multis. – Quindi è che, oltre gli Apostoli e i Discepoli, molti dei Giudei presenti in Gerusalemme furono favoriti di questa eloquente apparizione. Nacque negli uni la fede, in altri si raffermò, ed un tal fatto più stupendo di ogni altro prodigio, dà la spiegazione delle numerose conversioni che ebbero luogo il giorno della Pentecoste. [Cor. a Lap., in Matth XXVII, 53]. Numerosi furono i risuscitati, numerosi i testimoni oculari, ed auricolari della loro risurrezione ; tale è la verità evangelica. Ma chi erano mai quei morti tornati in vita? e san Disma fu egli di questo numero? Fra quei testimoni dell’altro mondo, la tradizione nomina una parte dei santi personaggi dell’Antico Testamento, che, sia per le circostanze della loro vita, sia per lo splendore delle loro virtù, avevano avuto più significanti rapporti con Nostro Signore. Tali sono fra gli altri Adamo ed Èva, Àbramo, Isacco, Giacobbe, Melchisedecco, Mosè, Giosuè, Giobbe, Giona, Samuele, Isaia e gli altri Profeti. [S. Athan., Orat. de Pass. Dom., Origen., in Matth. Tract. 33, Alphons. a Castro, verb. Adam; Cor. a Lap., in Gen., v. 5, et in Matth. xxvii, 53, etc., etc.]. – A questi testimoni dell’antica età, Padri e figure del Messia, si aggiunsero dei contemporanei della generazione deicida, come Zaccaria, padre di s. Giovanni Battista, il santo vecchio Simeone, s Giuseppe, il Buon Ladrone ed altri ancora. [Theoph. Raynald., Metamorphos., etc., p. 355]. Tale è il sentimento di s. Epifanio, fedele depositario delle tradizioni di Gerusalemme, e della Palestina sua patria. [In Ancorato, etc.].  Ed è facile comprenderne la giustezza. In attestato della sua divinità, l’augusta Vittima del Calvario aveva fatto appello a tutti gli elementi; tutti erano concorsi, e la loro testimonianza era palpabile. I morti pure dovevano accorrere, e la loro testimonianza non doveva esser meno irrefragabile. Non bastava perciò di venire a dire in Gerusalemme: io sono Adamo, io sono Àbramo, io son Noè, io son Mosè: ma bisognava provarlo. A tale effetto il miglior mezzo si era, che persone conosciute, già morte e sepolte da dieci o quindici anni al più, venissero pieni di vita e di sanità, a dire ai loro parenti e ai loro amici: io son Zaccaria, io son Simeone, io son Disma, io son vostro padre, vostro fratello. Guardatemi bene, io non v’inganno, né posso ingannarvi. Io e questi che voi vedete con me, siamo ciò che noi vi diciamo, testimoni, cioè, della divinità di Gesù di Nazareth, la cui potenza ci ha richiamati alla vita. In una tal condizione, la testimonianza non lasciava nulla a desiderare, e l’eterna sapienza aveva raggiunto il suo scopo. I gloriosi testimoni dei quali parliamo non fecero che passare, per sparire prontamente e di bel nuovo morire? Il sentimento dei più gravi Dottori, fondato sull’autorità dei Padri, si è che quei santi personaggi rimasero visibilmente sulla terra fino al giorno dell’Ascensione, mostrandosi, come Nostro Signore stesso, a coloro che ne erano degni, testibus præordinatis, e confermando colla loro miracolosa presenza la divinità di Nostro Signore, e della Chiesa che era per nascere dal Cenacolo. Il giorno dell’Ascensione, essi salirono al cielo in corpo ed anima, al seguito del divin Redentore, che li presentò all’eterno Padre ed agli Angeli, siccome trofei della sua vittoria, e primizie del genere umano rigenerato. I grandi teologi che sostengono questa opinione sì bella e sì consolante, sono fra gli altri il venerabile Beda, s. Anselmo, Rabano Mauro, Pascasio Ratberto, Druthmaro, Ruperto, Gaetano, Giansenio, Dionigi il Certosino, Maldonato, Cornelio a Lapide, ed il celebre Suarez. Noi dicemmo che essa è fondata sull’autorità dei Santi Padri e dei Dottori, ed ecco le parole di alcuno di essi. « Vi han sulla terra, dice s. Epifanio, delle reliquie dei Santi, tranne di quelli che risuscitarono e sono entrati nella santa città. » [Hæres. 35. in fine.Nella sua lettera Sinodale, riportata ed approvata dal sesto Concilio; s. Sofronio, Patriarca di Gerusalemme si esprime così: « Dopo tre giorni, Nostro Signore vien fuori dal sepolcro, e con lui fa venir fuori tutti i morti, e dalla corruzione li conduce all’immortalità per la sua risurrezione dalla morte. » – Prima di esso è più affermativo ancora Eusebio, « Il corpo di Nostro Signore è risorto, e molti corpi di santi ch’eran defunti, risuscitarono e con Nostro Signore entrarono nella vera città celeste. » S. Anselmo, citando il venerabile Beda, il quale afferma che questi santi sono entrati al Cielo con Nostro Signore dice: « Non bisogna prestar fede alcuna ai temerari, i quali pretendono che quei santi ridivenissero polvere. » Demostr. Evangeli lib. IV, c. XII.Parlando del Buon Ladrone in particolare, il P. Teofilo Rainaldo si esprime così: « Egli era molto conveniente che Nostro Signore avendo avuto il Buon Ladrone per compagno delle sue umiliazioni e della sua croce, lo avesse altresì della sua risurrezione, e della sua gloria nella integrità della sua rigenerata natura.Il Buon Ladrone pertanto tutto intero, e non diviso, sarà con Gesù Cristo tutto intero. Si aggiunga che nessuna reliquia si è mai trovata del Buon Ladrone. Or non è verisimile che Nostro Signore avesse lasciato in perpetuo sepolto nella terra un siffatto tesoro, se veramente la terra lo possedeva. » [Metamorphos., etc., c. VIII, p. 554].  Infine il grande Arcivescovo di Reims, s. Remigio, trattando ex professo una siffatta questione, conchiude in questi termini: « Dobbiamo dunque credere senza esitare, che coloro i quali risuscitarono con Nostro Signore Gesù Cristo, salirono al cielo con esso lui. » La ragione stessa ce ne persuade. Nella gloriosa ascensione di questi illustri risorti essa vede altissime convenienze. E non era naturale che Nostro Signore entrando nel cielo, mostrasse subito, in quei santi personaggi in corpo ed anima, il frutto della sua completa vittoria sulla morte? Non era d’uopo che quelle anime, già fatte beate, fossero unite ai loro corpi gloriosi ed immortali? Ed il luogo proprio dei corpi glorificati non è forse il cielo? Può mai immaginarsi che quelle anime già in possesso della visione beatifica, rimanessero riunite a dei corpi mortali e corruttibili, e quindi esposti a sopportare le intemperie delle stagioni, il caldo, il freddo, e tutte le altre infermità della vita presente, e di più i dolori di una novella morte? Se quei gran santi avessero dovuto morire una seconda volta, assai meglio sarebbe stato per essi non risuscitare. Finalmente non era secondo ragione e convenienza, che Nostro Signore regnando in corpo ed anima in cielo, la sua umanità avesse compagni consimili della sua gloria, che coi suoi occhi vedesse e con essi potesse confabulare, e come uomo non rimanesse solingo e senza alcuna consolazione propria di quella sua umana natura? Da tutto il fin qui detto concludiamo con Suarez, e Cornelio a Lapide, che la sentenza, la quale sostiene che in anima e corpo siano in cielo i molti risorti del Calvario, è la più ragionevole e la più vera, la meglio fondata in autorità, la più conforme alla natura delle cose, alla bontà divina, ed alle convenienze della gloria di Nostro Signor Gesù Cristo. [« Verius alii censent, » dice Corn., in Matth., XXVII, 53; e Suarez: « Quocirca, omnibus pensatis, hæc sententia videtur verisimilior. Nam et majori auctoritate nititur, et est magis consentanea tum rebus ipsis, tum divinæ misericurdiæ, et pietati, et gloriam Christi magìs illustrai. « Ubi supra, q. LIII, art. 3, p. 806]. – Fra gli illustri compagni del suo trionfo, uno ve ne ha che Nostro Signore mostrò, e mostrerà eternamente con singolare predilezione, ed è questi il suo ben amato Disma. Sentiamo ciò che ne dice il Crisostoino: « Non vi ha re che, entrando trionfante nella sua capitale, faccia sedere al suo fianco un pubblico ladro, o anche qualcuno dei suoi servitori. Ebbene! Nostro Signore l’ha fatto. Ritornando nella divina sua patria, Egli condusse seco un ladro : né fu questo per il paradiso un disonore, ma una gloria. « Gloria pel paradiso è di avere un re assai potente da render meritevole delle voluttà celesti un ladro. Similmente quando il Signore ammetteva nel regno suo pubblicani e meretrici non era un disonore ma una gloria per il paradiso. Con ciò egli mostrava quanto grande fosse quel re dei cieli, che poteva rendere i pubblicani, e le pubbliche peccatrici abbastanza stimabili da meritare un tanto favore ed una sì grande felicità. – « E come noi ammiriamo un medico, soprattutto allorché Io vediamo guarire malattie giudicate insanabili, e render sani infermi disperati; così è giusto di ammirare Nostro Signore, soprattutto allorquando guarisce e sana piaghe insanabili, e riduce un pubblicano o una meretrice ad una sì perfetta sanità da renderli degni di assidersi in cielo con gli Angeli. « Ma, direte voi, che ha mai fatto quel Ladrone per meritare di passar dal patibolo ai cielo? Volete ch’io vi dica in due sole parole i suoi meriti ? Mentre Pietro negava locato in basso, ei confessava in alto. – Non dimentichiamo dunque questo Buon Ladrone; non vogliamo arrossire di riguardare come dottore colui, che Nostro Signore non dubitò d’introdurre pel primo con sè nel paradiso.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (12) – Eredi moderni: 2° – K. Rahner e J. Maritain

GNOSI: TEOLOGIA DI Satana 12

– Gli eredi moderni-

Il pensiero gnostico immanentista di K. Rahner

e della “filosofia-teologica” della storia di J. Maritain,

Smascherato da S. S. Gregorio XVII

[G. Siri: “Getsemani”riflessioni sul movimento teologico contemporaneo; Ed. Frat. SS. V. Maria, ROMA, 1980]

P. KARL RAHNER

La concezione del soprannaturale necessariamente legato alla natura umana è chiaramente proposta da Karl Rahner sin dagli anni ’30. Nella sua tesi «Geist im Welt» presenta nettamente questa concezione del soprannaturale non-gratuito. Dopo venti anni, le proposizioni sono state ampiamente sviluppate. A volte si può credere che Rahner rigetti le tesi del P. de Lubac, ma subito ci si rende conto che in realtà K. Rahner segue lo stesso pensiero, ed anzi lo supera. [alla fine il “cornuto” non può nascondere la sua coda … e sibila le solite elucubrazioni gnostiche! –ndr. -]]. –  Le stesse idee ritornano in molti trattati. È necessario subito notare che negli scritti di Karl Rahner da un lato il principio dialettico hegeliano è flagrante – come l’attesta lo stesso Hans Kung (sacerdote, nato nel 1928, perito al Concilio Vaticano II [anche lui “compagno di merenda” dei figli della vedova – ndr. -], professore nella Facoltà di Teologia Cattolica dell’Università di Tubinga (Germania) dal 1960 fino a dicembre 1979, e direttore dell’Istituto di Teologia Ecumenica nella medesima università), discepolo incontestato di Karl Rahner («Nella più recente teologia cattolica è stato Karl Rahner, qui come altrove e con esemplare coraggio intellettuale e vigorosa forza di pensiero, ad aprire nuovi orizzonti ed a porre la cristologia classica a confronto con il pensiero moderno – gnostico -ndr. -. Lo spirito insigne che aleggia nello sfondo di questo approfondimento, svolto con rigore concettuale, della cristologia classica (calcedonese-scolastica), e fin nella sua più profonda concettualità, altri non è che Hegel [maestro della gnosi, come ben sappiamo – cfr. Gnosi: teologia di sATANA (10) in exsurgatdeus.org](non sono assenti comunque influssi heideggeriani). Gli sporadici tentativi di distanziarsi, in affermazioni secondarie, da Hegel non fanno che sottolineare questo fatto. Rahner si propone, di chiarire teologicamente, seguendo la sua impostazione trascendentale, le condizioni della possibilità di un’incarnazione». (H. KÙNG, Incarnazione di Dio, Queriniana, Brescia 1972, pp. 643-644, [opera in cui i concetti dell’immanentismo sono ben evidenziati! –ndr. -]) – e dall’altro lo stesso procedimento rende molto fluido ed inafferrabile il cardine del pensiero. Ci si trova, infatti, dinanzi ad un’antitesi che egli cerca di risolvere optando per l’uno dei termini, cosa che annulla automaticamente il procedimento dialettico. Questa osservazione è fatta qui unicamente per spiegare le contraddizioni della sua posizione nei confronti delle tesi del P. de Lubac. Ed anche per aiutare a cogliere il suo fondamentale accordo con il P. de Lubac. Negli scritti sulla Natura e la Grazia, Karl Rahner scrive: «Questa ordinazione intima dell’uomo alla grazia è tale un costitutivo della sua ‘natura’, che questa non si potrebbe pensare senza di quella, cioè come natura pura? Sarebbe irrealizzabile il concetto di natura pura? Questo è il punto in cui dobbiamo apertamente rigettare la concezione ritenuta come quella fatta propria dalla ‘nouvelie théologie’. La ‘Humani Generis’… dà a tal proposito un insegnamento inequivocabile».(K. RAHNER, Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale», Ed. Paoline, Roma 1969, pp. 53-54).«Dalla più intima essenza della grazia segue piuttosto l’impossibilità di una disposizione alla grazia, che appartenga alla natura dell’uomo, o segue che tale disposizione, nel caso che sia necessaria, appartenga già a questo stesso ordine del soprannaturale. Non segue però che essa come naturale lascerebbe sussistere la gratuità della grazia».(Rapporto tra Natura, in «Saggi di antropologia soprannaturale», Ed. Paoline, Roma, pp. 53-54). «Si può tranquillamente accettare il concetto di ‘potentia obœdientialis’ rifiutato da de Lubac. La natura spirituale deve essere tale da avere un’apertura a questo esistenziale soprannaturale, senza però esigerlo da sé incondizionatamente. Non si penserà questa apertura solo come una non contraddizione, ma come una ordinazione intima, purché non sia incondizionata(id. p.72-73). – Karl Rahner qui afferma che: primo, occorre rigettare la concezione della «nuova teologia», per la quale la natura dell’uomo comporta l’ordinazione alla grazia; secondo, l’essenza della grazia è incompatibile con una disposizione della natura umana alla grazia, e se una tale disposizione alla grazia si confermasse necessaria, apparterrebbe all’ordine soprannaturale ed in questo caso la grazia non sarebbe gratuita.In seguito Rahner non solo accetta ciò che qui rifiuta, ma lo propone con accezioni molto più forti [il “cornuto” si manifesta e viene allo scoperto!]. Quando per esempio dice che si può accettare tranquillamente il concetto di «potentia obœdientialis» che de Lubac rifiuta, dà l’impressione di voler presentare un concetto più tradizionale. Già nello stesso paragrafo Rahner dice che l’apertura della natura all’«esistenziale soprannaturale» è un’«ordinazione intima». Ed aggiunge – cosa che confonde nuovamente la chiarezza del pensiero – «purché non sia incondizionata». In questa dichiarazione c’è una contraddizione fondamentale, perché se l’apertura a questo esistenziale soprannaturale è un’ordinazione intima, questa apertura è universale e costituisce una condizione fondamentale della natura umana [il solito immanentismo, per cui l’uomo è Dio!]; dire che questa apertura al soprannaturale, che è già un’ordinazione intima, non è incondizionata, non aggiunge nessuna chiarezza. Rahner però, continua e con formule molto precise prova che il suo pensiero non solo è quello della «nuova teologia», ma che lo supera. Riferendosi ad un articolo che espone i principi della «nuova teologia», Karl Rahner dice che parlare di «un dinamismo illimitato» della natura che «include obiettivamente nella sua essenza il soprannaturale come fine intrinseco necessario», non costituisce una «minaccia immediata alla soprannaturalità e gratuità di questo fine». [Eccolo che si mostra chiaramente!] (pag. 63) E precisamente dichiara: «La capacità per il Dio dell’amore personale, che dona se stesso, è l’esistenziale centrale e permanente dell’uomo nella sua realtà concreta». Questo è «l’esistenziale soprannaturale, permanente, previamente ordinato alla grazia».(pag. 68 e nota). – Ci si può chiedere: Se la natura include obiettivamente nella sua essenza il soprannaturale come fine intrinseco necessario, se «la capacità per Dio» è l’esistenziale centrale e permanente dell’uomo, e se questo esistenziale soprannaturale permanente è previamente ordinato alla grazia, se tutto è così, come si può sopra affermare che dall’essenza intima della grazia deriva l’impossibilità per la natura dell’uomo di portare una disposizione alla grazia? Ed ancor più: se questa disposizione è necessaria, essa appartiene allora già all’ordine soprannaturale, ed anche questa disposizione annulla il concetto della gratuità della grazia?Per Rahner il nucleo più intimo della natura dell’uomo è «l’esistenziale soprannaturale», cioè la capacità di ricevere la grazia. (ecco che la “scintilla divina” degli gnostici, diviene in Rahner “l’esistenziale soprannaturale” … cambia il lessico, ma la puzza è sempre quella dello zolfo! – ndr. -) – (Secondo Rahner, si può distinguere nell’essenza dell’uomo, «concreta e sempre indissolubile, ciò che è questa capacità, reale e indebita, di ricevere la grazia, che chiamiamo esistenziale soprannaturale, e ciò che resta, quando si sottrae questo intimo nucleo dal complesso della sua essenza concreta, dalla sua ‘natura’» – Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale», pp. 69-70). – L’uomo, sempre secondo Rahner, non può avere vera esperienza di se stesso che in quanto ordinato interiormente ed in modo assoluto al soprannaturale: «L’uomo può fare esperienza su sé stesso solo nell’ambito dell’amorosa volontà soprannaturale di Dio, non può presentare la natura in uno ‘stato chimicamente puro’, separata dal suo esistenziale soprannaturale. La natura in questo senso permane un concetto astratto derivato. Però questo concetto è necessario e obiettivamente fondato, se si vuol prendere coscienza riflessa della gratuità della grazia, nonostante che l’uomo sia ad essa ordinato interiormente e in modo assoluto ». –(id. pag. 72). Sullo stesso argomento ritorna con un vocabolario sempre più esplicito e con espressioni che, se si accettassero come postulati, condurrebbero ad un capovolgimento di tutti i fondamenti della teologia [ed infatti questa è l’antiteologia, o meglio la “teologia di sATANA! – Ndr.]: «L’uomo vive sempre consapevolmente, anche se egli non lo ‘sa’ e non lo crede, ossia se non lo può rendere oggetto particolare del suo sapere mediante riflessione introversa, dinanzi al Dio Trino della vita eterna. Questo è l’ineffabile, ma reale obiettivo della dinamica di tutta la vita spirituale e morale nell’ambito spirituale dell’esistenza, fondato effettivamente da Dio, vale a dire innalzato soprannaturalmente». (pag. 109). «La predicazione è l’esplicitazione e il risveglio di ciò che c’è nel profondo dell’essere umano, non di natura, bensì di grazia [Ed ecco un altro “asso nella manica”, …l’inneismo … le idee innate si risvegliano … il serpente pian pianino alza la testa! –ndr. -]. Una grazia che avvolge l’uomo, anche il peccatore e l’infedele, come ambito inevitabile della sua esistenza». (p. 110). «La natura effettiva non è mai una ‘pura’ natura, bensì una natura nell’ordine soprannaturale, dal quale l’uomo (anche come incredulo e peccatore) non può uscire». (p. 112). È certo, e nessuno potrebbe negarlo sinceramente, – neppure Karl Rahner – che un gran numero dei suoi testi, delle sue espressioni e delle sue definizioni permettono un qualunque orientamento del pensiero. In seno, però, a questa polivalenza di espressioni e di postulati appare chiaramente un’antropologia fondamentale che non soltanto concorda con il pensiero del P. de Lubac, ma lo supera in modo da trasformare nella coscienza degli adepti della nuova teologia [cioè della gnosi, teologia del cornuto! –ndr.-], articoli di fede come per esempio quelli dell’Incarnazione e dell’Immacolata Concezione. Dove, infatti, può condurre il pensiero teologico o la meditazione spirituale, l’affermazione che: «Lo spirito dell’uomo non è possibile in sostanza senza questa trascendenza che è il suo compimento’ assoluto, cioè la grazia» (p, 118)? Quale significato può avere il fatto di dire più oltre, che «questo compimento resta gratuito»? L’affermazione che lo spirito dell’uomo non esiste senza la grazia del compimento assoluto è il fondamento dell’insegnamento di questo testo … [il Santo Padre non lo dice, malo lascia bene intendere: “testo … gnostico” – ndr. – ]. – Come comprendere la proposizione secondo cui: «Si può addirittura tentare di vedere la unio hypostatica nella linea di questo perfezionamento assoluto di ciò che è l’uomo» (p. 120) – (e non finisce ancora, veniamo all’evoluzionismo immanentista! … più chiaro di così!!)? Non si può comprenderla altrimenti da ciò che essa dice; dire infatti che occorre vedere l’unione ipostatica nella linea di questo perfezionamento è dire che l’unione ipostatica è il perfezionamento dell’uomo La sfumatura dell’espressione «vedere nella linea del perfezionamento» è un mitigare linguistico della cruda affermazione che il perfezionamento dell’uomo realizza l’unione ipostatica. (è questa infatti la dottrina gnosica dell’evoluzionismo immanentista, quella già vista in Hegel – ndr. -). Rahner dichiara in tutti i modi che l’essenza in Dio e in noi è la stessa: «Quando il Logos si fa uomo… questo uomo in quanto uomo è precisamente la auto-manifestazione di Dio nella sua auto-espressione»; – «il ‘cosa’ infatti è uguale in noi e in lui; noi lo chiamiamo ‘natura umana’ ».(K. RAHNER, Teologia dell’incarnazione, in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», Ed. Paoline, 2a ed., Roma 1967, p. 113.) – [Questo in “gnostichese” è la “scintilla divina” che fa dell’uomo Dio stesso incarnato!]Ora è chiaro che Dio e l’uomo hanno la stessa essenza, e che noi, secondo Karl Rahner, la chiamiamo semplicemente «natura umana». Certo non è concesso all’uomo di percepire, di circoscrivere e di approfondire analiticamente e sinteticamente il mistero dell’essenza di Dio, neanche il mistero dell’essenza umana in sé e in rapporto all’essenza di Dio. La questione nella sua profonda semplicità apre una via interminabile di meditazione e allo stesso tempo di adorazione del Creatore. Quando, però, si agisce, quando si pensa e quando ci si esprime in modo da porre postulati come quello dell’identità dell’essenza di Dio e dell’uomo, che capovolgono la dottrina sorta dalla Rivelazione, non seguiamo il filone della verità, ma quello dell’errore. [Il Santo Padre non poteva aggiungere: errore … “gnostico”. Noi sì! –ndr.-]. Il problema del rapporto dell’essenza dell’uomo con l’essenza di Dio è il più grande problema che l’uomo possa porre a proposito di Dio: esso è il problema dell’alterità. Molti servi di Dio nel loro lungo insegnamento hanno capito, nel passato ed oggi, come di fronte a tali cose, a tali problemi che sorgono nella mente e nel cuore, occorra divenire piccoli, molto piccoli. Certo, a parte il mistero trinitario, e tutto ciò che l’accompagna, la realtà più difficile da comprendere è come esistiamo al di fuori di Dio; è questo il problema dell’alterità. Da qui nasce la questione: Come si può concepire accanto alla libertà di Dio, la nostra libertà? Possiamo dimostrare negativamente che non vi è nessuna contraddizione tra queste due libertà. Tuttavia rimane un mistero. Probabilmente l’affermazione di Rahner sull’identità dell’essenza di Dio e dell’uomo è il frutto di speculazioni su questo immenso mistero (speculazioni trite e ritrite dalla “teologia di satana”: la gnosi di sempre –ndr. -).Ciò viene qui detto perché le affermazioni di Rahner a proposito dell’Incarnazione e dell’Unione Ipostatica non lasciano dubbio che se non si può accusarlo di panteismo, si può però, definire il suo pensiero e la sua dottrina come «panantropista» ed in questa espressione si possono comprendere tante cose [Strano … questa osservazione deve essere sfuggita al censore di Papa Gregorio, il prelato segretario-carceriere probabilmente in quel momento distratto od obnubilato! – ndr.-], –  Per Karl Rahner l’umanità del Cristo interessa la teologia non già come una realtà unita a Dio, ma come essendo essa stessa la realtà del Logos: infatti, dice chiaramente, l’umanità del Cristo non è unita al Logos, ma è la realtà stessa del Logos.(K. RAHNER, Problemi della cristologia d’oggi», in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», Ed. Paoline, 2a ed., Roma 1967, p. 75.) E nella sua interminabile acrobazia linguistica emette le definizioni più improbabili e contraddittorie, ma senza insegnare mai chiaramente la dottrina della Chiesa sull’Incarnazione o sulla Creazione.Citiamo per esempio qualche proposizione sconcertante [il Santo Padre, non può usare qui l’aggettivo più appropriato, che in questo caso è: “eretica”]: «Si potrebbe definire l’uomo come ciò che sorge allorché l’auto-espressione di Dio, la sua Parola, viene lanciata per amore nel vuoto del nulla senza Dio … Se Dio vuol essere non-Dio, sorge l’uomo, proprio lui e null’altro, potremmo dire».(op. cit. pag, 114) »Di Dio che noi professiamo in Cristo bisogna dire che egli è precisamente dove noi siamo e solo lì lo possiamo trovare». (p. 115). – Ed ecco come Rahner, con termini più precisi, parla dell’unione ipostatica: «Il compito imposto alla teologia dalla formula di Calcedonia e da essa non ancora assolto, è proprio quello di spiegare, senza evidentemente eliminare il mistero, perché e in qual modo chi si spoglia di sé (La traduzione francese invece di “chi” riporta “ciò che”) non solo rimane ciò che era, ma per di più, confermato definitivamente e perfettamente nel suo stato, diventa nel senso più radicale (La traduzione francese invece di “nel senso più radicale” riporta “veramente”) quel che è: una realtà umana. –  «Ciò però è possibile solo se si dimostrasse come la tendenza ad annientarsi (La traduzione francese invece di “ad annientarsi” riporta “a spogliarsi di sé”), consegnandosi al Dio assoluto, in senso ontologico e non puramente morale, è uno dei costitutivi più fondamentali dell’essenza umana. Perciò l’attuazione suprema, indebita e realizzata una volta sola, di questa potenza obbedienziale, che non è una determinazione puramente negativa, né una non-repugnanza meramente formale, rende l’essere che si è così annientato, uomo nel senso più radicale, l’unisce proprio per tale via al Logos. Solo nell’unio hypostatica si realizza in sommo grado e si rende pienamente cosciente che questo spogliamento di sé può essere un dato dell’autocoscienza umana [Qui siamo nel pensiero Hegeliano puro!- ndr. -]. Infatti, a questa (autocoscienza umana) spetta il possedere questa disponibilità all’annientamento di sé, che si attua in sommo grado nella unio hypostatica».(Problemi della cristologia d’oggi, ed. cit., p. 41.) – Tale brano, scelto fra tanti altri dello stesso tenore si riferisce chiaramente al testo conosciuto dell’Epistola ai Filippesi e alla dottrina sull’unione ipostatica per poter parlare del mistero della Persona del Redentore. – Secondo Rahner, colui che si è spogliato di sé e che, confermato, diventa in un senso più radicale ciò che è, è una realtà umana, è un uomo. Egli afferma anche che la tendenza ad annientarsi per abbandonarsi al Dio assoluto è un costitutivo dell’essenza umana. Ed ancora dice che nell’attuazione suprema di un tale annientamento, l’essere, l’uomo nel senso più radicale, è unito proprio per tale via dell’annientamento al Logos. E precisa che tale disponibilità all’annientamento di sé, che si attua in sommo grado nell’unione ipostatica, appartiene alla coscienza umana [qui il “serpente” si manifesta nella sua pienezza … ingannevole –ndr. -]. – Si possono fare molteplici meditazioni e considerazioni assennate. Ma è impossibile ad una coscienza retta non notare due punti fondamentali: da un lato, bisogna sapere che questo brano dell’Epistola ai Filippesi al quale Rahner si riferisce, non permette tale genere di prestidigitazione di parole. Colui che si è spogliato si è spogliato essendo in forma di Dio (nella condizione di Dio), per aggiungersi la natura umana; si è spogliato della gloria per prendere la forma di schiavo. Questo nella sua semplicità è il significato delle parole di San Paolo. Che poi sia stato San Paolo a comporle o che sia stato un inno utilizzato da San Paolo, questo non cambia nulla nel significato del testo. Ora, nel testo citato di Karl Rahner, è l’uomo che si spoglia per offrirsi a Dio. Da un altro lato, bisogna notare che questo spogliamento non riguarda l’essenza propria di colui che si spoglia, come è detto nel testo citato prima (si spoglia di sé). San Paolo scrive: «si spoglia» e non dice «di sé». In più questo spogliamento non è un semplice dato della coscienza; è molto importante sapere ciò, perché non è nella coscienza umana che si realizzò l’unione ipostatica. Secondo il testo dell’autore, l’unione ipostatica sarebbe il risultato della perfezione nella vita interiore di un uomo. Ma la realtà è il contrario: l’Incarnazione e l’Unione Ipostatica in Cristo Gesù hanno dato all’uomo la perfezione, perché altrimenti l’unione ipostatica sarebbe un avvenimento che è avvenuto «nella e per la coscienza umana». Ed è proprio questo che afferma Rahner dicendo più oltre: «L’immediata ed effettiva visione di Dio null’altro è fuorché l’originaria consapevolezza, non oggettiva, di essere il Figlio di Dio; tale consapevolezza si dà per il solo fatto che essa è l’unione ipostatica». (K. RAHNER, Considerazioni dogmatiche sulla scienza e autocoscienza di Cristo, in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», ed. cit., p. 224). Non c’è dubbio che Rahner qui altera radicalmente il pensiero e la fede della Chiesa a proposito del mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio in Gesù Cristo come è espresso nel Vangelo e dalla Tradizione:«Se l’essenza dell’uomo in generale viene compresa, in questo senso ontologico-esistenziale, come l’aperta… trascendenza all’essere assoluto di Dio, allora l’incarnazione può apparire come l’adempimento assolutamente sublime (anche se completamente libero, indebito ed unico) di ciò che ‘uomo’ in generale significa ». (K. RAHNER, Lexikon fiir Theologie und Kirche, V, 956; trad. ital. Di Franca Janowski in «Incarnazione di Dio» di Hans Kùng; Queriniana, Brescia 1972, p. 644). – Questo modo di vedere e di presentare il Cristianesimo ha prodotto grandi conseguenze e ripercussioni nella formazione del clima teologico attuale. Non si può comprendere fino a che punto questo clima, le idee e gli atteggiamenti nei confronti di Dio e della Chiesa, nei confronti del principio della verità eterna, siano legati a queste idee e speculazioni che hanno sconvolto la vita e la fede nella Chiesa. Non ci si meraviglia oggi, di ascoltare come insegnamento che l’incarnazione del Verbo si realizza a poco a poco nella vita del Cristo, e che nessun momento della sua vita realizza la pienezza della sua libertà; si realizza al termine della sua vita. A questo conducono le dottrine liberamente professate ed insegnate [cioè eretiche ed apostatiche –ndr.] le quali alterano l’oggettività dell’insegnamento rivelato e vogliono strappare con la forza dell’intendimento soggettivo i segreti supremi di Dio circa la creazione, la grazia e la salvezza. E si può riportare qui una proposizione dello stesso Karl Rahner che illustra l’importanza del modo errato di affrontare la questione della grazia e del soprannaturale: «Una soddisfacente definizione della grazia, se non vuole fatalmente cadere nel vuoto verbalismo, nella mitologia, nell’affermazione gratuita, potrà solamente partire dal soggetto, dalla sua trascendentalità e dalla sua esperienza di un orientamento necessario verso la realtà della verità assoluta e dell’amore che ha acquistato validità assoluta». (K. RAHNER, Teologia e antropologia, in «Nuovi Saggi III», Ed. Paoline, Roma 1969, p. 58). – Ancora una volta Rahner conclude che la grazia è il compimento della nostra essenza. Partendo da una visione delle cose che, si voglia o no, rifiuta ‘de facto’ la vera gratuità dell’ordine soprannaturale, arriva a mettere Cristo e Dio nelle cose: «Dio e la grazia di Cristo sono in tutto, quale segreta essenza di ogni realtà». (K. RAHNER, Teologia dell’incarnazione, in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», p. 119). –  Di conseguenza basta fare riferimento al compimento dell’essenza umana per accettare il Figlio dell’uomo, il Cristo, perché in lui Dio ha assunto l’uomo: «Chi perciò (pure ancora lontano da ogni rivelazione esplicitamente formulata in forma verbale) accetta la sua esistenza, quindi la sua umanità… costui, pur non sapendolo, dice di sì a Cristo… Chi accetta completamente il suo essere-uomo… ha accettato il Figlio dell’uomo, poiché in esso Dio ha accettato l’uomo».(Teologia dell’incarnazione, in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», pp. 119-120.).Ora bisognerebbe poter comprendere cosa significhi esattamente «accettare completamente il suo essere-uomo »; lo stesso Rahner dice che questa accettazione è «indicibilmente difficile e resta oscuro quando lo facciamo realmente ». (op. cit. p.119-120) In ogni modo, però, si comprende molto bene come da tutto questo derivi, sottilmente forse ma nettamente, l’inutilità dell’atto di fede e così un dato fondamentale è distrutto. L’atto di fede diviene inutile perché nella mia essenza c’è Dio; perché ogni azione è Dio che la fa; l’atto di fede presuppone un altro rapporto tra l’uomo e Dio, tra la creatura e il Creatore. Se accetto il Cristo per il semplice fatto «d’accettare la mia essenza», l’atto di fede è un non-senso. – Ecco dove si arriva se si parte da un concetto riguardante un grande mistero, come il mistero del soprannaturale, artificialmente presentato come facente parte della dottrina della Chiesa. Tutti gli argomenti sono stati sfiorati. Gli uni dopo gli altri tutti i principi, tutti i criteri e tutti i fondamenti della fede sono stati messi in questione e si sfaldano. – Certo non è giusto dire che Rahner stesso abbia tratto tutte queste conseguenze. È giusto però dire che, seguendo il filone che partiva da alcuni concetti erronei circa il soprannaturale, l’essenza dell’uomo e di Dio, questa alterazione generalizzata ha potuto verificarsi nelle coscienze. D’altra parte, non si può sfuggire totalmente alle conseguenze di un movimento iniziale provocato da sé stesso. Basta per esempio vedere come Karl Rahner ha considerato l’Immacolata Concezione negli anni ’50 e come sia stato portato a parlarne più tardi. – Nel 1953 cita la definizione di Pio IX professando la sua infallibilità. (K. RAHNER, «L’Immacolata Concezione» e «Il dogma dell’immacolata e la nostra pietà», in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», Ed. Paoline, 2a ed., Roma 1967, p. 413 e seg.) In seguito parla lungamente del ruolo di Maria nella salvezza e del fine comune di noi tutti e della Santissima Vergine: la beatitudine. Riconosce che la Santissima Vergine fu preservata dalla macchia del peccato originale che ogni uomo porta venendo al mondo. Questa accettazione certamente è avvolta da una moltitudine di considerazioni riguardante la sorte comune degli uomini e ciò con sfumature incerte e a volte molto contraddittorie, cosa che ne attenua il carattere di certezza dottrinale. In ogni modo, però, sembra ammettere in questi testi la dottrina del peccato originale e la preservazione della Santissima Vergine dalla macchia del peccato originale.Ora nelle sue «Meditazioni teologiche su Maria» (K. RAHNER, Maria, Meditazioni, Herder-Morcelliana, Brescia 1970, 3a ed., -la ed., 1968-) scrive: «Il dogma (dell’Immacolata Concezione) non significa in nessun modo che la nascita di un essere umano sia accompagnata da qualche cosa di contaminante, da una macchia, e che per evitarla, abbia perciò dovuto avere un privilegio. – L’Immacolata Concezione della Santa Vergine consiste dunque semplicemente nel possesso dall’inizio della sua esistenza della vita di grazia divina, che l’è stata donata. – Fin dall’inizio della sua esistenza, Maria fu avvolta dall’amore redentivo e santificante di Dio. Questo è, in tutta la sua semplicità, il contenuto della dottrina che Pio IX nell’anno 1854, ha solennemente definita come verità della fede cattolica ». (Maria, Meditazioni, p. 50.). Tuttavia la definizione del dogma nell’«Ineffabilis Deus» dice a più riprese nettamente che la Santissima Vergine fu preservata da ogni macchia del peccato originale. Ecco il testo della Definizione: «Dichiariamo, pronunciamo e definiamo che la dottrina, che sostiene che la beata Vergine Maria è stata, nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un favore peculiare di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, preservata intatta da ogni sozzura del peccato originale, è una dottrina rivelata da Dio e così essa deve essere creduta fermamente e costantemente da tutti i fedeli».(Cf. Denz. 1641.) Come dunque dobbiamo oggi capire, prescindendo dalla definizione «Ineffabilis Deus», la nozione del «peccato originale»? Come dobbiamo comprendere i testi più espliciti, che chiamano la Madre di Dio «la tutta Santa, immune da ogni macchia di peccato, dallo Spirito Santo quasi plasmata e formata come una nuova creatura» e dichiarandola «Immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale» ? – Se l’uomo alla sua nascita non è accompagnato da una macchia – come afferma Rahner -, di quale macchia parla la Bolla di Pio IX? Come si può pretendere che non c’era macchia da evitare e che Maria non aveva bisogno di privilegio? Non è in queste pagine che si deve parlare della luminosa e profonda realtà dell’Immacolata Concezione. L’unica intenzione è stata quella di illustrare mediante un soggetto che concerne l’insieme della salvezza e l’eterna verità, la contraddizione e gli errori fondamentali ai quali si giunge a partire di un concetto iniziale errato e da un atteggiamento intellettuale assai temerario verso le cose di Dio. Se attraverso i dati della Rivelazione, conservati dal Magistero, nonostante tutte le vicissitudini umane, con semplicità e sobrietà, si esamina pazientemente l’orizzonte attuale della teologia, si vede come il filone iniziale conduca fino alla dottrina del «cristiano anonimo», alla dottrina della «morte di Dio», della «secolarizzazione», della «demitizzazione», della «liberazione» e tante altre correnti sotto una molteplicità di vocaboli, spesso effimeri. [Papa Gregorio XVII non può usare i termini qui più opportuni, cioè: eresia, apostasia, gnosi, immanentismo, evoluzionismo, realizzazione della coscienza umana in senso hegeliano, etc. etc., ma chiunque abbia pure un solo neurone funzionante ed abbia anche una pallida idea della dottrina cattolica, non può non capire di cosa si tratti: è il solito inganno del “serpente primordiale”, aggiornato con termini nuovi da prestigiatore dialettico, ricoperto da teorie astruse ed indimostrabili e senza alcuna autorità, simili d’altra parte ai discorsi che oggi si sentono nel “novus ordo” da parte di chi, sepolcro imbiancato sul trono di Pietro, si dichiara senza pudore e senza vergogna, seguace ed ammiratore dell’eretico Rahner, pronto per una invalida canonizzazione! Il vero Santo Padre, il Vicario di Cristo e Capo visibile della sua Chiesa, S. S. Gregorio XVII, in queste poche pagine, pur “impedito”, riesce a donarci un quadro esaustivo di questo personaggio additandolo, pur senza mai nominarlo espressamente, bensì tacitamente e comprensibilmente per chi ha occhi per vedere ed orecchie per intendere, come un eretico infedele e sovversivo del Credo Cattolico, professante la teologia di satana, cioè la gnosi in tutti i suoi postulati. Veramente il clero apostatico del novus ordo crede di avere a che fare con degli sprovveduti dilettanti sul piano dottrinale e di imbonire i pochi fedeli rimasti con idiozie deliranti e apertamente luciferine? Evidentemente la loro frequentazione di logge di varie obbedienze, ha fatto loro assorbire fin nel midollo i principi là dominanti, pensando poi di poterli riproporre senza che nessuno se ne accorga. Ma il Vicario di Cristo, il vero Vicario, eletto nel Conclave del 26 ottobre del 1958, sbugiarda con eleganza e con sottigliezza uno dei servi del maligno e degli “usurpanti”: un loro supporter “diversamente” teologo, esponente di punta della sinagoga di satana. –ndr. -]

3. JACQUES MARITAIN

Un filosofo che nello stesso periodo, cioè sin dagli anni ’30, ha molto influenzato la formazione delle tendenze contemporanee, sia filosofiche che teologiche, è Jacques Maritain. (JACQUES MARITAIN (1882-1973), convertito al cattolicesimo nel 1906, professore di filosofia a Parigi, a Toronto (Canada) e Princeton (Stati Uniti). In tutto il suo pensiero, non solo non ha cercato di assimilare l’ordine naturale all’ordine soprannaturale, ma al contrario, li ha separati in modo tale da riconoscere nella creazione e nella storia umana due vocazioni distinte, legate certamente da un principio di subordinazione, ma essenzialmente autonome, con fine e mezzi propri: la vocazione e la missione terrestre, e la vocazione soprannaturale. Se qualcuno volesse rendersi conto e cogliere immediatamente – se si può dire – la caratteristica del pensiero di Maritain circa l’autonomia delle due vocazioni distinte, basterebbe che leggesse l’ultima frase del suo libro «Humanisme Integral», pubblicato nel 1936, e che costituì il riferimento fondamentale di alcune tendenze teologiche ed anche dell’azione temporale e politica in molti ambienti cristiani: «I mondi che sono sorti nell’eroismo, tramontano nella fatica, affinché vengano a loro volta nuovi eroismi e nuove sofferenze che faranno sorgere altri mondi. La storia umana cresce così, perché non si ha là un processo di ripetizione, ma di espansione e di progresso; cresce, come una sfera di espansione, ravvicinandosi insieme alla sua doppia consumazione: nell’assoluto di quaggiù, ove l’uomo è dio senza Dio, e nell’assoluto dell’alto, ove è dio in Dio».(J. MARITAIN, Umanesimo Integrale, Boria Ed., Bologna 1962, 5a ed. 1973, p. 303). – Questi due assoluti costituiscono una specie di intimo segreto di tutto il pensiero di Maritain e, si potrebbe dire, anche di tutta la sua sensibilità. Essi sono alla base di tutti i suoi scritti, sono il leitmotiv e il prisma fondamentale attraverso cui vede tutte le cose, dalle più piccole alle più grandi.- Già nel 1927, nel suo libro «Primauté du Spirituel», afferma in molti modi che: «Ognuno di noi appartiene a due città, una città terrestre che ha come fine il bene comune temporale e la città universale della Chiesa che ha per fine la vita eterna». E, rifacendosi a una frase di Etienne de Tournai, specifica: «Nella medesima cerchia e nella medesima moltitudine umana ci sono due popoli, e questi due popoli suscitano due vie distinte, due principati, un duplice ordine giuridico». (J. MARITAIN, Primauté du Spirituel, Plon, Paris 1927, p. 17.). Nell’ “Umanesimo integrale” , Maritain esprime più diffusamente la sua visione della Creazione e della realtà del mondo spirituale. In esso la dottrina della distinzione e del carattere autonomo dell’ordine temporale e dell’ordine spirituale è stata esposta con una vasta prospettiva di applicazione nell’azione in vista di «un ideale storico concreto d’una nuova cristianità», cioè «un’immagine prospettica significante il tipo particolare, il tipo specifico di civiltà al quale tende una data età storica». (op. cit. p. 167) E sempre attraverso questo principio di autonomia degli ordini, iniziale o acquisita, intravede il cammino del mondo: «In virtù d’un processo di differenziazione normale in se stesso (benché viziato dalle più false ideologie) l’ordine profano o temporale, nel corso dei tempi moderni, si è costituito nei confronti dell’ordine spirituale o sacro in una relazione d’autonomia tale da escludere di fatto la strumentalità. In altri termini è giunto alla sua maggiorità. E questo è ancora un guadagno storico che una nuova cristianità dovrebbe conservare». (p. 208). Verso il declino della sua vita, con i suoi due libri: «Le Paysan de la Garonne» (1966) e «De l’Eglise du Christ» (1970), Maritain ha voluto presentare la grande crisi dottrinale e morale del mondo e della Chiesa. Ha voluto anche denunciare gli «abusi» di certi concetti, di certe dottrine e formule come per esempio l’espressione «personalista e comunitario» utilizzata da Emmanuel Mounier, il fondatore della rivista «Esprit»: «Grazie soprattutto ad Emmanuele Mounier -scrive – l’espressione ‘personalista e comunitario’ è divenuta un ritornello per il pensiero cattolico. Anch’io in questo non sono esente da una qualche responsabilità… Penso che Mounier l’abbia presa da me. Essa è giusta, ma vedendo l’uso che se ne fa ora, non ne sono molto fiero». (J. MARITAIN, Le Paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer ed., Paris 1965, pp. 81-82.) – Pur desiderando fondamentalmente una più profonda unità, Maritain resta sempre, nonostante tutto, impregnato di questa visione generale di distinzione e di autonomia. Basta per questo vedere nella prefazione del suo ultimo libro «De l’Eglise du Christ», con quale preoccupazione e quale perseveranza si applica a difendere l’autonomia della filosofia in rapporto alla teologia, manifestando la stessa preoccupazione che aveva venti anni prima quando scriveva: «Il filosofo terrà conto degli apporti della scienza teologica, senza cessare per questo d’essere filosofo (se veramente è filosofo, allora lo sarà più che mai) richiedendo però a fonti d’informazioni degne di fede il supplemento d’informazione di cui ha bisogno».(J. MARITAIN, Neuf Lecons sur les notionspremieres de la philosophie morale, Téqui, Paris 1964, la ed. 1951, p. 103.). Non è questo il luogo per parlare più profondamente e più dettagliatamente della portata di tutta l’opera di Maritain, e di tutta l’influenza che ha avuto nella teologia e nell’azione dei cristiani di questo secolo. Ciò sarà fatto in seguito, come per gli altri autori di cui abbiamo appena parlato. È stato necessario, però, ricordare innanzi tutto, a proposito del rapporto tra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale, il principio di distinzione degli ordini nel significato particolare che ha avuto per Maritain; le ripercussioni infatti, sono state grandi in tutte le direzioni, e spesso contrarie al senso del suo pensiero e alle sue intime aspirazioni. A titolo di esempio e prima di parlare in altro luogo della «teologia della liberazione», si può riportare il giudizio di Gustavo Gutierrez (GUSTAVO GUTIERREZ, sacerdote, nato nel 1928, professore di teologia nell’Università di Lima (Perù) e nell’Istituto di Pastorale di Medellin – Colombia -) su Maritain, nel suo libro «Teologia della liberazione». Si comprende allora l’importanza di questo argomento della distinzione degli ordini che può sembrare per alcuni troppo astratto, anodino o antiquato; e si comprendono anche le preoccupazioni e le tristezze che la nobile persona di Jacques Maritain ha provato nell’ultimo periodo della sua vita. – Ecco per ora le parole di Gutierrez: «I gravi problemi che la nuova situazione storica pone alla Chiesa a partire dal secolo XVI e che si acutizzano con la Rivoluzione francese, danno origine ad un’altra prospettiva pastorale e ad un’altra mentalità teologica, che, grazie a Maritain, riceveranno il nome di «nuova cristianità». La troviamo esposta, con tutta la chiarezza voluta, nella sua opera conosciuta ‘Humanisme Integral’. Essa cercherà di far tesoro delle lezioni venute dalla rottura fra fede e vita sociale, intimamente legate in un’epoca di cristianità, ma con categorie che non riusciranno a liberarsi completamente, e lo notiamo meglio ora, dalla mentalità tradizionale… Tommaso d’Aquino, sostenendo che la grazia non sopprime la natura né la sostituisce ma la perfeziona, apre la strada per un’azione politica più autonoma e disinteressata. Su questa base, Maritain elabora una filosofia politica che cerca pure di fare propri alcuni elementi moderni. Il pensiero di Maritain ebbe molta influenza su certi settori cristiani dell’America Latina». (GUTIERREZ. Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972, 2a ed. 1973, p. 61, e nota.) – Ecco un discorso molto significativo. Gutierrez, con il suo giudizio, ci permette di scorgere chiaramente la natura particolare dell’influenza esercitata dal pensiero di Maritain. Nello stesso tempo, Gutierrez critica Maritain perché non si è abbastanza liberato dal corpo della Chiesa. Ironizza anche sul suo attaccamento alla tradizione ecclesiale. Tutto ciò però concorre a mostrare ancor più la portata dottrinale del principio fondamentale di Maritain circa la distinzione degli ordini e l’autonomia del temporale. In fondo, la filosofia di Maritain è una «filosofia-teologia » della storia, che ha avuto profonde ripercussioni nella vita teorica e sociale della Chiesa. [In realtà la distinzione è artificiosa, poiché gnosticamente, il temporale non ha bisogno del sovrannaturale come inteso dalla concezione cattolica, poiché lo contiene già immanentisticamente e costituisce il processo storico evoluzionistico, la “ruota universale”  che procede nella realizzazione divina (cfr. “Gnosi: Telogia di satana (10)”, verso la fine -ndr.-].

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO: “PASCENDI”

Dopo aver letto e meditato l’enciclica “Quanta cura” con annesso Syllabo degli errori, passiamo a considerare un nuovo Syllabo degli errori, quello del decreto “Lamentabile” Annesso alla celeberrima “Pascendi Dominici grecis” di S, Pio X. Qui il Santo Padre prende il “toro per le corna” e facendo una lucida analisi degli argomenti trattati, smaschera l’inganno del “modernismo” teologico modellato sui soliti principi dello gnosticismo teologico anticristiano. Il documento ampiamente commentato da teologi e chierici di ogni ordine e grado, pietra miliare nella dottrina della Chiesa, è abbastanza lungo, ma suddivisibili in diverse sezioni che gradualmente ed ordinatamente compongono un mosaico di incomparabile sapienza teologico-dottrinale. Iniziamo oggi dagli aspetti squisitamente teologici che compongono la base della torre “di difesa” che il Sommo Pontefice” erge a difesa della Chiesa Cattolica, attaccata dall’interno dal Modernismo, nuova maschera dell’antica e mai defunta gnosi, la teologia di satana che, alimentata dalle moderne filosofie e approfittando dell’oblio e della disconoscenza della teologia del “Dottore angelico”, aveva ripreso nuova linfa, fino ad esplodere, nonostante i tentativi di resistenza e contrattacco, nell’attuale apostasia ipermodernista, nella gnosi totalmente manifesta e senza ritegno praticata, oltrepassando in certi casi finanche i deliri massonici, dalle sette che attualmente si propongono come continuazione o evoluzione della Chiesa Cattolica, e ne usurpano, come oramai tutti sanno (anche se vigliaccamente tacciono) i sacri palazzi, le giurisdizioni, gli uffici e i beni materiali. Oggi approfondiamo gli aspetti teologici contenuti nella lettera enciclica.

PASCENDI DOMINICI GREGIS

(I)

DI S. S. SAN PIO X

“SUGLI ERRORI DEL MODERNISMO”

AI VENERABILI FRATELLI, PATRIARCHI,

PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI

E AGLI ALTRI ORDINARI

AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE

PACE E COMUNIONE

PIO PP. X

SERVO DEI SERVI DI DIO

VENERABILI FRATELLI SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

L’officio divinamente commessoCi di pascere il gregge del Signore ha, fra i primi doveri imposti da Cristo, quello di custodire con ogni vigilanza il deposito della fede trasmessa ai santi, ripudiando le profane novità di parole e le opposizioni di una scienza di falso nome. La quale provvidenza del Supremo Pastore non vi fu tempo che non fosse necessaria alla Chiesa cattolica: stanteché per opera del nemico dell’uman genere, mai non mancarono “uomini di perverso parlare (Act. X, 30), cianciatori di vanità e seduttori (Tit. I, 10), erranti e consiglieri agli altri di errore (II Tim. III, 13)”. Pur nondimeno gli è da confessare che in questi ultimi tempi, è cresciuto oltre misura il numero dei nemici della croce di Cristo; che, con arti affatto nuove e piene di astuzia, si affaticano di render vana la virtù avvivatrice della Chiesa e scrollare dai fondamenti, se venga lor fatto, lo stesso regno di Gesù Cristo. Per la qual cosa non Ci è oggimai più lecito di tacere, seppur non vogliamo aver vista di mancare al dovere Nostro gravissimo, e che Ci sia apposta a trascuratezza di esso la benignità finora usata nella speranza di più sani consigli. Ed a rompere senza più gl’indugi Ci spinge anzitutto il fatto, che i fautori dell’errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista. Alludiamo, o Venerabili Fratelli, a molti del laicato cattolico e, ciò ch’è più deplorevole, a non pochi dello stesso ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la Chiesa, scevri d’ogni solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle velenose dottrine dei nemici della Chiesa, si dànno, senza ritegno di sorta, per riformatori della Chiesa medesima; e, fatta audacemente schiera, si gettano su quanto vi ha di più santo nell’opera di Cristo, non risparmiando la persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo. Fanno le meraviglie costoro perché Noi li annoveriamo fra i nemici della Chiesa; ma non potrà stupirsene chiunque, poste da parte le intenzioni di cui Dio solo è giudice, si faccia ad esaminare le loro dottrine e la loro maniera di parlare e di operare. Per verità non si allontana dal vero chi li ritenga fra i nemici della Chiesa i più dannosi. Imperocché, come già abbiam detto, i lor consigli di distruzione non li agitano costoro al di fuori della Chiesa, ma dentro di essa; ond’è che il pericolo si appiatta quasi nelle vene stesse e nelle viscere di lei, con rovina tanto più certa, quanto essi la conoscono più addentro. Di più, non pongono già la scure ai rami od ai germogli; ma alla radice medesima, cioè alla fede ed alle fibre di lei più profonde. Intaccata poi questa radice della immortalità, continuano a far correre il veleno per tutto l’albero in guisa, che niuna parte risparmiano della cattolica verità, niuna che non cerchino di contaminare. Inoltre, nell’adoperare le loro mille arti per nuocere, niuno li supera di accortezza e di astuzia: giacché la fanno promiscuamente da razionalisti e da cattolici, e ciò con sì fina simulazione da trarre agevolmente in inganno ogni incauto; e poiché sono temerari quanto altri mai, non vi è conseguenza da cui rifuggano e che non ispaccino con animo franco ed imperterrito. Si aggiunga di più, e ciò è acconcissimo a confonderle menti, il menar che essi fanno una vita operosissima, un’assidua e forte applicazione ad ogni fatta di studi, e, il più sovente, la fama di una condotta austera. Finalmente, e questo spegne quasi ogni speranza di guarigione, dalle stesse loro dottrine sono formati al disprezzo di ogni autorità e di ogni freno; e, adagiatisi in una falsa coscienza, si persuadono che sia amore di verità ciò che è infatti superbia ed ostinazione. Sì, sperammo a dir vero di riuscire quando che fosse a richiamar costoro a più savi divisamenti; al qual fine li trattammo dapprima come figli con soavità, passammo poi ad un far severo, e finalmente, benché a malincuore, usammo pure i pubblici castighi. Ma voi sapete, o Venerabili Fratelli, come tutto riuscì indarno: sembrarono abbassai la fronte per un istante, mala rialzarono subito con maggiore alterigia. E potremmo forse tuttora dissimulare se non si trattasse che sol di loro: ma trattasi invece della sicurezza del nome cattolico. Fa dunque mestieri di uscir da un silenzio, che ormai sarebbe colpa, per far conoscere alla Chiesa tutta chi sieno infatti costoro che così mal si camuffano. – E poiché è artificio astutissimo dei modernisti (ché con siffatto nome son chiamati costoro a ragione comunemente) presentare le loro dottrine non già coordinate e raccolte quasi in un tutto, ma sparse invece e disgiunte l’una dall’altra, allo scopo di passare essi per dubbiosi e come incerti, mentre di fatto sono fermi e determinati; gioverà innanzi tutto raccogliere qui le dottrine stesse in un sol quadro, per passar poi a ricercar le fonti di tanto traviamento ed a prescrivere le misure per impedirne i danni. E alfin di procedere con ordine in una materia di troppo astrusa, è da notare anzi tutto che ogni modernista sostiene e quasi compendia in sé molteplici personaggi: quelli cioè di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore: e queste parti sono tutte bene da distinguersi una ad una, da chi voglia conoscere a dovere il lor sistema e penetrare i principî e le conseguenze delle loro dottrine. Prendendo adunque le mosse dal filosofo, tutto il fondamento della filosofia religiosa è riposto dai modernisti nella dottrina, che chiamano dell’agnosticismo. Secondo questa, la ragione umana è ristretta interamente entro il campo dei fenomeni, che è quanto dire di quel che apparisce e nel modo in che apparisce: non diritto, non facoltà naturale le concedono di passare più oltre. Per lo che non è dato a lei d’innalzarsi a Dio, né di conoscerne l’esistenza, sia pure per intromessa delle cose visibili. E da ciò si deduce che Dio, riguardo alla scienza, non può affatto esserne oggetto diretto; riguardo alla storia non deve mai riputarsi come soggetto istorico. Poste cotali premesse, ognuno scorge di leggieri quali sieno le sorti della teologia naturale, dei motivi di credibilità, dell’esterna rivelazione. Tutto questo i modernisti tolgon via di mezzo, e ne fanno assegno all’intellettualismo, ridicolo sistema, come essi affermano, e tramontato già da gran tempo. Né in ciò ispira loro alcun ritegno il sapere che si enormi errori furono già formalmente condannati dalla Chiesa. Giacché infatti il Concilio Vaticano così ebbe definito: “Se qualcuno dirà, che Dio uno e vero, Creatore e Signor nostro, per mezzo delle cose create, non possa conoscersi con certezza col lume naturale dell’umana ragione, sia anatema“(De Revel., can. I); e similmente: “Se alcuno dirà non essere possibile, o non convenire che, mediante divina rivelazione, sin l’uomo ammaestrato di Dio e del culto che Gli si deve, sia anatema” (Ibid., can. II); e finalmente: “Se alcuno dirà che la rivelazione divina non possa essere fatta credibile da esterni segni e che perciò gli uomini non debbano esser mossi alla fede se non da interna esperienza o privata ispirazione, sia anatema” (De Fide, can. III).Di qual guisa poi i modernisti dall’agnosticismo, che è puro stato d’ignoranza, passino all’ateismo scientifico e storico, che invece è stato di positiva negazione; e con qual diritto perciò di logica, dal non sapere se Iddio sia intervenuto o no nella storia dell’uman genere si trascorra a spiegar tutto nella storia medesima ponendo Dio interamente da parte come se in realtà non fosse intervenuto, lo assegni chi può. Ma tanto è; per costoro è fisso e determinato che la scienza e la storia debbano esser atee; entro l’àmbito di esse non vi è luogo se non per fenomeni, sbanditone in tutto Iddio e quanto sa di divino. Dalla quale dottrina assurdissima vedrem bentosto che cosa siasi costretti di ammettere intorno alla persona augusta di Gesù Cristo, intorno ai misteri della Sua vita e della Sua morte, intorno alla Sua risurrezione ed ascensione al Cielo. Vero è che l’agnosticismo non costituisce nella dottrina dei modernisti se non la parte negativa; la positiva sta tutta nell’immanenza vitale. Dall’una all’altra ecco con qual discorso procedono. La Religione, sia essa naturale o sopra natura, alla guisa di ogni altro fatto qualsiasi, uopo è che ammetta una spiegazione. Or, tolta di mezzo la naturale teologia, chiuso il cammino alla rivelazione per il rifiuto dei motivi di credibilità, negata anzi qualsivoglia esterna rivelazione, chiaro è che siffatta spiegazione indarno si cerca fuori dell’uomo. Resta dunque che si cerchi nell’uomo stesso; e poiché la religione non è altro infatti che una forma della vita, la spiegazione di essa dovrà ritrovarsi appunto nella vita dell’uomo. Di qui il principio dell’immanenza religiosa. Di più, la prima mossa, per così dire, di ogni fenomeno vitale, quale si è detta essere altresì la religione, è sempre da ascrivere ad un qualche bisogno; i primordi poi, parlando più specialmente della vita, sono da assegnare ad un movimento del cuore, o vogliam dire ad un sentimento. Per queste ragioni, essendo Dio l’oggetto della religione, dobbiamo conchiudere che la fede, inizio e fondamento di ogni religione, deve riporsi in un sentimento che nasca dal bisogno della divinità. IL quale bisogno, non sentendosi dall’uomo se non indeterminate ed acconce circostanze, non può di per sé appartenere al campo della coscienza: ma giace da principio al di sotto della coscienza medesima o, come dicono con vocabolo tolto ad imprestito dalla moderna filosofia, nella subcoscienza, ove la sua radice rimane occulta ed incomprensibile. Che se si chieda in qual modo da questo bisogno della divinità, che l’uomo provi in se stesso, si faccia poi trapasso alla religione, i modernisti rispondono così. La scienza e la storia, essi dicono, sono chiuse come fra due termini: l’uno esterno, ed è il mondo visibile; l’altro interno, ed è la coscienza. Toccato che abbiano o l’uno o l’altro di questi termini, non hanno come passare più oltre; al di là si trovano essi a faccia dell’inconoscibile. Dinanzi a questo inconoscibile, o sia esso fuori dell’uomo oltre ogni cosa visibile, o si celi entro l’uomo nelle latebre della subcoscienza, il bisogno del divino, senza verun atto della mente, secondo che vuole il fideismo, fa scattare nell’animo già inclinato a religione un certo particolar sentimento; il quale, sia come oggetto sia come causa interna, ha implicata in sé la realtà del divino e congiunge in certa guisa l’uomo con Dio. A questo sentimento appunto si dà dai modernisti il nome di fede, e lo ritengono quale inizio di religione. Ma non è qui tutto il filosofare, o, a meglio dire, il delirare di costoro. Imperocché in siffatto sentimento essi non riscontrano solamente la fede: ma colla fede e nella fede stessa quale da loro è intesa, sostengono che vi si trovi altresì la Rivelazione. E che infatti può pretendersi di vantaggio per una rivelazione? O non è forse rivelazione, o almeno principio di rivelazione, quel sentimento religioso che si manifesta d’un tratto nella coscienza? Non è rivelazione l’apparire, benché in confuso, che Dio fa agli animi in quello stesso sentimento religioso? Aggiungono anzi di più che, essendo Iddio in pari tempo e l’oggetto e la causa della fede, la detta rivelazione è al tempo stesso di Dio e da Dio: ha cioè insieme Iddio e come rivelante e come rivelato. Di qui, Venerabili Fratelli, quell’assurdissimo effato dei modernisti che ogni religione, secondo il vario aspetto sotto cui si riguardi, debba dirsi egualmente naturale e soprannaturale. Di qui lo scambiar che fanno, come di pari significato, coscienza e rivelazione. Di qui la legge, per cui la coscienza religiosa si dà come regola universale, da porsi in tutto a pari della rivelazione, ed alla quale tutti hanno obbligo di sottostare, non esclusa la stessa autorità suprema della Chiesa, sia che ella insegni, sia che legiferi in materia di culto o di disciplina. Se non che in tutto questo procedimento dal quale, a detta dei modernisti, saltan fuori la fede e la rivelazione, egli è mestieri tener d’occhio un punto, che è di capitale importanza per le conseguenze storico critiche, che essi ne derivano. Quell’inconoscibile, di cui parlano, non si presenta già alla fede come nudo in sé ed isolato; ma si bene congiunto strettamente a un qualche fenomeno, che, quantunque appartenga al campo della scienza e della storia, pure in certa guisa ne trapassa i confini. Tal fenomeno potrà essere un fatto qualsiasi della natura, che in sé racchiude alcun che di misterioso: potrà essere altresì un uomo, il cui carattere, i cui gesti, le cui parole mal si compongano colle leggi ordinarie della storia. Or bene la fede, attirata dall’inconoscibile racchiuso nel fenomeno, s’impadronisce di tutto intero il fenomeno stesso e lo penetra in certo qual modo della sua vita. Da ciò due cose conseguitano. La prima, una tal trasfigurazione del fenomeno, per una, diremmo, quasi elevazione sulle condizioni sue proprie, che lo renda acconcio, come materia, alla forma del divino che la fede v’introdurrà. La seconda, un certo sfiguramento, nato da ciò che avendo la fede tolto il fenomeno ai suoi aggiunti di tempo e di luogo, facilmente gli attribuisce quello che nella realtà delle cose non ha di fatto: il che soprattutto avviene quando si tratti di fenomeni di antica data, e tanto più se sono remoti. Da questi due capi i modernisti traggono per loro due canoni; i quali, uniti a un terzo già dedotto dall’agnosticismo, formano quasi la base della critica storica. Illustriamo il fatto con un esempio, preso dalla persona di Gesù Cristo. Nella persona di Cristo, dicono, la scienza e la storia non trovan nulla al di là dell’uomo. Dunque, in vigore del primo canone dato dall’agnosticismo, dalla storia di essa deve cancellarsi tutto quanto sa di divino. Più oltre, in conformità del. secondo canone, la persona di Cristo è stata trasfigurata dalla fede: dunque fa d’uopo spogliarla di tutto ciò che la innalza sopra le condizioni storiche. Per ultimo, la stessa è stata sfigurata dalla fede, secondo insegna il terzo canone: dunque non da rimuoversi da lei i discorsi, i fatti, tutto quello insomma che non risponde al suo carattere, alla sua condizione ed educazione, al luogo ed al tempo in cui visse. Strano per fermo parrà a noi questo modo di ragionare; ma qui sta la critica dei modernisti. Adunque il sentimento religioso, che per vitale immanenza si sprigiona dai nascondigli della subcoscienza, è il germe di tutta la religione, ed è insieme la ragione di quanto fu o sarà per essere in qualsivoglia religione. Rude dapprima e quasi informe, a poco a poco, sotto l’influsso del misterioso principio che gli diede origine, esso e venuto perfezionandosi, a seconda dei progressi della vita umana. di cui, come si disse, e una forma. Ecco pertanto la nascita di qualsiasi religione, sia pure soprannaturale: esse altro non sono che semplici esplicazioni dell’anzidetto sentimento. Né credasi già che diversa sia la sorte della religione cattolica; anzi in tutto pari alle altre: imperocché non altrimenti essa è nata, che per processo di vitale immanenza nella coscienza di Cristo, uomo di elettissima natura, quale mai altro simile si vide né mai si troverà. Nell’udir tali cose Noi trasecoliamo di fronte ad affermazioni cotanto audaci e sacrileghe! Eppure, Venerabili Fratelli, non sono esse un parlar temerario solamente d’increduli. Sono uomini cattolici, sono anzi sacerdoti non pochi che così la discorrono pubblicamente; e con siffatti delirii si dànno vanto di riformare la Chiesa! Qui, non trattasi più del vecchio errore, che alla natura umana concedeva quasi un diritto all’ordine soprannaturale. Si va assai più lungi; sino cioè ad afferrare che la religione nostra santissima, nell’uomo Cristo del pari che in noi, è frutto interamente spontaneo della natura. Del quale asserto non sappiamo qual sia mezzo più acconcio per sopprimere pgni ordine soprannaturale. Perciò con somma ragione il Concilio Vaticano pronunziò: “Se alcuno dirà, non poter l’uomo essere elevato da Dio a una conoscenza e perfezione che superi la natura, ma potere e dovere di per sé stesso, con un perpetuo progresso, giungere finalmente al possesso di ogni vero e di ogni bene, sia anatema” (De Revel., can. III). Fin qui però, o Venerabili Fratelli, non abbiam visto farsi punto luogo all’azione dell’intelletto. Eppure, secondo le dottrine dei modernisti, ha essa ancora la sua parte nell’atto di fede. E giova osservare in che modo. In quel sentimento, dicono, di cui sovente si è parlato, appunto perché egli è sentimento e non cognizione, Dio si presenta bensì all’uomo, ma in maniera così confusa che nulla o a malapena si distingue dal soggetto credente. Fa dunque d’uopo che sopra quel sentimento si getti un qualche raggio di luce, sì che Dio ne venga fuori per intero e pongasi in contrapposto col soggetto. Ora, è questo il compito dell’intelletto; di cui è proprio il pensare ed analizzare, e per mezzo del quale l’uomo prima traduce in rappresentazioni mentali i fenomeni di vita che sorgono in lui, e poi li significa con verbali espressioni. Di qui il detto volgare dei modernisti, che l’uomo religioso deve pensare la sua fede. L’intelletto adunque, sopravvenendo al sentimento, su di esso si ripiega e vi fa intorno un lavorio somigliante a quello di un pittore che illumina e ravviva il disegno di un quadro svanito per la vecchiaia. Il paragone è di uno dei maestri del modernismo. Doppio poi è l’operar della mente in siffatto negozio; dapprima, con un atto nativo e spontaneo, esprimendo la sua nozione con una proposizione semplice e volgare; indi, con riflessione e più intima penetrazione, o, come dicano, lavorando il suo pensiero, rende ciò che ha pensato con proposizioni secondarie, derivate bensì dalla prima, ma più affinate e distinte. Le quali proposizioni, ove poi ottengano la sanzione del magistero supremo della Chiesa, costituiranno appunto il dogma. – Con ciò, nella dottrina dei modernisti, ci troviamo giunti ad uno dei capi di maggior rilievo, all’origine cioè e alla natura stessa del dogma. Imperocché l’origine del dogma la ripongon essi in quelle primitive formole semplici; le quali, sotto un certo aspetto, devono ritenersi come essenziali alla fede, giacché la rivelazione, perché sia veramente tale, richiede la chiara apparizione di Dio nella coscienza. Il dogma stesso poi, secondo che paiono dire, è costituito propriamente dalle formole secondarie. A conoscere però bene la natura del dogma, è uopo ricercare anzi qual relazione passi fra le formole religiose ed il sentimento religioso. Nel che non troverà punto difficoltà, chi tenga fermo, che il fine di cotali formole altro non è, se non di dar modo al credente di rendersi ragione della propria fede. Per la qual cosa stanno esse formole come di mezzo fra il credente e la fede di lui; per rapporto alla fede, sono espressioni inadeguate del suo oggetto e sono dai modernisti chiamate simboli; per rapporto al credente, si riducono a meri istrumenti. Non è lecito pertanto in niun modo sostenere che esse esprimano una verità assoluta: essendoché, come simboli, sono semplici immagini di verità, e perciò da doversi adattare al sentimento religioso in ordine all’uomo; come istrumenti, sono veicoli di verità, e perciò da acconciarsi a lor volta all’uomo in ordine al sentimento religioso. E poiché questo sentimento, siccome quello che ha per obbietto l’assoluto, porge infiniti aspetti, dei quali oggi l’uno domani l’altro può apparire; e similmente colui che crede può passare per altre ed altre condizioni, ne segue che le formole altresì che noi chiamiamo dogmi devono sottostare ad uguali vicende ed essere perciò variabili. Così si ha aperto il varco alla intima evoluzione dei dogmi. Infinito cumulo di sofismi che abbatte e distrugge ogni religione! E questa, non pur possibile, ma necessaria evoluzione e mutazione dei dogmi non solo i modernisti l’affermano arditamente ma è conseguenza legittima delle loro sentenze. Infatti fra i capisaldi della loro dottrina vi è ancor questo, tratto dal principio dell’immanenza vitale: che le formole cioè religiose, perché tali siano in verità e non mere speculazioni dell’intelletto, è mestieri che sieno vitali e che vivano della stessa vita del sentimento religioso. Il che non è da intendersi quasiché tali formole, specie se puramente immaginative, sieno costruite a bella posta pel sentimento religioso; giacché poco monta della loro origine, come altresì del loro numero e della loro qualità; ma cosi, che le stesse, fatte se occorre all’uopo delle modificazioni, vengano vitalmente assimilate dal sentimento religioso. E per dirla in altri termini, fa di mestieri che la formola primitiva sia accettata e sancita dal cuore, e che il susseguente lavorio per la formazione delle formole secondarie sia fatto sotto la direzione del cuore. Di qui procede che siffatte formole, perché sieno vitali, devono essere e mantenersi adatte tanto alla fede quanto al credente. Laonde, se per una ragione qualsiasi cotale adattamento venga meno, perdono elle il primitiva significato e vogliono essere cambiate. Or tale essendo il valore e la sorte mutevole delle formole dogmatiche, non reca stupore che i modernisti le abbiano tanto in dileggio; mentre al contrario non fanno che ricordare ed esaltare il sentimento religioso e la vita religiosa. Perciò pure criticano con somma audacia la Chiesa, accusandola di camminare fuor di strada, né saper distinguere fra il senso materiale delle formole e il loro significato religioso e morale, e attaccandosi con ostinazione, ma vanamente, a formole vuote di senso, lasciar che la religione precipiti a rovina. Oh! Veramente ciechi e conduttori di ciechi, che, gonfi del superbo nome di scienza, vaneggiano fino al segno di pervertire l’eterno concetto di verità e il genuino sentimento religioso: “spacciando un nuovo sistema, col quale, tratti da una sfrontata e sfrenata smania di novità, non cercano la verità ove certamente si trova; e disprezzate le sante ed apostoliche tradizioni, si attaccano a dottrine vuote, futili, incerte, riprovate dalla Chiesa, e con esse, uomini stoltissimi, si credono di puntellare e sostenere la stessa verità” (Gregorio XVI, Lett. Enc.”Singulari Nos“, 25 giugno 1834). (Continua … )

DOMENICA XXII dopo PENTECOSTE

DOMENICA XXII dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps CXXIX:3-4
Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël. [Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]
Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël. [Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Oratio
Orémus.
Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.
[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses
Phil I:6-11
“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, etin defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse.
Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XIX– Torino 1899]

” Ho fiducia che quegli il quale ha cominciato in voi l’opera buona, la compirà fino al giorno di Gesù Cristo. Siccome è giusto ch’io senta di tutti voi, perché io vi ho nel cuore, voi tutti che siete miei compagni nella grazia, così nelle mie catene come nella mia difesa e per la confermazione del Vangelo. Perché Iddio mi è testimonio con quanto affetto io vi ami tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E di questo vi prego, che la vostra carità abbondi di più in più in conoscenza ed in ogni sentimento: affinché discerniate le cose contrarie e siate schietti e senza inciampo per il giorno di Cristo, ripieni per Gesù Cristo del frutto di giustizia a gloria e lode di Dio „ (Ai Filippesi, capo I, vers. 6-11).

É questa la lezione della Epistola della corrente Domenica, che la Chiesa ha pigliato dal primo capo ai Filippesi. L’apostolo S. Paolo scrisse questa lettera da Roma tra il 60 e il 63 dell’era nostra, allorché vi era sostenuto in carcere la prima volta, sotto l’imperatore Nerone, come apparisce chiaramente dalla lettera stessa. Essa è indirizzata ai fedeli di Filippi, celebre città della Macedonia, oggidì miserabile villaggio. Fu in quella città che S. Paolo fondò la prima Chiesa cristiana (Atti Apost, XVI, 9-40) in Europa; Chiesa fiorentisma, che fu sì larga di conforti e di aiuti all’Apostolo prigioniero a Roma. È una delle lettere più affettuose scritte da S. Paolo, e che ci mostra come in lui si accoppiasse mirabilmente alla tempra adamantina dell’ apostolo la tenerezza d’un padre, e, direi quasi, di  una madre.  I versetti che vi ho riportati appartengono al proemio della lettera, e contengono i più lieti auguri spirituali. – Ed ora alla spiegazione. L’Apostolo, fatti, come suole in tutte le sue lettere, i più cordiali saluti ai fedeli, ai sacerdoti e diaconi (S. Paolo comincia tutte le sue lettere coi saluti, e spesso sono abbastanza diffusi. Una sola lettera fa eccezione, quella agli Ebrei. Della quale differenza si danno parecchie ragioni, che si leggono presso gli interpreti. S. Paolo qui saluta prima i fedeli, poi i vescovi e infine i diaconi o ministri. A Filippi v’erano forse molti vescovi? Non pare. Ve ne poteva essere uno, e forse quell’uno, Epafrodito, discepolo dell’Apostolo, era assente. Sembra che a quel tempo il nome di vescovo si desse anche ai semplici preti, e così intesa la cosa, il senso è piano. È bensì vero che questa interpretazione non è accolta da tutti; ma scioglie ogni difficoltà) che erano a Filippi, e assicuratili che serbava di loro tutti affettuosa memoria, dal primo dì ch’ebbero comune il Vangelo fino a quello in cui scrive, continuando gli auguri e le lodi da essi troppo bene meritate, dice: “Nutro fiducia che quegli il quale ha cominciata in voi l’opera buona, la compia fino al giorno di Gesù Cristo … Dopo le congratulazioni fatte ai Filippesi. che riguardano il passato, S. Paolo getta lo sguardo innanzi e sembra domandare a seì stesso: Come sarà per l’avvenire? Abbiamo cominciato felicemente: sta bene: saremo perseveranti nella fede e nella grazia ricevuta? — Risponde tosto: Ho fiducia che sì —. Ma in chi ripone egli la sua fiducia l’Apostolo? Negli uomini? nelle loro volontà sì mobili?, nelle loro forze sì deboli? nella propria vigilanza? Non mai! L’Apostolo la ripone in Dio, dicendo: ” Nutro fiducia che quegli il quale ha cominciata in voi l’opera buona, cioè la vostra conversione, la compirà fino al giorno di Gesù Cristo. „ Evidentemente quegli che ha cominciato è Dio, e Dio condurrà ogni cosa a termine felice. Voi comprendete, o carissimi, che in questa sentenza S. Paolo parla del principio e della fine della nostra santificazione: Cœpit… Perficiet parla del dono sì prezioso della chiamata alla fede, cœpit, e dell’altro non meno prezioso della perseveranza, perfieiet. Su questi due punti capitali che cosa ci insegna la fede e che cosa dobbiamo fermamente tenere? Nessuno ha diritto per sé o può meritare il dono della fede: esso è un dono affatto superiore alla nostra natura ed alle nostre forze, e come l’occhio non può meritare la luce, né l’orecchio l’armonia, così l’uomo non può meritare la fede che è la prima e fondamentale di tutte e grazie. Ma questa grazia prima e fondamentale Iddio, quanto è da sé, l’offre a tutti? Si, perché, per sua bontà, tutti vuol salvi, e non vuole che alcuno perisca; che se molti non la ricevono, non è da chiamarne in colpa Iddio, ma solamente la volontà degli uomini, che non fanno ciò che potrebbero e dovrebbero per riceverla. E quando l’uomo ha ricevuto la fede, la grazia prima, ed è fatto figliuolo adottivo di Dio, per conservare questa grazia e perseverare in essa fino al termine della vita, ha bisogno d’un’altra grazia? Sì: e senza di essa certamente l’uomo non potrebbe perseverare. E questa grazia della perseveranza l’uomo la può rigorosamente meritare? No: ma Iddio, buono com’è, la concede certamente a tutti quelli che corrispondono alla sua grazia, che gliela domandano umilmente e che da sé fanno ciò che possono (Concilio di Trento, Sess. VI  c. 13). Dov’è l’uomo che cominci la fabbrica e non la voglia condurre a fine? dov’è l’uomo che cominci un viaggio e non voglia finirlo? Come dunque Dio, sapientissimo, comincierebbe l’opera della nostra salute e non vorrebbe compirla? Come chiamarci alla fede e alla grazia e poi rifiutarci la perseveranza? No, no; Egli che ha cominciato, compirà l’opera: Qui cœpit in vobis opus bonum, perfidie. – Dilettissimi! Qual conforto! qual consolazione per noi! Iddio pietoso ha chiamato noi, tutti quanti siamo qui raccolti, alla fede: Egli dunque ha cominciato in noi l’opera sua, cioè la nostra santificazione: qual dubbio mai che non voglia altresì compirla? Qui cœpit… perficiet. Ma ricordiamo in pari tempo un’altra verità troppo necessaria, ed è questa : la nostra salvezza eterna dipende principalmente da Dio, dalla sua grazia, che comincia, accompagna e compie, e perciò qui S. Paolo parla soltanto di Dio; ma essa dipende anche da noi in secondo luogo, e se noi veniamo meno dalla nostra parte, torna inutile altresì ciò che Dio fa dal lato suo. Dio, ponetevelo bene nell’animo, non fallirà mai, mai dalla parte sua: il suo concorso non farà mai difetto, ne siamo sicurissimi: quello che può far difetto è il concorso nostro, a talché, se noi ci perderemo, la causa, e causa unica, saremo noi. – “Dio compirà l’opera buona, così S. Paolo, fino al giorno di Gesù Cristo. „ Che giorno è questo? Forse quello della nostra morte, nel quale si decide la nostra sorte eterna e si compie il dono della perseveranza? Indubbiamente sarebbe vero il dire che alla nostra morte si compie la perseveranza; ma, secondo il linguaggio dei Libri santi, il giorno di Dio. o di Gesù Cristo, è il giorno finale, il giorno del gran giudizio, nel quale si conferma la sentenza pronunciata il giorno della morte, e nel quale con un premio o con una pena eterna si suggella la sorte irrevocabile d’ogni uomo. Parve ad alcuni che l’Apostolo, col ricordare la perseveranza legata al giorno del giudizio finale, volesse indicare essere vicinissimo quel gran giorno: ma nulla di più erroneo. L’Apostolo qui ricorda il giorno del giudizio, e noi dice né vicino, né lontano; nella lettera seconda a quei di Tessalonica, li esorta a non smuoversi, né turbarsi, quasi  che quel giorno sia prossimo (capo II): che verrà quando lo si crederà meno, ripetendo presso a poco le stesse parole del Vangelo. Passiamo al versetto seguente. – “ Siccome è giusto ch’io senta di tutti voi, perché vi ho nel cuore, voi tutti che siete miei compagni nella grazia, così nelle mie catene, come nella mia difesa, e per la confermazione del Vangelo. „ S. Paolo aveva sortito un alto ingegno, aveva avuto una istruzione elevata ai piedi di Gamaliele, quale si poteva avere a quei tempi e in quei luoghi [L’istruzione presso gli Ebrei si riduceva pressoché allo studio della Scrittura santa e in particolare del Pentateuco, che racchiude tutta la legge divina, civile, criminale, penale, ceremoniale, ecc. ecc. – Il popolo ebreo era un popolo eminentemente isolato dagli altri, e tale l’aveva formato Mose per impedire, che cadesse nella idolatria. Per esso non vi è altra scienza che quella della sua legge e della sua storia nazionale, che si confondeva con la legge o rivelazione divina, che è la stessa cosa. Di ciò che esisteva fuori della nazione ebraica, arti, scienze, storia, lettere, ecc. ecc. l’ebreo non se ne occupava, anzi l’aveva in sospetto, e quasi in orrore, come una idolatria. Più tardi, dopo la cattività babilonese e più ancora dopo la diffusione della civiltà greca in Oriente, questo orrore degli Ebrei di tutto ciò che era pagano, venne scemando e ne abbiamo una prova al tempo dei Maccabei e nei libri stessi ispirati di quell’epoca, nei quali si vede un cotal riflesso della scienza greca. Era una conseguenza naturale del movimento politico e scientifico di quel tempo e del contatto forzato, che Israele aveva coi popoli vicini e colla civiltà greca e romana. Filone e Giuseppe Ebreo non sarebbero stati possibili due secoli prima. Paolo fu istruito da Gamaliele, e benché la sua istruzione fosse ristretta quasi tutta alla legge mosaica, secondo lo spirito dei farisei, gli intransigenti d’allora, pure ebbe qualche riverbero, qualche sprazzo della scienza e della cultura greca. (Vedi il Cardinal Meignan dove parla dei Maccabei, ecc. ecc.)], ma la sua conoscenza della lingua greca era molto imperfetta, come apparisce dalle lettere e come confessa egli stesso ai Corinti; si sente l’Ebreo che parla greco, e perciò lo stile è rotto, il periodo contorto, la parola e la struttura risentono la lingua ebraica e la difficoltà di rilevarne il senso più volte è grave assai, e ne abbiamo un saggio nel periodo che avete udito. In sostanza l’Apostolo, dopo aver detto che si tiene sicuro della perseveranza dei suoi Filippesi, mercé della grazia di Dio, afferma essere giusto che così pensi e dica, perché li ha in cuore: Eo quod habeam vos in corde. Noi pure spesso diciamo d’una persona, che amiamo vivamente: Io la tengo in cuore, la porto nel cuore, l’ho in cuore, e somiglianti espressioni. Siccome il cuore è lo strumento e la sede dell’amore,, così per esprimere che amiamo una persona, siamo soliti dire: L’ho in cuore. – “Voi persevererete nel Vangelo, così Paolo, lo spero; e mi è dolce sperarlo, perché vi amo: e come non vi amerei, mentre voi siete compagni della mia grazia, e mi siete larghi di aiuti nella mia carcere, nella difesa che sostengo per la professione del Vangelo? „ È da sapere che i buoni Filippesi, udita la prigionia di Paolo in Roma, si erano affrettati a mandargli Epafrodito per confortarlo e per soccorrerlo nei suoi bisogni. Quest’atto di amore e di tenerezza figliale aveva commosso l’Apostolo, ed ecco perché li chiama compagni e partecipi delle sue catene, della difesa e confermazione del Vangelo. L’amore fa sì che tanto le gioie come i dolori siano comuni tra le persone amate, e perciò rende necessario tra loro il soccorso vicendevole, e tutto questo in ragione dell’intensità dell’amore stesso; è questa una verità che non abbisogna di prova. L’amore tra i primi cristiani era grandissimo, tantoché gli stessi gentili, additando i Cristiani e meravigliando, dicevano: Vedete come questi cristiani si amano! — Ecco perché le Chiese di Grecia, come attesta S. Paolo, mandavano soccorso alle Chiese di Palestina travagliate dalla fame: era il primo esempio di scambievole carità che il mondo pagano stupefatto vedeva. Greci che soccorrevano Giudei, dei quali ignoravano la lingua, i paesi, tutto, fuorché la fede e la carità, nella quale si sentivano fratelli! Ecco come popoli, che non si conoscono, che sono divisi da monti, da mari, da interessi, da usi, da leggi, da memorie, in Cristo si stringono tra loro come fratelli, e si aiutano scambievolmente! È il carattere del Cristianesimo: tutti i membri della Chiesa Cattolica, sparsi ai quattro angoli della terra, congiungono le loro menti in una sola fede, congiungono i loro cuori in una sola speranza e nella stessa carità verso Dio e verso il prossimo, e creano quella stupenda solidarietà, che è la sua gloria e la sua forza. Paolo geme nel carcere a Roma; con lui gemono i cristiani di Filippi, di Corinto, di Tessalonica, di Efeso, di Gerusalemme; la Chiesa così forma un solo corpo, un solo cuore, e uno è per tutti e tutti per ciascuno. Questa ammirabile unione e solidarietà, che appariva nella Chiesa ai tempi di Paolo, apparisca anche in oggi: i fedeli stiano congiunti coi loro pastori, i pastori coi loro Vescovi, i Vescovi col Vescovo dei Vescovi : siano un solo corpo, comuni le tribolazioni, comuni i dolori, comuni le vittorie e i trionfi. “Poiché Iddio mi è testimonio con quanto affetto io vi ami tutti nelle viscere di Gesù Cristo. „ Non so dirvi come queste espressioni sì calde d’affetto e che si sentono traboccare dal cuore mi ricerchino tutte le fibre dell’anima e mi commuovano! Mi raffiguro il santo Apostolo, quell’uomo della tempra d’acciaio, nel fondo della sua carcere, pallido, macilente, disfatto dalle veglie, dai digiuni, dai patimenti, curvo sotto il peso degli anni e dei pensieri, carico di catene, col patibolo sotto gli occhi; eppure, dimentico di sé, egli trova espressioni di affetto paterno, e quasi temesse che i suoi cari Filippesi ne dubitassero, invoca Dio a testimonio di ciò che dice: “Dio mi è testimonio con quanto affetto vi ami rutti — Testis enim mihi est Deus, quomodo cupiam omnes vos. „ Egli non distingue tra ricchi e poveri, tra istruiti e non istruiti: sono tutti suoi figli, tutti li abbraccia con lo stesso affetto, come fa un padre con i suoi figli: Omnes vos. E perchè li ama tutti egualmente? Perché non guarda alle loro doti e qualità personali, ma tutti li considera in Gesù Cristo: In visceribus Christi! Ecco la gran legge della vera carità. – Se voi guardate l’uomo come è in se stesso, non rare volte vi sentirete mossi, non ad amarlo, ma sì a respingerlo. Questi è coperto di cenci schifosi, di piaghe fetenti; quello è grossolano, rozzo, ignorante, non capisce nulla, senza cuore; un terzo è pieno di vizi, dedito all’ubriachezza, ozioso, iracondo, petulante, insolente; se noi seguitiamo la natura, come potremo amare questi infelici, ancorché sappiamo che sono fratelli nostri? Noi sentiamo ripugnanza ad avvicinarli, a parlare con loro, a toccarli. Così è; ma se pensiamo a Dio che li ha creati, a Gesù Cristo che li ha amati fino a morire per loro, e darsi loro in cibo; in una parola, se noi li riguardiamo nelle viscere di Gesù Cristo: In visceribus Jesu Christi, cioè li riguardiamo nell’amore di Gesù Cristo, noi non possiamo non amarli; o rinnegare Gesù Cristo, od amarli con Lui e per Lui. Ecco come si spiega 1′ eroismo dei santi e delle anime innamorate di Gesù Cristo, che passano i loro giorni negli ospitali, nei lazzaretti, negli orfanotrofi, nelle case del dolore, nelle missioni in remotissime e barbare contrade, consacrandosi al servizio degli infermi, alla istruzione degli ignoranti, senza nemmeno conoscerli, con la certezza di non trovare in essi nemmeno la gratitudine. Amano nelle viscere di Gesù Cristo: In visceribus Jesu Christì. Guardano solo a Gesù Cristo, e da Lui solo attendono la loro mercede. Ed è cosa consolante e che prova lo spirito della Chiesa essere sempre lo stesso, il vedere ai giorni nostri i cattolici d’Europa che soccorrono le Chiese d’Oriente, le Missioni della Cina, gli orfanotrofi aperti in Africa, le scuole cristiane fondate in mezzo agli infedeli. Nella Chiesa cattolica spariscono i confini delle nazioni e non apparisce che la grande famiglia dei figli di Dio. “Vi amo in Gesù Cristo, o Filippesi, esclama l’Apostolo, e perché vi amo, vi desidero, vi prego ogni bene. „ E qual bene nell’ardore della tua carità domandi tu, o Paolo, ai tuoi figli? ” Che la vostra carità sempre più abbondi in conoscenza e in ogni buon sentimento. „ Quale carità? La carità vera, operata verso Dio e verso i fratelli; la carità, che è compimento della legge e la regina di tutte le virtù; la carità, che è congiunta alla scienza, in scientia, col conoscimento della verità e con il discernimento, ossia con la prudenza dell’operare. Giovi, poiché qui cade in acconcio, giovi rettificare qualche idea intorno alla carità, affinché non pigliamo abbaglio. Sembra che alcuni, udendo predicare e magnificare la carità, pensino ch’essa si riduca ad amare e beneficare indistintamente le persone tutte; che la carità per poco non badi alla verità, ed operi ad occhi chiusi. S. Paolo in questo luogo condanna siffatto pregiudizio, scrivendo: “La vostra carità cresca sempre più nella conoscenza e in ogni sentimento — In scientia et in omni sensu. ,, Tutti gli atti della nostra vita, anzi, tutti i pensieri, i desideri e le parole tutte, se siamo uomini, devono essere soggetti alla gran legge della ragione; se siamo Cristiani, alla legge della ragione e della fede: in altri termini, alla gran legge della verità. Essa, ed essa sola, è la guida d’ogni pensiero e d’ogni atto, e quello è bene che è conforme a verità, quello è male che alla verità non è conforme. Immaginare una virtù che non sia frutto della verità, è immaginare un bel colore senza luce, un bell’edificio senza ordine, un bel corpo senza la giusta proporzione delle varie membra. La verità è l’unica base della virtù, e per conseguenza anche della regina di tutte le virtù, che è la carità. Questa deve amare e operare secondo verità, e se esce dalla verità, e, peggio poi, se opera contro la verità, non è virtù, ma vizio. Il perché amare il prossimo, beneficare il prossimo perché vizioso, e col nostro amore e con la nostra beneficenza spingerlo maggiormente al vizio, o in esso raffermarlo: amare il prossimo e addormentarlo nell’errore per non recargli dispiacere, non è carità, ma offesa della carità, è un odiarlo; il medico che per amore dell’infermo gli risparmia la medicina amara, e non taglia il membro cancrenoso; il padre che per amore del figlio non lo corregge e non lo punisce, non amano, ma odiano l’infermo e il figlio. Nessuno ha avuto maggior carità di Gesù Cristo per gli uomini, per i quali diede la sua vita stessa; ma Egli non dissimulò i loro errori, non tacque le loro colpe, smascherò le loro passioni, non dubitò, al bisogno, di ferire anche il loro malinteso amor proprio per giovar loro: ecco la vera carità, la carità figlia della verità, congiunta alla scienza e alla prudenza, come S. Paolo la pregava ai suoi Filippesi: “La vostra carità abbondi sempre più nella conoscenza e in ogni sentimento. „ “Io prego Dio, così l’Apostolo, affinché la vostra carità sempre più abbondi insieme con la scienza e con la prudenza: „ e perché? ” Perché discerniate le cose contrarie, „ ossia “distinguiate le vere e le buone dalle false e cattive, e quelle abbracciate e queste fuggiate. „ È una espressione che troviamo in un’altra lettera di S. Paolo (I. ai Tessal., V, 21), dove scrive: “Mettete ogni cosa alla prova, e tenete ciò che è bene — Omnia probate, et quod bonum est tenete. „ Si accusa la nostra religione di offendere e quasi distruggere i diritti della ragione; voi qui udite S. Paolo esortare i fedeli ad usare la ragione per distinguere il bene dal male, il meglio dal bene, il vero dal falso, ed a regolarsi col conoscimento e con ogni prudenza : Scientia et omni prudentia. Certo codesta prova la si vuol fare alla luce della fede, ma sempre con la ragione, perché questa come quella viene da Dio, e se sono inviolabili i diritti della fede, lo sono pure anche quelli della ragione, e se si offende Dio rigettando la prima, lo si offende anche col non rispettare la seconda,. Noi rispetteremo l’una e l’altra, unendo e armonizzando tra loro il lume della fede e quello della ragione, perché entrambi, come vengono da Dio, così conducono a Dio, fonte di ogni verità. – Camminando dietro sì fida scorta, sarete trovati ” sinceri o schietti, e senza inciampo per il giorno di Cristo, „ cioè netti, puri nella fede e mondi d’ogni macchia nel giorno del giudizio, nel quale apparirà l’opera di ciascuno. In questi pochi versetti due volte l’Apostolo ci riduce alla mente una delle più terribili verità della fede, il giudizio di Dio, e bene a ragione; perché la certezza che verrà giorno nel quale ogni nostro pensiero ed affetto, ogni nostra parola ed opera saranno disvelate agli occhi di tutto il mondo e giudicate da Dio infallibile e inesorabile retributore, ci riempie di un salutare timore e quasi ci costringe a provvedere a noi stessi, a fare noi qui di presente quel giudizio, al quale non potremo sfuggire. “Giudicate voi stessi, così l’Apostolo in un altro luogo, e non sarete giudicati. „ Eccoci all’ultimo versetto: e così sarete “ripieni, per Gesù Cristo, del frutto di giustizia, a gloria e lode di Dio. „ Non basta essere mondi d’ogni macchia, ma fa mestieri essere ricchi del frutto di giustizia, che è quanto dire delle opere giuste e sante, senza delle quali la fede è morta. L’Apostolo ha cura di ricordarci un’altra verità, che per lui si ripete sì spesso, ed è, che sì la fede come le opere della fede, i frutti di giustizia, si debbono sempre ripetere dalla grazia, della quale Gesù Cristo è fonte: Per Jesum Chrìstum. E mentre tutto deriva a noi da Gesù Cristo, tutto poi è anche rivolto a lode e gloria di Dio, termine ultimo di tutte le opere sue e nostre. 

Graduale   
Ps 132:1-2
Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!
[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]
V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron. [È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps 113:11
Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est.
Allelúja. [Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt XXII:15-21
In illo témpore: Abeúntes pharisaei consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.
[In quel tempo: Adunatisi, i Farisei tennero consiglio per sorprendere Gesú nel suo parlare. Gli mandarono i loro discepoli con gli Erodiani a dirgli: Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo la verità, e non hai riguardo per alcuno, poiché non guardi alla persona degli uomini: dicci il tuo parere: è lecito o no pagare il tributo a Cesare? Ma Gesú, conoscendo la loro malizia, rispose: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un denaro. E Gesú disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Ed allora Gesú: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXII, 15-21)

Restituzione.

“Rendete a Cesare ciò ch’è di Cesare, ed a Dio ciò che è di Dio”. E questa la saggia, la divina risposta colla quale Cristo Signore confuse la malizia de’ Farisei. Si presentarono questi innanzi a Lui con meditata idea di perderLo in forza delle sue stesse parole, e così si fecero ad interrogarLo: “Maestro, noi sappiamo quanto siete veritiero, Voi non avete umani rispetti, non siete accettator di persone: diteci dunque: è lecito pagare a Cesare il tributo?” Se Gesù rispondeva di no, urtava gravemente con Cesare; se di sì, tiravasi addosso l’odio dei più zelanti della Sinagoga, che, come popolo sotto l’immediato dominio di Dio, pretendevano non esser soggetti a tributo verso la secolare potestà. Gesù Cristo, che scopre la trama, “Mostratemi, dice, la moneta destinata a tributo”. “Al vederla: “di chi è quest’impronta?” soggiunge. Rispondono: “di Cesare”. “Rendete, adunque, conchiude, quel che è di Cesare a Cesare, e a Dio quel che è di Dio”. –  “Reddite ergo quæ sunt Cæsaris Cæsari, et quæ sunt Dei Deo”. Un’opportuna riflessione è da farsi su queste parole del divin Redentore: perché nel suo rispondere antepone Cesare a Dio? Perché non disse piuttosto; rendete a Dio quel che è di Dio, e a Cesare quel che è di Cesare? Ecco, se mal non mi avviso il perché: Iddio non accetterà giammai l’omaggio che a Lui dobbiamo, se da noi non vengano prima adempiuti i nostri doveri col prossimo. Fra questi doveri i principali sono quel di giustizia, ed un fra questi dei più essenziali è la restituzione dell’altrui roba. Di questa restituzione sono a tenervi ragionamento, e passo senza più a dimostrarvi due impossibilità in questo genere. Impossibilità di salvarsi per chi non restituisce, sarà la prima; impossibilità ordinariamente parlando di restituire, sarà la seconda. La prima è assoluta, la seconda è morale. Uditemi attentamente.

I. Che sia assolutamente impossibile il salvarsi per chi non restituisce la roba altrui è cosa definita nelle divine Scritture. Annovera l’apostolo quei che non entreranno al possesso del Regno dei Cieli, e fra questi i ladri, “neque fures Regnum Dei possidebunt” (1 Cor. VI, 10). Ora un ingiusto ritentore dell’altrui roba è un vero ladro, e per conseguenza è escluso dal Regno dei cieli. – In un sol caso ha eccezione questa saldissima regola; allora quando l’iniquo usurpatore dell’altrui sostanze si trovi in istato di stretta impotenza. Se costui abbia animo disposto e volontà decisa di restituire potendo, e in questa disposizione lo colga la morte, egli si salverà, come appunto si salvò il buon ladro, che nella fiducia in Gesù Crocifisso, e nella contrizione del suo cuore ebbe o espressa, o implicita volontà di risarcire, se avesse potuto, i danni delle sue ruberie. Fuor di questo unico caso, per chi non restituisce non v’è salvezza:Non remittitur peccatum, nisi restituatur ablatum” (S. Agost.). – Ragioniamo per maggior chiarezza su questo proposito. Il suo voler restituire è lo stesso che chiudersi la porta del cielo. Quali sono i mezzi più validi ad entrar in cielo? Scegliamone alcuni dei principali, vale a dire, la preghiera, la limosina, la confessione sacramentale. Or tutti questi mezzi per se stessi efficacissimi son resi inutili da chi far non vuole la debita restituzione. Inutile la preghiera. Servi del Signore, alzate pure le vostre mani in mezzo al Santuario, dice il Re Salmista (Ps. CXXXIII), e sarete benedetti dal Fattore del cielo e della terra. Tutto l’opposto a chi tiene fra le mani la roba d’altri. Con che coraggio, dice a costoro Iddìo sdegnato, stendete a me le vostre mani supplichevoli, e al tempo stesso grondanti di umano sangue? Toglietevi dinanzi al mio cospetto, Io non vi ascolto: “manus enim vestræ sanguine plenae sunt” (Is. I, 15), sangue di vedove spogliate, sangue di assassinati pupilli, sangue di poveri oppressi, sangue d’operai non soddisfatti, sangue di creditori traditi. Se seguiterete a pregarmi con queste mani piene di sangue, ben lontano dall’esaudirvi, non vi degnerò neppure d’uno sguardo: “avertam oculos meos a vobis, non exaudiam”. – Inutile la limosina. Ha tanta virtù e tanta forza la limosina, che giunge a liberarci dalla morte, non dalla temporale morte, ma dalla morte spirituale ed eterna: “elemosyna a morte liberat” (Tob. XII, 9); poiché da questa doppia morte ci preserva, se siam vivi alla grazia, e se siamo morti pel grave peccato è efficace a muovere il cuor di Dio ad accordarci quelle grazie che ci faccian rivivere, che ci conducano a vera penitenza, che ci portino all’eterna vita. Tutto ciò corre assai bene per tutta sorta di peccatori, ma non per quelli che ingiustamente ritengono la roba altrui. “A questi, dice il Signore, onora Iddio con dar in limosina quel che è tuo, ma non già quello che ad altri appartiene”: “Honora Dominum de tua substantia(Prov. III, 9). Quel tanto che dai in limosina non è tuo; dallo a chi tu devi per titolo di rigorosa giustizia. Mi piace la limosina, ma più mi piace l’adempimento del mio dovere. La limosina alcuna volta è atto spontaneo di liberale elezione: la restituzione è sempre atto indispensabile di rigorosa giustizia. – Inutile infine la confessione. O voi, accostandovi al tribunale di Penitenza, manifestate l’obbligo che vi corre di restituire, o no. Se lo tacete, vi aggravate di un enorme sacrilegio; se lo confessate, il sacro ministro non può astenervi, se voi potendo non restituite. Il confessore in questo Sacramento ha la potestà o immediata o delegata d’assolvervi da ogni peccato, da ogni eresia, da ogni scomunica: ha la facoltà di sciogliervi da qualunque voto; così che se aveste a Dio promessa qualunque somma di denaro da distribuirsi ai poveri, o da applicarsi alla Chiesa, egli del tutto può dispensarvi da questo voto, o commutarlo in altra obbligazione; ma trattandosi d’obbligo di restituire, egli ha le mani legate, non può sciogliervi, non può disobbligarvi per alcun modo dalla medesima somma, bisogna restituire. – Dirò di più: Dio, Dio stesso, sebbene abbia di tutte le cose il supremo universale dominio, e possa trasferire da uno in altro il dominio d’ogni cosa, come già usò con gli Ebrei nell’uscir dall’ Egitto; pure di legge ordinaria e secondo la presente provvidenza non può dispensarvi da quella obbligazione, ch’Egli stesso v’impose; perché all’uso della sua padronanza si oppone la sua fedeltà e la veracità delle sue divine parole; onde convien conchiudere: o restituire, o dannarsi.

II. Dall’assoluta impossibilità di salvarsi senza la restituzione, passiamo a vedere l’impossibilità morale di restituire. Per morale impossibilità s’intende una somma difficoltà. A dimostrarvela notiamo una viva espressione del real Salmista. “Alcuni, dice egli (come sono i ladri, gli usurai, i prepotenti) si mangiano viva la povera gente, in guisa che divorano il pane: “Devorant plebem meam sicut escam panis” (Ps. XIII, 4). Il pane, o altro qualunque cibo, dalla mano portato alla bocca, e dalla bocca allo stomaco in forza del natural calore, si cangia in sangue, che si dirama in tutte le parti del corpo. Andate ora a cavar dalle vene quel cibo tramutato in sangue. Non altrimenti la roba tolta per furto o per usura, o posseduta di mala fede, si consuma in uso proprio, si confonde con le proprie sostanze, e passata così come in sangue e sostanza della persona e della famiglia, difficilmente si può estrarre, acciò ritorni alle mani del suo padrone. – Vediamolo in pratica. “So che devo restituire, dice colui, ma non già se restituendo io venga a decader dal mio stato”. Vi rispondono i Teologi: “se al vostro stato presente siete asceso per vie torte, per scale false, per frodi, per ingiustizie, voi siete tenuto a restituire anche col vostro decadimento. Come! siete innalzato sulle altrui rovine, e pretendete star sempre in alto calpestando le stesse rovine? No, no, dovete discender giù, la vostra altezza non è legittima, il vostro stato è affatto simile a quello di un assassino arricchito dell’altrui spoglie, ed è eguale in quello e in voi la necessità di restituire. – Se poi prima dei vostri latrocini eravate in possesso d’uno stato giustamente acquistato, consultate gli stessi Teologi, e vi diranno concordemente che se volete salvarvi conviene restringervi, bisogna con prudente risparmio e con studiosa economia troncare le spese superflue, giuochi, pompe, mode, cacce, conviti, splendidi trattamenti non sono più per voi finché con questa doverosa parsimonia non abbiate saldato i conti, e i debiti che avete col prossimo; poiché i vostri creditori, e tutti i da voi danneggi hanno diritto a tutto ciò che non è necessario al vostro onesto e discreto sostentamento. Ma qui sta appunto la difficoltà in adattarsi ad un restringimento economico per mettere da parte il superfluo al proprio stato, e restituire così il mal tolto, e riparare i cagionati danni. Eppure è indispensabile questa misura per chi si vuol salvare. Fingete che nei giorni del diluvio, quando Noè assegnava nell’arca il suo posto ad ogni specie d’animali, il leone, avvezzo ad aggirarsi per selve e per foreste, avesse rifiutato restringersi in una buca, e l’aquila, solita a spaziare nei vasti seni dell’aria, avesse ricusato racchiudersi in una gabbia, l’uno e l’altra sarebbero periti in quell’acque mortifere. È questa una figura di quel che a voi accadrà non restringendovi nel vostro trattamento, onde il superfluo vi porga un mezzo alla tanto necessaria restituzione. – “Io poi, dice un altro, voglio restituire, ma al presente non posso, restituirò alla prima raccolta”. Viene la raccolta, si toccano danari; ma questi abbisognano per farsi un abito, questi altri per coltivare quel terreno, per far un acquisto vantaggioso, e per cento altri bisogni in famiglia, e si ripete: per ora non posso. E così di tempo in tempo, di anno in anno si differisce, si prolunga or con uno, or con altro pretesto, e col dire restituirò, si palpa la coscienza, si fa tacere il rimorso, o si addormenta per modo che riduce tante anime al punto di morte col carico d’una restituzione non fatta, e per lo più impossibile a farsi. Di due obbligati alla restituzione fanno menzione le divine Scritture. Uno è Zaccheo, l’altro Antioco. Zaccheo pubblicano, visitato dal Salvatore e convertito davvero, dice a Gesù Cristo: “se qualcuno è stato da me defraudato, io restituisco sul momento”, – “si quid aliquem defraudati, reddo quadruplum(Luc. XIX, 8). Non dice, renderò, darò, restituirò, dice “reddo, restituisco subito, quel che dice lo manda ad effetto. Antioco per l’opposto, che aveva rubati i sacri vasi al tempio, promette che li renderà moltiplicati, ma queste promesse se le porta il vento (1 Macc. IX). Non si legge che desse alcun ordine o in voce o in iscritto, che si riparasse quel sacrilego spogliamento: si contentò abbondare di parole e di promesse, ma questa restituzione di lingua non bastò a salvarlo dalle mani dell’Onnipotente, non poté lo scellerato ottenere misericordia dal Signore. L’ottenne Zaccheo usuraio, e l’ottenne in tanta ampiezza, che egli e l’intera sua casa furono da Dio benedetti e salvati. Il perché già l’abbiamo veduto, perché pronto restituì sull’istante: “reddo quadruplum”. Si potrebbe qui domandare: “E perché Zaccheo restituì quattro volte tanto della roba tolta?” Ecco: Zaccheo da molti anni esercitava l’usura. In tanto tempo chi poteva calcolare i danni da lui cagionati a tante persone, a tante famiglie? Il danno primo della roba tolta, e l’ingiusta ritenzione della medesima, porta per l’ordinario dannosissime conseguenze, e perciò Zaccheo ravveduto volle restituire il quadruplo, “reddo guadruplum”. A queste conseguenze pochi fanno riflessione. Riflettete voi, se mai foste nel caso. Nel tempo che ingiustamente tenete roba o danaro del vostro prossimo, egli non può far uso del fatto suo: quel danaro, che sta in vostre mani, si potrebbe metterlo a traffico, potrebbe con quello coltivare la sua terra, ristorare la sua fabbrica, pagar i suoi debiti, comperare il necessario a prezzo più mite; e voi con restituire il puro capitale credete avere pienamente soddisfatto? Inganno, miei cari, inganno! Ma che dico, restituire il puro capitale? Con tanti danni cagionati per vostra colpa vi lusingate appagare la vostra sinderesi, soddisfare il prossimo, placar Dio, con dire e tornare a dire: restituirò. Oh “restituirò” infelice e seduttore, oh restituzione immaginaria, quant’anima porti all’impenitenza finale, all’eterna dannazione! – Deh per carità, fedeli amatissimi, rendete possibile almen per voi questa restituzione, che per gli altri è moralmente impossibile, attese le fallaci scuse, e i mendicati pretesti, coi quali l’uomo tenace studia ingannarsi, e perdersi per un fatale attacco alla roba, e per un più fatale accecamento differire la restituzione ad un incerto futuro. ”Reddite, dunque, se v’è cara la vostra salute, ve ne scongiuro con le parole dell’Apostolo, rendete a ciascuno, e senza dilazione, quel che di giustizia gli dovete”: “Reddite ergo omnibus debita” (Ad Tim. 1, IV,8). “Reddite”, vi ripeto colle parole di Gesù Cristo nell’odierno Vangelo, “Reddite ergo quæ sunt Cæsaris Cæsari, et quæ sunt Dei Deo”.

Credo…

Offertorium
Orémus
Esth XIV:12; 14:13
Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis.
[Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta
Da, miséricors Deus: ut hæc salutáris oblátio et a própriis nos reátibus indesinénter expédiat, et ab ómnibus tueátur advérsis. [offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia. ]

Communio
Ps XVI:6
Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.
[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole. ]

Postcommunio
Orémus.
Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium: [Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

AMORE DEL PROSSIMO

Amore del prossimo.

[G. Bertetti: I tesori di San Tommaso d’Aquino – SEI ed. Torino, 1918]

1. Amore che dobbiamo avere per tutti gli uomini del mondo, indistintamente. — 2. Amore che dobbiamo avere per alcuni uomini in particolare. — 3. Amore verso i nemici. — 4. Amore verso i peccatori. — 5. Eroismi d’amore (De perfect. Vitæ spirit., c. 13 e t 14; — De cantate, art. 7, 8, 9; — Sent., 3, dist. 28, art. 4; dist. 29, art. 6; dist. 30, art. 1-4; — S. Th, 2 a 2ae, q. 25, art. 6; q. 26, art. 11; — in Matth., 9).

1. Amore che dobbiamo avere per tutti gli uomini del mondo, indistintamente. — Essendo Dio il bene universale esistente sopra di noi, la perfezione dell’amore verso Dio richiede che tutto il cuor dell’uomo in qualche modo si volga a Dio, perciò la misura dell’amore verso Dio s’esprime convenientemente con queste parole: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore ». Invece il nostro prossimo non è un bene universale esistente sopra di noi, ma un bene particolare costituito sotto di noi: e perciò non ci si determina la misura d’amare il prossimo con tutto il cuore, sebbene d’amarlo come noi stessi. Il nostro amore per il prossimo deve avere tre qualità: vuol essere vero, giusto, santo.

Amor vero. — Amare una persona per l’utilità che a noi possa derivarne non è un amarla come noi stessi: perché amiamo naturalmente noi stessi per davvero volendo il bene a noi stessi. Così dobbiamo amare il prossimo, desiderando il suo bene, la sua utilità, il suo diletto: e non desiderando da lui il nostro vantaggio e il nostro diletto. Chi cerca dal prossimo il bene utile o dilettevole, non ama il prossimo, come non ama precisamente se stesso, ma ama l’utile e il diletto: s’ama il prossimo nella stessa guisa che amiamo il cavallo e il vino, a cui non desideriamo il bene che desideriamo a noi stessi; ma piuttosto desideriamo di far nostro ciò che di buono essi hanno. Amar il prossimo come noi stessi vuol dire adunque amarlo di quel vero amore che si trova nella carità cristiana: poiché la carità procede « da un cuor puro, da una buona coscienza, da fede non simulata » (la Tim., 1, 5); l a carità «non cerca il proprio interesse», ma il bene di quegli che ama.

Amor retto. — Se amiamo il prossimo come noi stessi, gli desidereremo i beni nello stesso ordine onde li dobbiamo a noi desiderare: anzitutto i beni spirituali, poi i beni corporali, finalmente i beni esteriori. Desiderare al prossimo beni esteriori contro la salute del corpo, o beni del corpo contro la salute dell’anima, non è un amarlo come noi stessi.

Amor santo. — Santo è l’amore che s’ordina verso Dio, come sommo principe di tutti gli uomini, come fonte di beatitudine, come legislatore di tutta la giustizia. E poiché ciascun uomo deve considerarsi come una parte della comunità per cui tutti gli uomini convengono nel fine della beatitudine; e poiché il bene comune di questa grande comunità è Dio stesso in cui consiste la beatitudine di tutti: secondo la retta ragione e l’istinto di natura ciascuno ordina se stesso in Dio, come la parte s’ordina al bene del suo tutto. Questo si compie mediante la carità, per cui l’uomo ama se stesso per amor di Dio. Quando adunque amiamo il prossimo per amor di Dio, lo amiamo come noi stessi, e di qui l’amore diviene santo; « e questo comandamento ci è stato dato da Dio: che chi ama Dio, ami anche il proprio fratello» (la IOANN., 4, 21) . Vero, retto, santo dev’esser il nostro amore per il prossimo. Ma l’amore non si nutre solo d’affetto: vuole anche l’effetto; l’amore vuol essere efficace e operoso. Nessuno si contenta d’amare se stesso augurandosi che gli vengano tutti i beni e che se ne stiano lontani tutti i mali: ma ognuno si studia con tutte le forze di procacciarsi i beni e di tener lontani da sé i mali. Ebbene, noi ameremo il prossimo come noi stessi, se non solo con l’affetto gli desidereremo il bene e l’allontanamento del male, ma all’affetto faremo seguire l’effetto con l’efficacia delle opere. Perciò sta scritto: « Figliolini miei, non amiamo in parole e con la lingua, ma con l’opera e con verità » (la JOANN., 3, 18).

2. Amore che dobbiamo avere per alcuni uomini in particolare.

— Il precetto della carità non ci obbliga ad amare in atto e in modo speciale qualsiasi prossimo e a fargli del bene in modo speciale. A nessuno basterebbero le forze per pensare a tutti gli uomini e ad amarli tutti in atto e in modo speciale; a nessuno basterebbero le forze per far del bene e render servizi a tutti in particolare. La carità non ci obbliga né a uno speciale affetto di cuore né a uno speciale effetto d’opere verso chi non è congiunto a noi da qualche vincolo speciale, salvo quando lo vedessimo in necessità d’essere soccorso e non potesse aver soccorso da altri. Siam però tenuti da quell’affetto e da quell’effetto di carità, che ci porta ad amar tutti e a pregar per tutti, siam tenuti a non escludere neppur uno di coloro che non hanno con noi alcun vincolo speciale, come quei che sono nell’India o nell’Etiopia. Siam poi tenuti ad amare e a beneficare in modo speciale chi ci è unito per qualche ragione speciale d’amore. Essendo tutti i beni dell’uomo ordinati alla beatitudine eterna come a ultimo fine, l’amor di carità comprende sotto di sé tutte le affezioni umane, salvo quelle che si fondano sul peccato, il quale non può essere ordinato alla beatitudine eterna. In tal modo la carità ci comanda atti particolari di queste affezioni lecite e oneste: e quanto più profonde saranno queste affezioni, tanto più sensibili saranno gli effetti della carità. « Non potendo tu giovare a tutti, devi provvedere principalmente a quelli che, per ragione di luogo, di tempo o di qualsiasi altra cosa, ti sono per avventura più strettamente congiunti; ed è per te una fortuna che ci sia qualcuno a te più intimamente legato nelle cose temporali, per far cadere su di esso la scelta nelle tue opere di carità » ( S. AGOSTINO, De doctr. christ., 1, 28). Per altro, la carità inclina l’animo nostro in proporzione della necessità che abbiamo di tendere in Dio, come a nostro ultimo fine. A tale scopo ci è anzitutto necessario l’aiuto di Dio; poi la nostra cooperazione; in terzo luogo, la cooperazione del prossimo; infine, solo a mo’ di strumento, il nostro corpo e ciò ch’è necessario al nostro corpo. Perciò il nostro affetto sarà dalla carità inclinato in guisa da farci amare anzitutto e principalmente Dio, poscia noi stessi, in terzo luogo il prossimo, e fra i prossimi chi ci è più congiunto e che da natura è più atto ad aiutarci nella consecuzione del nostro fine. – Dunque secondo l’affetto e secondo l’effetto la carità vuole che sopra gli altri amiamo i nostri congiunti: « che se uno non ha cura dei suoi e massimamente di quei della sua casa, ha rinnegato la fede ed è peggiore d’un infedele » (1a Tim., V, 8). Dobbiamo amare noi stessi più degli altri; dunque quanto più uno è vicino a noi, tanto più dobbiamo amarlo. E in questo ci conformiamo a Dio, perché amiamo quelli che son più uniti a noi, come anche Dio ama di più quelli che son più uniti a lui.

3. Amore verso i nemici. — Dio è l’oggetto proprio e per se stesso della carità; e tutto ciò che s’ama di carità, s’ama perché è cosa di Dio: come quando amiamo un uomo, amiamo per conseguenza anche coloro che gli appartengono, fossero pure nostri nemici. Ora tutti gli uomini appartengono a Dio, perché tutti furono da lui creati e tutti son capaci di quella beatitudine che consiste nel godimento di Dio. In tutti gli uomini adunque si rinviene questa ragione d’amore. Due cose pertanto noi troviamo in chi ha per noi qualche inimicizia: una, la ragione dell’amore, ossia quello che s’appartiene a Dio; l’altra la ragione dell’odio, ossia quello che è contrario a noi. In qualunque uomo noi troveremo questa duplice ragione d’amore e d’odio, è evidente che, se noi tralasceremo l’amore e ci appiglieremo all’odio, la ragione dell’odio prepondererà nel nostro cuore sulla ragione d’amore, l’inimicizia prepondererà sull’amore divino; e noi più di quanto amiamo Dio odieremo l’amicizia del nostro nemico, e tanto più odieremo questa amicizia quanto più ameremo il bene che c’è stato sottratto dal nostro nemico. Chiunque pertanto odia il nemico, ama qualche bene creato più di quanto ami Dio: il che è contrario alla carità. Dunque contrario alla carità è odiare il nemico. Dunque se dalla carità siamo obbligati a far preponderare in noi l’amor di Dio sull’amore di qualsiasi altra cosa, ne segue che da necessità di precetto siamo tenuti ad amare i nostri nemici. – Ma poiché la carità non ci obbliga ad amare i n modo speciale quei che non sono a noi uniti con vincoli speciali, e poiché coi nemici più nessun altro vincolo ci tiene avvinti, fuorché quello della carità, l’obbligo è soltanto di amarli, e con l’affetto e con l’effetto, in modo comune. Perciò, quanto all’affetto, noi dobbiamo desiderare ai nemici i beni eterni; ma non siamo obbligati ad augurar loro beni temporali. Anzi, richiedendo l’ordine di carità che amiamo noi stessi più degli altri, i congiunti più degli estranei, gli amici più dei nemici, il bene comune di molti più che il bene privato d’un solo, noi possiamo, senza offender la carità, augurar qualche male temporale ad alcuno, e godere se questo male gli accade; non in quanto è male toccato a costui, ma in quanto un tal male serve a impedire il male d’altri che siamo tenuti maggiormente ad amare, oppure il male della comunità o della Chiesa. – Quanto all’effetto siamo tenuti a cooperare anche coi nemici, come con qualsiasi altro uomo, in quelle cose che riguardano la vita eterna, secondo che il tempo, il luogo, il modo lo richiedono; siamo tenuti a non escluderli dalle nostre preghiere, senz’essere però obbligati a farne speciale menzione, come non siamo obbligati a farla neppure per gli amici. Così pure non siamo obbligati a cooperare coi nemici nei beni temporali, salvo il caso di necessità imminente: non dobbiamo però far loro del male, se non in quanto serva a impedire un male maggiore o a promuovere un bene maggiore.

4. Amore verso i peccatori. — Il peccato è contrario a Dio, ed è ostacolo alla beatitudine eterna. Perciò, secondo il peccato con cui essi fanno contro a Dio, son da odiarsi tutti i peccatori, anche il padre, la madre, i congiunti, (Luc., 14, 26). « Ho odiato gl’iniqui» (Ps. CXVIII, 113), diceva Davide, e lo diceva con perfetta carità. Odiava gl’iniqui come iniqui; ne odiava l’iniquità, ch’è il loro male. Questo è l’« odio perfetto », di cui dice lo stesso Davide: « gli odiai con odio perfetto » (Ps. CXVIII, 22). S’appartiene al medesimo ordine di cose, e ha la medesima ragione d’esserci, l’odiare il male d’alcuno e l’amare il suo bene. Appartiene alla carità e l’amore perfetto e l’odio perfetto. Ma se dobbiamo odiare nei peccatori il peccato, dobbiamo in pari tempo amare in essi la natura umana, per cui son fatti a immagine di Dio e son capaci di beatitudine eterna. Soltanto i demoni e i dannati dell’inferno non hanno più la possibilità di pervenire alla beatitudine eterna; una tal possibilità ce l’hanno tutt’i peccatori fin quando sono in vita. E quantunque sia proprio dell’amicizia il godere dei medesimi diletti, non perciò si deve sciogliere subito l’amicizia per chi da buono è diventato cattivo, fin quando c’è speranza di rinsavimento; anzi bisogna porgergli per il riacquisto della virtù maggior soccorso di quel che gli si porgerebbe per il riacquisto del denaro perduto. Amiamo i peccatori, non già volendo ciò ch’essi vogliono o godendo di ciò ond’essi godono; ma facendo in modo ch’essi vogliano ciò che noi vogliamo e godano di ciò onde noi godiamo. Aver però famigliarità coi peccatori allo scopo di convertirli, è cosa lodevole soltanto per gli uomini perfetti, di cui non c’è a temer pericolo di perversione: così il Signore, medico superiore a ogni pericolo di contagio, usava mangiare e bere coi pubblicani e coi peccatori. È cosa invece da evitarsi per gli uomini deboli nella virtù: a cagione appunto del pericolo prossimo di rovina spirituale in cui verrebbero a trovarsi. Quando poi certi peccatori cadono nell’estremo della malizia e diventano insanabili, allora bisogna troncar con essi ogni famigliarità. In questo ci dà esempio la legge divina e umana, le quali condannano a morte quei peccatori, da cui si presume piuttosto l’altrui danno che la loro emendazione. E il giudice li colpisce, non per odio contro di essi, ma per quell’amore di carità che ci fa anteporre il bene pubblico alla vita d’una singola persona. Tuttavia la morte inflitta dal giudice giova al peccatore, se si converte, a fargli espiare la colpa; e se non si converte, a fargli mettere almeno il colmo alle sue iniquità, togliendogli la possibilità di commettere altre colpe. – S’eviti pure la compagnia di quei peccatori pieni di superbia e di disprezzo, che dicono col loro contegno: « Alla larga da me, che non m’imbratti » (ISA., 65, 5). Talora, lo scansar i peccatori ci è suggerito dalla stessa loro utilità, affinché si vergognino e si convertano, come scrisse l’Apostolo: « Lo dico per farvi arrossire» ( l a Cor., VI, 5). Sempre poi e da tutti si deve fuggire la compagnia dei peccatori, quando fosse compagnia di peccato: « Uscite di mezzo ad essi, e separatevene (dice il Signore) e non toccate l’immondo » (2 a Cor., VI, 17).

5. Eroismi d’amore. — Fin qui abbiamo considerato ciò che la carità richiede da tutti per la perfezione dell’amore: vediamo ora ciò che oltrepassa nell’affetto e nell’effetto la comune perfezione, e cade non più sotto il comandamento, ma sotto il consiglio. Quanto all’affetto, la perfezione eroica si distingue dalla perfezione odinaria della carità:

Nell’estensione. — Quanto più s’estende a molti l’amore, tanto più è perfetto. Ebbene l’amore h a nell’estensione tre gradi: Il primo grado consiste nell’amar quelli che ci fecero benefìzi o che sono con noi uniti con qualche vincolo di naturale o di civile parentela; e di questo grado, determinato da legge d’amicizia, dice il Signore: « Se amerete quelli che vi amano, che premio avrete voi? non fanno forse altrettanto anche i pubblicani? E se saluterete solo i vostri fratelli, che cosa fate più degli altri? non fanno forse altrettanto i gentili? » (MATTH., V, 46, 47). – Il secondo grado estende l’affetto anche agli estranei, purché in essi non si rinvenga qualcosa di contrario a noi; e questo grado d’amore è determinato da legge di natura, perché, essendo tutti gli uomini della medesima natura, ogni uomo è naturalmente amico degli altri uomini; e noi naturalmente rimettiamo sul retto cammino chi ha sbagliato strada, solleviamo chi è caduto, e usiamo, anche verso sconosciuti, consimili altri servigi. Ma, poiché l’uomo ama naturalmente se stesso più di qualsiasi altro e naturalmente aborre ciò che s’oppone al suo amor proprio, ne deriva che l’amore speciale dei nemici sfugge ai limiti della natura. – Il terzo grado d’amore s’estende appunto anche ai nemici, secondo le parole del Redentore: « Amate i vostri nemici; fate del bene a quelli che vi odiano » (MATTH., V, 44), e a dimostrare che qui si tratta di perfezione d’amore, conchiude: « Siate dunque perfetti, com’è perfetto il  ch’è nei cieli» (ib., 45). E che ciò sia oltre la perfezione comune l’afferma sant’Agostino: « Queste son cose proprie dei figli perfetti di Dio; a queste cose ogni fedele deve certamente aspirare, a questo affetto deve ciascun fedele trascinar l’animo suo pregando Dio e lottando contro se stesso. Tuttavia un bene sì grande, d’amare i nemici, non è dato a una moltitudine così grande come quella che c’immaginiamo sia esaudita, allorché preghiamo: « Perdona a noi i nostri debiti, come noi perdoniamo ai nostri debitori » (Enchir., 73). Non escludere il nemico dall’amore dovuto a tutti e non conservare in cuore alcun che di contrario a quest’amore generale, è cosa di precetto: ma che il nostro cuore si porti con atti positivi ad amare il nemico, anche fuor del caso di necessità, è cosa di perfezione, che solo può derivare dal divino amore. Poiché, mentre nelle altre affezioni noi siamo spinti ad amare da qualche altro bene, come da benefizi ricevuti, da comunanza di sangue e di patria, nient’altro che Dio solo ci può spingere ad amare i nemici, come creature di Dio fatte a sua immagine e somiglianza, capaci di beatitudine eterna.

2 ° Nell’intensità. — Quanto più intensamente si ama, tanto più facilmente si disprezza il resto per amor della persona amata. Da ciò che l’uomo disprezza per amor del prossimo, possiamo scorgere se vi sia la perfezione dell’amore e assegnare a questa perfezione tre gradi. Primo grado: disprezzare per amor del prossimo i beni esteriori, facendoli servire alle altrui necessità nei casi particolari (la Cor., XIII, 3 ) o spogliandocene del tutto ed erogandoli ai poveri (Cant., VIII, 7). Quest’è il consiglio dato dal Signore al giovane dell’Evangelo: « Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo: vieni e seguimi » (MATTH., XIX, 21). Così pure è perfezione il non ricusare di soffrir danno nei beni esteriori per amor di Dio e del prossimo (Hebr., X, 34; Prov., XII, 26). Si scostano da questo grado di perfezione coloro che non si curano di sovvenire con le loro sostanze alle necessità del prossimo; di qui il rimprovero mosso dall’Apostolo della carità: « Chi avrà dei beni di questo mondo e vedrà il suo fratello nella necessità, e chiuderà le sue viscere alla compassione di lui, come mai avrà ancora la carità di Dio?» (1a JOAN., 3, 17).  Secondo grado: esporre ai travagli il corpo per amor del prossimo, secondo l’esempio dell’Apostolo: « Non mangiammo a ufo il pane di veruno, ma con fatica e stento, lavorando giorno e notte, per non essere d’aggravio ad alcuno di voi » (2a Thess., III, 8). Così è perfezione il non ricusare di soffrir tribolazioni e persecuzioni per amor del prossimo (2a Cor., I, 6; 2a Tim., II, 9). Si scostano da questo grado di perfezione coloro che non sono disposti a rinunziare aver una comodità e a incontrare qualche incomodo per amor del prossimo (AMOS, VI , 4-6; EZECH, XIII, 5). Terzo grado: dare la vita per i nostri fratelli: « da questo abbiam conosciuto la carità di Dio, perché egli ha posto la sua vita per noi: e noi pure dobbiamo porre la vita pei fratelli » (la JOANN., III, 16). Quest’è l’estremo limite dell’amore: « nessuno ha carità più grande della carità di chi dà la sua vita per i suoi amici » (JOAN., 15, 13). Quanto all’affetto della carità, s’osservi che quanto più grandi sono i beni spesi per il prossimo, tanto più perfetto sarà l’amore. Anche qui abbiamo tre gradi. – Primo grado: esercitar opere di misericordia corporali. (MATTH. XXV). – Secondo grado: esercitar opere di misericordia spirituali, che però non eccedono l’umana condizione, come istruire gl’ignoranti, consigliare i dubbiosi, correggere gli erranti (JOB, IV, 3). Terzo grado: dispensare al prossimo beni spirituali e divini che eccedono la natura e la ragione, ossia l’insegnamento delle cose divine, guidar le anime a Dio, la comunicazione spirituale dei sacramenti (Gal., III, 5; 1a Thess., XI, 13; 2a Cor., XI, 2-4). Il dispensare beni siffatti è perfezione tutta singolare di fraterno amore, perché essi ci uniscono al nostro ultimo fine, in cui consiste la somma perfezione dell’uomo. Aumenta questa perfezione di fraterno amore, se i beni sovrannaturali si dispensano non solo a una persona o a due, ma a tutto quanto un popolo: perché, anche secondo i filosofi, il bene della moltitudine è più perfetto e più divino che il bene d’un uomo solo (Ephes., IV, 11; la Cor., XIV, 12).