GREGORIO XVII:
IL MAGISTERO IMPEDITO:
EQILIBRIO DELLA PERSONALITÀ (1)
[Lettera pastorale scritta per la Pasqua del 1964; «Rivista Diocesana Genovese», 1964; pp. 252-268.]
V – Ortodossia
Nel nostro ormai annuale incontro per lettera una considerazione generale ci si impone e ci colpisce: la tendenza a dar valore più alle cose della terra che a quelle del cielo. Voi sapete benissimo che deve accadere il contrario e che se non accade il contrario noi non siamo con Gesù Cristo. Purtroppo, invece, accade. Infatti tutti i timori per la dottrina cattolica di fronte alla scienza o alle vicende umane provengono in realtà dal fatto che si dà a questa piccola esperienza degli uomini e alla loro parola – la scienza è anche parola – un valore maggiore ed una fiducia maggiore di quella che si dà alle cose ed alle parole di Dio. La sociologia sfasata di taluni anche cattolici e perfino sacerdoti dipende dal fatto che la situazione terrestre è per loro assai più importante della situazione celeste. Così nella dottrina si è arrivati, sottilissimamente, a dare più importanza alla personalità umana che non alla legge ed all’ordine ai quali essa deve essere moralmente sottoposta. Il materialismo moderno tende a distruggere il valore della persona umana, soprattutto nel campo sociologico. Ma la verità è che gli errori non si combattono con altri errori e alle esagerazioni non si contrappongono
altre esagerazioni. Le sfasature circa la persona umana sono l’oggetto della nostra presente lettera. Noi non facciamo nomi, noi non prendiamo di mira nessuno, noi vogliamo solo correggere alcune esagerazioni sottili circa questo ultimo punto; lo sentiamo entrare in discorsi di perfetta buona fede ed è proprio questo che ci impressiona, perché è gran cosa quando l’uomo in errore ha coscienza di errare, ma è sommo pericolo quando l’uomo onesto, che è convinto di fare il bene, in realtà sta nell’errore e là radica persino il suo zelo. Noi esamineremo serenamente una serie di proposizioni che ritornano nei detti, negli scritti e nei fatti, affinché tutti possano tempestivamente aprire gli occhi e capire quali gravi conseguenze possono dipendere da impostazioni erronee od imprecise su questo punto. Prima che taluno possa credere il contrario, professiamo la nostra fede nella dottrina cattolica sulla persona umana; ci sentiamo al seguito di san Tomaso d’Aquino in tutto e quelli che hanno memoria buona dei nostri umili scritti sanno che siamo sempre stati difensori della umana personalità e restiamo senza tentennamenti. Solo che la persona alla quale crediamo e per la salvezza della quale Cristo si è fatto uomo, non è «parallela» all’ordine divino, non è autonoma rispetto alla legge, non è supremo criterio di ogni fatto giuridico e morale. Il discorso sta qui e solamente qui.
- Esame della proposizione seguente: «La personalità umana è il punto di riferimento di tutto». – Questa proposizione, se è relativa soltanto, potrebbe essere vera. Ma generalmente non è usata così. Noi la esaminiamo nel senso deleterio.
1) Cominciamo dalle idee chiare. La persona umana è il soggetto distinto (autonomo) che sussiste in una natura intelligente. L’autonomia è la caratteristica della persona; infatti questa «sua distinzione» da qualunque altro essere la circoscrive e la definisce nella sua identità. La autonomia diventa concreta solo se la si concepisce in un «soggetto», tanto che la persona è di fatto un soggetto distintamente sussistente in concreto. Noi siamo delle persone. Abbiamo una natura intellettuale, siamo soggetti sussistenti in essa, usiamo il possessivo «mio», abbiamo la coscienza di una autonomia nel nostro essere e nel nostro operare e, raziocinando, da questa autonomia noi deduciamo quanto costituisce il diritto, le proprietà, la nostra libertà. Ed è pertanto che il discorso ci riguarda e non è affatto estraneo alla nostra vita. Noi stiamo parlando di noi e la «persona» è ciascuno di noi. – La personalità è il valore morale della persona, la sua più assicurata distinzione, la sua più perfetta efficienza. Non si tratta pertanto, allorché si parla di persona e personalità, di due cose diverse; in fondo si parla della stessa cosa, ma il secondo termine accentua un aspetto. Data questa spiegazione non è necessario ci sentiamo di qui innanzi costretti a spiegare sempre perché si usi l’uno o l’altro termine. La questione che ora abbiamo in oggetto è la seguente: se la persona sia criterio assoluto per giudicare di tutto. Osserviamo bene come stanno le cose. – La persona è creata da Dio. Pertanto, come dipende nella creazione da Dio, dipende dalla divina conservazione tanto nel suo essere che nel suo operare. Non è causa prima di se stessa. Dunque è astretta alla legge divina intesa nel senso più universale e, siccome fa parte della legge divina l’«ordine» nel quale essa vive, è limitata naturalmente da questo «ordine» che fa parte della legge di Dio. È cosa stranissima che si confonda «autonomia» con assenza di «limiti». E un errore, per di più, grave. Dunque la persona si riferisce a Dio; non è criterio «ultimo» di alcuna cosa, è subordinata moralmente ad una legge anche se ha la libertà di contravvenire alla legge. La persona sarà dunque solamente criterio «relativo» e «subordinato», mai assoluto. Ci rimane a vedere in che senso ed entro quali limiti la personalità è un criterio relativo e subordinato ai principi sommi or elencati. Anzitutto è «criterio» quello che serve per giudicare. Ora il concetto di persona serve per giudicare nel modo seguente. È criterio subordinato, non primo, ed è subordinato alla legge e a un ordine intero stabilito da Dio. E poi, ovviamente, «principio e criterio», sempre subordinatamente agli altri veri principi nelle cose di cui la persona è origine. La «persona» è origine della libertà, della proprietà ugualmente personali, del «diritto» a cui essa dona vita. Non oltre e subordinatamente. È ovvio che non è necessario e non è morale ammainare ogni bandiera davanti al concetto di persona. Si tenga pur conto che la «persona», come principio del diritto di associazione, è anche un criterio maggiore in materia sociale, ma là v i trova tanti diritti quanti doveri.
2) Veniamo ora a parlare della «personalità». Abbiamo già detto del valore lessicale del termine, ma non è male precisare ulteriormente. La personalità è la persona vista piuttosto sotto l’aspetto morale. Che significa questo? Se teniamo conto del linguaggio comunemente corrente, la parola «personalità» indica la persona, in quanto ha doti morali che la dignificano o meno, in quanto rifulge o meno di doti caratteristiche, che la distinguono tra gli altri, in quanto ha un particolare esercizio della sua libertà ed in quanto ha più o meno un alone di decoro e dignità. Tutti questi elementi sono sempre intesi, in qualche modo, quando si parla di personalità. E ovvio che il termine personalità rappresenta un passaggio da concetto metafisico di persona a quello di esso più concreto ed umano. A questo punto bisogna subito uscire da un facile equivoco. Non si distaccherà mai il concetto di persona o personalità da quello di «autonomia e distinzione». Sarà sempre vero che camminando verso il comune e il «trito» ci si allontana dalla personalità, ma sarebbe un errore il credere che la distinzione possa valere a rovescio escludendo di sottostare alla legge di Dio. Dunque non personalità comunque, ma personalità solo nella legge e cioè nella morale. – Ciò chiarito ed affermato, che cosa costruisce la personalità? Non il peccato, non la deformazione, ma la legge. Che cosa propriamente nella legge? La legge impone la verità, la volontà, la forza su cui regge la volontà, e infine la volontà di Dio. Proprio per questo la “Legge” impone la umiltà, espressione concreta della verità, e perché è legge e non un qualsiasi ordine impone il fine e la sua rettitudine. Ora è chiaro il motivo per il quale costanza e coerenza, nobiltà ed elevatezza, ricchezza di azione e di pensiero costruiscono serenamente la vera personalità umana. – Poniamoci un’altra domanda: Gesù non ha parlato di personalità? Il termine non lo ha mai usato e questo dovrebbe essere un certo segno per coloro che del termine amano abusare. Tuttavia ha detto quando avviene che l’uomo è «rilevato», ossia «distinto». Questo suo discorrere può essere ritenuto il vero equivalente del discorso sulla «personalità». Quando, per Gesù, l’uomo è rilevato e distinto? Ecco: quando è perfetto come il Padre, quando agisce perché lo veda il Padre, e non gli altri, quando sa dare l’anima sua per le pecorelle, quando è nel Regno ed è in grado di entrarvi. Quando è veramente in tale situazione e pertanto beato? Quando è col cuore distaccato dai beni terreni, mite, puro di cuore, desideroso della giustizia, capace di sopportare il male, anzi di restituire bene per male, di perdonare, di essere umanamente perseguitato per amore di Lui, di Cristo,… quando sa non servire a mammona,… quando restituisce tutti i suoi talenti maggiorati dagli interessi acquisiti… È veramente interessante afferrare il bandolo del discorso sulla personalità in Gesù Cristo, ed è necessario afferrare quel bandolo per non tradire veramente tutto. Il discorso potrebbe indefinitamente continuare e qui ci si imporrebbe di citare tutto il Vangelo, autentico Vangelo. Una buona volta! Ma qui si divaricano anche nettamente e severamente le vie. Vediamolo subito. La prima via, quella vera, è quella in cui la personalità si riferisce al Crocifisso, perché il Cristo vince ogni orgoglio, dà ogni amore, ogni perdono, prende la Croce e segue Lui, il Signore. Questa è mite e forte, chiara, limpida, costante e coerente, votata ad un servizio e fuori d’ogni esaltazione. – La seconda è quella d’una sistematica adorazione, esaltazione di se stesso, d’una distinzione orgogliosa ad ogni costo, di una sostituzione di sé a Dio per la pretesa di ridurre molte altre cose al criterio proprio invece che a quello di Dio! Si smussino gli angoli quanto si vuole, si dolcifichino i termini fino al contorcimento, non ha importanza. Questo è il vero altro concetto di personalità, quello la cui perfidia sottilmente entra e che nulla ha a che vedere con Gesù Cristo. – Il discorso ci brucia sulle labbra, cari confratelli, e vi assicuriamo che se non fosse il senso della misura, anche nelle lettere, esso durerebbe ancora a lungo! Nessuno di noi può adottare un modo di pensare che regala al mondo degli orgogliosi inutili per tutto e generalmente dannosi. – Ma dopo aver visto i pericolosi equivoci insediati nell’uso di parole dalla innocente apparenza e nell’uso di modi di dire dal sapore correntissimo, non sarà superfluo il richiamo a considerare bene tutto questo, a misurare ed a sostituire al linguaggio coniato dall’umana stravaganza il linguaggio evangelico coniato invece dalla divina e sempiterna saggezza. Anche i modi di parlare hanno la loro importanza, specialmente in un’epoca in cui si aiuta la superficialità, coniando termini coi quali si possono coniugare tutte le idee e tutti i fatti, senza fatica, a valorizzazione della ignoranza e a profitto della confusione.
Ecco un’altra proposizione in esame: «Nella personalità umana c’è quanto occorre a realizzare il piane divino». – Questa proposizione presa come suona è semplicemente pelagiana. Cominciamo allora dal dire le forme nelle quali potrebbe essere intesa con buona pace della ortodossia. Non ne vediamo che una, e cioè quella in cui si sottintenda al testo il termine «potenzialmente», sicché la proposizione suonasse così: «… c’è potenzialmente quanto occorre al piano divino». Appresso ci spiegheremo meglio. – In verità esiste nella natura umana una potenza obbedienziale, e perché la proposizione diventi ortodossa bisogna intendere proprio e solo quella – per la quale si possono ricevere da Dio capacità superiori o alla natura o all’attuale stato. Ma salvo il caso in cui questa potenza obbedienzale non sia realmente assunta da Dio è impossibile che la persona umana attui con le sole sue forze il piano divino. Si osservino bene le seguenti proposizioni, che non sono una nostra opinione, ma sono soltanto proposizioni della dottrina cattolica infallibilmente certa. – « L’Uomo, dopo il peccato originale, non è in grado di osservare a lungo sostanzialmente tutta la legge, senza la grazia» (Cfr. Concilio di Cartagine, DS. 227); – «l’uomo giusto ornato della grazia santificante non può senza speciale privilegio evitare lungamente tutti i peccati veniali» (Cfr. Concilio di Cartagine, DS. 228-230): – «l’uomo non può da se stesso prepararsi senza grazia all’inizio della fede ed alla giustificazione» (Cfr. Concilio di Orange DS. 371 segg.). – «La perseveranza finale è legata ad uno speciale aiuto di Dio». – Queste proposizioni sono ben note a chi ha studiato teologia e si trovano in qualunque testo approvato della medesima. Ora, chiediamo: come è possibile dire che nella persona umana c’è quanto occorre a costruire un ordine divino, quando neppure c’è quanto occorre, evidentemente, a costruire un ordine umano? Infatti come è pensabile tra uomini liberi un ordine completo, senza perfezione morale? E proprio di questa è stato rivelato agli uomini che non vi è possibilità senza l’intervento della grazia di Dio. – L’argomento è chiaro e chiuso, ma ha conseguenze di somma importanza e lo vedremo. Il pelagianesimo non è morto e talvolta ritorna sotto speciose apparenze. In fondo si tratta di valutare o meno tutto l’ordine soprannaturale di Dio e di afferrare che per l’ordine umano, senza l’ordine soprannaturale, non resta che la «nemesi» così bene capita dalla acutissima intelligenza greca. Per il resto lasciamo le conseguenze che in questo argomento, tanto per l’errore come per la verità, si hanno in tutti i campi.
III. Ecco una proposizione, che viene sottilmente presentata o che è presupposto taciuto di molte affermazioni:
«La personalità umana ha tali risorse da costituire qualcosa di parallelo all’ordine soprannaturale». –
Questa proposizione è grave. Cominciamo a parlare del «parallelo». La parallela è relativa ad un’altra, della quale tiene la direzione e con la quale, proiettata all’infinito, non s’incontra mai. Lasciamo andare il «quantum» in questa affermazione entra nel discorso solamente come metafora. La sostanza di questo «parallelo» sta nell’affermare la sufficienza e la possibile autonomia di un ordine umano basato sulla persona e sta nella negazione di una dipendenza di necessità. Essa in qualche modo rende Cristo estraneo al mistero del mondo. – Cominciamo dall’ultimo. Affermare che un ordine umano può essere completo — e parliamo dello stato di natura decaduta – senza la elevazione soprannaturale è affievolire la necessità della Redenzione e della simultanea elevazione all’ordine soprannaturale. Queste diventerebbero sotto un aspetto solo un prezioso aggeggio. La incarnazione del Verbo sarebbe uno stupendo e divino pleonasmo, rispetto alla storia dell’umanità. Affermare che un ordine umano è per sé sufficiente è arrivare alla stessa ingloriosa conclusione, perché si tratta di affermazione equivalente. Perché mai tanto dramma, tanta preparazione biblica, tanto sconcerto, per qualcosa di supererogatorio? Anche qui, vi pare poco? Ci si può dire che noi prendiamo le parole in senso stretto. Ma non è forse quello che si deve fare, quando si intende «ragionare?» – Il concetto di un ordine «personale», che sia parallelo e pertanto sullo stesso piano di quello soprannaturale, è idea che distrugge tanto il soprannaturale quanto la necessità di esso. E la tenebra che cala su tutto. Vorremmo che l’aspetto negativo di questa terribile proposizione vi fosse ben chiaro e che tale chiarezza impedisse per sempre la introduzione di essa anche in dosi omeopatiche e dalla apparente innocenza. – Finalmente non possiamo chiudere la considerazione della tesi sopra enunciata senza rendervi avvertiti che facilmente la proposizione viene estesa a campi apparentemente neutri. Essi sono la educazione, l’arte, la cultura. State attenti: non c’è educazione senza uomo. Tutte queste cose seguono la sorte dell’uomo e della persona umana. Se la medesima è subordinata, siccome abbiamo dimostrato, ed è limitata dalla legge divina, se è insufficiente a comporre un ordine anche solamente umano perfetto, nessuna di queste cose saranno superiori all’uomo. Pensarle come realtà a sé stanti che se ne passeggino per la storia umana è fuori della realtà. Legate all’uomo, sono come lo è lui, subordinate e limitate, e come lui hanno necessità della redenzione. Il tentativo del nuovo illuminismo, di creare aree di indipendenza dal Salvatore, si dimostra così, come è in realtà, al tutto falso.
IV. Vogliate considerare questa equivoca proposizione:
«La personalità conferisce alla coscienza il carattere di dettame supremo, valutativo di ogni altra realtà».
Questa proposizione può essere presa con un certo sforzo in senso giusto. Lo vedremo subito. Ma può essere presa in senso al tutto falso e lo vedremo appresso. Di qui l’equivoco. Nulla è pericoloso come quello che, a seconda dei casi, può enunciarsi con verità e può enunciarsi con sottaciuta falsità. Vediamo dunque come stanno le cose. Il termine sul quale occorre puntare tutta la attenzione è il termine di «coscienza». Essa infatti appare qui come una identificazione della personalità giudicante senza appello. La coscienza morale – è quella di cui si parla – altro non è se non la intelligenza personale in quanto giudica della moralità o meno di una propria azione in concreto. E intanto chiaro che la coscienza è una dote ed uno strumento della persona. È altrettanto chiaro che, per la sua stessa funzione di giudicare della moralità, è subordinata e non svincolata dalla legge. Volerla dunque ridurre ad una sorta di coscienza di sé astratta e presuntuosa è mettersi fuori della realtà obiettiva. La coscienza può benissimo trasformarsi in un esagerato giudizio di sé e pertanto in un presuntuoso dettame per chi sa che cosa, ma in tal caso non è più la coscienza; è un’altra cosa e porta il nome di uno dei sette peccati capitali. – Della coscienza morale autentica questo è importante: che è il nostro immediato dettame di azione nel comportamento concreto. E immediato e cioè l’ultimo a decidere se fare o non fare, se fare bene o fare male. Ma è l’ultimo non in ordine di dignità, sebbene in ordine di vicinanza: non ne abbiamo altro dentro di noi, perché per dire diverso bisognerebbe pensare ad interventi illuminativi divini, che non appartengono al vivere ordinario. Sia ben chiaro che cosa significa «ultimo dettame e regola immediata»: significa che è l’ultimo tribunale d’appello dentro di noi, ma non significa affatto né che sia indipendente, né che non debba attenersi a qualcosa che sia fuori di essa e fuori di noi. Il punto è delicatissimo e veniamo subito al suo nucleo. – A quali condizioni la coscienza personale è la «regola prossima della moralità?». Nessuno creda che lo sia così facilmente, per le ragioni già sopra dette. Lo è infatti soltanto quando l’intelligenza ha assolto queste condizioni: giudica delle cose che sono nel suo abituale ordine sufficientemente chiare, o meglio che sono a livello della sua levatura; ha cercato di procacciarsi con tutti i mezzi onestamente disponibili le nozioni atte per giudicare bene, secondo la importanza e la complessità delle questioni; ha la prudenza di ponderare e di saper dubitare, naturalmente senza scivolare alla coscienza scrupolosa ed ossessionata. – Se esiste il termine di «coscienza» esiste pure quello di coscienza «informata e no», «certa e dubbia», «vera e falsa», «lassa e severa»: tutti questi termini sono ammonitori per chi volesse usare in modo presuntuoso o avventato del dettame di coscienza. Vorremmo piuttosto annotare che è la umiltà quella che permette la migliore informazione di coscienza, perché dubita, chiede consiglio, studia, accetta il responso delle persone sagge, cerca anzi il loro intervento e non è mai tronfia di infallibilità e di sussiego, senza prudenza e senza temperanza. – Si è sentito parlare facilmente degli obbiettori di coscienza e teoricamente possono esistere, però, quando l’obbiettore di coscienza è uno contro milioni, fa temere di appartenere piuttosto ai presuntuosi che agli obbiettori. Ecco i termini in fondo semplici della questione. E facile dire «la mia coscienza mi dice»; ma non è facile far sì che la coscienza dica in quella forma per cui merita ed ha la pace di Dio!
[Continua …]