Amore del prossimo.
[G. Bertetti: I tesori di San Tommaso d’Aquino – SEI ed. Torino, 1918]
1. Amore che dobbiamo avere per tutti gli uomini del mondo, indistintamente. — 2. Amore che dobbiamo avere per alcuni uomini in particolare. — 3. Amore verso i nemici. — 4. Amore verso i peccatori. — 5. Eroismi d’amore (De perfect. Vitæ spirit., c. 13 e t 14; — De cantate, art. 7, 8, 9; — Sent., 3, dist. 28, art. 4; dist. 29, art. 6; dist. 30, art. 1-4; — S. Th, 2 a 2ae, q. 25, art. 6; q. 26, art. 11; — in Matth., 9).
1. Amore che dobbiamo avere per tutti gli uomini del mondo, indistintamente. — Essendo Dio il bene universale esistente sopra di noi, la perfezione dell’amore verso Dio richiede che tutto il cuor dell’uomo in qualche modo si volga a Dio, perciò la misura dell’amore verso Dio s’esprime convenientemente con queste parole: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore ». Invece il nostro prossimo non è un bene universale esistente sopra di noi, ma un bene particolare costituito sotto di noi: e perciò non ci si determina la misura d’amare il prossimo con tutto il cuore, sebbene d’amarlo come noi stessi. Il nostro amore per il prossimo deve avere tre qualità: vuol essere vero, giusto, santo.
Amor vero. — Amare una persona per l’utilità che a noi possa derivarne non è un amarla come noi stessi: perché amiamo naturalmente noi stessi per davvero volendo il bene a noi stessi. Così dobbiamo amare il prossimo, desiderando il suo bene, la sua utilità, il suo diletto: e non desiderando da lui il nostro vantaggio e il nostro diletto. Chi cerca dal prossimo il bene utile o dilettevole, non ama il prossimo, come non ama precisamente se stesso, ma ama l’utile e il diletto: s’ama il prossimo nella stessa guisa che amiamo il cavallo e il vino, a cui non desideriamo il bene che desideriamo a noi stessi; ma piuttosto desideriamo di far nostro ciò che di buono essi hanno. Amar il prossimo come noi stessi vuol dire adunque amarlo di quel vero amore che si trova nella carità cristiana: poiché la carità procede « da un cuor puro, da una buona coscienza, da fede non simulata » (la Tim., 1, 5); l a carità «non cerca il proprio interesse», ma il bene di quegli che ama.
Amor retto. — Se amiamo il prossimo come noi stessi, gli desidereremo i beni nello stesso ordine onde li dobbiamo a noi desiderare: anzitutto i beni spirituali, poi i beni corporali, finalmente i beni esteriori. Desiderare al prossimo beni esteriori contro la salute del corpo, o beni del corpo contro la salute dell’anima, non è un amarlo come noi stessi.
Amor santo. — Santo è l’amore che s’ordina verso Dio, come sommo principe di tutti gli uomini, come fonte di beatitudine, come legislatore di tutta la giustizia. E poiché ciascun uomo deve considerarsi come una parte della comunità per cui tutti gli uomini convengono nel fine della beatitudine; e poiché il bene comune di questa grande comunità è Dio stesso in cui consiste la beatitudine di tutti: secondo la retta ragione e l’istinto di natura ciascuno ordina se stesso in Dio, come la parte s’ordina al bene del suo tutto. Questo si compie mediante la carità, per cui l’uomo ama se stesso per amor di Dio. Quando adunque amiamo il prossimo per amor di Dio, lo amiamo come noi stessi, e di qui l’amore diviene santo; « e questo comandamento ci è stato dato da Dio: che chi ama Dio, ami anche il proprio fratello» (la IOANN., 4, 21) . Vero, retto, santo dev’esser il nostro amore per il prossimo. Ma l’amore non si nutre solo d’affetto: vuole anche l’effetto; l’amore vuol essere efficace e operoso. Nessuno si contenta d’amare se stesso augurandosi che gli vengano tutti i beni e che se ne stiano lontani tutti i mali: ma ognuno si studia con tutte le forze di procacciarsi i beni e di tener lontani da sé i mali. Ebbene, noi ameremo il prossimo come noi stessi, se non solo con l’affetto gli desidereremo il bene e l’allontanamento del male, ma all’affetto faremo seguire l’effetto con l’efficacia delle opere. Perciò sta scritto: « Figliolini miei, non amiamo in parole e con la lingua, ma con l’opera e con verità » (la JOANN., 3, 18).
2. Amore che dobbiamo avere per alcuni uomini in particolare.
— Il precetto della carità non ci obbliga ad amare in atto e in modo speciale qualsiasi prossimo e a fargli del bene in modo speciale. A nessuno basterebbero le forze per pensare a tutti gli uomini e ad amarli tutti in atto e in modo speciale; a nessuno basterebbero le forze per far del bene e render servizi a tutti in particolare. La carità non ci obbliga né a uno speciale affetto di cuore né a uno speciale effetto d’opere verso chi non è congiunto a noi da qualche vincolo speciale, salvo quando lo vedessimo in necessità d’essere soccorso e non potesse aver soccorso da altri. Siam però tenuti da quell’affetto e da quell’effetto di carità, che ci porta ad amar tutti e a pregar per tutti, siam tenuti a non escludere neppur uno di coloro che non hanno con noi alcun vincolo speciale, come quei che sono nell’India o nell’Etiopia. Siam poi tenuti ad amare e a beneficare in modo speciale chi ci è unito per qualche ragione speciale d’amore. Essendo tutti i beni dell’uomo ordinati alla beatitudine eterna come a ultimo fine, l’amor di carità comprende sotto di sé tutte le affezioni umane, salvo quelle che si fondano sul peccato, il quale non può essere ordinato alla beatitudine eterna. In tal modo la carità ci comanda atti particolari di queste affezioni lecite e oneste: e quanto più profonde saranno queste affezioni, tanto più sensibili saranno gli effetti della carità. « Non potendo tu giovare a tutti, devi provvedere principalmente a quelli che, per ragione di luogo, di tempo o di qualsiasi altra cosa, ti sono per avventura più strettamente congiunti; ed è per te una fortuna che ci sia qualcuno a te più intimamente legato nelle cose temporali, per far cadere su di esso la scelta nelle tue opere di carità » ( S. AGOSTINO, De doctr. christ., 1, 28). Per altro, la carità inclina l’animo nostro in proporzione della necessità che abbiamo di tendere in Dio, come a nostro ultimo fine. A tale scopo ci è anzitutto necessario l’aiuto di Dio; poi la nostra cooperazione; in terzo luogo, la cooperazione del prossimo; infine, solo a mo’ di strumento, il nostro corpo e ciò ch’è necessario al nostro corpo. Perciò il nostro affetto sarà dalla carità inclinato in guisa da farci amare anzitutto e principalmente Dio, poscia noi stessi, in terzo luogo il prossimo, e fra i prossimi chi ci è più congiunto e che da natura è più atto ad aiutarci nella consecuzione del nostro fine. – Dunque secondo l’affetto e secondo l’effetto la carità vuole che sopra gli altri amiamo i nostri congiunti: « che se uno non ha cura dei suoi e massimamente di quei della sua casa, ha rinnegato la fede ed è peggiore d’un infedele » (1a Tim., V, 8). Dobbiamo amare noi stessi più degli altri; dunque quanto più uno è vicino a noi, tanto più dobbiamo amarlo. E in questo ci conformiamo a Dio, perché amiamo quelli che son più uniti a noi, come anche Dio ama di più quelli che son più uniti a lui.
3. Amore verso i nemici. — Dio è l’oggetto proprio e per se stesso della carità; e tutto ciò che s’ama di carità, s’ama perché è cosa di Dio: come quando amiamo un uomo, amiamo per conseguenza anche coloro che gli appartengono, fossero pure nostri nemici. Ora tutti gli uomini appartengono a Dio, perché tutti furono da lui creati e tutti son capaci di quella beatitudine che consiste nel godimento di Dio. In tutti gli uomini adunque si rinviene questa ragione d’amore. Due cose pertanto noi troviamo in chi ha per noi qualche inimicizia: una, la ragione dell’amore, ossia quello che s’appartiene a Dio; l’altra la ragione dell’odio, ossia quello che è contrario a noi. In qualunque uomo noi troveremo questa duplice ragione d’amore e d’odio, è evidente che, se noi tralasceremo l’amore e ci appiglieremo all’odio, la ragione dell’odio prepondererà nel nostro cuore sulla ragione d’amore, l’inimicizia prepondererà sull’amore divino; e noi più di quanto amiamo Dio odieremo l’amicizia del nostro nemico, e tanto più odieremo questa amicizia quanto più ameremo il bene che c’è stato sottratto dal nostro nemico. Chiunque pertanto odia il nemico, ama qualche bene creato più di quanto ami Dio: il che è contrario alla carità. Dunque contrario alla carità è odiare il nemico. Dunque se dalla carità siamo obbligati a far preponderare in noi l’amor di Dio sull’amore di qualsiasi altra cosa, ne segue che da necessità di precetto siamo tenuti ad amare i nostri nemici. – Ma poiché la carità non ci obbliga ad amare i n modo speciale quei che non sono a noi uniti con vincoli speciali, e poiché coi nemici più nessun altro vincolo ci tiene avvinti, fuorché quello della carità, l’obbligo è soltanto di amarli, e con l’affetto e con l’effetto, in modo comune. Perciò, quanto all’affetto, noi dobbiamo desiderare ai nemici i beni eterni; ma non siamo obbligati ad augurar loro beni temporali. Anzi, richiedendo l’ordine di carità che amiamo noi stessi più degli altri, i congiunti più degli estranei, gli amici più dei nemici, il bene comune di molti più che il bene privato d’un solo, noi possiamo, senza offender la carità, augurar qualche male temporale ad alcuno, e godere se questo male gli accade; non in quanto è male toccato a costui, ma in quanto un tal male serve a impedire il male d’altri che siamo tenuti maggiormente ad amare, oppure il male della comunità o della Chiesa. – Quanto all’effetto siamo tenuti a cooperare anche coi nemici, come con qualsiasi altro uomo, in quelle cose che riguardano la vita eterna, secondo che il tempo, il luogo, il modo lo richiedono; siamo tenuti a non escluderli dalle nostre preghiere, senz’essere però obbligati a farne speciale menzione, come non siamo obbligati a farla neppure per gli amici. Così pure non siamo obbligati a cooperare coi nemici nei beni temporali, salvo il caso di necessità imminente: non dobbiamo però far loro del male, se non in quanto serva a impedire un male maggiore o a promuovere un bene maggiore.
4. Amore verso i peccatori. — Il peccato è contrario a Dio, ed è ostacolo alla beatitudine eterna. Perciò, secondo il peccato con cui essi fanno contro a Dio, son da odiarsi tutti i peccatori, anche il padre, la madre, i congiunti, (Luc., 14, 26). « Ho odiato gl’iniqui» (Ps. CXVIII, 113), diceva Davide, e lo diceva con perfetta carità. Odiava gl’iniqui come iniqui; ne odiava l’iniquità, ch’è il loro male. Questo è l’« odio perfetto », di cui dice lo stesso Davide: « gli odiai con odio perfetto » (Ps. CXVIII, 22). S’appartiene al medesimo ordine di cose, e ha la medesima ragione d’esserci, l’odiare il male d’alcuno e l’amare il suo bene. Appartiene alla carità e l’amore perfetto e l’odio perfetto. Ma se dobbiamo odiare nei peccatori il peccato, dobbiamo in pari tempo amare in essi la natura umana, per cui son fatti a immagine di Dio e son capaci di beatitudine eterna. Soltanto i demoni e i dannati dell’inferno non hanno più la possibilità di pervenire alla beatitudine eterna; una tal possibilità ce l’hanno tutt’i peccatori fin quando sono in vita. E quantunque sia proprio dell’amicizia il godere dei medesimi diletti, non perciò si deve sciogliere subito l’amicizia per chi da buono è diventato cattivo, fin quando c’è speranza di rinsavimento; anzi bisogna porgergli per il riacquisto della virtù maggior soccorso di quel che gli si porgerebbe per il riacquisto del denaro perduto. Amiamo i peccatori, non già volendo ciò ch’essi vogliono o godendo di ciò ond’essi godono; ma facendo in modo ch’essi vogliano ciò che noi vogliamo e godano di ciò onde noi godiamo. Aver però famigliarità coi peccatori allo scopo di convertirli, è cosa lodevole soltanto per gli uomini perfetti, di cui non c’è a temer pericolo di perversione: così il Signore, medico superiore a ogni pericolo di contagio, usava mangiare e bere coi pubblicani e coi peccatori. È cosa invece da evitarsi per gli uomini deboli nella virtù: a cagione appunto del pericolo prossimo di rovina spirituale in cui verrebbero a trovarsi. Quando poi certi peccatori cadono nell’estremo della malizia e diventano insanabili, allora bisogna troncar con essi ogni famigliarità. In questo ci dà esempio la legge divina e umana, le quali condannano a morte quei peccatori, da cui si presume piuttosto l’altrui danno che la loro emendazione. E il giudice li colpisce, non per odio contro di essi, ma per quell’amore di carità che ci fa anteporre il bene pubblico alla vita d’una singola persona. Tuttavia la morte inflitta dal giudice giova al peccatore, se si converte, a fargli espiare la colpa; e se non si converte, a fargli mettere almeno il colmo alle sue iniquità, togliendogli la possibilità di commettere altre colpe. – S’eviti pure la compagnia di quei peccatori pieni di superbia e di disprezzo, che dicono col loro contegno: « Alla larga da me, che non m’imbratti » (ISA., 65, 5). Talora, lo scansar i peccatori ci è suggerito dalla stessa loro utilità, affinché si vergognino e si convertano, come scrisse l’Apostolo: « Lo dico per farvi arrossire» ( l a Cor., VI, 5). Sempre poi e da tutti si deve fuggire la compagnia dei peccatori, quando fosse compagnia di peccato: « Uscite di mezzo ad essi, e separatevene (dice il Signore) e non toccate l’immondo » (2 a Cor., VI, 17).
5. Eroismi d’amore. — Fin qui abbiamo considerato ciò che la carità richiede da tutti per la perfezione dell’amore: vediamo ora ciò che oltrepassa nell’affetto e nell’effetto la comune perfezione, e cade non più sotto il comandamento, ma sotto il consiglio. Quanto all’affetto, la perfezione eroica si distingue dalla perfezione odinaria della carità:
1° Nell’estensione. — Quanto più s’estende a molti l’amore, tanto più è perfetto. Ebbene l’amore h a nell’estensione tre gradi: Il primo grado consiste nell’amar quelli che ci fecero benefìzi o che sono con noi uniti con qualche vincolo di naturale o di civile parentela; e di questo grado, determinato da legge d’amicizia, dice il Signore: « Se amerete quelli che vi amano, che premio avrete voi? non fanno forse altrettanto anche i pubblicani? E se saluterete solo i vostri fratelli, che cosa fate più degli altri? non fanno forse altrettanto i gentili? » (MATTH., V, 46, 47). – Il secondo grado estende l’affetto anche agli estranei, purché in essi non si rinvenga qualcosa di contrario a noi; e questo grado d’amore è determinato da legge di natura, perché, essendo tutti gli uomini della medesima natura, ogni uomo è naturalmente amico degli altri uomini; e noi naturalmente rimettiamo sul retto cammino chi ha sbagliato strada, solleviamo chi è caduto, e usiamo, anche verso sconosciuti, consimili altri servigi. Ma, poiché l’uomo ama naturalmente se stesso più di qualsiasi altro e naturalmente aborre ciò che s’oppone al suo amor proprio, ne deriva che l’amore speciale dei nemici sfugge ai limiti della natura. – Il terzo grado d’amore s’estende appunto anche ai nemici, secondo le parole del Redentore: « Amate i vostri nemici; fate del bene a quelli che vi odiano » (MATTH., V, 44), e a dimostrare che qui si tratta di perfezione d’amore, conchiude: « Siate dunque perfetti, com’è perfetto il ch’è nei cieli» (ib., 45). E che ciò sia oltre la perfezione comune l’afferma sant’Agostino: « Queste son cose proprie dei figli perfetti di Dio; a queste cose ogni fedele deve certamente aspirare, a questo affetto deve ciascun fedele trascinar l’animo suo pregando Dio e lottando contro se stesso. Tuttavia un bene sì grande, d’amare i nemici, non è dato a una moltitudine così grande come quella che c’immaginiamo sia esaudita, allorché preghiamo: « Perdona a noi i nostri debiti, come noi perdoniamo ai nostri debitori » (Enchir., 73). Non escludere il nemico dall’amore dovuto a tutti e non conservare in cuore alcun che di contrario a quest’amore generale, è cosa di precetto: ma che il nostro cuore si porti con atti positivi ad amare il nemico, anche fuor del caso di necessità, è cosa di perfezione, che solo può derivare dal divino amore. Poiché, mentre nelle altre affezioni noi siamo spinti ad amare da qualche altro bene, come da benefizi ricevuti, da comunanza di sangue e di patria, nient’altro che Dio solo ci può spingere ad amare i nemici, come creature di Dio fatte a sua immagine e somiglianza, capaci di beatitudine eterna.
2 ° Nell’intensità. — Quanto più intensamente si ama, tanto più facilmente si disprezza il resto per amor della persona amata. Da ciò che l’uomo disprezza per amor del prossimo, possiamo scorgere se vi sia la perfezione dell’amore e assegnare a questa perfezione tre gradi. Primo grado: disprezzare per amor del prossimo i beni esteriori, facendoli servire alle altrui necessità nei casi particolari (la Cor., XIII, 3 ) o spogliandocene del tutto ed erogandoli ai poveri (Cant., VIII, 7). Quest’è il consiglio dato dal Signore al giovane dell’Evangelo: « Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo: vieni e seguimi » (MATTH., XIX, 21). Così pure è perfezione il non ricusare di soffrir danno nei beni esteriori per amor di Dio e del prossimo (Hebr., X, 34; Prov., XII, 26). Si scostano da questo grado di perfezione coloro che non si curano di sovvenire con le loro sostanze alle necessità del prossimo; di qui il rimprovero mosso dall’Apostolo della carità: « Chi avrà dei beni di questo mondo e vedrà il suo fratello nella necessità, e chiuderà le sue viscere alla compassione di lui, come mai avrà ancora la carità di Dio?» (1a JOAN., 3, 17). Secondo grado: esporre ai travagli il corpo per amor del prossimo, secondo l’esempio dell’Apostolo: « Non mangiammo a ufo il pane di veruno, ma con fatica e stento, lavorando giorno e notte, per non essere d’aggravio ad alcuno di voi » (2a Thess., III, 8). Così è perfezione il non ricusare di soffrir tribolazioni e persecuzioni per amor del prossimo (2a Cor., I, 6; 2a Tim., II, 9). Si scostano da questo grado di perfezione coloro che non sono disposti a rinunziare aver una comodità e a incontrare qualche incomodo per amor del prossimo (AMOS, VI , 4-6; EZECH, XIII, 5). Terzo grado: dare la vita per i nostri fratelli: « da questo abbiam conosciuto la carità di Dio, perché egli ha posto la sua vita per noi: e noi pure dobbiamo porre la vita pei fratelli » (la JOANN., III, 16). Quest’è l’estremo limite dell’amore: « nessuno ha carità più grande della carità di chi dà la sua vita per i suoi amici » (JOAN., 15, 13). Quanto all’affetto della carità, s’osservi che quanto più grandi sono i beni spesi per il prossimo, tanto più perfetto sarà l’amore. Anche qui abbiamo tre gradi. – Primo grado: esercitar opere di misericordia corporali. (MATTH. XXV). – Secondo grado: esercitar opere di misericordia spirituali, che però non eccedono l’umana condizione, come istruire gl’ignoranti, consigliare i dubbiosi, correggere gli erranti (JOB, IV, 3). Terzo grado: dispensare al prossimo beni spirituali e divini che eccedono la natura e la ragione, ossia l’insegnamento delle cose divine, guidar le anime a Dio, la comunicazione spirituale dei sacramenti (Gal., III, 5; 1a Thess., XI, 13; 2a Cor., XI, 2-4). Il dispensare beni siffatti è perfezione tutta singolare di fraterno amore, perché essi ci uniscono al nostro ultimo fine, in cui consiste la somma perfezione dell’uomo. Aumenta questa perfezione di fraterno amore, se i beni sovrannaturali si dispensano non solo a una persona o a due, ma a tutto quanto un popolo: perché, anche secondo i filosofi, il bene della moltitudine è più perfetto e più divino che il bene d’un uomo solo (Ephes., IV, 11; la Cor., XIV, 12).