I sette Dolori di Maria V. S S.

[da: G. Bertetti, Il Sacerdote predicatore; S.E.I. Ed. Torino, 1921]

– 1. La profezia di Simeone. — 2. La fuga in Egitto. — 3. Gesù smarrito nel tempio — 4. L’incontro di Gesù che va alla morte. — 5. La morte di Gesù. — 6. La lanciata e la deposizione di Gesù dalla croce. — 7. La sepoltura.

1- LA PROFEZIA DI SIMEONE. — « È posto questo bambino in segno di contraddizione, … e una spada trapasserà l’anima tua » (Luc., II, 34 – 35) … — A queste parole la Vergine vide in modo chiaro e distinto nel futuro tutte le contraddizioni cui sarebbe stato esposto Gesù;… contraddizioni nella dottrina,… nella stima, … nei suoi santissimi affetti,… nell’anima e nel corpo E questa visione dolorosa restò nel cuore di Maria per ben trentatré anni; … e di mano in mano che Gesù cresceva in età, in sapienza, in grazia, tanto più cresceva nel cuore di Maria l’angoscia di perdere un sì caro figlio all’avvicinarsi inesorabile della passione e morte «Il Signore usa questa compassione con noi di non farci vedere le croci che ci aspettano, acciocché, se le abbiamo a patire, almeno le patiamo una volta sola; ma non usò questa compassione con Maria, la quale (perché Dio la volle regina dei dolori e tutta simile al Figlio) ebbe a vedersi sempre avanti gli occhi, e a patire continuamente tutte le pene che l’aspettavano » ( S. ALFONSO, Gl. di Maria).

2. FUGA IN EGITTO. — La profezia di Simeone comincia ad avverarsi … Gesù è appena nato ed è già cercato a morte;… e per salvarlo dalla morte, Maria deve andarsene i n lontano esilio,… in Egitto, … mettendosi per un viaggio lungo, per vie fangose, piene di pericoli — Nell’Egitto la sacra famiglia, forestiera, sconosciuta, senza rendite, senza denari, senza parenti, in quante strettezze sarà vissuta per circa sette anni! … — Nel ritorno dall’Egitto, il viaggio riesce ancor più doloroso,perché Gesù «era così cresciuto che non si poteva portare; ma nello stesso tempo ancor sì giovane da non sostenere il cammino così lungo ». (S. BONAVENTURA)!

3. GESÙ SMARRITO NEL TEMPIO. — « V’è chi dice che questo dolore non solo fu tra i maggiori ch’ebbe Maria in sua vita, ma che fu il più grande ed acerbo di tutti gli altri… Negli altri dolori aveva seco Gesù, … ma in questo dolore patisce lontana da Gesù senza sapere dov’Egli sia… – Degli altri dolori ben ne intendeva Maria la cagione e il fine, cioè la redenzione del mondo, il divino volere; ma in questo non sapeva la cagione della lontananza del Figlio… E chi sa, forse tra sé pensava, se io non l’ho servito come dovevo? se ho commesso qualche negligenza, per cui egli m’ha lasciata?… È certo che non v’ha maggior pena ad un’anima amante di Dio che il timore d’averlo disgustato. E quindi fu che Maria in nessun altro dolore si lamentò fuorché in questo, lagnandosi amorosamente con Gesù dopo che lo rinvenne: « Figlio, perché ci hai tu fatto questo? Ecco che tuo padre ed io addolorati andavamo di te in cerca » (S. ALFONSO, ib.).

4. MARIA INCONTRA GESÙ CHE VA ALLA MORTE. — Pilato era benignamente disposto verso Gesù, … e vincendo la sua viltà l’avrebbe forse salvato dal furore della moltitudine giudaica, se alle preghiere della sua moglie si fossero pure aggiunte quelle della madre di Gesù Eppure, Maria non si muove nelle ore tremende che decidono della vita o della morte del Figlio, perché sa che il Figlio potrebbe da se solo, senza bisogno d’alcuno, liberarsi da’ suoi nemici, e che se si lascia condurre come un agnèllo al supplizio, lo fa spontaneamente, secondo il volere di Dio; … e Maria, anche lei spontaneamente, secondo il volere di Dio, lascia sacrificare il figlio …. Maria si muove, quando già la sentenza è irrevocabilmente data … si muove incontro a Gesù, che sotto il peso della croce s’incammina al Calvario… Lo mira contraffatto e reso quasi irriconoscibile dalle lividure, dalle ferite, dal sangue: … gli sguardi del Figlio e della Madre s’incontrano: … né la Madre né il Figlio svennero per il dolore, perché Dio a maggiori dolori li riservava per la redenzione del mondo… E quelle due anime, eroicamente generose, continuano insieme il cammino alla volta del supplizio.

5. GESÙ MUORE. — Si giunge al Calvario: …. i carnefici spogliano Gesù delle sue vesti,… lo inchiodano,… fermano la croce,., poi lo lasciano morire. Maria allora si fa vicino alla croce, e là rimane ad assistere quel’orribile agonia di tre ore:… « quale spettacolo il vedere il Figlio agonizzare sopra la croce, e sotto la croce veder agonizzare la madre, la quale soffriva tutte le pene che pativa il Figlio! » (S. ALFONSO); … « quel che facevano i chiodi nel corpo di Gesù, operava l’amore nel cuore di Maria » (S. BERNARDO); … « nello stesso tempo che il Figlio sacrificava il corpo, la Madre sacrificava l’anima » (S. BERNARDINO) ….. E non poter dare al figlio nessun sollievo: … anzi sapere che il maggior tormento del Figlio era la presenza della Madre! … L’unico sollievo per la Madre e per il Figlio era il sapere che dai loro dolori ne sarebbe venuta per noi la vita eterna.

6. LA LANCIATA E LA DEPOSIZIONE DI GESÙ DALLA CROCE. — Gesù morendo esclamava: Consummatum est!… Era compiuta la serie dei dolori pel Figlio, non però per la Madre….. Mentr’Ella sta piangendo la morte del Figlio, un soldato vibra la lancia contro Gesù ne apre il costato, e ne esce sangue ed acqua. Il corpo morto di Gesù non soffrì più la lanciata … la soffrì la Madre e se la sentì ripercuotere nel cuore — Ma ecco depongono Gesù dalla croce … il Figlio è reso alla Madre, ma in quale stato!… Prima, era il più bello tra i figli degli uomini, ora è tutto sformato; … prima, innamorava col suo aspetto, ora fa orrore a vederlo. Quando muore un figlio si cerca d’allontanare dal cadavere la madre;… Maria non vuol saperne di togliersi dalle sue braccia quel corpo esangue se non per affidarlo al sepolcro.

7. SEPOLTURA DI GESÙ. — « Ecco già lo portano a seppellire; già s’avvia la dolorosa esequie; i discepoli se lo pongono sulle spalle; gli Angeli del cielo a schiere lo vanno accompagnando; quelle sante donne lo seguitano, e insieme con esse l’addolorata Madre. Vogliono ch’Ella medesima accomodasse il corpo sacrosanto di Gesù nel sepolcro; … in alzare poi la pietra per chiudere il sepolcro dovettero quei discepoli del Salvatore voltarsi alla Vergine e dirle: Or via, Signora, s’ha da coprire il sepolcro abbiate pazienza; guardatelo l’ultima volta e licenziatevi dal vostro Figlio … — Prendono la pietra, e chiudono nel santo sepolcro il corpo di Gesù; … dando un ultimo addio al Figlio e al sepolcro, Maria ritorna alla sua casa » (S. ALFONSO). — « Se ne ritornava così affitta e mesta l a povera Madre, che, dove passava, tutti quei che l’incontravano non potevano trattener le lagrime » (S. BERNARDO) Soltanto il nostro duro cuore non avrà lagrime per Maria?… non piangeremo noi che fummo la causa di tanti dolori?… Ah! se non possono scorrere lagrime sensibili dai nostri occhi, siano almeno lagrime di penitenza le nostre, col fermo proposito di non commettere mai più il peccato: quel peccato che mandò alla morte il nostro Fratello primogenito e trapassò il cuore dolcissimo di Maria, Madre di Gesù e Madre nostra….

STABAT MATER.

[Per cui il Papa Innocenzo XI il 1 Settembre 1681 concesse indulgenza di 100 giorni. Tale indulgenza fu confermata da Pio IX con Rescritto 18 Giugno 1876.]

Stabat Mater dolorosa

Juxta crucem lacrimosa,

Dum pendebat Filius;

 Cujus animam gementem,

Contristatam et dolentem

Pertransivit gladius.

 O quam tristis et afflicta

Fuit illa benedicta

Mater Unigeniti

 Quæ mœrebat et dolebat

Pia Mater dum videbat

Nati pœnas inclyti.

 Quis est homo qui non fleret

Matrem Christi si videret

In tanto supplicio?

 Quis non posset contristari

Christi Matrem contemplari

Dolentem cum Filio?

 Pro peccatis sum gentis

Vidit Jesum in tormentis

Et flagellis subditum,

 Vidit suum dulcem Natum

Moriendo desolatum,

Dum emisit spiritum.

 Eia Mater, fons amoris,

Me sentire vim doloris,

Fac ut tecum lugeam.

 Fac ut ardeat cor meum

In amando Christum Deum,

Ut sibi complaceam.

Sancta Mater, istud agas,

Crucìfixi fige plagas

Cordi meo valide.

 Tui Nati vulnerati

Tam dignati prò me pati,

Pœnas mecum divide.

 Fac me tecum pie flere:

Crucifixo condolere,

Donec ego vixero.

 Juxta crucem tecum stare,

Et me Tibi sociare

In planctu desidero.

 Virgo virginum præclara

Mihi jam non sis amara;

Fac me tecum plangere.

 Fac ut portem Christi mortem;

Passionis fac consortem,

Et plagas recolere

 Fac me plagis vulnerari,

Fac me Cruce inebriari

Et cruore Filii

 Flammis ne urar succensus,

Per te, Virgo, sim defensus

In die Judicii.

 Christi, cum sit hinc exire

Da per Matrem me venire

Ad palmam victoriæ.

 Quando corpus morietur,

Fac ut anima? Donetur

Paradisi gloria. Amen.

[Per gli iscritti alla Arciconfraternita del Cuore Immacolato di Maria, c’è oggi la possibilità di lucrare l’indulgenza plenaria s.c. – v. : Arciconfraternita del Cuore Immacolato//exsurgatdeus.org.]

LA CROCE

LA CROCE

[J. – J. Gaume: “Catechismo di perseveranza”, vol. IV, Torino, 1881]

 Devozione alla Croce. — E noi pure, figli della Chiesa cattolica, noi pure dobbiamo venerare la Croce, come il figlio bennato onora il ritratto del proprio padre, o piuttosto come onora il pegno più affettuoso dell’amor suo. Lasciamo che i mondani a loro talento accusino la Religione di rattristarci incessantemente con il porci dinanzi agli occhi un oggetto funesto. Ingannati! non vorranno mai essi persuadersi che la croce è tutto per il Cristiano fedele, e che gli compendia la bontà, la gloria, la sapienza di Dio? – Dall’alto della Croce Gesù Cristo ha dato la pace alle persone dabbene e anzi tal pace, che l’intero mondo de’ malvagi non potrebbe strappare dal loro cuore; dall’alto di quella Croce il Figlio di Dio, sacrificatore e vittima, invitando a sé tutti i giusti, ravvicinando la terra al cielo e il cielo alla terra, ci ha insegnato a soffrire e a morire. E di quella Croce per mezzo della quale Gesù Cristo ha trionfato della morte, di quella Croce che assegna un premio alla virtù e le assicura la sua immortale ricompensa; di quella Croce, segno di stretto e santo vincolo per tutti quelli che sono battezzati in Gesù Cristo, vale a dire per la più gran parte degli uomini; di quella Croce, io dico, voi vorreste distruggere il culto dell’universo? Ah! se voi amate il genere umano, e se avete una patria, lasciate quella Croce sulla sommità dei palazzi per richiamare alla vita della penitenza i ricchi e i potenti; lasciatela su l’umile tetto del povero per ammaestrarlo alla pazienza e alla rassegnazione; lasciatela a tutti gli uomini perché tutti gli uomini hanno un orgoglio da reprimere, hanno passioni da combattere, e perché ad insegnar loro a stimarsi quanto valgono e a calpestare i vani pregiudizi dell’opinione, non vi ha miglior maestro di Gesù Cristo morente sopra una Croce. – Ma se noi vogliamo che la Croce sia nostro conforto, se vogliamo a lei appressare con amore e fiducia le moribonde nostre labbra, se vogliamo ch’ella protegga la nostra sepoltura, e ci sia un pegno di gloriosa risurrezione, leggiamo spesso in questo libro divino, e imprimiamo profondamente nel nostro cuore le lezioni che vi s’imparano. Colui che vuole acquistare la scienza dei Santi si accosti alla Croce; ivi egli attingerà la più sublime dottrina e le più patetiche lezioni che siano mai state date agli uomini. Gesù Crocifisso è per eccellenza il modello d’ogni virtù, è il libro di vita. San Paolo la studiò esclusivamente perché trovava nella sola Croce tutte le verità che gl’importava di conoscere. Tutti i Cristiani che bramano esser degni dì questo glorioso titolo imitino l’Apostolo e confermino lo stesso principio. Ove mai aveva attinto san Bernardo, domanda un celebre autore, quell’ardente amore di Dio e una si fervorosa devozione? Li aveva attinti nei patimenti del Redentore morto sopra una Croce! Ove aveva sant’Agostino raccolto i lumi che hanno fatto di lui uno dei luminari della Chiesa? Li aveva raccolti nelle piaghe di Gesù, come confessa egli stesso ! Il libro della Croce fu quello che inspirò un amore serafico a san Francesco. E san Tommaso, che in ogni circostanza si prostrava ai piedi del crocifisso, gli andava debitore della sua meravigliosa dottrina. « San Bonaventura, dice san Francesco di Sales, sembra non aver avuto, scrivendo, altra carta che la Croce, altra penna che la lancia, altro inchiostro che il prezioso sangue di Gesù Cristo. Con quanta effusione di amore esclama egli: È utile per noi essere con la Croce! Erigiamo qui tre tabernacoli, uno pei suoi piedi, uno per le sue mani e uno pel suo sacro costato. Qui io mi arresterò, qui veglierò, qui leggerò, qui mediterò avendo costantemente questo libro divino davanti agli occhi per studiare la scienza della salute in tutto il giorno, e perfino nella notte tutte le volte che mi sveglierò ». – Il profeta Giona si riposò deliziosamente all’ombra dell’albero di edera che il Signore aveva preparato per lui. Quale deve esser dunque la gioia d’un cristiano, allorché si riposa all’ombra del legno della Croce? Protetti da questo sacro legno noi possiamo dire: Gioisca pure Giona sotto la frescura di edera; prepari Abramo un ristoro per gli angeli al brezzo della valle di Mambre; sia Ismaele esaudito sotto un albero nel deserto; sia Elia nutrito sotto un ginepro; quanto a noi la nostra consolazione e il nostro giubilo consisteranno nell’abitare in spirito all’ombra della Croce.

INNI ALLA CROCE:
Lustra sex qui jam perégit,
Tempus implens córporis:
Sponte líbera Redémptor
Passióni déditus:
Agnus in Crucis levátur
Immolándus stípite.

Felle potus ecce languet,
Spina, clavi, láncea,
Mite corpus perforárunt,
Unda manat, et cruor:
Terra, pontus, astra, mundus,
Quo lavántur flúmine!

Crux fidélis, inter omnes
Arbor una nóbilis:
Silva talem nulla profert
Fronde, flore, gérmine:
Dulce ferrum, dulce lignum
Dulce pondus sústinent.

Flecte ramos, arbor alta,
Tensa laxa víscera:
Et rigor lentéscat ille,
Quem dedit natívitas:
Et supérni membra Régis
Tende miti stípite.

Sola digna tu fuísti
Ferre mundi víctimam;
Atque portum præparáre
Arca mundo náufrago;
Quam sacer cruor perúnxit,
Fusus Agni córpore.

Sempitérna sit beátæ
Trinitáti glória:
Æqua Patri, Filióque,
Par decus Paráclito:
Uníus, Triníque nomen
Laudet univérsitas.
Amen.

V. Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi.
R. Quia per Crucem tuam redemisti mundum.

Hymnus
Vexílla Regis pródeunt;
Fulget Crucis mystérium,
Qua Vita mortem pértulit,
Et morte vitam prótulit.

Quæ, vulneráta lanceæ
Mucróne diro, críminum
Ut nos laváret sórdibus,
Manávit unda et sánguine.

Impléta sunt quæ cóncinit
David fidéli cármine,
Dicéndo natiónibus:
Regnávit a ligno Deus.

Arbor decóra et fúlgida,
Ornata Régis púrpura,
Elécta digno stípite
Tam sancta membra tángere.

Beáta, cujus bráchiis
Prétium pepéndit sǽculi,
Statéra facta córporis,
Tulítque prædam tártari.

Sequens stropha dicitur flexis genibus.

O Crux, ave, spes única,
In hac triúmphi glória
Piis adáuge grátiam,
Reísque dele crímina.

Te, fons salútis, Trínitas,
Collaudet omnis spíritus:
Quibus Crucis victóriam
Largiris, adde prǽmium.
Amen.

V. Hoc signum Crucis erit in cælo.
R. Cum Dóminus ad judicándum vénerit

IL NOME DI MARIA

IL NOME DI MARIA

[J. J. Gaume: Catechismo di perseveranza; vol, IV, Torino, 1881]

Nella domenica tra l’ottava della Natività si celebra la festa del santo Nome di Maria. Il venerabile servo di Dio, Papa Innocenzo XI con suo decreto dell’anno 1683 stabilì che questa festa, fino a quel tempo tutta propria della Spagna, divenisse di obbligo per la Chiesa universale. [Il santo Papa Pio X la riportò poi al 12 settembre.-ndr.-] In questo precetto sì facile e sì dolce ad essere osservato è d’uopo scorgere una novella testimonianza della gratitudine della Chiesa verso la santa Vergine. La Regina delle vergini si mostrò sempre nemica dichiarata del Maomettismo, materiale religione dei sensi. Nel secolo decimo quinto gli aveva dato a Lepanto un colpo mortale; ma riavutosi in parte, il Maomettismo minacciava di nuovo il Cristianesimo. – Nel 1683 il Gran-Visir a capo di un esercito formidabile piantò l’assedio innanzi a Vienna, uno dei baluardi della Cristianità. Giovanni Sobieski, duce delle legioni Polacche, accorre a difesa della piazza assediata, e nel mattino in cui deve impegnarsi battaglia, mette se stesso e le sue truppe sotto la protezione della Vergine. I soldati stettero in ginocchio, mentre Sobieski ascoltava la Messa nel convento Camaldolese, pregando colle braccia stese in croce. Fu quivi, esclama con profonda verità un guerriero cattolico, che il Gran-Visir fu battuto. All’uscire della chiesa Sobieski dà il segnale dell’attacco: i Turchi sono vinti e fugati; e il vincitore rimasto padrone dello stendardo medesimo di Maometto lo invia al Sommo Pontefice in segno di omaggio verso Maria. – Chi può esprimere abbastanza il rispetto che merita il nome di Maria si possente e insieme sì affettuoso? Apprendiamolo dai secoli cristiani. Primieramente è tradizione che Iddio medesimo lo rivelasse ai genitori della santa Vergine. Pel corso di parecchi secoli fu proibito alle donne e a quelli eziandio di sangue regio, di portare il nome di Maria. Alfonso VI, re di Castiglia, dovendo sposare una principessa Mauritana, alla quale nel battezzarla si doveva imporre un nome, proibì che portasse quello di Maria, benché la donzella ne avesse vivissimo desiderio. Nell’atto degli sponsali della duchessa Maria Luigia di Nevers con Ladislao re di Polonia si convenne che la principessa lascerebbe il nome di Maria, e non conserverebbe che quello di Luigia. Casimiro I, altro re di Polonia, non si contenne altrimenti quando sposò Maria figlia dello Czar di Russia. Da ciò venne il costume, per tanto tempo mantenutosi in Polonia, che niuna donna di qualsivoglia condizione potesse portare il nome di Maria. Or mentre questi esempi ci istruiscono qual venerazione si debba da noi pure conservare verso quel nome augusto, la vittoria di Sobieski c’insegna con quale fiducia dobbiamo pronunziarlo. Suoni adunque di frequente sulle nostre labbra la giaculatoria: O Maria, o nomen sub quo nemini desperandum; « Salve o Maria, nel cui nome non è lecito ad alcuno di dubitare  ».

Sobieski manda al Papa Innocenzo XI il messaggio della vittoria sulla barbarie maomettana dei turchi a Vienna l’11 settembre 1683 [data simbolica, scelta dai “nemici di Dio e di tutti gli uomini” per l’attentato alle torri gemelle … del 2001]

Fu il cappuccino Marco d’Aviano, incaricato dal Santo Padre Innocenzo XI di formare una Santa Lega tra i regnanti cattolici, ad incoraggiare e confortare i soldati ed il popolo viennese, esortandoli ad affidarsi alla Madonna e invocare da Lei la salvezza, mediante la preghiera del Santo Rosario.

Réspice Stellam … voca Mariam

[S. Bernardo. Lodi della Vergine Maria: omelia II; 17]

 

Il versetto si conclude così: Il nome della Vergine era Maria (Lc I, 27). Diciamo brevemente qualche cosa anche su questo Nome che viene interpretato «Stella del mare», e si adatta molto bene alla Vergine Madre. Essa infatti molto opportunamente viene paragonata ad una stella, perché come la stella emette raggi senza alcuna lesione di sé, così la Vergine partorì il Figlio senza danno della sua verginità. Né il raggio diminuisce lo splendore della stella, né il Figlio reca pregiudizio all’ integrità della Madre. Essa è dunque quella nobile stella sorta da Giacobbe, i cui raggi illuminano tutto il mondo, il cui splendore rifulge nei cieli e penetra negli inferi, e avvolgendo tutta la terra, e riscaldando più le menti che non i corpi, alimenta le virtù e distrugge i vizi. Essa è quella stella splendidissima e meravigliosa stella necessariamente elevata sopra questo mare grande e spazioso, radiosa per i suoi meriti, luminosa per i suoi esempi. “O tu che, nell’ondeggiare delle vicende di questo mondo, più che camminare per terra, hai l’impressione di essere sballottato tra i marosi e le tempeste, non distogliere gli occhi dal fulgore di questa stella se non vuoi essere inghiottito dalle onde. Se soffiano i venti delle tentazioni, se t’incagli negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. Se sei sbattuto dai cavalloni della superbia, dell’ambizione, della detrazione, della gelosia, guarda la stella, invoca Maria! Se l’ira, o l’avarizia o la concupiscenza della carne sembrano sconquassare la navicella del tuo spirito, guarda Maria. Se turbato dell’enormità dei tuoi peccati, confuso per la coscienza della tua turpitudine, atterrito al pensiero del tremendo giudizio di Dio, cominci a sentirti risucchiare dal baratro della tristezza, dall’abisso della disperazione, pensa a Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Maria ti sia sempre sulla bocca, sempre nel tuo cuore; e per ottenere l’aiuto della sua preghiera, non cessare di imitarne gli esempi. Seguendo Lei, non andrai fuori strada, pregando Lei non ti verrà meno la speranza, pensando a Lei non sbaglierai. Se Maria ti regge, non cadrai, sotto la sua protezione non avrai timore, se Ella ti guida non ti stancherai, se Ella ti è propizia arriverai; e così sperimenterai in te stesso quanto a proposito sia stato detto: E il nome della Vergine era Maria. … et nomen Virginis Maria!

 

GNOSI: TEOLOGIA DI Satana (3) – LA GNOSI MEDIOEVALE

GNOSI: TEOLOGIA DI Satana (3)

LA GNOSI MEDIOEVALE

La gnosi cristiana, nasce e si sviluppa, come abbiamo visto, per influsso della gnosi ebraica. Appena spunta il Cristianesimo, gli ebrei e poi i falsi kazari, tenendosi sempre dietro le quinte, da marrani geneticamente modificati, tentano di soffocarlo dall’esterno soffiando nel fuoco delle persecuzioni e dall’interno corrompendone la dottrina evangelica, proponendosi come veri depositari della dottrina di Cristo trasmessa loro –dicono misticamente atteggiati- per via iniziatica, tramite l’evangelista Giovanni o altri. Si delinea così il movimento gnostico sedicente cristiano come tentativo di giudaizzare il Cristianesimo mediante la cabbala. – EGESIPPO, venuto alla fede dall’ebraismo, informa del pullulare di sette eretiche e dei loro capi, cominciando da un certo TEOBUTIS, deluso di non essere fatto vescovo, poi SIMONE IL MAGO, CLEOBIO, DOSITEO, GEORTASIOS e altri, provenienti dal giudaismo (sadducei, farisei, samaritani, esseni, ecc). Da questi gruppi furono influenzati MARCIONE, CARPOCRATE, VALENTINO, BASILIDE, SATORNILE e altri degni figuri. La gnosi insinuatasi nella Chiesa primitiva assume l’indole di sincretismo, così come gli infiltrati della 5^ colonna oggi spacciata sfrontatamente col nome di “ecumenismo” in opposizione alla fede trasmessa dagli Apostoli. Contro tale gnosi combattono con i loro scritti teologici i primi Padri della Chiesa: CLEMENTE D’ALESSANDRIA, ORIGENE (samaritano), GREGORIO DI NISSA, EVAGRIO. – La cabbala spuria, come abbiamo già visto nei numeri precedenti, attribuisce a Dio un’esistenza indeterminata tra l’essere e il non essere, tra il bene e il male; Dio si autogenera dal nulla e raggiunge la sua pienezza nell’uomo per ricadere nel suo nulla originario. –Basilide identifica l’Assoluto col nulla. Nella gnosi cristiana entrano affermazioni di monismo, di Pleroma emanato dall’En-Sof (Padre, Abisso, Silenzio, Teosagnotos, ecc.), il dualismo manicheo col duplice principio del bene e del male ed eoni buoni e cattivi, col mito della caduta dello spirito nella materia malvagia e pura apparenza. L’Adam Qadmon è l’uomo tipico, spirituale, scintilla divina immune dal peccato. La saldezza dell’uomo sta nel riconoscersi entità divina, nel liberarsi dalla matèria per rifondersi col Pleroma originario (Risveglio, Risurrezione, Reminiscenza, Illuminazione sulla propria origine e sul proprio destino). Il male, i demoni, i cattivi e l’intera sostanza ilica (la materia) saranno annichiliti dalla vampa finale. La gnosi pseudo-cristiana rispecchia la cabbala nelle sue molteplici versioni, assumendone di volta in volta maschere apparentemente diverse, ma con caratteri immutabili. – A queste idee portanti si mescolano nei singoli capiscuola miti e fantasie che portano ben lontano dalla fede evangelica. Già dall’epoca apostolica alcuni gnostici, come SIMONE IL MAGO (che in seguito si porta a Roma con la sua empia compagna ELENA) e i Nicolaiti incorrono nella condanna degli stessi Apostoli (v. Act. VIII ,14s; Apoc. II, 6-15). – La corrente gnostica si alimenta in alcuni centri di cultura cosmopolita, tra cui primeggia Alessandria, con la scuola pagana di PLOTINO, la scuola giudaica di TELONE e l’insegnamento cristiano di PÀNTENO, CLEMENTE, ORIGENE che combattono vigorosamente lo gnosticismo. – Espulsi dalla Chiesa, gli gnostici cristiani si affiancano agli ebrei e soffiano nel fuoco delle persecuzioni dell’Impero Romano.

I MANICHEI

Verso la metà del terzo secolo, a Babilonia entra nella corrente gnostica MANU (O MANES, MANETE: 215-276), che affida ai suoi seguaci “I Manichei”, un sistema di idee da lui stesso attribuite a Budda, Zoroàstro e Gesù Cristo. Base del sistema manicheo è il dualismo: dall’eternità esistono due opposti princìpi: il Bene e il Male, che è tenebra, materia. Tra i due princìpi si scatenò una grande lotta che ha dato origine alla situazione del mondo in cui bene e male sono mescolati. Compito dell’uomo è liberarsi dall’elemento malvagio e risalire alla luce mediante la conoscenza comunicata da Cristo, di cui Manu si dichiara «apostolo per provvidenza di Dio Padre». I più, come Eva e Caino, trasmettono la vita perpetuando la mescolanza del bene e del male: pochi invece vivono secondo lo spirito liberandosi dell’elemento oscuro e passionale che portano in sé. Occorre evitare ciò che insudicia la bocca (parole cattive), la mano azioni perverse), il corpo (unione sessuale). Questo insegnamento è praticato solo dagli «eletti», mentre i semplici «uditòri» non lo mettono in pratica. [Lo “spirito degli eletti” lo ritroviamo tra l’altro nella falsa formula, blasfema ed eretica, utilizzata per non-consacrare i fanta-vescovi modernisti, formula autorizzata dal marrano-omosex Montini il 18 giugno 1968, per distruggere alla radice la gerarchia, il sacerdozio cattolico, il culto divino ed i sacramenti … che colpo, e tutto in una volta! È giusto che la sinagoga di satana lo canonizzi e lo elevi agli altari di lucifero … chi lo merita più di lui?]. –  Lo spirito degli eletti entrerà subito in paradiso, quello degli uditori passerà di corpo in corpo fino alla piena purificazione, quando bene e male saranno separati per sempre (metempsicosi). Il manicheismo, la più elementare delle costruzioni gnostiche, si diffuse rapidamente dalla Spagna alla Cina, probabilmente tramite viaggiatori ebrei (sembra che lo fosse Manu). Nell’Iran il manicheismo provocò un tentativo di socialismo segnato da enorme sconvolgimento morale. – Il dualismo manicheo affiora con apporti e varianti diverse nelle correnti medioevali dei bogomili, dei paoliziani, dei catari, degli albigesi, ecc.

GLI ARIANI

Ispirandosi alla concezione del Logos che è sapienza creata,« logos demiurgo » dello gnostico Filone, l’ebreo ARIO afferma: «Noi conosciamo un solo Dio, eterno, non generato»; il Logos invece, «gennetos» ossia generato, è sua creatura. Ario quindi nega la divinità di Cristo, la sua consostanzialità col Padre. L’eresia ariana negatrice della divinità di Cristo si diffuse in tutto l’impero romano e tra gli stessi barbari, provocando una delle più gravi crisi della Chiesa. Fu condannata dal concilio di Nicea nel 325. – Essa riaffiora in alcuni settori della Riforma e in modo più subdolo, ma nemmeno tanto nell’attuale modernismo, come più avanti vedremo.

I BOGOMILLI

Nel 313 l’editto di Costantino pone termine alle persecuzioni. Il Cristianesimo diventa religione di Stato, e nel 392 i riti pagani vengono proibiti. La gnosi però percorre la sua strada con un intreccio di correnti che appaiono costantemente collegate: ebrei, costruttori, templari, bogomili, ecc. – Braccati da Diocleziano, i Manichei nel 390 si rifugiano a Bisanzio, dove alla scuola di Paolo da Samosata assumono il nome di Paoliziani, fedeli al dualismo manicheo, e si diffondono in oriente (Siria, Armenia, Frigia) e verso l’occidente. – Deportati in Tracia come guardie di frontiera contro gli slavi e designati col nome di Bulgari o Bogomili questi praticano un dualismo rigido (ordine di Dagutrìa in Dalmazia), oppure mitigato (ordine di Bulgaria), rifiutano il matrimonio fino a castrarsi, e naturalmente il Battesimo, la Croce di Cristo e le immagini. Dalle coste iugoslave si spingono verso la pianura padana e soprattutto nella Francia meridionale, dove verso il mille nasce il movimento dei Catari (= puri).

I CATARI

All’inizio del secondo millennio i catari «nell’età d’oro dei giudei di Oc» (ARMAND DEL LUNEL) si propagano insieme con la cabbala dalla Francia meridionale (Provenza) all’Italia, Spagna, Germania e Inghilterra. Catari e giudei vivono insieme sotto l’egida dei conti di Tolosa e insieme combattono contro la Croce di Cristo. Lo SCHOLEM informa che dalla Linguadoc provengono le prime personalità note come cabbaliste nell’area cristiana, che danno origine alla tradizione cabbalistica di Spagna. – Utilizzando alcune nozioni cristiane, i catari scalzano le fondamenta stesse del Cristianesimo e costituiscono una grave minaccia sociale. Con mentalità manichea, dal dualismo fondamentale traggono l’idea della malvagità della materia, rifiutando il matrimonio e praticando l’ENDURA (suicidio rituale). Loro centro principale fu Albi, donde il nome di Albigesi. – Il movimento cataro medioevale ha origini complesse, non ancora del tutto accertate. Qualche studioso, come J . EVOLA, lo fa risalire all’antico insediamento ario dei Galli, con oscure concezioni panteiste tipiche degli indi, pure di origine ariana, improntate a un dualismo vicino a quello manicheo. Non è da escludersi che tale dualismo sia stato portato o almeno rafforzato da influssi gnostici orientali indotti che occupavano posti considerevoli anche presso Raimondo di Tolosa e altri prìncipi provenzali, sia tramite i Templari implicati nelle vicende del rogo di JACQUES DE MOLAY con la precisa accusa di contaminazioni gnostiche. – La gnosi catara si sviluppa nell’epoca dei Trovatori, cantori dell’amore cavalleresco -che però provocava incidenti matrimoniali come nel caso di quel cavaliere che fece ingoiare alla moglie il cuore arrostito del suo amante, provocando il suicidio di lei -. E l’epoca del Santo graagl. Catari e Albigesi costituiscono un nodo storico di notevole interesse per la diffusione in Europa di notevoli fermenti anticristiani che, insieme con i disordini degli «spirituali», arano il terreno alla riforma protestante. Contro di essi combattono san Bernardo e san Domenico con i suoi «predicatori», in un’attività di vasta evangelizzazione e di repressione dell’eresia per opera dell’Inquisizione. Le accuse contro questa istituzione domenicana (immensamente più mite delle odierne inquisizioni staliniste, maoiste, ecc.), dei tromboni moderno-progressisti sinistroidi, non tengono conto dei mali ben peggiori da essa evitate all’intera Europa.

I TEMPLARI

La documentazione esistente sulle accuse contro i Templari, raccolte in due volumi da M . MICHELET conferma le gravi imputazioni raccolte nei processi del 1307 a Parigi e dai sette commissari pontifici dal 1309 al 1311. Le accuse non furono strappate sotto tortura, ma raccolte mediante un dialogo calmo e rispettoso dalle dichiarazioni di JACQUES DE MOLAY e di un centinaio di cavalieri (così il Michelet e il protestante Wilcke in Storia dei Templari). Neppure furono sottoposti a tortura i 140 cavalieri esaminati da Fra’ Imberto nel 1307, i settantadue cavalieri inquisiti dal Papa e dai cardinali di Poitiers, i grandi ufficiali dell’ordine esaminati ad Avignone, i 231 cavalieri esaminati dai commissari pontifici a Parigi dal 1309 al 1311. Negli interrogatori si esigeva solo il giuramento di verità (CLEMENTE V, bolla Vox in excelso). [Da questi episodi la moderna sinagoga di satana, la franco-massoneria, inserisce nei suoi luciferini riti, le figure del Santo Padre Clemente e dell’apostata De Molay, attori di pittoresche favole blasfeme e referenti di vendette allucinanti.] – I delitti ammessi dagli inquisiti sono stati: bestemmiare e rinnegare Cristo, praticare oscenità al momento dell’iniziazione segreta, adorare Bafomet nelle assemblee segrete, commettere azioni contro natura, confessarsi reciprocamente. Tutte queste azioni furono confessate anche ripetutamente da un centinaio di templari e dallo stesso Molay per lo più con dimostrazioni di pentimento. Queste azioni ebbero luogo in Francia, Inghilterra, Italia e altrove, in modo che la corruzione dei templari apparve estesa e antica: Molay nel 1307 confessava che quarantadue anni prima, quando fu ricevuto nell’ordine, lui pure aveva rinnegato Cristo con un rito osceno introdotto non si sa quanto tempo prima. I Templari medioevali erano eredi di antichissimi segreti iniziatici che risalivano ai templari egizi, dei quali esistono documenti fin dal 1850 a.C. Il loro cosmopolitismo e la loro professione li metteva facilmente a contatto con i cabbalisti, gli gnostici e gli ermetisti, facendo loro accogliere le idee sotterranee del medioevo fomentate soprattutto dagli ebrei. – La massoneria rivendica la propria origine “mitoligoca” dai Templari e ne assume i simboli per il programma di costruzione del tempio umanitario di indole gnostica. La figura di JACQUES DE MOLAY è assunta come monito di segreto e di rivendicazione. – J . Meinvielle scrive: «La grande associazione cabbalistica nota in Europa sotto il nome di massoneria compare improvvisamente nel mondo in momenti in cui la rivolta contro la Chiesa finiva per smembrare l’unità cristiana. Orbene, i massoni hanno per modello i Templari, per padri i Rosacroce, per predecessori i Giovanniti. La loro teologia infernale è quella di Zoroastro e di Ermete». – Sull’argomento “templari” sono state seminate falsità senza numero, assemblate in congerie strampalate di allucinati occultisti ed esoteristi mossi dalla propaganda massonica ed anticlericale dell’anti-Cristianesimo … una vergogna per la moderna pretesa “intellighentia” di matrice satanica.

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI APOSTATI, “ERETICI ACEFALI” DI TORNO: “Il Trionfo” di Pio VII

I Papi in esilio


Pio VII
“Il trionfo”

Prima di leggere e gustare la breve enciclica di S. S. Pio VII, riportiamo una nota storica che di questa è l’antefatto. Ecco la vicenda di uno dei tanti Papi della storia della Chiesa ad essere esiliato ed impedito nelle sue funzioni Pontificali. Questo soprattutto a beneficio di tutti gli “acefali”, tesisti, sedevacantisti, finti-sedeplenisti o scismatici “cani sciolti”, che ritengono che un Papa impedito, che essi chiamano stoltamente “occulto”, non abbia “nota di Cattolicità”. C’è veramente da compiangere certi personaggi che si ritengono … udite, udite … canonisti, senza averne oltretutto alcun titolo! Sembrano piuttosto bambini imbecilli ed in mala fede che giocano al “piccolo teologo” eretico-scismatico. Consideriamo piuttosto le pene e le torture, spesso materiali, o quantomeno spirituali, che questi valorosi Nocchieri della “barca di Pietro” hanno dovuto sopportare per condurre in porto il loro divino Mandato e la “barca” loro affidata tra flutti e tempeste di ogni tipo, e lasciamo che gli “acefali” coltivino i loro deliri fanta-teologici. – “Il trionfo” è scritta in italiano dal legittimo Papa, che trionfante torna ad occupare il Soglio che gli compete; da questa enciclica, noi Cattolici “pausillus grex”, possiamo trarre fiducia che una analoga situazione si ripeta presto, quando i fasulli impostori, i clown-marrani, verranno bruciati dal soffio della bocca di Cristo: … et non prævalebunt!  

Il Papa prigioniero di Napoleone.

[C. Castiglioni: Storia dei Papi, 2^ ediz. vol. II; Torino, 1957- imprim.-]

Pio VII e Napoleone, i due uomini più opposti di carattere, di genio, d’indole, di costumi e di sentimenti, l’agnello e il leone, si trovarono di fronte una seconda volta sul territorio francese. La prima volta il pontefice era accorso in Francia a consacrare l’autorità, la seconda vi fu trascinato vittima di quella autorità che egli stesso aveva consacrata. Il 27 maggio 1809 da Vienna, ove era entrato trionfatore per la seconda volta, Bonaparte, per punire il Pontefice, che non aveva voluto chiudere il porto di Civitavecchia alle navi inglesi ed assecondare in tutto e per tutto le voglie imperiali, con un semplice decreto annetteva all’Impero francese lo Stato pontificio; dichiarava Roma città imperiale e libera, assegnata per residenza al Papa come capo della Chiesa, con la dote annua di due milioni e l’immunità dei Palazzi Apostolici. Mascherava poi l’usurpazione con ragioni storiche e religiose abbastanza speciose. Carlo Magno aveva concesso ai vescovi di Roma quei territori in feudo, perciò Roma e il suo Stato non avevano mai cessato di appartenere all’imperatore francese; il successore di Carlo Magno non faceva che richiamare in vigore i suoi diritti, revocando le donazioni feudali di Pipino e di Carlo. D’altra parte l’unione dell’autorità spirituale e temporale nella stessa persona non poteva essere che sorgente di disordini. Protestò energicamente il pontefice contro il generale Miollis, incaricato dell’esecuzione dell’ordine imperiale, e fece affiggere alle porte delle basiliche la bolla di scomunica (10 giugno), stesa dal padre barnabita Francesco Fontana, contro gli spogliatori della Santa Sede. In Roma serpeggiava grave malcontento contro i Francesi, e il Miollis, temendo un’aperta rivolta, interpretando il pensiero del suo imperatore, ordinò al generale Radet di impadronirsi della persona del Pontefice e del suo segretario, il cardinale Pacca. La notte dal 5 al 6 luglio si diede l’assalto al palazzo del Quirinale, dove viveva ritirato il pontefice, dacché la città era stata occupata militarmente dai Francesi, il 2 febbraio 1808. Scalato il muro del giardino e aperto il portone dall’interno, Radet fece irruzione. Di appartamento in appartamento, abbattendo le porte a colpi di scure, penetrò fino alla camera, ove il Pontefice, in fretta e furia alzatosi da letto, attendeva coi suoi familiari. – La Guardia svizzera, composta di quaranta uomini, s’era schierata nell’anticamera: alla intimazione di resa depose le armi, giacché così aveva ordinato il Pontefice per evitare spargimento di sangue. Il Santo Padre stava ritto nel mezzo della stanza coi cardinali Pacca e Despuig, l’uno alla destra, l’altro alla sinistra; i familiari e i prelati facevano ala. Entra il Radet, che si pone a fronte del pontefice, mentre gli ufficiali gli si allineano ai lati. Momenti solenni di silenzio; i due gruppi di persone si guardano immobili, attoniti. Finalmente il generale, pallido in volto, con voce tremante, annunciava gli ordini di cui egli si diceva esecutore irresponsabile. Il Papa, senza scomporsi, dignitoso e fermo, rispose: « Se ella ha creduto di dover eseguire tali ordini dell’imperatore pel giuramento fattogli di fedeltà e d’obbedienza, s’immagini in qual modo dobbiamo sostenere i diritti della Santa Sede, alla quale siamo legati con tanti giuramenti ». « In questo caso — concluse il generale — io ho l’ordine di condurvi fuori di Roma ». Il Papa, senza prendere altra cosa che il breviario, col cardinale Bartolomeo Pacca si avanza verso la porta. In istrada stava pronta una vettura, sulla quale sono fatti montare. Gli sportelli si chiudono a chiave; Radet balza in serpe col postiglione e via verso Porta Salaria, scortati da gendarmi. Albeggiava appena: alle finestre delle case vicine, che si aprivano all’insolito trambusto, s’intimava dai militi la chiusura irnmediata. – Fuori porta erano pronti i cavalli di posta, e si prese l a via di Toscana. – Il Sovrano di Roma e il suo primo ministro intraprendevano il loro viaggio veramente all’apostolica: non portavano seco non peram in via, neque duas tunicas (Matt. X, 10). In tasca tra tutti e due non contavano che 35 baiocchi! Pio VII aveva già superati i 67 anni, ed era molto sofferente in salute: ma lungo la via dolorosa dell’esilio si consolava pensando al Martire del Golgota: «Noi stiamo bene. Nostro Signore ha sofferto più di quello che noi soffriamo ». La triste notizia del rapimento del Pontefice precorreva lo stesso Rad: le popolazioni si commovevano, e il generale accelerava il viaggio oltre il ragionevole. Dopo Poggibonsi la vettura ribaltò spezzando una ruota; il generale veniva balzato in un pantano, il Papa e il Cardinale sballottati entro la cassa chiusa e rovesciata. Il popolo accorso gemeva ed invocava: «Santo Padre! Santo Padre! »  Schiavato lo sportello, ne uscì il Pontefice, sollevato sulle braccia del popolo, che si affannava a baciargli le vesti e a chiederne la benedizione. Dalla Certosa di Firenze si ripartiva tosto alla volta di Francia: il Cardinale però, veniva separato e per altra via inoltrato in Piemonte. A Sarzana si prese i l mare per San Pier d’Arena; indi per Alessandria e Torino al Cenisio, sostando solo quando era necessario per serbare in vita l’augusto prigioniero. Gli strapazzi del viaggio causarono non pochi svenimenti al povero infermo, tanto che se ne risentì presso il colonnello Brissard, che aveva preso il posto di Radet: «Avete voi ordine di condurmi morto o vivo? Se il vostro ordine è di farmi morire, continuiamo il viaggio; se non è tale, voglio fermarmi ».All’Ospizio del Cenisio sosta di due giorni. Il Pacca raggiunse il Santo Padre e si accompagnò di nuovo con lui fino a Grenoble. Quivi nuova e definitiva separazione, poiché il Cardinale fu tradotto prigioniero nella fortezza di Finestrelle, ove rimase con altri personaggi fino al 5 febbraio 1815. Il Santo Padre per Valenza, Avignone, Nizza, raggiungeva Savona, sempre « fra le persecuzioni della terra e le consolazioni del cielo ».Il giorno del rapimento del Pontefice fu quello della vittoria di Wagram, dopo la quale l’imperatore dettava la pace nel castello di Schönbrunn il 14 ottobre (1809), e di essa approfittava per trattare la questione religiosa. In verità Napoleone cominciava a tremare nell’animo suo: l’inerme prigioniero di Savona gli faceva paura più di un esercito in assetto di guerra. L’uomo straordinario, che reggeva l’Impero con lo scettro di ferro, conservava in fondo all’animo un briciolo di fede: l’animo suo era un groviglio di misteri; aveva un doppio carattere: era l’Attila e il Carlo Magno dell’età moderna; il persecutore e il sostegno del popolo di Dio, il cieco strumento della giustizia divina. – Ritornato a Fontainebleau, Napoleone volle che gli si compilasse l’elenco di tutte le scomuniche pronunciate dalla Santa Sede, incominciando dai tempi più remoti, contro i sovrani. L’elenco, per quanto incompleto ne enumerava 85 a partire dal 398, e accortamente ometteva l’ultima del 10 giugno 1809. Napoleone faceva tuttavia dello spirito, e parlando col cardinale Caprara sorrideva della scomunica papale, che non « faceva cader le armi dalle mani dei suoi soldati! ». Era il gesto di sfida di Capanèo contro il Cielo! Ma sulle gelide steppe di Russia, racconta il conte di SÉGUR, che ne fu testimonio, « le armi dei soldati parvero insopportabile peso alle loro braccia assiderate. Nelle loro frequenti cadute sfuggivano ad essi dalle mani, infrangevansi e perdevansi nella neve. Se si rialzavano, se ne trovavano privi, poiché non le gettavano, ma venivano loro strappate dalla fame e dal freddo ». – Il superbo imperatore voleva indurre il Pontefice a porre la sua residenza a Parigi per averlo a sua discrezione, come puntello alla sua tirannia e come strumento del suo dominio. Le lusinghe imperiali a nulla approdavano sull’animo dell’intrepido vegliardo. Per ridurlo ai suoi voleri il persecutore allontanò dal pontefice tutti i prelati a lui non ligi; gli fece sequestrare tutta la corrispondenza e togliere persino penna e calamaio. Il Papa sopportò con eroica fermezza quelle vessazioni. « Io voglio — diceva — deporre le minacce ai piedi del Crocifisso e lasciare a Dio il vendicare la mia causa, perché è tutta sua ». L’imperatore decise quindi di convocare a Parigi un concilio nazionale. Ma i 95 tra vescovi e cardinali intervenuti, non ostante le mene del clero cortigiano, si dichiararono incompetenti a supplire alle bolle pontificie, per cui Bonaparte, montato sulle furie, li disperse il 6 ottobre 1811, dopo tre mesi di vane discussioni. – La stella imperiale precipitava verso l’occaso. L’armata delle 20 nazioni mare: nelle pianure della Russia misteriosa. Perchè l’Inghilterra non tentasse nel frattempo un colpo di mano in favore del Pontefice, Napoleone, partendo con la Grande Armata ordinava il trasferimento del prigioniero a Fontainebleau. Nuova andata al Calvario. – Nel rivalicare il Cenisio il Pontefice patì tanto che giunse agli estremi di vita. I buoni religiosi dell’Ospizio dovettero amministrargli gli ultimi Sacramenti. Ma non era ancora la fine: altre lotte ed altri trionfi l’attendevano. Secondo le disposizioni imperiali, il pontefice a Fontainebleau non poteva essere avvicinato che da prelati francesi devoti al despota, i quali lavoravano per piegare l’animo di Pio VII or con le lusinghe or con le minacce di uno scisma. Scorsi appena, cinque mesi dacché il Santo Padre soggiornava a Fontainebleau, Napoleone tornava inatteso a Parigi dalla disastrosa campagna di Russia. In quelle strettezze estreme la riconciliazione col Pontefice poteva molto conferire alla fortuna dello sconquassato trono imperiale. – La sera del 19 gennaio 1813 Napoleone, con la seconda imperatrice Maria Luigia, recavasi improvvisamente a Fontainebleau. Si presentava al Papa, e con grande effusione l’abbracciò e lo baciò in volto. Pio VII ne fu profondamente commosso, e quella commozione seppe sfruttare Napoleone per indurlo a firmare i preliminari di un nuovo concordato. Per riuscire nell’intento ricorse anche ad intimidazioni ed a villanie; si disse anzi che in un eccesso di collera Napoleone acciuffasse il Papa pei capelli. Pio VII però smentì recisamente quella diceria. Appena ebbe carpita la firma (25 gennaio), l’imperatore s’affrettò a pubblicare il nuovo concordato, prima che i cardinali potessero abboccarsi con l’ingannato Pontefice. E per gettare polvere negli occhi del popolo, mise in libertà 13 cardinali, che trovavansi a domicilio coatto, e permise ai medesimi di visitare il Pontefice. Profonda mestizia prese l’animo della povera vittima, appena si accorse di aver troppo accondisceso: lo presero gli scrupoli e per parecchi giorni si astenne persino dal celebrare la Santa Messa. – L’energia e la prudenza del cardinale Pacca valsero alfine a rimettere la pace in quel cuore angustiato, giacché si poteva ancora rimediare. Anche Pasquale II aveva concesso il diritto d’investitura episcopale all’imperatore Enrico V, che, impadronitosi della sua persona, con tratti di corda l’aveva costretto a sottoscrivere! Ma appena libero Pasquale II, nel Concilio di Laterano, aveva annullato le fatte concessioni (1111). – Altrettanto faceva Pio VII con la celebre lettera del 14 marzo (1813) a Napoleone. E la volle scrivere tutta di proprio pugno per non esporre altra persona alla collera imperiale. In previsione di un simile gesto, il Pontefice era sorvegliato di continuo, e quando usciva di camera per andare a celebrare, si frugava nelle sue carte. Impiegò vari giorni a stendere quel documento, perché non poteva, per l’infermità fisica, scrivere a lungo. Scriveva alla presenza del Pacca e del Consalvi: i quali, accomiatandosi dopo l’udienza quotidiana, trafugavano il foglio che la notte era custodito dal Cardinale Pignatelli, e al mattino veniva di nuovo riportato al Pontefice, perché proseguisse a vergarlo. – I cortigiani sollecitarono l’imperatore a romperla definitivamente col Papato, proclamandosi capo della religione, come aveva già fatto Enrico VIII in Inghilterra; ma l’ardire di Napoleone non giunse a tanto. Inviò egli messi d’ogni sorta al Pontefice, esaurì tutti i ripieghi per fargli mutare proposito: tutto fu vano. Le vicende militari intanto volgevano di male in peggio: il 16 ottobre sui campi di Lipsia, con la battaglia dei popoli, gli oppressi di tutta Europa scuotevano il giogo e lo infrangevano. Percosso dalla giustizia di Dio, il tiranno riconobbe d’aver abusato troppo della sua potenza e che il prigioniero di Fontainebleau attirava sopra di lui i fulmini del cielo. Il 23 gennaio 1814 inaspettatamente arrivava l’ordine di liberazione di Pio VII. – Commenta CHATEAUBRIAND: « La mano che gli aveva messo le catene si vide obbligata a rompere i ceppi che gli aveva posto. La Provvidenza aveva invertite le fortune, e il vento, che soffiava contrario a Napoleone, spingeva gli Alleati a Parigi » (Mem. d’Outretombe, pag. 272). – A Napoleone i suoi satelliti, coi loro tradimenti, strappavano l a corona dal capo: Pio VII la riaveva dal suo carceriere. L e armi e gli eserciti non bastano a Napoleone per assicurarsi l’Impero, e Pio VII lo riacquista con la mansuetudine e la dolcezza; i popoli esasperati maledicono al mostro sanguinario, al gigante Golia abbattuto, e si prostrano ai piedi dell’innocente Davide. – La mattina del 20 aprile (1814) Napoleone, con lo strazio nel cuore, con le lacrime agli occhi, salutava la Guardia Imperiale nel castello di Fontainebleau, baciava l’aquila che aveva volteggiato sinistra e vittoriosa su tutti i campi d’Europa, e si avviava verso l’isola d’Elba, ove era deportato, il 4 maggio, da una nave inglese. – Venti giorni dopo, Pio VII era accolto trionfalmente in Roma, fra le lacrime di giubilo del popolo fedele; e sotto il manto paterno di Pio VII trovavano asilo sicuro la madre di Napoleone e gli altri membri della dispersa famiglia imperiale. – Sul trono di Francia venivano restaurati i Borboni. Il Pontefice da Roma inviava a Parigi il celebre Canova per trattare la restituzione dei cimeli preziosi e delle opere d’arte, che i rivoluzionari avevano requisito negli Stati pontifici. L’impresa non era ancora facile e per agevolarla il Pontefice dovette far dono alla Francia di non pochi capolavori. – Durante l’ultima raffica della bufera napoleonica, i Cento giorni, Pio VII lasciava Roma per portarsi a Genova, ove re Vittorio Emanuele I lo circondò di ogni cura. – Rientrava in Roma definitivamente il 7 giugno 1815, ed inviava il Consalvi al Congresso di Vienna a reclamare dalle Potenze la restituzione dei suoi Stati. L’Austria si riteneva tuttavia la parte del Ferrarese, posta sulla sinistra del Po, col diritto di presidiare Ferrara e Comacchio, onde il Consalvi si rifiutò di sottoscrivere l’Atto finale del Congresso del 9 giugno 1815. Il Pontefice non volle neppure aderire al famoso trattato della Santa Alleanza, varato da Alessandro I di Russia, da Federico Guglielmo III di Prussia e da Francesco I d’Austria, perché, a parte le buone intenzioni dei tre firmatari, era basato su d’un cristianesimo interconfessionale, che la Chiesa Cattolica non poteva accettare. – L a Santa Alleanza fu dagli uni schernita e vilipesa come lo strumento di schiavitù dei popoli; e dagli altri esaltata come la panacea politico-sociale-religiosa per tutti i mali prodotti dalla Rivoluzione francese. Nella realtà e gli uni e gli altri esagerarono nei loro apprezzamenti. – Negli ultimi anni di pontificato Pio VII, sempre con l’assistenza del Consalvi, attese alla restaurazione religiosa e civile dei suoi Stati. Furono ristabilite le Congregazioni religiose, a cominciare dai Gesuiti; furono promulgati nuovi codici, abolita la leva militare obbligatoria, ma furono anche conservate molte delle istituzioni francesi, che apparivano buone e rispondenti ai bisogni dei tempi mutati. Nel programma di restaurazione il Consalvi non si accordava completamente col delegato apostolico Agostino Rivarola, il quale voleva ristabilire gli antichi ordinamenti nella loro integrità. – I movimenti rivoluzionari del 1820 – 21, che ebbero grande sviluppo nella Spagna, nel Napoletano, in Piemonte e nella Lombardia, non scoppiarono affatto nello Stato pontificio, per quanto quivi pure fosse molto attiva la propaganda della Carboneria. Contro di questa associazione segreta e contro tutte le altre sètte religioso-politiche Pio VII pubblicava una bolla di condanna il 21 settembre. – Il Thorwaldsen, sul monumento funerario in S. Pietro, rappresentò Pio VII in mezzo a due figure allegoriche: la fortezza e la moderazione, le virtù che ne caratterizzano il Pontificato.

Pio VII
“Il trionfo”

1. Il trionfo della misericordia Divina è ormai compiuto su di Noi. Strappati con violenza inaudita dalla Nostra Sede pacifica, dal seno dei Nostri amatissimi sudditi, e trascinati dall’una all’altra contrada, siamo stati condannati e forzati a gemere per quasi cinque anni. Noi abbiamo versato nella Nostra prigionia lacrime di dolore innanzitutto per la Chiesa, affidata alla Nostra cura, perché ne conoscevamo i bisogni, senza poterle apprestare un soccorso, poi per i popoli a Noi soggetti, perché il grido delle loro tribolazioni giungeva fino a Noi, senza che fosse in Nostro potere di arrecare loro un conforto. Temperava però l’affanno acerbissimo del Nostro cuore la viva fiducia che, placato finalmente il pietosissimo Iddio giustamente irritato dai Nostri peccati, avrebbe alzato l’onnipotente sua destra per infrangere l’arco nemico, e spezzare le catene che cingevano il Vicario suo sulla terra. La Nostra fiducia non è stata delusa. L’umana alterigia, che stoltamente pretese di uguagliarsi all’Altissimo, è stata umiliata, e la Nostra liberazione, cui anche miravano gli sforzi generosi dell’augusta Alleanza, è giunta per prodigio inaspettato. Debitori a quella mano onnipotente che stringe le sorti dell’uomo, non Ci stancheremo giammai di benedirla e di cantare le sue glorie.

2. Noi non abbiamo trascurato di consacrare le primizie della Nostra libertà al bene della Chiesa, la quale, costando al suo divino Fondatore il prezzo di tutto il Suo Sangue, deve essere l’oggetto primario delle Nostre apostoliche sollecitudini. Avremmo a tal fine desiderato di accelerare il Nostro ritorno alla Capitale, sia come Sede del Romano Pontefice, per ivi occuparci dei molti e gravi interessi della Religione Cattolica, sia come residenza della Nostra sovranità per ivi soddisfare quanto prima all’ardente brama che abbiamo di migliorare il destino dei buoni sudditi Nostri; ma plausibili ragioni Ce lo hanno finora impedito. Ci disponiamo peraltro ad eseguire ciò, ansiosi di stringerli al seno, come un tenero padre stringe con trasporto i suoi figli amorosi dopo un lungo ed amaro pellegrinaggio. Intanto facciamo precedere un Nostro delegato, il quale, in virtù di Nostro speciale chirografo riprenderà per Noi, e rispettivamente per la Santa Sede Apostolica, tanto in Roma quanto nelle province, col mezzo di altri subalterni delegati già prescelti da Noi, l’esercizio della Nostra sovranità temporale legata con vincoli tanto essenziali con la Nostra spirituale indipendente supremazia. Egli procederà di concerto con una Commissione di Stato da Noi nominata alla formazione di un governo interino, e darà tutte quelle disposizioni che potranno condurre, per quanto le circostanze lo permettano, alla felicità dei Nostri fedelissimi sudditi.

3. Se per un risultato delle decisioni militari non possiamo tornare ora all’esercizio della sovranità anche in tutte le altre antichissime terre possedute della Chiesa, non dubitiamo di tornarvi al più presto, affidati non meno alla inviolabilità dei Nostri sacri diritti (ai quali non intendiamo recare con questo atto il minimo pregiudizio) che alla luminosa giustizia degl’invitti Monarchi alleati, da parte dei quali abbiamo anzi ricevuto particolari consolanti assicurazioni.

4. Per debito del Nostro ministero di pace esortiamo tutti i sudditi Nostri a conservare gelosamente la tranquillità, la quale, d’altronde, è anche il voto prezioso del Nostro cuore. Se taluno ardisse turbarla sotto qualunque pretesto sarà irremissibilmente punito con tutto il rigore delle leggi. Noi dichiariamo ai Nostri popoli che, se vi sarà fra loro chi si sia reso colpevole di qualche traviamento, alla sola Nostra sovrana autorità appartiene il compito di esaminare se sussiste il reato, giudicare della qualità del medesimo, e proporzionargli la pena. Siano dunque ubbidienti i figli, come debbono essere: nessuno di loro osi arrogarsi sull’altro la patria potestà, perché sono tutti subordinati alle leggi e al volere del comune genitore. Nella fiducia che i buoni sudditi Nostri saranno per uniformarsi esattamente a queste sovrane paterne intenzioni, diamo loro con tutto l’affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Cesena questo dì 4 maggio 1814, anno quindicesimo del Nostro Pontificato.

 

DOMENICA XIV dopo PENTECOSTE

 

Introitus
Ps LXXXIII:10-11.
Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília. [Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].
Ps LXXXIII:2-3
V. Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit, et déficit ánima mea in átria Dómini. O Dio degli eserciti, quanto amabili sono le tue dimore! l’ànima mia anela e spàsima verso gli atrii del Signore.

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília. [Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Oratio

Orémus.
Custódi, Dómine, quǽsumus, Ecclésiam tuam propitiatióne perpétua: et quia sine te lábitur humána mortálitas; tuis semper auxíliis et abstrahátur a nóxiis et ad salutária dirigátur.
[O Signore, Te ne preghiamo, custodisci propizio costantemente la tua Chiesa, e poiché senza di Te viene meno l’umana debolezza, dal tuo continuo aiuto sia liberata da quanto le nuoce, e guidata verso quanto le giova a salvezza.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V:16-24
Fratres: Spíritu ambuláte, et desidéria carnis non perficiétis. Caro enim concupíscit advérsus spíritum, spíritus autem advérsus carnem: hæc enim sibi ínvicem adversántur, ut non quæcúmque vultis, illa faciátis. Quod si spíritu ducímini, non estis sub lege. Manifésta sunt autem ópera carnis, quæ sunt fornicátio, immundítia, impudicítia, luxúria, idolórum sérvitus, venefícia, inimicítiæ, contentiónes, æmulatiónes, iræ, rixæ, dissensiónes, sectæ, invídiæ, homicídia, ebrietátes, comessatiónes, et his simília: quæ prædíco vobis, sicut prædíxi: quóniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequántur. Fructus autem Spíritus est: cáritas, gáudium, pax, patiéntia, benígnitas, bónitas, longanímitas, mansuetúdo, fides, modéstia, continéntia, cástitas. Advérsus hujúsmodi non est lex. Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixérunt cum vítiis et concupiscéntiis.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia III .- Torino 1899]

Camminate secondo lo Spirito e non seguite la concupiscenza della carne; perché la carne appetisce contro lo Spirito e lo Spirito contro la carne, e queste cose sono ripugnanti l’una all’altra, affinché non facciate tutto ciò che volete. Che se siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge. Ora le opere della carne sono manifeste; queste sono adulterio, fornicazione, immondezza, dissoluzione, idolatria, avvelenamenti, inimicizie, contese, gelosie, ire, risse, dissensioni, sette, invidie, omicidi, ubriachezze e cose a queste somiglianti; delle quali cose vi predico, come ho già predetto, che coloro che le fanno non possederanno il regno di Dio. Ma il frutto dello Spirito è carità, allegrezza, pace, pazienza, benignità, bontà, fede, mansuetudine, continenza. Contro a queste cose non vi è legge. Ora coloro che appartengono a Cristo han crocifìsso la carne cogli affetti e con le “concupiscenze”„ (Ai Galati, V, 16-24).

Queste sentenze dell’Apostolo si trovano nel capo quinto della sua lettera ai Galati, e appartengono, come dissi altrove, alla terza parte della medesima, la quale versa tutta nella morale; ed è cosa sì manifesta, che ciascuno di voi, in solo udirla, se ne sarà accorto. Il tratto che dobbiamo spiegare si divide in due parti differentissime: nella prima S. Paolo in una rapida enumerazione delle opere della carne, cioè dei peccati che dobbiamo fuggire ed abominare; nella seconda, che ne è l’antitesi, accenna i frutti e le opere dello Spirito, ossia le virtù che dobbiamo esercitare. L’esortazione dell’Apostolo non presenta difficoltà alcuna ed è eminentemente pratica, ed io non farò che amplificarla alquanto, affinché ciascuno di noi più facilmente la venga applicando a se stesso. – Come apprendiamo dalla prima parte della lettera, la Chiesa di Galazia era fieramente lacerata da discordie: chi diceva che per aver salute bisognava osservare tutte le prescrizioni sì gravi della legge mosaica, e nominatamente la circoncisione; chi affermava, e a ragione, che la legge mosaica nella sua parte cerimoniale era abolita da Cristo: quindi contese, ire, discordie, mormorazioni senza fine, tantoché S. Paolo grida loro: “Se voi continuate a mordervi e divorarvi gli uni gli altri, badate che vi struggerete tra voi „ (Capo V, vers. 15). E qui, o carissimi, non sarà superbia, né fuor di luogo una osservazione. Più spesso che non vorremmo siamo noi pure testimoni di dissidi, di lotte, di aperte discordie nella Chiesa: fedeli contro fedeli, fedeli contro parroci e Vescovi, parroci ed anche vescovi dissenzienti tra loro e contendenti sopra alcuni punti forse anche di dottrina. – E certamente doloroso questo spettacolo nella Chiesa: ma non è nuovo: lo vediamo nella Chiesa di Galazia stabilita da S. Paolo e lui vivente. Qual meraviglia che ciò avvenga anche in mezzo a noi? La fede e la grazia non sopprimono le debolezze della nostra intelligenza e volontà, né distruggono le nostre passioni; ci danno solo la forza di combatterle e vincerle. Come furono composte le discordie della Chiesa di Galazia? chi le troncò e vi ristabilì la pace? S. Paolo con la sua autorità di Apostolo. Facciasi altrettanto in mezzo a noi. Se l’autorità del parroco non basta, si ricorra al Vescovo; se quella del Vescovo non basta, si ricorra al Vescovo dei Vescovi, il Papa, o almeno si serbi nell’animo la volontà ferma e sincera di stare al suo giudizio se questo tarda a pronunziarsi, e in questa volontà ferma e sincera, si avrà il mezzo di conservare la pace. – Stando così le cose della Chiesa di Galazia, era naturale che l’Apostolo, volendo farvi alcun riparo, dovesse a quei fedeli inculcare la carità, l’amore scambievole, e perciò ricorda loro che tutta la legge di Cristo si assomma in una sola parola, ed è questa: “Ama il prossimo tuo come te stesso — Omnia lex in uno sermone impletur: Diliges proximum tuum sicut teipsum „ (vers. 14). Posto questo principio fondamentale della vita cristiana, S. Paolo lo viene svolgendo e mostra ciò che esso ripudia e condanna, e ciò che approva ed esige, e qui comincia il nostro commento. – Io vi dico: Camminate secondo lo Spirito e non seguite le concupiscenze della carne; ché la carne appetisce contro lo Spirito, e lo Spirito appetisce contro la carne, essendo se ripugnanti l’una all’altra, affinché non facciate tutto ciò che volete. „ In queste parole del grande Apostolo è compendiata tutta la storia della lotta che ogni uomo sente agitarsi nel fondo del suo cuore, e che manifestandosi al di fuori nelle varie sue forme, diventa lotta sociale. Carissimi! Entriamo in noi stessi, discendiamo nel santuario della nostra coscienza, scrutiamo tutte le pieghe del nostro spirito, ascoltiamo tutti i battiti del nostro cuore; dal dì che la luce della ragione spuntò sul cielo dell’anima nostra sino ad oggi, che vi troviamo noi? Sotto quali forze si svolge la nostra vita? In noi troviamo costantemente due forze, che si contendono il dominio del nostro cuore: guardando in alto, contemplando le cime del mio spirito e ascoltando il grido della mia coscienza, vedo e sento che la virtù è bella e santa cosa; apprezzo e stimo l’umiltà, la modestia, il disinteresse, la temperanza, la mansuetudine; ammiro la purezza, la pazienza, il perdono delle offese, la carità; mi sento compreso di venerazione e tentato d’inginocchiarmi dinanzi a questi angeli di carità che consumano la loro vita in mezzo agli orfanelli, ai derelitti, al capezzale dei poveri e dei morenti. Ma da un’altra parte il vizio, le passioni col loro lenocinio mi tirano a sé: amo grandeggiare, corro dietro alle vanità e alle ricchezze; cedo volentieri al solletico della gola e secondo l’intemperanza; lodo la sincerità e talvolta mentisco; mi irrito con chi mi offende, sono spinto alla vendetta e ne assaporo il piacere; accarezzo l’ozio e la mollezza e vorrei che tutto fosse immolato ai miei voleri. Ho qui dentro una tendenza, una forza indistruttibile che mi porta in alto, verso le altezze della virtù; sento qui dentro un grido, che senza posa mi incoraggia a guadagnarne le vette: e in pari tempo ho qui dentro una tendenza, una forza pur essa indistruttibile, che mi trascina in basso verso gli abissi del vizio; sento qui dentro un grido che mi chiama, mi invita, mi trae a gettarmi in braccio alle passioni ed a sbramare in esse le mie voglie; sono posto tra la virtù ed il vizio, tra il bene ed il male: sono come una nave combattuta da due venti impetuosi e contrari. In me si avvera la sentenza del poeta: “Vedo il bene e l’approvo, eppure mi appiglio al peggio. „ E ancor meglio la sentenza dell’Apostolo: “Sento nelle mie membra un’altra legge o forza che ripugna alla legge o forza della mia mente. „ Che è questo, o cari? D’onde questa lotta in me stesso? Forse vi sono in me due anime, l’una buona, l’altra cattiva? Ma io sento d’essere un solo, sempre quel desso, un solo io indivisibile: sento che le due forze operano sopra di me quasi esternamente, e che è in poter mio seguir l’una o l’altra: anzi sento che la forza che mi inclina al bene, che mi muove verso la virtù e mi invita ai suoi casti amplessi, risponde assai meglio alle mie aspirazioni più nobili, mi fa gustare gioie più pure, mi solleva in una atmosfera più serena e tranquilla, e sgorga quasi dalle viscere del mio essere; mentre quell’altra forza mi avvilisce ai miei occhi stessi, mi fa arrossire, mi agita e mette in tempesta il mio cuore. D’onde adunque, domando ancora una volta, d’onde questa lotta? D’onde queste due forze pugnanti tra loro nell’animo mio? Perché questo duello fra due nemici implacabili, del quale il mio cuore è sempre l’arena? La fede e la ragione congiuntamente ci danno la spiegazione di questo fatto sì doloroso. Esse ci insegnano che la parte inferiore della nostra natura, che è il corpo, tende per se stesso ai piaceri sensibili, che lo allettano e lo traggono a sé; che il corpo, attratto da questi piaceri sensibili, che rispondono alla sua natura, tira con sé più o meno l’anima, che sente nel corpo stesso; ci insegnano che il mondo esterno per mezzo del corpo fa subire all’anima le sue impressioni assai prima ch’essa sia capace di elevarsi al conoscimento delle eterne verità, e perciò il mondo esterno e sensibile esercita sull’anima un fascino, un’azione assai maggiore di quella che sopra di essa eserciti la verità stessa: il senso precede, e per molti anni, la ragione e lo sviluppo della fede, e perciò riesce più vivo. La fede poi ci insegna che l’uomo per sua colpa cadde dallo stato nobilissimo in cui Dio l’aveva creato, ed in lui si diminuì la signoria che aveva sopra di se stesso, e per conseguenza la parte inferiore ribellandosi, cominciò a molestare la superiore, e a far opera a trascinarla dietro a sé sulla via dei piaceri sensibili. Ora l’uomo, collocato tra queste due forze contrarie, che deve fare? A quale delle due deve cedere? Deve seguire le basse voglie della carne, o, combattendo virilmente queste, seguire la voce della coscienza, o, come scrive S. Paolo, lasciarsi guidare dallo Spirito? La fede e la ragione stessa ci fanno sentire il dovere di ubbidire alla voce della coscienza, di seguire lo spirito della grazia divina, e ciò come uomini e molto più come cristiani. Come uomini, guidati dal solo lume della ragione naturale, dobbiamo frenare le incomposte passioni che ci travagliano, e praticare quelle virtù naturali che alle forze della sola natura sono possibili e corrispondenti; come cristiani poi, rischiarati dal lume della fede ed avvalorati dalla grazia divina, dobbiamo poggiare ben più alto e modellarci sull’esemplare sovrano d’ogni perfezione, che è Gesù-Cristo. – Su dunque, o carissimi figliuoli! In questa lotta incessante e feroce tra lo spirito e la carne, tra la grazia e le passioni, costretti a scegliere il nostro partito, non stiamo in forse un solo istante: gettiamoci animosamente dalla parte dello spirito contro la carne, della grazia contro le passioni, della virtù contro il vizio, di Cristo contro il mondo. Qual gioia più pura, qual gloria più bella del signoreggiare la carne, rintuzzare le passioni, debellare il vizio, soggiogare il mondo e levarci sulle ali dello Spirito verso il cielo, farci belli della bellezza di Dio? È vero, talvolta questa carne che portiamo, aggrava l’anima e ci fa sentire ciò che non vorremmo sentire: “Ut non quæcumque vultis, illa faciatis”; ebbene, santamente vendichiamocene. Come? Col far sentire noi pure alla carne ed alle sue cupidigie ciò che anch’esse non vorrebbero sentire, cioè il freno della mortificazione, il rifiuto del nostro consenso. “Che se poi, cosi continua S. Paolo, siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge. „ Che significa essa questa sentenza? Eccone il senso: “Se voi, o Galati, seguite i movimenti dello Spirito e ubbidite docilmente alle voci ed agli impulsi della grazia, che viene da Gesù, siete superiori alla legge mosaica, e avete quella forza che non potrete mai avere da quella”. Porse questa sentenza dell’Apostolo può ragionevolmente intendersi in altro senso, che è questo: Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito, ossia dalla grazia di Gesù, vi affrancate dalla tirannia della legge della concupiscenza e spezzate il suo giogo; voi, così facendo, non sottostate a nessuna legge, siete veramente liberi, perché quel che fate, non lo fate per forza o per timore, ma perché lo volete voi stessi. Quando, o dilettissimi, sentiamo noi il peso d’una legge e gemiamo sotto di essa? Quando la consideriamo come cosa esterna, impostaci da altri e contraria al nostro volere e, se ci fosse possibile, la vorremmo respingere, anzi, distruggere; ma se la legge che ci è proposta, noi l’accettiamo, l’amiamo, la facciamo nostra, come se fosse opera della nostra volontà, allora non ne sentiamo il peso, la adempiamo con gioia, e lungi dal considerarla come contraria alla nostra libertà, la teniamo in conto di amica fedele, quasi come facente una cosa sola con noi stessi. Vi è un figliuolo, tutto amore e docilità verso il padre suo: questi impose al figlio una serie di opere che comportano molti e non lievi sacrifici: naturalmente al pensiero di questi sacrifici egli prova una viva ripugnanza: si sente spinto a sottrarsi a quel peso: ma egli ama il padre: pensa alla gioia che gli procura con l’ubbidienza pronta e generosa; pensa alla gioia purissima che n’avrà egli stesso, appagando il padre suo, e in un impeto di risoluzione magnanima esclama: Il volere del padre mio è mio, voglio ciò che egli vuole, checché avvenga. — Credete voi. o carissimi, che codesto figliuolo troverà grave l’opera da compire? Io non lo penso: penso per contrario che l’amore del padre facendo suo il volere di lui, allevierà ogni fatica, raddolcirà ogni pena, e quasi convertirà in piacere lo stesso dolore. Vedete certi uomini che si sottopongono volontariamente a durissime fatiche, ad aspri lavori e pericoli. Questi salgono sulle cime più alte delle Alpi, inerpicandosi sui ghiacci e sui burroni: quelli attraversano le sabbie ardenti del deserto: altri s’aprono la via tra montagne di ghiaccio, sotto il polo del nord in mezzo a stenti e pericoli infiniti: un drappello di giovani audaci snida dai loro covi i leoni e le tigri, e ne affronta il furore. Dite loro: Voi avrete sofferto! quali patimenti! quali terrori! Sorridendo vi risponderanno: Oh no! son cose che abbiamo voluto noi: come potevamo lagnarcene? Così è: ciò che vagliamo noi, sia quanto si voglia malagevole e doloroso per sé, torna facile e quasi giocondo a farsi, voi ne converrete. Che il volere di Dio diventi il nostro, e la via che dovremo percorrere sarà piana e spedita! E questo, credo io, ciò che voleva dire san Paolo nella sentenza citata: “Se siete guidati dallo Spirito di Dio, voi non siete sotto la legge — Sì Spiritu ducimini, non estis sub lege. „ Uniti a Dio, formando con la conformità al suo volere una cosa sola con Lui, come Lui siete liberi e non soggiacete che alla legge della vostra volontà, perché la vostra volontà è quella di Dio. La legge dello Spirito, ossia la volontà di Dio e la volontà nostra, sono due cose distinte e differenti: necessariamente la volontà nostra soggiace alla volontà di Dio, che si manifesta nella sua legge e ne sente il peso: ma se di queste due cose noi ne facciamo una sola, è chiaro che non vi è più né quella che sovrasta, né quella che soggiace: è una sola cosa e opera a suo agio e diventa legge a se stesso. Congiungi adunque, o cristiano, la tua alla volontà di Dio per forma che sia una sola, e non sarai sotto la legge, e piena sarà la tua libertà. – Procediamo, seguendo l’Apostolo. Dopo aver accennato alle due leggi, od alle due forze che combattono tra loro, che sono la carne da una parte, e lo Spirito o la grazia divina dall’altra, S. Paolo enumera le opere dell’una e dell’altra: dopo averci messi dinanzi questi due alberi, ce ne mostra i frutti, e come i due alberi sono di natura affatto contrari tra loro, cosi affatto differenti e contrari sono i frutti loro. Quali sono i frutti o le opere della carne, ossia della mala concupiscenza, che nella carne s’annida? Udite: “Le opere della carne sono palesi: le quali sono fornicazione, adulterio, impudicizia, dissolutezza. „ Fermiamoci qui Io mi guarderò bene dallo spiegare partitamente il valore di queste parole ad una ad una perché potrei offendere le vostre orecchie e dire cose che sconvengono al carattere di chi vi parla ed al luogo santo, in cui ci troviamo! – Ma se l’Apostolo, divinamente ispirato, le scrisse nella sua lettera, che senza dubbio dovevasi leggere nell’adunanza dei fedeli, non sarà interdetto a noi il ripeterle e dire quel tanto che è necessario e conveniente per mettervi in orrore le opere della carne, fine inteso e voluto dalla Chiesa che oggi ce le fa leggere nella santa Messa. – Primieramente piacciavi osservare che san Paolo, enumerando le opere della concupiscenza, mette in primo luogo i peccati turpi, le brutture del senso. E perché? Perché, credo io, sono questi i peccati più comuni e quelli che tirano in perdizione il maggior numero di anime. In secondo luogo ponete mente come il santo Dottore in quelle quattro parole abbia abbracciato le forme principali che la sozza passione può assumere e purtroppo assume. Che posso io dirvi, o carissimi? Io grido a tutti voi che mi ascoltate: “Fuggite fuggite, detestate, abbominate ogni incontinenza. Siete liberi dai vincoli del matrimonio? Serbate casto il vostro cuore e il vostro corpo, come il tempio del Signore. Siete legati dai vincoli santi del matrimonio? Serbatevi a vicenda la più inviolabile fedeltà, e ricordatevi che la si può ferire e calpestare anche col solo pensiero, col solo affetto e col solo desiderio, come insegna il Vangelo. Siate puri, siate casti, siate incontaminati, sempre, in ogni luogo, anche soli, anche quando nessun occhio umano vi può vedere, perché anche là sta aperto sopra di voi l’occhio di Dio”. Chi può intendere, dirò col Vangelo, intenda! – Dopo aver messo in prima linea i peccati dell’incontinenza, S. Paolo prosegue la enumerazione delle opere della carne, ossia della natura corrotta, e nomina l’idolatria, o servitù degli idoli: Idolorum servitus. Ai nostri giorni e nella nostra società non v’è bisogno alcuno di combattere e riprovare il culto degli idoli, ultimo degradamento al quale possa discendere l’umana ignoranza: questa vergogna del culto degli idoli è scomparsa in mezzo a noi, ma era comune allorché l’Apostolo scriveva la sua lettera. Egli la colloca tra le opere della carne, perché l’idolatria in sostanza è il culto dei sensi: per essa l’uomo spogliò Dio della sua natura spirituale ed invisibile; lo vestì di forme visibili e materiali, umane, e perfino bestiali, anzi brute e insensibili, e gettandosi ai piedi di queste opere delle sue mani, aventi occhi senza vedere, orecchi senza udire, lingua senza favellare, in un vero delirio di cecità e di ignoranza, esclamò: “Voi siete il mio Dio; io vi adoro. „ Tanto pervertimento di mente e di cuore a noi sembra incredibile: eppure non lo vediamo noi, sotto altra forma, quasi comune nella società nostra cristiana? L’avaro che altro fa se non adorare le sue ricchezze? Il superbo, il goloso e il dissoluto, non prestano essi culto, non offrono essi sacrifici (e quali!) alla propria ambizione, al cibo ed alla bevanda di cui sono ghiotti, e agli oggetti dei brutti loro amori? Aveva ben ragione il Poeta di gridare:

Fatto vi avete Dio d’oro e d’argento:

E che altro è da voi all’idolatre,

Se non ch’egli uno e voi n’orate cento?

(Dante, inferno, c. XIX, v. 112 e segg.)

– Fine dunque, fine ad ogni idolatria! Creati per conoscere, amare ed adorare Dio solo nostro Creatore, che è nei  cieli, non sia mai che facciamo oltraggio a Lui e a noi stessi, amando disordinatamente e quasi adorando le sue creature e spesso inferiori a noi. Dopo l’idolatria S. Paolo colloca tra le opere della carne ì veneficii od avvelenamenti. Trovando qui dopo l’idolatria ricordato dall’Apostolo il delitto orribile dell’avvelenamento veneficia, „ è forza il credere che fosse non raro. È cosa che riempie l’animo di spavento il pensare che nella società greco-romana dei tempi di S. Paolo, in mezzo al fascino delle ricchezze, delle lettere, delle arti, delle grandezze di quella civiltà, gli avvelenamenti, congiunti quasi sempre col tradimento, fossero pressoché comuni. Eppure la storia stessa profana l’attesta; né deve recarci meraviglia, sapendo troppo bene come la raffinatezza del lusso, delle arti, e le strabocchevoli ricchezze ingenerino i massimi corrompimenti del costume e spingano a delitti senza nome. Se i delitti di sangue, i suicidi e omicidi non sono infrequenti nella nostra società cristiana, che si dà vanto di civiltà matura, che vorrà essere stato della pagana? – S. Paolo continua nella trista enumerazione, e dice: ” Pur opere della carne sono ire, contese, gelosie, sdegni, risse, dissensioni, sètte, invidie, omicidi. „ Tutte le passioni che tormentano la povera nostra natura si riducono a due, a quella che dicesi concupiscibile ed all’altra, che chiamasi irascibile. Noi tutti senza eccezione, e sempre, desideriamo e procuriamo di acquistare ciò che ci diletta e ci giova, onori, ricchezze, piaceri e andate dicendo: ecco la passione concupiscibile; noi tutti egualmente respingiamo ed odiamo ciò che ci impedisce il possesso di questi beni o riputiamo beni: ecco la passione irascibile; con la prima tiriamo a noi il piacere, con la seconda respingiamo tutto ciò che ce lo contende. Anzi, se ragioneremo sottilmente, comprenderemo che le due passioni, concupiscibile ed irascibile, si riducono ad una sola, come insegna S. Tommaso, ed è l’amore. Noi amiamo e vogliamo il bene, anche quando ci appigliamo al male, perché lo apprendiamo sempre come bene. È  questo stesso amore che ci porta al bene, quello che ci fa odiare e combattere gli ostacoli che si frappongono al bene, onde l’odio  stesso è amore, amore del bene, che non vuole il suo contrario. – S. Paolo, nella prima parte or ora spiegata, enumera le opere della carne spettanti alla passione concupiscibile; qui enumera le principali che si riferiscono alla irascibile. Vuole che sbandeggiamo l’ira, che ci spinge alla vendetta, a volere o fare il male del prossimo: vuole che sbandeggiamo le contese, le gelosie, gli sdegni, le risse, le dissensioni, le sette, le invidie, gli omicidi. „ che sono tutte cose, le quali rompono la carità, seminano gli odii, mettono sossopra le famiglie, le parrocchie e la stessa società. Tutti questi disordini, contro dei quali il grande Apostolo levava la sua voce e  voleva fossero tolti di mezzo alla Chiesa primitiva, ohimè! li vediamo turbare ed avvelenare le nostre famiglie, le nostre parrocchie e la nostra società, ancorché tutte cristiane. Quante contese e gare e sdegni! risse e dissensioni e partiti rabbiosi! Giriamo intorno gli sguardi, porgiamo orecchio allo strepito che ci assorda, e troveremo che anche al presente, come ai tempi di san Paolo, noi ci mordiamo e ci divoriamo gli uni gli altri. E siamo fratelli, figli dello stesso Padre, che è nei cieli, e della stessa madre, che è la Chiesa! Quale vergogna! quale vituperio! – Né qui si arresta S. Paolo, ma, come suole, nella sua foga, enumera altre opere malvagie della carne: “Ubriachezze, gozzoviglie e somiglianti — Ebrietates, comessationes et his similia. „ Queste parole cadute dalla penna dell’Apostolo ci richiamano alla mente uno spettacolo doloroso, che quasi ogni giorno ci sta sotto gli occhi. Molti soffrono la fame, non hanno con che coprire la loro nudità, albergano in miserabili tuguri, o piuttosto tane, ed altri seggono a laute mense, si ubriacano, spendono somme favolose in lusso, in passatempi, in sozzi piaceri! E l’ubriachezza che toglie all’uomo ciò che lo fa uomo, la ragione (lasciate che lo dica francamente), è più comune tra voi, o poveri, che tra i ricchi, Povertà ed ubriachezza! non si può immaginare accoppiamento più brutto di questo. Genitori ubriachi alla bettola, mogli e figliuoli piangenti di fame e freddo a casa! Sono disordini, sono mali che stringono il cuore e che sembrano impossibili in una società cristiana. Ma ponetevelo ben addentro nell’animo, grida qui indignato il santo Apostolo: “Ve lo dissi, ed ora ve lo ridico, tutti quelli che operano queste cose non possederanno il regno di Dio. „ Non illudiamoci, o fratelli miei: quanti si renderanno colpevoli di questi peccati, saranno inesorabilmente condannati da Dio alle pene eterne (Alcune delle colpe commemorate da S. Paolo in molti casi possono essere semplici peccati veniali, come le contese, le ire, le gelosie, le invidie ecc.; ma, in certe circostanze possono essere gravi. Dalla sentenza, con cui chiude la enumerazione, si rileva, che S. Paolo le considera nei casi che le costituiscono colpe gravi). E sentenza dell’Apostolo, è dottrina del Vangelo, e non ne cadrà invano una sola sillaba: riflettiamoci sopra, come vuole la grandezza della pena intimata. Chi ha qualche famigliarità con lo stile di S. Paolo, si accorge facilmente ch’egli ama le antitesi. ossia quella maniera di dire, per la quale ad una cosa si mette di fronte la contraria, e qui ne abbiamo una prova. Dopo aver fatto passare sotto i nostri occhi la lunga e brutta serie delle opere o peccati della carne o delle passioni, ora ci schiera dinanzi una serie quasi eguale delle opere o dei frutti dello Spirito, o della grazia di Dio in quelli che la posseggono. Udiamolo. – Il frutto dello Spirito è carità, gaudio, pace, longanimità, benignità, bontà, fedeltà, mansuetudine, continenza, modestia. „ Vedete, carissimi, un albero coperto di fiori e di fratti: quei fiori e frutti donde germogliano? Donde traggono il succo vitale che li nutre e li fa vigoreggiare? Dalla radice, dal seme che gli diede la vita. Vedete un uomo adorno di tutte le virtù cristiane: donde queste virtù e gli atti, nei quali si vanno svolgendo le stesse virtù? Dallo Spirito di Dio, dalla grazia, che ne è il primo germe. S. Paolo, volendo porci innanzi i fiori e i frutti benedetti della grazia divina, come ci ha messi innanzi i frutti amari e mortiferi della concupiscenza, comincia dalla carità, che è la regina di tutte le virtù, e sulla quale, come sul suo fondamento, poggiano tutte le altre, quasi rami sul loro tronco: carità verso Dio e verso il prossimo, carità ricca non di sole parole, ma di opere. Frutto di questa carità è il gaudio, cioè quella coscienza netta, serena, tranquilla, che spande nell’anima una gioia soavissima, e che brilla eziandio al di fuori e soprattutto negli occhi. Inseparabile compagna di questa coscienza pura e contenta di sé è la pace interna, che sta riposta nell’equilibrio di tutte le potenze dell’anima, o, come scrive S. Agostino, nella tranquillità dell’ordine, per cui tutto è composto in un’armonia inalterabile. Col gaudio e con la pace vanno congiunte la longanimità e la benignità, che ci rendono facili al compatimento, dolci ed umili nella parola, nel tratto, in ogni cosa, con ogni classe di persone, anche coi tristi, coi malevoli, coi nemici stessi. Con questi doni dello Spirito di Dio si accompagnano la bontà, che ci porta a far bene a tutti, e la mansuetudine, che fa soffrire ogni cosa senza fiele e colla serenità sulla fronte; vengono poi la fedeltà, nemica della frode e della menzogna, che ci rende leali osservatori delle promesse fatte e dei doveri assunti: la modestia, che dà a tutti i nostri atti esterni la giusta misura, e finalmente la continenza, che mette il freno a tutte le nostre voglie, fermo l’occhio nella regola infallibile della fede. – Non è a credere, o dilettissimi, che qui san Paolo abbia voluto ricordare tutti i doni dello Spirito di Dio e i frutti della sua grazia; no, ha ricordato soltanto i principali, come gli si affacciavano alla mente e come tornava più utile ai Galati, turbati, allora da intestine discordie. – In questa sì bella enumerazione noi pure abbiamo molto da apprendere: essa mi pare somigliante ad una lauta mensa, su cui sono imbandite molte e squisite vivande: ciascuno prende ciò che maggiormente gli piace e giova; lo stesso facciamo noi, fermando la nostra attenzione su quella virtù, che risponde meglio ai bisogni speciali di ciascuno di noi. “Contro a siffatte cose, dice S. Paolo, non vi è legge. „ Fate che un uomo operi secondo questo Spirito del Vangelo e dia questi frutti di vita, qual legge mai lo potrà biasimare o condannare? Di qual legge volete voi che abbia bisogno? Egli è legge a se stesso e non ha nulla a temere, perché adempie perfettamente ciò che la legge prescrive. – “Ora quelli che appartengono a Cristo, conchiude S. Paolo, hanno crocifissa la loro carne con i vizi e con la concupiscenza. „ Gesù Cristo, così mi sembra ragionare l’Apostolo, Gesù Cristo tolse sopra di sé la pena ch’era dovuta ai nostri peccati, e sulla croce scontò nella sua carne santa le nostre colpe: Egli crocifisse per noi la sua carne. Ora che dobbiamo far noi? Questa carne è il fomite delle nostre passioni: in essa si appiatta la concupiscenza con tutti i vizi, dei quali è madre feconda: essa senza tregua combatte lo Spirito. – Noi dobbiamo metterci dalla parte dello Spirito, dalla parte cioè di Cristo, e combattere questa carne, questa concupiscenza, che giorno e notte ci insidia e tormenta. Come Cristo confìsse alla croce il suo corpo, così noi mettiamo in croce la carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze, ed allora mostreremo d’essere veramente discepoli di Cristo e suoi soldati. E come la porremo in croce? Porse materialmente, come fece Gesù Cristo? No, ma moralmente, come a noi ora è possibile e imposto. La concupiscenza ti gonfia con la vanità, con l’orgoglio, con l’ambizione? E tu con l’umiltà la schiacci. Ti invita, ti spinge ad accumulare ricchezze, non badando che talvolta sono il prezzo della iniquità, il frutto di chi soffre la fame? E tu le volgi le spalle e sii largo coi poverelli. Ti trae a trasmodare nel mangiare e bere e quasi, come scrive altrove lo stesso Apostolo, a farti Dio del ventre? tu resisti all’abbietta voglia e tieniti saldo nei confini della temperanza e castiga la gola. Ti solletica con la mollezza dell’ozio? Ti punge con lo stimolo dell’invidia? ti accende in cuore il fuoco dell’ira e dell’odio? Ti accarezza e tenta sedurti con le blandizie e con i sozzi piaceri del senso? E tu sventa le insidie, rigetta gli assalti, reprimi e calpesta l’implacabile nemica sotto qualunque forma si presenti. Con il timore dei divini giudizi, con la vigilanza costante sopra i tuoi sensi, con la preghiera, con la mortificazione, con la penitenza raffrena e crocifiggi la concupiscenza, ed apparterrai al numero di coloro che sono di Cristo.

 Graduale
Ps CXVII:8-9
Bonum est confidére in Dómino, quam confidére in hómine.
È meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo.

V. Bonum est speráre in Dómino, quam speráre in princípibus. Allelúja, allelúja  [È meglio sperare nel Signore che sperare nei príncipi. Allelúia, allelúia].

 Alleluja

XCIV:1.
Veníte, exsultémus Dómino, jubilémus Deo, salutári nostro. Allelúja.
[Venite, esultiamo nel Signore, rallegriamoci in Dio nostra salvezza. Allelúia.]

 Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt VI:24-33
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nemo potest duóbus dóminis servíre: aut enim unum ódio habébit, et álterum díliget: aut unum sustinébit, et álterum contémnet. Non potéstis Deo servíre et mammónæ. Ideo dico vobis, ne sollíciti sitis ánimæ vestræ, quid manducétis, neque córpori vestro, quid induámini. Nonne ánima plus est quam esca: et corpus plus quam vestiméntum?
Respícite volatília coeli, quóniam non serunt neque metunt neque cóngregant in hórrea: et Pater vester coeléstis pascit illa. Nonne vos magis pluris estis illis? Quis autem vestrum cógitans potest adjícere ad statúram suam cúbitum unum? Et de vestiménto quid sollíciti estis? Consideráte lília agri, quómodo crescunt: non labórant neque nent. Dico autem vobis, quóniam nec Sálomon in omni glória sua coopértus est sicut unum ex istis. Si autem fænum agri, quod hódie est et cras in clíbanum míttitur, Deus sic vestit: quanto magis vos módicæ fídei? Nolíte ergo sollíciti esse, dicéntes: Quid manducábimus aut quid bibémus aut quo operiémur? Hæc enim ómnia gentes inquírunt. Scit enim Pater vester, quia his ómnibus indigétis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justítiam ejus: et hæc ómnia adjiciéntur vobis”. [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni: infatti, o avrà in odio l’uno e amerà l’altro, o si affezionerà all’uno e non farà caso all’altro. Non potete servire Dio e mammona. Perciò vi dico: non preoccupatevi di quello che mangerete, né di che vi vestirete: l’anima non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo, che non séminano né mietono, né accumulano nei granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non siete più di quelli? Chi di voi, angustiandosi, può allungare di un palmo la sua vita? E perché mai siete preoccupati per i vostri vestiti? Guardate come crescono i gigli del campo: eppure non lavorano né filano. Tuttavia vi dico che neppure Salomone, nello splendore della sua gloria, fu mai vestito come uno di essi. Ora, se Dio veste così l’erba del prato, che oggi esiste e domani sarà gettata nel fuoco, quanto maggiormente voi, o uomini di poca fede? Non siate dunque preoccupati dicendo: che mangeremo o che berremo o di che ci vestiremo? Sono i gentili che cercano queste cose. Mentre il Padre vostro sa che voi avete bisogno di tutto ciò. Cercate prima, quindi, il regno di Dio e la sua giustizia, e ogni altra cosa vi verrà data in più.]

 Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Matteo VI, 24-33]

Due Padroni.

Servire a due padroni ella è cosa impossibile, dice l’incarnata Sapienza nel Vangelo della corrente Domenica : “Nemo potest duobus dominis servire”. Servire a due padroni diversi di natura, differenti di massime, opposti di volontà, servire a Dio e all’idolo delle ricchezze, servire a Dio e al mondo, a Dio e alle proprie passioni, a Dio e al peccato e al demonio, non è assolutamente possibile, ripete Gesù Cristo in quest’istesso Vangelo: “Non potestis servire Deo, et Mammonæ”. Qual convenzione, ripiglia S. Paolo, esser vi può tra la luce e le tenebre, tra Cristo e Belial, tra il tempio di Dio e l’altare degl’idoli? Questa evangelica verità sembra non aver bisogno di schiarimento e di prove; pure siccome molti fra i cristiani mostrano almeno in pratica di non intenderla, perciò mi son proposto nella presente spiegazione di metterla nel più chiaro aspetto, onde persuasi che non a due, ma ad un padron solo si può prestar servitù, ci risolviamo a servire l’unico, vero, incommutabile nostro padrone , che è Dio. Uditemi, cortesemente. – Per ragion di chiarezza io distinguo tre classi d’uomini, ed osservo che battono tre diversi sentieri. Alcuni allettati dalla sapienza via del piacere si fanno un idolo di tutto ciò che lusinga e pasce le proprie passioni. Sono e sanno d’essere empi per abito e per sistema: costoro è manifesto che servono a un solo  padrone, al mondo cioè, e a tutto ciò che è nel riprovato mondo; e di questi non parlo. – Altri, persuasi delle vanità delle terrene cose, illuminati dalle verità della fede, che dopo il breve pellegrinaggio di questa labile vita vanno incontro ad un giudizio tremendo, ad un’eternità di pene o di delizie, corrono la via dei divini comandamenti, la strada della salute. Questi è fuor di dubbio che servono ad un Padrone solo, che è Dio, e neppur parlo di questi. – Parlo di quei che, per una parte adescati dalle lusinghe del mondo e atterriti per l’altra dalle minacce della Religione e della fede, si argomentano tenere una strada di mezzo, e conciliare così il servigio di Dio con quello del mondo. Questa strada è fallace ed ingannevole, dice lo Spirito Santo; all’apparenza sembra retta e giusta, ma il termine a cui conduce è rovinoso e fatale: “Est via, quæ videtur homini iusta; novissima autem eius deducunt ad mortem” (Prov. XIV, 12 ). A questo falso seducente sentiero si tengono coloro che san dare il suo tempo al Carnevale e il suo alla Quaresima: in quello balli e teatri, in questo prediche e funzioni: alla Pasqua i sacramenti che suppliscano l’omissione di tutto l’anno: mai in Chiesa tutta la settimana, alla Domenica l’ultima Messa che alcuna volta si trova inoltrata, alcun’altra si perde: la lingua, egualmente facile alle preghiere e alle mormorazioni: le mani pronte a qualche limosina ed anche a qualche furto: i piedi alla visita dei Santuari e a quella di case sospette; ai vesperi e all’osteria. Ora una strada così obliqua come può condurre a buon termine? Una condotta così irregolare come può piacere à Dio? – Iddio, altissimo Padrone dell’universo, a tutti intima: “Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo” (Matth. XXII, 37). Non col cuore, dic’Egli, amerai il tuo Signore, il tuo Dio, ma con tutto il tuo cuore, “ex toto corde tuo”: non basta, L’amerai con tutta la tua mente, con tutte le tue forze “in tota mente tua, ex tota fortitudine tua” [Matth. Ibid. – Deut. VI, 5].  E perché? Perché Egli ci ha dato e cuore e mente e facoltà onde, come a nostro Creatore, a Lui riferire tutto quanto compone il nostro essere. Tal è il dovere della creatura verso del proprio Facitore. Tutto abbiamo da Dio, tutto dobbiamo a Dio, ed Egli da noi giustissimamente l’esige. Un cuore diviso non può essere a Lui accettevole, o tutto lo vuol possedere, o da Sé lo rigetta: “Qui non est mecum, contra me est”. – S’è così, come la fede e la ragione c’insegnano, fino a quando, dirò a voi quel che Elia Profeta diceva al popolo d’Israele, fino a quando andrete zoppicando incerti a qual parte dovete tenervi? “Usquequo claudicatis in duas partes ? (Lib. III Reg. XVIII, 21) . “Se Baal, se il demonio, se il mondo merita d’essere riconosciuto per Dio, seguiteLo pure: “Si Deus est Baal, sequimìni eum”. Se poi Quel che vi diede l’essere, Quel che vi conserva, Quel da cui dipende ogni vostro bene, Lo credete l’unico e vero Dio, unitevi a Lui, osservate i suoi precetti, sperate i suoi premi, temete i suoi castighi : “Si Dominus est Deus, sequimini eum”. Qui non vi è strada di mezzo, qui non vi è neutralità. Se volete persistere in questa colpevole alternativa, avverrà a voi quel che avvenne ai Filistei, che sul medesimo altare collocarono l’arca del Testamento a fianco dell’idolo Dagone, e perciò si trassero addosso i più tremendi flagelli di Dio sdegnato. O miei cari, intendetela bene. Un corpo non può avere che un sol capo. Un cuore doppio, che tenga due strade, non può aver buon successo: “Cor ingrediens duas vias, non habebit successus” (Eccli. III, 28). Non apprendete ancora il vostro pericolo? Seguite ad ascoltarmi. – Sarebbe minor rischio per voi, se voltate a Dio le spalle, rompeste il suo giogo, disertaste dalle sue bandiere, vi arruolaste al servizio del mondo. Vi sorprende questa proposizione? Io vengo a provarvi quanto ella è vera. Se, abbandonato Iddio, vi date al reprobo senso, e vi fate schiavi del mondo, conoscerete allora chiaramente che siete in istato di dannazione, che non potete sperar salvezza: sentirete i reclami della rea coscienza, che vi ridurrà a questo bivio, o di cangiar vita, o di darvi per perduti. Alla prima disgrazia, alla prima pericolosa malattia, è più facile che apriate gli occhi a conoscere quanto sia cosa amara l’aver fatto divorzio da Dio; è più facile, che a vista di un mondo che vi sparisce dinanzi, alla vista di una morte che vi minaccia, di una eternità che si avvicina, che il vostro cuor si compunga, che cerchiate di far pace con Dio, e di tornare al suo seno. Se per l’opposto vi lusingate di riuscire a salvarvi con essere metà di Dio, e metà del mondo, chi vi trarrà da quest’errore che accomoda, da quest’inganno che piace? È più facile schivar un precipizio che si abbia sott’occhio, che un trabocchetto di cui neppure si sospetta! –  Per altre ragioni ancora sarà più sperabile il vostro ravvedimento. Dandovi in braccio al mondo e ai suoi piaceri, proverete o tardi o tosto essere egli un padrone crudele. La miseria del figliuol prodigo lontano dal padre, sarà un’immagine della vostra: vedrete quanto siano fallaci le sue promesse, quanto ingannevoli le sue lusinghe; toccherete con mano di esservi fidati di un traditore. Via su, donne di bel tempo, date fede ai vostri insidiatori, vendete a questi la vostra onestà o la fedeltà coniugale, che poi, come tutte le altre vostre pari, andrete svergognate a morir sulla paglia. Potenti del secolo, impinguatevi pure del sangue dei poveri, delle vedove, dei pupilli, verrà un giorno che vomiterete dalle viscere vostre di ferro le sostanze usurpate, proverete con acerba esperienza che il peccato non fa fortuna, che l’altrui sudore non fa buon pro, che la roba altrui è fuoco che ridurrà in cenere la vostra casa. Giovani scostumati, pascetevi pure, come il corvo di Noè, di cadaveri e di carname, proverete, se già non lo provaste, che la brutta passione vi farà invecchiare prima del tempo, vi farà infracidar la carne, perdere la riputazione, abbreviare la vita, in una parola, dice S. Agostino: “se secondo lo spirito del mondo darete sfogo alle vostre passioni, non incontrerete che spine”. Prova se puoi, trovar piacere che non abbia il suo pungolo, gioia che non abbia la sua spina: “Si poteris, convertere ad aliquam voluptatem, ubi non spinas sentias” (Aug. in Psal. CI). – Più: che vi dice la vostra esperienza del come tratta il mondo? Quante volte vi siete sfogati in queste lagnanze: Ah mondo tristo! Chi può vivere? Ch’è mai questo mondo? Oggi amico, domani traditore, oggi vi loda, domani vi biasima, oggi vi segue, domani vi fugge,  oggi vi alletta, domani vi nausea. Così é, miei cari, tal è il mondo, tal’è sempre stato, tale e forse peggiore sempre sarà. Or dunque, persuasi in pratica che il mondo non vi può far contenti, è tutto facile, che, disgustati del suo rio costume, abbandoniate questo duro padrone, e sull’orme del figliuol prodigo, sedotto e assassinato dal mondo, ritorniate in seno del vostro Padre celeste.Disinganniamoci, miei dilettissimi, questo mondo e tutto ciò ch’è nel mondo, altro non è che un’ombra che passa, un lampo che fugge, un vapore che nel suo apparir si dilegua, una scena volubile, dice l’Alapide, che ad un batter di palpebra cangia una regia sala in orrida prigione, un ameno giardino in spaventosa boscaglia: “Mundus ad instar scenæ”. Ma voglio concedervi che per taluno il mondo non cangi aspetto, non muti scena. Non potete negarmi però che questa scena, comunque bella e piacevole, non si rivolti in punto di morte. In quel punto, volere o non volere, necessariamente si deve volgere, si deve mutare. E come? Il corpo in un cadavere, le ricchezze in uno straccio, i piaceri in vermi, la casa in un sepolcro, il mondo in una interminabile eternità. – Così un giorno per noi finirà il mondo, e tutt’i suoi prestigi. Ed ecco a qual padrone ci siamo assoggettati, o peccatori fratelli. Ecco la mercede della lunga nostra servitù. Venite or qui, e conchiudiamo. A due padroni non si può servire, già l’abbiamo veduto. O a Dio solo, o al mondo solo e al demonio dobbiamo darci per servi; vi dirò ciò che già disse al suo popolo Giosuè, eleggete qual più vi aggrada “Eligite quod placet, cui servire potissimum debeatis” (Gios. XXIV, 15). Lascia Iddio alla vostra scelta l’acqua o il fuoco, o a questo o quella stendete la mano. “Apposuit tibi aquam et ignem, ad quod volucris, porrige manuum tuam” (Eccli. XV, 17). Mi unisco alla divina proposta, e come Elia vi metto al bivio, decidete: o servire Dio, o Baal il demonio: vi presento, come Pilato, Gesù Cristo o Barabba, a chi date la preferenza? – Ah mio Dio! E alla vostra presenza, e in faccia ai vostri altari siamo costretti a discendere a questi confronti? Perdono, mio buon Signore, siam creature delle vostre mani, siam figli di vostra adozione, vogliamo essere vostri servi fedeli. E vero, ho detto, quando peccai, che non volevo servirvi, e voi potete rinfacciarmelo giustamente: “Dixisti: non serviam” (Jerem. II, 20); ma ora che conosco esser voi Signore e Padrone dell’universo, degno d’ infinito ossequio, a Cui servono tutte perfino le creature insensate: “Omnia serviunt tibi” (Psalm. CVIII), vi negherò la mia servitù? Non sia mai vero: son vostro servo : “Ego servus tuus”, e a Voi prometto coll’osservanza della vostra legge, coll’adempimento de1 miei doveri, coll’affetto del mio cuore, costante e perpetua servitù fino all’ultimo dei  miei respiri.

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:8-9
Immíttet Angelus Dómini in circúitu timéntium eum, et erípiet eos: gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus. [L’Angelo del Signore scenderà su quelli che Lo temono e li libererà: gustate e vedete quanto soave è il Signore].

Secreta
Concéde nobis, Dómine, quǽsumus, ut hæc hóstia salutáris et nostrórum fiat purgátio delictórum, et tuæ propitiátio potestátis. [Concédici, o Signore, Te ne preghiamo, che quest’ostia salutare ci purifichi dai nostri peccati e ci renda propizia la tua maestà].

Communio
Matt VI:33
Primum quærite regnum Dei, et ómnia adjiciéntur vobis, dicit Dóminus. [Cercate prima il regno di Dio, e ogni cosa vi sarà data in più, dice il Signore.]

 Postcommunio
Orémus.
Puríficent semper et múniant tua sacraménta nos, Deus: et ad perpétuæ ducant salvatiónis efféctum.
[Ci purífichino sempre e ci difendano i tuoi sacramenti, o Dio, e ci conducano al porto dell’eterna salvezza].

 

IL MAGISTERO IMPEDITO: L’ORA DI PIETRO

L’ORA DI PIETRO

[«Renovatio», V (1970), fasc. 3, pp. 325-326.]

Quanti scrivono di religione e di Cristianesimo si autodefiniscono teologi. Non sempre meritano questo titolo, perché esso non si basa solo su una laurea od un insegnamento, ma su un modo limpido, coerente e fedele di pensare con la Chiesa e di vivere nella Chiesa. Sono dei raccordi precisi ed impegnativi con la Chiesa che determinano la qualità di teologo. Una turba errante ci porta verso la notte. Non diciamo che siano decadenti o ignoranti. Forse non sempre sono in mala fede, ma certo ci portano verso la notte, non verso la luce. Hanno oscurato Dio e non mancano tra loro taluni che si affannano a indicarci i succedanei di Dio. – Hanno — non i veri teologi, gli altri – oscurato la Chiesa. La pensano presente quando l’umanità rifiuta il reale e vi sostituisce una idealizzata e inafferrabile immagine di se stessa. Il divino è esattamente questa superiore forma di umanità, vissuta ad un tempo come presente e pure ancor da realizzarsi. Questa comunità non ammette più gerarchie, se non provenienti dalla conoscenza di questo uomo superiore e dal servizio di esso. Non si parla più di verità; si accetta come valore la sola attività «sensibile pratica» di Marx: pertanto non si parla più di «ortodossia», bensì di «ortoprassi». – Che meraviglia, allora, se qualcuno nega chiaramente che il Magistero si estenda anche alle verità di ordine morale? Questi sono errori da bambini, non da pensatori! Per essere tali, bisogna dire ben altro, ci vuole una categoria più grande e di più alto livello: occorre arrivare ad una visione globale della Chiesa che la intenda non come regno di Dio, ma solo come l’autocoscienza di un divenire umano in cui Dio è presente solo in quanto «dimensione infinita dell’uomo». Il «divenire della storia» è il «divenire di Dio». – Chiesa, Magistero, Papa, Gerarchia, morale tradizionale, celibato … tutto condannato al rogo. Ed anche se qualcuno non lo nomina o non capisce che la logica di quello che dice l’obbligherebbe a nominarlo, nel bel mezzo di questo rogo c’è Dio. Allora si capisce perché nel gran rogo bruciano tutti gli ideali dell’uomo, pur sempre in attesa di superiori realtà, che si sostituiscono con la droga e gli allucinogeni. – Il fatto è impressionante. Il disordine è al tal punto che un autorevolissimo rappresentante della «nuova teologia» ritiene che ogni pensiero sia ortodosso, se considerato nell’ambito dei valori che gli sono propri. –

S. S. GREGORIO XVII

Al di là c’è il popolo buono e fedele, che implora di poter nutrire la propria fede con semplicità e chiarezza. Sa di soffrire e per questo chiede di sperare. Sente i frutti dell’odio e per questo chiede di amare: deve andare ad attingere alle fonti inquinate? Le fonti inquinate sono cisterne dissipate. – Basta con questi predicatori. È al Magistero che bisogna rivolgersi ormai e i teologi non possono considerarsi fonti genuine; se non in quanto vi si sottomettono, lo traducono, lo salvaguardano. Certo esistono buoni teologi: Dio aumenti la forza della loro voce nello splendore della loro obbedienza. Ma, il Magistero dove è pienamente certo? La Chiesa docente può senza dubbio insegnare infallibilmente, ma lo può fare se è con Pietro. E dunque necessario ritornare al centro; alternativa di questo ritorno è solo la demolizione di tutto, uomo compreso. E allora? Questa è l’ora di Pietro.

FESTA DELLA NATIVITA’ DELLA SANTA VERGINE

J.-J. Gaume: Catechismo di preseveranza; vol. IV- Torino 1881]

Origine di questa festa. – Se la Chiesa Cattolica celebra con tanta gioia e magnificenza l’Assunzione di Maria, perché mai non avrebbe dovuto consacrare con una festa solenne la gloriosa sua nascita? Agli 8 di settembre ella aduna i fedeli attorno alla culla della beata fanciulletta. Giusta i computi più esatti e le più autorevoli tradizioni, Maria nacque in Nazareth, sotto il Regno di Erode, allora quando questo empio principe era tutto inteso a distruggere la stirpe reale di Davide, a fine di rendere impossibile l’adempimento delle profezie che annunziavano come il Salvatore del mondo sarebbe uscito dalla famiglia di Jesse. Ciò dunque avvenne l’anno 22 del regno di Augusto, sotto il consolato di Marco Druso Livio e di Quinto Calpurnio Pisone; e per conseguenza l’anno di Roma 738. La sua nascita ebbe luogo li 8 di settembre, come si raccoglie dalle autorità menzionate, né fu senza mistero che fu scelto un tal giorno pel nascimento dell’Eva novella. Una tradizione, che si conserva presso gli ebrei, insegna che in tal giorno fu messa al mondo la prima Eva. La madre antica, portento di grazia e di beltà, colmò di gioia il cuore di Adamo, e compì la felicita del primo nostro genitore; nello stesso giorno la nuova Eva, di cui la prima era semplice figura, apparve sulla terra, e incomparabile per grazia e bellezza, offrì, se così è lecito esprimersi, agli occhi il più attraente spettacolo che egli avesse giammai contemplato. Ciò nondimeno per le ragioni esposte nell’antecedente lezione, e per altre eziandio fornite dalla ineffabile sapienza della Chiesa, che svolge con la successione dei secoli i mezzi di ravvivare la pietà dei suoi figli, la festa della Natività della Vergine non venne celebrata, almeno con esteriore magnificenza, nei primi tempi del Cristianesimo. Il primo e più antico monumento che ne abbiamo è il Sacramentario dì san Leone il Grande e dei Papi suoi predecessori, nel quale si trova egualmente che nel Sacramentario di san Gregorio, la festa della Natività della santa Vergine con una Messa e con orazioni proprie. Innanzi il settimo secolo ella era generalmente celebrata nella Chiesa, e prima della fine del nono era in Francia fra le più solenni. La città di Angers specialmente dimostrava la sua fervente devozione verso Maria celebrandola con pompa straordinaria e con indicibile affluenza di popolo. Da ciò viene, secondo congetture assai probabili, che i paesi a quella circostanti chiamano una tal festa l’Angioina, come avente origine dall’Anjou ‘. 1 [Oggidì pure la fiera della Natività è chiamata in Bretagna la fiera angioina]. – L’Oriente gareggiò tosto nello zelo con l’Occidente, e fino dalla metà del secolo dodicesimo, sappiamo che la festa della Natività era osservata come una delle più solenni fra le cattoliche. – Il nome solo di Natività indica l’oggetto della nostra devozione. Se i figli ossequiosi aspettano impazienti l’alba del giorno natalizio d’una madre diletta, se si affrettano a gara ad offrirle voti e mazzi di fiori, lascio decidere da quali sentimenti esser debbono animati i cuori dei figli di Maria nel giorno che diede loro tal Madre. Anche i genitori celebrano con tripudii la nascita e il giorno anniversario della nascita dei loro figli; uso efficacissimo e da coltivarsi per conservare lo spirito di unione nelle famiglie. Eppure a chi non sembrerebbe più ragionevole piangere sui figli quando entrano nella valle delle miserie, nel pensare che non solo essi nascono senza ragione e senza merito, ma figli inoltre di sdegno, contaminati dal peccato e destinati ai dolori e alla morte? Perciò la Chiesa cattolica, innalzandosi con tutta la sublimità della fede sopra l’ordine e i sentimenti della natura, celebra non già la nascita, ma bensì la morte dei propri figli. E osservate la profonda aggiustatezza del suo linguaggio! Essa chiama natività o nascita la morte dei suoi santi. Infatti nel giorno della loro morte i giusti abbandonano questa vita di angosce per nascere ad una vita vera, immortale e gloriosa. Da questa grande regola la liturgia cattolica non ammette che due eccezioni, cioè, san Giovanni Battista e la santa Vergine. Ella celebra la festa del primo giorno nel quale è venuto al mondo, perché nacque santificato e confermato nella grazia. Tanto più doveva ella celebrare la natività di Maria, poiché questa comparve sopra la terra piena di grazia e arricchita di tutti i doni di Dio. – Affrancata dalla legge del peccato originale e predestinata alla maternità divina, è indubitato che Maria fu l’anima più bella che uscisse dalle mani del Creatore, come, tranne l’Incarnazione, ella fu l’opera più degna dell’Onnipotente in questo mondo. « Perché, dice san Tommaso, Dio proporziona le grazie che concede agli uomini al grado di dignità ch’ei destina loro; talché prima di essere Madre di Dio, Maria ricevette dal cielo le grazie che dovevano renderla degna di quella eccelsa prerogativa ». Ed ecco perché l’arcangelo Gabriella la saluta con quelle parole: Tu sei piena di grazia.

Mezzi per celebrarla degnamente.— Noi pure dobbiamo salutarla piena di grazia. Figli di Maria riuniamoci oggi intorno alla sua culla, indirizzando alla nostra Madre adorabile le nostre preghiere ed i nostri omaggi. Benché bambina, Ella ci vede e ci ode; sicché da piena fiducia dobbiamo essere animati! Qual madre poté nel giorno della sua festa negare cosa alcuna ai suoi figli ? Se siamo colpevoli, Ella chiederà grazia per noi; se giusti, Ella ci elargirà i segni di una speciale tenerezza. Vogliamo noi cattivarcene il cuore? Imitiamone le virtù. Voi specialmente, o giovinetti, venite a vedere questa Santa Bambina, vostro esempio e vostra Madre. Ella ama, Ella desidera di preferenza i gigli e le rose del pudore. E voi, giovinette, che tutto dovete a Maria, Ella vi chiama intorno alla sua culla, essa vi invita a mirare lo spettacolo dei suoi primi anni. – « Accorrete, dice sant’Ambrogio, e ponetevi innanzi agli occhi la vita e la verginità di Maria: sarà questo come uno specchio in cui vedrete il modello della castità e della virtù. Uno stimolo di emulazione è la nobiltà del Maestro. Ora qual più nobile della Madre di Dio? Ella era vergine di corpo e di spirito, e di una purità incapace di ogni finzione; Ella era umile di cuore, grave nel suo parlare, savia nelle sue determinazioni; Ella parlava raramente, e non esprimeva più del necessario ; Ella leggeva con assiduità i libri della legge, e poneva la propria fiducia non nelle ricchezze caduche, ma nelle preghiere dei poveri. Sempre fervorosa, Ella non voleva che Dio per testimone di ciò che accadeva nel proprio cuore, Ella riferiva a Lui tutto ciò ch’Ella fa o possedeva. » – Anzi che fare il minimo torto a chicchessia, tutti sperimentavano il suo cuore benefico; Ella onorava i su superiori, e non invidiava gli eguali, scansava la vanagloria, seguiva la ragione, amava caldamente la virtù. I suoi sguardi erano pieni di dolcezza, le sue parole di affabilità, tutta la sua condotta portava l’impronta della modestia. Nulla si vedeva in lei che non fosse decente; la sua allegrezza nulla aveva di leggiero, la sua voce nulla annunziava che derivasse da amor proprio. Il suo esteriore era tanto ben diretto, che l’acconciamento del suo corpo era la pittura dell’anima sua e un modello perfetto di tutte le virtù. La sua carità per il prossimo non conosceva limiti. Faceva lunghi digiuni, e sceglieva per nutrimento non quello che poteva lusingare la sensualità ma ciò che bastava a sostentare la natura. Consacrava agli esercizi di devozione le ore destinate al sonno; non usciva che per recarsi al tempio, e sempre in compagnia dei suoi genitori ». – E noi tutti, cristiani, qualunque sia l’età nostra o la nostra condizione, rallegriamoci con Maria bambina per essere nata sì santa, sì cara a Dio, sì piena di ogni grazia. Rallegriamoci non solo a riguardo di Lei, ma anche per noi medesimi, perché la grazia ch’Ella recò nel mondo non è meno per noi che per Lei. Temiamo qual grande sventura il perdere la fiducia e la devozione in Maria, perché Ella è il canale di tutte le grazie. Quando Oloferne volle impadronirsi di Betulia, incominciò da chiuderne gli acquedotti. Quando il demonio vuole entrare in un’anima, cerca subito di toglierle la devozione a Maria, ben persuaso che intercettato il veicolo delle grazie, quell’anima perderà ben presto la luce, il timor di Dio, e finalmente la salute eterna. Perciò, qualunque sia lo stato dell’anima nostra, qualunque sia il numero e l’enormità delle nostre offese, ricorriamo a Maria, rifugio dei peccatori i più abbandonati; essa ci porgerà una mano soccorritrice, ci salverà dal profondo delle miserie. Facciamo dunque salire verso Lei quella preghiera, alla quale il suo cuore non può resistere: Rammentati, Vergine pia, ecc. Memorare, o piissima Virgo Maria, etc.

III. Esempio. — Fa egli d’uopo rammentare quel fatto divenuto sì celebre, e che solo basterebbe, anche la testimonianza di tutti i secoli, a stabilire la nostra fiducia in Maria nei nostri maggiori bisogni, come l’ancora tiene il naviglio in mezzo alle tempeste? Al tempo di Luigi XIII viveva in Parigi un prete chiamato Bernardo o il povero prete. Egli aveva consacrato le proprie sostanze ai poveri, e la propria vita e la propria compassione a quegli sventurati che la giustizia percuote con la sua punizione. Ora accadde che un reo, condannato ad essere mazzolato, non voleva udir parlare di confessione. Questa nuova fu portata al povero prete, che immediatamente si recò alle prigioni, e fattosi condurre al carcere del prigioniero lo saluta, lo abbraccia,lo esorta, gli suggerisce sentimenti di fiducia, lo minaccia dell’ira di Dio. Ma tutto ciò non produce effetto; che il reo neppur degnavasi guardarlo e sembrava sordo a quanto venivagli detto. Il confessore Io prega a volere almeno recitare una preghiera brevissima alla santa Vergine, che egli protestava non aver mai recitata senza essere esaudito nelle proprie domande. – Il prigioniero con atto di disprezzo ricusa di dirla, e il buon sacerdote la recita per l’intero egli stesso; ma vedendo che il peccatore ostinato neppure aveva voluto aprir bocca, la sua carità lo vince, il suo zelo lo inspira, e ponendo alla bocca dell’ostinato una copia di quella orazione che portava sempre seco, fa forza per ficcargliela dentro, dicendo: Mangiala, poiché non vuoi leggerla. Il reo, costretto dai ceppi e non potendo sottrarsi a tanta importunità, promise anche per liberarsene di recitare la preghiera. Bernardo s’inginocchia con lui, ricomincia l’orazione (Memorare), e il prigioniero non appena ebbe pronunziato le prime parole si sentì tutto mutato. Un torrente di lacrime scorse dai suoi occhi, e pregò il prete a dargli il tempo di prepararsi alla confessione: e siccome ei ben rammentava i traviamenti della sua vita, nell’amarezza del suo cuore fu sì colpito dalla considerazione dei suoi peccati e dalla grandezza delle divine misericordie, che spirò di dolore all’istante. – Apprendiamo da questo esempio quanto la protezione di quella che la Chiesa chiama il rifugio dei peccatori può essere utile a coloro che la invocano con fiducia; e rammentiamoci sempre che l’imitazione delle virtù della Madre nostra ci renderà meritevoli dei suoi favori.

 

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (6), capp. VIII e IX

CAPITOLO VIII.

IL CALVARIO.

Situazione e descrizione del Calvario. — Parie del monte Moria, che ha tre cime.— Da che furono esse occupate. — La cima del Calvario fuori di Gerusalemme ai tempi di Gesù Cristo. — Il Calvario come è oggigiorno. — Passo di Monsignor Milsin. — Esso porta ancora i segni dei prodigi dì cui fu il teatro. — Citazione di Adricomio e di un viaggiatore protestante. — Etimologia della parola Calvario. — La testa di Adamo sotterrata sul Calvario. — Antica tradizione dell’Oriente.

Passata appena la porta giudiziaria, si era alle falde del Calvario propriamente dotto. Prima di porre il piè sul suolo di questo sacro colle, sul quale fra pochi istanti son per compiersi tanti e sì prodigiosi misteri, fra gli altri la morte del Figlio di Dio, e la conversione di Dima, ci sia dato di farne la descrizione; e per orizzontarci premettiamo alcune parole sulla situazione di Gerusalemme. Questa città è posta sopra una montagna, che ha la forma di una penisola, i cui accessi, scoscesi al nord, all’est, al sud, ed anche in parte all’ ovest, sono circoscritti dalle anguste e profonde valli di Giosafat, di Gihon, e di Gehenna. Questa montagna ha diverse sommità ineguali, ed il Calvario ne è la più celebre. Raccogliamoci per intendere ciò che ne dice un gran vescovo di Oriente, maestro illustre di anche più illustri discepoli, s. Giovanni Crisostomo, s. Basilio e santo Atanasio. « Il Calvario, dice Diodoro di Tarso, faceva parte del monte Moria, il quale dividevasi in più colline e monticelli. Nella parte orientale era il colle chiamato Sion, ove era la cittadella di David. A poca distanza era il campo di Ornan il Gebusso, che, comperato da David, fu poi occupato dal tempio di Salomone, siccome leggiamo nel libro secondo dei Paralipomeni. Un’altra parte del Moria, detta Calvario, è posta fuori delle mura della città. Ivi fu immolato Isacco, ed il Cristo figurato da Isacco. » [Apud Corn. a Lap., in Gen.XXII]. – Altri viaggiatori posteriori al vescovo di Tarso, e non meno esatti di lui, distinguono tre cime sul monte Moria; la prima Sion, cosi detta a motivo della sua elevazione; la seconda, Moria propriamente detta; la terza Calvario. In Sion era la città e la cittadella di Davide; sul Moria il tempio di Salomone; sul Calvario il luogo della crocifissione del Cristo. Ai nostri giorni un dotto prelato, Monsignor Mislin, ci fa conoscere più particolarmente il Calvario. « Al tempo di Nostro Signore quel monte era fuori della città e della porta giudiziaria: fu là che soffrì Nostro Signore, extra portam passus est. Attualmente il Calvario è dentro la cinta di Gerusalemme. Por le ricerche fatte sulla posizione e la circonferenza dell’antica città, si riconobbe che le mura d’allora non avevano la stessa direzione che hanno oggigiorno. Secondo l’antica circoscrizione, lo spazio ove ora sono il convento latino, e la più gran parte del Convento greco, e la Chiesa del S. Sepolcro, è al di fuori delle antiche mura, delle quali rimangono ruderi visibilissimi presso la Porta Giudiziaria. Questa parte dell’attuale città, nella quale al tempo di Nostro Signore v’erano dei giardini, come quello di Giuseppe di Arimatea, ed alcune case isolate, fu da Agrippa il vecchio cinta di un muro, che formava la terza cinta di Gerusalemme. Questo cambiamento avvenne un dieci anni dopo la morte del Salvatore. » – Non ostante questa superficiale modificazione, il Calvario conserva le prove della sua identità, e dei prodigi di cui fu teatro: come malgrado le rivoluzioni del Globo, la terra conserva nei fossili chiusi nel fondo delle sue viscere, la prova palpabile del racconto Mosaico. Citeremo solo la rupe che si spezzò alla morte di Nostro Signore, e che tuttavia si vede. Il celebre Adricomio, che l’ebbe esaminata tre secoli fa, così la descrive. « Sul pietroso colle del Calvario è ancor manifesta la prova delle rupi che si spezzarono. Può vedersi ancora la rottura che alla morte di Nostro Signore ebbe luogo alla sinistra della sua croce, e perpendicolarmente sotto la croce del cattivo ladrone. Essa tuttora conserva le tracce del sangue del Signore, e tale è la larghezza della fessura, che può agevolmente passarvi un corpo umano, ed è sì profonda che indarno i curiosi tentarono di misurarla. Si direbbe che essa va fino giù agli abissi, e che, siccome al buon ladrone posto alla destra fu aperta la via del Cielo dalla morte del Redentore; così per lo squarciamento di quella rupe fu dischiusa al ladrone crocifisso a sinistra, come già al ribelle Core, la via dell’inferno. » – Ascoltiamo ora un moderno viaggiatore protestante. « Un gentiluomo inglese, uomo stimabilissimo che aveva percorsa la Palestina, mi assicurava che il suo compagno di viaggio, deista pieno di spirito, cercava cammin facendo di ridere e farsi beffe dei racconti, che su quei luoghi santi lor facevano i preti cattolici. Con tali disposizioni andò colui a visitare le grandi fessure della rupe, che sul monte Calvario si mostrano come effetto del terremoto avvenuto al momento della morte di Gesù Cristo, e che oggigiorno si osservano nell’ampio Santuario ivi eretto dall’imperatore Costantino. Ma quando egli venne ad esaminare quelle fessure coll’attenzione e l’intelligenza di un naturalista, si volse all’amico e disse: Comincio ad esser cristiano. Io ho fatto, proseguì egli, un lungo studio della Fisica e della Matematica, ed ho per fermo che siffatte rotture della rupe non poterono giammai esser prodotte da un ordinario e naturaleterremoto. Una simile scossa avrebbe in verità separato l’uno dall’altro i vari strati di che la rupe è composta; ma ciò sarebbe avvenuto nella direzione delle vene che la distinguono, e rompendo questa loro commessura nei punti più deboli. Io ho bene osservato che così è sempre avvenuto negli scogli che i terremoti han sollevato, e la ragione ci insegna che dove a avvenire così. Lo scoglio è rotto traversalmente, e di una guisa strana e soprannaturale la rottura attraversa le vene. Io vedo dunque chiaramente, evidentemente dimostrato ciò essere puro effetto di un miracolo, che né la natura né l’arte potevano produrre. Ed è perciò che io rendo grazie a Dio, egli soggiunse, di avermi qui condotto per contemplare questo monumento della sua meravigliosa potenza, monumento che mette in una sì splendida luce la divinità di Gesù Cristo. [Addisson. Della religione cristiana, t. II; Luoghi Santi, t. II, c. xx, 50. e c. I, p. 95] – Come ho già detto, il Calvario è ora chiuso dentro le mura della città, e le falde di esso son coperte di case; mentre la sommità con le parti adiacenti è racchiusa nella Chiesa del S. Sepolcro. Il luogo della esecuzione ci è noto. Prima di salirne alla cima seguendo i passi di Nostro Signore e dei suoi compagni di supplizio, fermiamoci un istante, poiché, fino al nome di questo colle, tutto in esso è mistero. Calvario, in Siro-Caldaico Golgotha, vuol dire Luogo del cranio. E d’onde potrà venire una sì strana denominazione? Per saperlo è d’uopo interrogare la tradizione dell’antico Oriente. « Essa viene, risponde, dall’essere stato il cranio di Adamo sepolto in cima di questo monte. Allorquando le acque del diluvio furono sul punto d’inondare la terra e di ridurre in polvere le ossa degli uomini, o di mescolarle con quelle degli animali, Noè raccolse le ossa di Adamo, e le collocò religiosamente nell’Arca. Dopo il diluvio, egli le divise tra i suoi figli. A Sem come a primogenito, diede il capo del padre del genere umano, e con esso la Giudea. Sia per ordine profetico di Noè, o per sua propria e personale ispirazione, Sem seppellì sul Golgota il capo del primo Adamo, affinché il sangue del Secondo desse la vita al mondo in quel luogo medesimo ove riposava quelli che gli aveva dato la morte. Per questo fatto la montagna prese il nome di Calvario, luogo del cranio. Per strana che paia a primo aspetto una siffatta tradizione, i più illustri Padri dell’Oriente e dell’ Occidente non esitarono punto a ritenerla per vera ed a farsene interpreti. Oltre l’autorità del dotto maestro di S. Efrem da noi citata, e quella di tanti altri che appresso citeremo, si appoggia essa sulle misteriose disposizioni della divina sapienza, e si trova d’accordo e coi sentimenti della natura, e con gli usi e costumi degli antichi patriarchi. « Tutti i popoli del mondo, dice il dotto Masio, ebbero sempre religiosa cura delle spoglie dei trapassati illustri. Egli è questo un sentimento innato nell’uomo. Quindi è che in nessun luogo le ossa e le ceneri dei morti furono trattate come cose profane e inanimate. Benché separate dall’anima, esse conservano un non so qual germe d’ immortalità, che lascia loro una specie di vita, aspettando di riprenderla intera, appena reintegrate nel loro stato primiero. » – Nell’ Egitto i morti erano l’oggetto di sollecitudini quasi superstiziose. Pei Romani nulla v’era di più sacro che la religione dei sepolcri; ond’è che abbiamo di essi tanti sontuosi monumenti per conservare le ceneri dei loro morti. Il medesimo è a dirsi degli altri popoli civilizzati. Che anzi, non abbiaci veduto anche i selvaggi del nuovo mondo, fuggire davanti ai loro conquistatori, e portare con sé le ossa dei loro padri? Ora perchè mai Noè, l’uomo giusto per eccellenza, non avrebbe fatto per Adamo ciò che tanti altri meno di lui religiosi così fedelmente praticarono verso meno illustri defunti? Non v’ha chi non conosca le pietose cure dei suoi discendenti per le ossa dei loro padri. Giacobbe morendo in Egitto raccomanda ai suoi figli di portare le sue spoglie nella Terra processa per seppellirvele; ed è fedelmente obbedito. Fuggendo dall’Egitto gli Israeliti si guardarono bene dal lasciarvi le ossa di Giuseppe: come un tesoro degno di riverenza e di amore, eglino le portarono seco loro, e le deposero a Sichem, nel campo acquistato da Giacobbe. Diciamolo di passaggio: guai al popolo che dimentica i suoi morti, che li rilega lungi da sé, e che pare avere in uggia la loro memoria! La pietà verso i defunti, la sollecitudine per la loro sepoltura, la visita delle loro tombe, il desiderio di riposare presso a coloro che ci furono congiunti per i legami di sangue e di amicizia, sono sentimenti così sacri, che non possono essere dimenticati senza dare di sè l’idea più trista e più allarmante. – La ingratitudine non fu mai indizio di un cuor buono; ed un cattivo cuore è capace di ogni male, incapace di ogni bene.

CAPITOLO IX.

IL CALVARIO.

(Continuazione)

Prove di questa tradizione: testimonianze di Tertulliano, di Origene, di s. Basilio, di s. Giovanni Crisostumo, di s. Agostino e di molti altri. — Spiegazione di alcuni passi di s. Girolamo. — Perpetuità di questa tradizione nella testa di morto collocata ai piedi del Crocifìsso. — Il Calvario luogo del sacrificio di Isacco: prove.

Ai sentimenti di natura in favore della tradizione che abbiamo riferita, si unisce la più esplicita testimonianza dei Padri della Chiesa. Sono essi in sì gran numero, che dobbiamo limitarci a citarne alcuni. Nei primi tempi del Cristianesimo, troviamo Tertulliano, il grande apologista, che dice: « Golgota è il luogo del cranio, e perciò dai padri nostri fu chiamato Calvaria. Ci fu dato conoscere che là il primo uomo fu seppellito. Là il Cristo è immolato; quel terreno beve il sangue espiatore, affinché la cenere del vecchio Adamo, mescolata al sangue del Cristo, sia purificata dall’acqua, che scorre dal suo costato » [Adv. Marcian., lib. II, c. iv, p. 1060, edit. Pamel. In fol. 1583. – Quest’ opera appena conosciuta, prova che Tertulliano fu egualmente buon poeta, che grande oratore. Vergogna all’educazione che ci lascia senza conoscere i tesori della letteratura cristiana, e che obbliga la gioventù a dissetarsi alle avvelenate sorgenti del paganesimo]. – La tradizione, che fin dal secondo secolo era popolare nell’Occidente, non era meno divulgata nell’Oriente. Contemporaneo di Tertulliano, Origene lo prova in questi termini. « Si è detto che il Calvario non ebbe una causale destinazione, ma che fu specialmente predestinato ad essere il luogo ove doveva morir Colui, che doveva morire per tutti gli uomini. Una tradizione giunta fino a noi, mi fa sapere che il corpo di Adamo, padre del genere umano, fu là sepolto ove il Cristo fu crocifisso. Ciò avvenne perché, come tutti si ebbero la morte in Adamo, tutti si avessero in Gesù Cristo la vita; e perché nel luogo chiamato Calvario, cioè luogo del cranio, il capo dell’umano genere trovasse la risurrezione con tutta la sua posterità, in virtù della risurrezione del Salvatore, che in quel luogo medesimo patì e resuscitò » – Il gran Vescovo di Cesarea, s. Basilio, non è un men solido anello della catena tradizionale. « Una tradizione, egli dice, conservasi nella Chiesa, la quale ci fa conoscere che il primo abitatore della Giudea fu Adamo. Ei vi si venne a stabilire fin dal momento che fu cacciato dal paradiso terrestre, per addolcire in qualche modo il dolore, che gli cagionava la perdita dei beni dei quali era stato spogliato. Quindi è che la Giudea fu la prima a ricevere le spoglie di un morto, quando Adamo ebbe subito la pena del suo peccato. Per i suoi figli la vista di un cranio scarno fu un nuovo e strano spettacolo, e chiamarono perciò Calvario, luogo del cranio, il sito ove il deposero. Egli è verisimile che Noè non ignorasse dov’era la tomba del primo uomo, di modo che dopo il diluvio, e per la bocca stessa di Noè una tal tradizione si divulgò dappertutto. – Or ecco perché Nostro Signore, volendo dar morte alla morte nella sua stessa sorgente, soffrì la morte sul Calvario; acciocché sul luogo stesso, ove era cominciata la morte del genere umano, avesse il suo principio la vita, e la morte vittoriosa in Adamo fosse vinta dalla morte del Redentore.. S. Epifanio nato nella Palestina e conoscentissimo della tradizione della sua patria, si esprime così: « Noi abbiamo inteso che Nostro Signore Gesù Cristo fu crocifisso sul Calvario, e precisamente sul luogo ove Adamo era stato sepolto ».. [Hæres XIV, n. 25] – S. Atanasio: « Gesù Cristo volle essere crocifisso sul Calvario, che giusta l’opinione di più dotti fra i Giudei, è il sepolcro di Adamo. » [Tract. de Pass. Dom.] – S. Ambrogio: « Il luogo ove fu piantata la croce del Signore, corrisponde perfettamente al sepolcro di Adamo, secondo che gli Ebrei ci assicurano. » [In Luc., XXIII] – S. Giovanni Crisostomo ritiene la medesima tradizione, ed in poche parole dice quello stesso, che dissero s. Basilio e gli altri padri dell’Oriente, e dell’Occidente. – S. Agostino è anche più esplicito. « Udite, egli dice, un’altro mistero. Il beato prete Girolamo ha scritto, d’aver risaputo dagli antichi del popolo Ebreo che Isacco fu immolato nel luogo stesso ove di poi Nostro Signore fu crocifìsso La tradizione degli antichi ci fa ancora sapere che il primo uomo Adamo fu sepolto sul luogo medesimo ove fu piantata la croce del Salvatore. Da ciò venne a quel luogo il nome di Calvario, perché il capo del genere umano vi fu seppellito. E veramente, fratelli miei, non v ‘ha nulla di strano e d’irragionevole a credere, che il medico fosse posto là ove giaceva il malato; poiché conveniva, che là ove era caduto l’orgoglio umano, là pur discendesse la divina misericordia, e che il sangue prezioso sparso dalla gran Vittima, anche col suo corporale contatto, riscattasse la polvere dell’antico peccatore. 1 » [Serm, VI, De temp n. 5. Opp. t. V, p. alter., p. 2306, edit. Gaume. Id. De Civ. Dei, lib. XVI, c. XXXII]. – A tutte queste testimonianze noi potremmo aggiungere quelle di s. Cipriano, di Teofilatto, di Eutimio, del Rabbino Mosè Ber-cepha, di s. Germano patriarca di Costantinopoli, di Anastasio il Sinaita, e quella pur di s. Girolamo. I secoli non han punto smentita questa bella tradizione. Nei tempi a noi più vicini, i due più dotti storici di terra santa, Àdricomio e Quaresmio ne costatano la perpetuità, e si fanno garanti della sua autenticità. «Si crede, dice quest’ultimo, che non fu per un semplice sentimento di pietà filiale, ma per un espresso ordine lasciato da Adamo alla sua posterità, che il suo corpo fosse sepolto nella terra di Giuda, e quindi riposto nell’Arca acciocché non fosse distrutto dalle acque dei diluvio. Tra i misteri che Iddio gli aveva rivelati, il padre del genere umano conosceva il più importante fra tutti gli altri. Egli sapeva che il Figlio di Dio, fatto suo redentore, si degnerebbe di morire a Gerusalemme sul Calvario. Nulla pertanto di più naturale che dai suoi figli abbia egli voluto esser sepolto nel luogo stesso ove il Cristo doveva morire; affinché partecipando al frutto della sua morte, ricuperasse la vita ove cattivo lo teneva la morte. – Si vorrà dunque riconoscere che una tradizione, la quale ha per sostegno i più antichi Padri della Chiesa, i più dotti autori moderni, ed inoltre le misteriose convenienze dell’ordine provvidenziale, è di una tale imponenza da sfidare tutti gli attacchi di chi voglia negarla. Ciò nondimeno, poiché i negatori potrebbero appoggiarsi all’autorità di s. Girolamo, la lealtà della storia esige, che da noi si discuta la testimonianza del santo anacoreta di Betlemme. Incominciamo da stabilire in questo esame il principio, che, contro un gran numero di altri non meno competenti, un solo testimonio in contrario prova nulla, segnatamente quando questo testimonio non è d’accordo con se stesso, e apertamente mostra di essere la vittima di uno sbaglio. Che quel gran santo ce lo perdoni, ma tal è egli riguardo al fatto del quale parliamo. Egli non è d’accordo con se stesso: si sta in dubbio. Nel suo cementarlo sull’Evangelio di s. Matteo, così scrive: Ho inteso dire che il monte Calvario sia il luogo della sepoltura di Adamo, e che esso fu così denominato, perché la testa del primo uomo vi fu deposta, lo che fa dire all’apostolo: Levati su tu che dormi; e risuscita da morte, e Cristo li illuminerà. Interpretazione lusinghiera per le orecchie del popolo, ma che non è punto vera. » – Più tardi interpetrando l’epistola agli Efesini, il sommo dottore si mostra molto meno assoluto. Avendo di bel nuovo rigettata la tradizione, aggiunge: « È dessa vera o falsa ? Lascio giudicarne al lettore. » – Finalmente altrove egli afferma ciò che prima ha negato, e poi dato come dubbioso. Niuno ignora che le due sante ed illustri matrone romane Paola ed Eustochio avevan ricevuta da s. Girolamo la conoscenza della Bibbia. Si può dunque liberamente affermare esser egli che parla nella seguente lettera, tanto più che così per la sostanza come per la forma, quell’epistola ben lunga sembra esser di lui anziché di quelle pie donne; le quali scrivendo alla loro amica Marcella per impegnarla a portarsi a raggiungerle in Palestina, le dicono: « La tradizione ci fa sapere, che qui a Gerusalemme, e precisamente sul Calvario, Adamo nostro primo padre, abitasse e poi fosse sepolto. Di là il nome di Calvario dato al luogo ove Nostro Signore fu crocifisso, perché vi era stato deposto il cranio del primo uomo; onde il secondo Adamo col suo sangue che scorreva dalla croce, cancellasse il peccato del primo Adamo, giacente sotto lo stesso altare del sacrificio, e fosse adempiuta quella parola dell’apostolo: Levati su tu che dormi, e risuscita da morte? e Cristo ti illuminerà. » Il santo dottore fu tratto in inganno. Per non ammettere la sepoltura di Adamo sul Calvario, s. Girolamo si fonda su questo passo di Giosuè: « Hebron aveva per l’avanti il nome di Cariath-Arbè: Adamo, il massimo tra gli Enacimi ivi è sepolto.» Ora il Santo Dottore scambiò il grande Adamo di cui si parla in quel passo, per Adqmo il padre del genere umano; questo dimostrano il Baronio e Cornelio a Lapide. Hebron fu occupato dal gigante Arbè e dai suoi discendenti, e di qui si ebbe il proprio nome di Cariath-Arbè, che suona città di Arbè. Ora Arbè fu il padre di Enac, ed Enac il padre dei giganti. Arbè fu fra tutti il più grande sia per ragione di sua paternità, sia per ragione di sua statura, e perciò gli fu dato il soprannome di Adamo. Tale è il senso del testo di Giosuè, ed eccone la prova: 1.° Nella valle di Hebron primamente chiamata Cartalh-Arbè, viveano i giganti, la cui sola vista spaventò gli esploratori mandati da Giosuè. « Vi abbiamo veduto certi mostri di figliuoli di Enac, di razza di giganti, paragonati ai quali noi parevamo locuste. » [Num ., XIII, 34]. – 2.° Lo storico Giuseppe narra che a suo tempo ancora era cosa ordinaria il vedere delle ossa di giganti, che erano state sepolte in Hebron di così smisurata grandezza, da parere affatto incredibile, a chi non le abbia vedute coi suoi propri occhi. [Antiq. Jud., lib. V, c. 11]. 3.° Non è possibile ammettere che tutti i Padri della Chiesa abbiano ignorato il testo di Giosuè, e contro il testo scritturale, posto il sepolcro di Adamo sul Calvario, anziché in Hebron. Quindi è che l’Adamo sepolto in Hebron è tutt’altro che il Padre del genere umano. – 4.° Quello che poi pienamente ne convince, si è il testo medesimo di Giosuè. L’Adamo di Hebron vi è chiamato il massimo Adamo, Adam maximus. Ora appellare così il nostro primo Padre, è una locuzione insolita nella Santa Scrittura. Quindi è ben chiaro che la sentenza di s. Girolamo non toglie fede per nulla alla testimonianza unanime dei Padri. – La tradizione della sepoltura di Adamo sul Calvario può dirsi continuata anche oggigiorno in un fatto a tutti visibile, del quale molti ignorano la ragione. Intendiamo parlare del teschio di morto dipinto e scolpito a piè dei Crocifissi. Quel teschio rappresenta il capo di Adamo. Il primo ed il secondo Adamo ravvicinati l’uno all’altro, il peccatore ai piedi dell’Espiatore; la morte pena del peccato, vinta dalla morte del Giusto; il genere umano caduto in Adamo, rialzato in Nostro Signore. Qual libro può darsi più di questo eloquente e completo? – Al Calvario si riferisce un’altra non meno bella che certa tradizione. Noi dobbiamo conoscerla per ascendere la misteriosa collina al seguito di Nostro Signore e dei suoi compagni di morte, col corteggio di tutte le memorie che essa richiama alla mente. Sul Calvario ebbe luogo il sacrificio di Abramo. Certa ne è la tradizione, ed ha per base la Scrittura ed i Padri. « Prendi, disse il Signore ad Abramo, il tuo figliuolo unigenito, il diletto Isacco, e va nella terra di visione; ed ivi lo offrirai in olocausto sopra uno dei monti il quale ti indicherò. [Gen., XXII.] » La terra di visione, in ebreo la terra di Moria, è la terra ov’è il monte Moria. Ora, l’abbiam già notato, una delle cime del Moria è il Calvario. Aggiungiamo che il sito della montagna concorda col nome. Allorché Abramo ebbe il comando di immolare suo figlio, abitava il paese di Gerara. Di là al monte Moria vi sono tre piccole giornate di cammino, e la Scrittura dice, che appunto al terzo giorno Abramo scoprì coll’occhio la montagna del sacrificio. 3 S. Girolamo stesso afferma che nulla è più certo di una tal tradizione. La quale non solo è sicura, ma è bella, di quella bellezza incantevole, che risplende nelle opere della divina sapienza. Per comando di suo padre, Isacco salì la montagna eternamente misteriosa portando sulle sue spalle le legna del suo olocausto. Per volere del suo Padre celeste, Nostro Signore Gesù Cristo la salì Egli ancora carico del legno della sua croce. Col suo sacrificio figurativo il figlio di Abramo, quindici secoli prima, segnalava il luogo benedetto, ove il Figliuolo di Dio esser doveva immolato in realtà. In premio di loro obbedienza, Abramo ed Isacco ebbero su quella montagna le più magnifiche promesse. Per prezzo della sua morte, Nostro Signore Gesù Cristo ricevé sul Calvario l’eredità di tutte le nazioni. In quale storia profana si troveranno mai somiglianti armonie?

 

Il Magistero impedito: ORTODOSSIA, ERRORI E PERICOLI (2)

Gregorio XVII [26 ott. 1958 – 2 mag. 1989]:

il Magistero impedito.

ORTODOSSIA, ERRORI E PERICOLI (2)

[Lettera pastorale del 1° agosto 1959; Riv. Dioc. Genov.]

I.— Ortodossia

II.

Ecco una seconda proposizione, che si è costretti ad ascoltare qua e là: «La Chiesa – e pertanto la autorità ecclesiastica – non deve entrare in faccende terrene; segnatamente la Chiesa non deve occuparsi di dottrine e questioni politiche e sociali. Essa deve solo pensare alle anime». – Questa proposizione che contiene qualcosa di vero e molto di falso, come subito dimostreremo, è usata ed abusata da coloro che non vogliono essere disturbati nei loro piani e nei loro interessi, che non vogliono cioè incontrare mai sul loro obliquo cammino chi possa fermarne il progresso illegittimo, in nome di una verità superiore e di una giustizia certa. – Diciamo subito quello che nella proposizione è vero. La Chiesa per sé ha uno scopo eterno e non uno scopo terreno, ha la competenza che le proviene da questo scopo, secondo la positiva costituzione di Cristo. – Essa non ha come suo scopo adeguato quello di occuparsi di questioni terrene in quanto tali. Vediamo ora quello che nella proposizione è falso. Che la Chiesa non abbia come suo scopo adeguato e caratteristico quello di occuparsi di cose terrene, non significa essa non possa occuparsene proprio in ragione del suo fine eterno. Al contrario: essa, come già si è rilevato, è visibile ed ha per volontà divina una costituzione che la pone tra le realtà terrene e pertanto a trattare anche affari terreni. – Essa deve condurre alla fede, alla grazia ed alla salvezza gli uomini che stanno tra affari terreni e deve farlo passando attraverso realtà e difficoltà terrene. Deve dunque entrare per il proprio ufficio in queste realtà e in queste difficoltà. – Essa è custode della propria libertà, delle proprie divine prerogative e pertanto deve anche difenderle quando occorre e sul terreno ove questo occorre. E pazzesco pensare che la Chiesa possa agire sui fedeli, come deve, in un mondo diverso da quello nel quale i fedeli vivono. – La Chiesa è custode e giudice dell’aspetto morale di tutti gli atti umani e pertanto, almeno sotto tale aspetto, diventano oggetto di sue legittime cure anche affari terreni. Nessuno può pensare di separare politica e sociologia dalla morale, perché davanti a Dio non esistono extraterritorialità. In conclusione: non si deve dire che gli affari terreni siano di per sé competenza della Chiesa; ma taluni affari terreni diventano almeno sotto qualche aspetto aperti alla sua sollecitudine e di tutti gli affari giudica se siano o meno conformi alla legge di Dio. L’errore denunciato in verità si riduce od almeno si collega a quello elencato prima. Si tratta di una separazione innaturale, inumana ed irrazionale tra la vita civile e quella spirituale, tra l’ordine terreno e l’ordine religioso, tra il mondo e Dio. L’illuminismo aveva ipotizzato una sorta di costituzione imposta al Creatore, con aumento delle umane autonomie; l’errore del quale abbiamo parlato si trova esattamente in quel solco. L’idea di separare il momento in cui si va a Messa od a confessarsi dal momento in cui si prendono atteggiamenti in questioni e competizioni umane arride assai anche ai cattolici dai contorni molto consumati. Ma l’unità della verità dell’essere e pertanto della logica non si arrendono e non si arrenderanno mai. – Il tentativo contro la ortodossia qui parte dal desiderio di sdoppiare nell’uomo aspetti diversi legati però e sempre dalla stessa legge; tuttavia l’errore tenta di avvalersi di una ignoranza teologica. Essa verte sul dogma relativo alla sostanza stessa del Regno di Dio o, siccome oggi si ama qualificarla, del Corpo mistico di Cristo. Il Corpo mistico di Cristo è il Regno di Dio, pertanto non è una realtà vaga inafferrabile e pertanto riducibile a piacimento. Il Regno di Dio in terra e fino alla fine del mondo è la Chiesa ed è perfettamente inutile credersi di stare nel Regno di Dio, nel Corpo Mistico, se non si è nella Chiesa attraverso la obbedienza ai legittimi pastori. Il tentativo è quello di ridurre la azione della Chiesa ad essere puramente culturale e puramente interiore. Questa riduzione altera il disegno di Gesù Cristo in modo sostanziale, perché Egli ha inteso costituire in terra una società ben visibile e ben munita di diritti che non le provengono da sorgente umana, che possono non esserle corrisposti e che quando non le sono corrisposti diventano o prima o poi causa di una rovina. L’argomento verrà ulteriormente dipanato nella analisi di talune posizioni che seguono.

III.

«Bisogna rinnovare qualcosa nella Chiesa».

Questa proposizione ritorna spesso su labbra in buona fede. Più ancora sembra animare in taluni spiriti aspirazioni generiche ed indistinte. Essa è la quasi inconscia ragione per cui taluni sacerdoti e laici, senza alcuna voglia ereticale, civettano col socialismo e col laicismo. Esistono anche pubblicazioni cattoliche che hanno detto chiaramente di attendere l’avvento di qualcosa di nuovo ed intendono preparare gli spiriti a questo rinnovamento, oppure che, senza dirlo esplicitamente, lo lasciano abbastanza intendere. Si deve ritenere trattarsi di proposizione più sentimentale che razionale, più reattiva che attiva, più indistinta che perentoria. E per tale ragione che vale la pena di esaminarla, dato che un effetto cattivo lo ha certamente: quello di creare la mentalità di un transitorio in sospensiva ed in pericolo di slittamento; e quello di rendere pregiudizialmente inclini a tutto ciò che, comechessia, possa rappresentare un cambiamento. La proposizione, che rimane indistinta e persino subcosciente quando è affermazione di carattere generale, diventa singolarmente precisa quando scende al particolare, forse perché nel particolare cessa la ragione, e a torto, di violare dei principi generali. Ed ecco i punti sui quali gli spiriti famelici vorrebbero vedere subito delle mutazioni:

a) allargamento della disciplina ecclesiastica, si dice, per avere maggiore contatto coi fedeli e aumentare le possibilità di bene ampliando con essi le cose comuni;

b) attenuazione dello spirito della Croce, ossia del senso della mortificazione, della penitenza e della rinuncia, come strumento legato ad epoca ormai sorpassata, necessitando invece far buon viso ad un umanesimo che sorge, ad un mondo che coi nostri musi severi noi finiremo per gettare in braccio a Satana;

c) accettazione di alcuni principi marxisti;

d) sostituzione di un criterio educativo cedente tutto alla personalità che si evolve e pertanto attenuazione logica dei concetti di autorità e di obbedienza, sostituzione dell’autocontrollo alla disciplina;

e) democratizzazione della Chiesa, aumentando la caratura dei laici in essa e mettendo limiti alla azione della sacra gerarchia;

f) riforme della sacra liturgia ed abolizione del latino in essa.

Non manca qualche originale, il quale dice di peggio. Ma si tratta di esemplari così rari e così evidentemente fuori del seminato che a proposito di essi potrebbero essere tratti nell’equivoco o nell’inganno solo i loro pari. – Se consideriamo nell’insieme le sottoproposizioni elencate si possono fare subito le seguenti osservazioni di carattere generale:

a) esse sono tutte delle infiltrazioni derivate da situazioni contingenti, da mode e da autentiche malattie del nostro tempo. Non nascono dunque dall’interno e da una impostazione di razionalità, ma da una suggestione, da un influsso subito e danno la forte presunzione di essere complessi di inferiorità;

b) procedono da un allentamento evidente di quella distinzione tra noi e il «mondo», che Gesù Cristo ha vivamente imposto nel’Evangelo: si presentano pertanto più con il colore dell’annacquamento che con il suggello della vigoria;

c) risentono l’attuale indirizzo democraticistico, che appartiene alle variazioni più o meno effimere di questa curiosa esperienza umana e che non possono mai elevarsi a principi direttivi durevoli nell’ambito di una istituzione divina quale è la Chiesa;

d) possono forse interpretarsi in taluni uomini, più che per quello che suonano, per un indistinto, ma non riprovevole desiderio di aggiornamento di strumenti e di metodi in talune istituzioni od ambienti. Un tale desiderio potrebbe essere talvolta motivato ed onesto;

e) sono il segno di un disagio spirituale dalle cause diverse, di carenza teologica, di impostazioni per nulla razionali. Esse documentano situazioni che non depongono contro la chiarezza della verità, ma solo contro la chiarezza delle menti. Queste osservazioni generali chiuderebbero l’argomento. Tuttavia continuiamo un esame obbiettivo. – Dissipiamo subito l’idea che tutto debba essere statico nella Chiesa e che mai ci sia qualcosa di nuovo da fare. Immutabile è quanto è di istituzione divina. E dunque chiaro che molte cose possono mutare. La ricerca della perfezione è di natura sua una mutazione continua. Se qualcuno ama le cose nuove, gliene diamo subito un esordio (il solo esordio) di lista e gli auguriamo di far presto a realizzarle:

– catechesi a tutti (i più non l’hanno);

– organizzazione di tutte le comunità cristiane (parrocchie etc.) nella vera ed operante carità di Cristo;

– organizzazione dello slancio missionario per la conquista dei continenti ancora in gran parte infedeli;

– costruzione di tutti i metodi per i singoli, anche piccoli, settori allo scopo di neutralizzare quanto il progresso tecnico porta direttamente o indirettamente di danno alle anime, santificando ed utilizzando quello che di tale progresso è santificabile ed utilizzabile;

– riportare in primo piano la virtù del distacco del cuore dai beni terreni, sì da non eliminarli, ma renderli tutti, anziché padroni, servi dell’uomo e strumenti di un maggiore ed eterno bene;

– trovare le giuste e pure vie perché gli uomini e le istituzioni tutte si possano trovare con Gesù Cristo, lealmente e coerentemente, fino in fondo; senza portare la Chiesa in responsabilità che o le sono improprie, o le diventano pesanti, o si fanno addirittura pericolose ed ostacolo alla sua divina ed universale missione. – Tutto questo significa camminare in avanti a bandiere spiegate e nella luce di ideali generosi. Chi vuol camminare ha strada all’infinito. Ma tutte queste «cose nuove» sono antiche quanto Cristo e la novità sta nel riportarle continuamente, cogli accorgimenti delle mutate circostanze, risalendo senza posa la china della debolezza e della compromissione umana. Questo è il fascino dell’avvenire. Ridursi a chiamare «avvento di cose nuove» qualche debolezza di più o qualche annacquamento indebito dell’ideale evangelico non è serio e non è neppur nuovo perché è antico quanto sono antichi tutti i tentativi di evasione dalla integrità evangelica.

A) Allargamento della disciplina ecclesiastica per essere più vicini ai fedeli.

Non occorre qui dipanare il concetto di «disciplina ecclesiastica». È ben noto a coloro ai quali è diretto questo scritto. Non è invece inutile ricordare che «disciplina» è in uso solo presso esseri intelligenti e liberi, dato che agisce in via morale e cioè agisce col proporre autorevolmente una norma all’intelletto sicché questo convincendosene solleciti la facoltà motiva – la volontà – perché passi all’azione nel modo proprio della sua natura. La via morale non è via di costrizione, bensì di convinzione; la costrizione interviene quando è necessario o per riparare un ordine leso o per supplire alla debolezza dannosa delle facoltà volitive. Ora, nella disciplina ecclesiastica si debbono distinguere due aspetti:

– uno è il rapporto di adeguazione al fine della Chiesa e specificamente al fine del sacramento dell’Ordine e della sacra Gerarchia, siccome lo ha stabilito Gesù Cristo; ossia «nel complesso delle norme deve sempre restare salva ed immutabile la fungibilità o capacità loro di raggiungere il fine inteso dal divin fondatore della Chiesa»; — l’altro è la norma in se stessa. È chiaro che il primo aspetto non sarà mai toccato, perché distruggere il rapporto di capacità della disciplina rispetto al fine inteso significherebbe distruggere o rendere inoperante il fine stesso. Pertanto vi sono norme che hanno così necessario e sostanziale tale rapporto da ritenere non possano mai essere cambiate. Nel secondo aspetto noi troveremo, accanto alle norme delle quali ora si è fatto cenno, altre che possono avere valore contingente e che pertanto possono anche venire legittimamente cambiate. Ma per quanto si cambino tali addendi la somma dovrà sempre essere la stessa e cioè dovranno sempre assicurare quella santità di ordine e di figura che Cristo ha ipotizzato nella pienezza della sua legge e del suo spirito. – Coloro che sognano allargamenti della disciplina ecclesiastica non riflettono a tutto questo, soprattutto non riflettono che, pur variando, la somma dovrà sempre essere la stessa e ci dovrà sempre dare il prete, immagine di Cristo, saggio, umile, severo con sé, impregnato dello spirito della Croce e cioè del distacco e della rinuncia per poter in tal modo verificare la umiltà e la carità, trionfo del suo ministero. Essi si ingannano, perché sperano di ridurre in verità il peso del dovere, cosa che nessuno può fare in questo modo legittimamente; credono ingenuamente che si possano trovare forme evasive eppur salutari col buon Dio; credono ancor più stranamente che si possano ottenere gli stessi effetti di santificazione, diminuendo la caratura delle cause. Il che è contrario alla matematica più elementare, perché contrario alla più evidente logica. Pertanto è certo che si possono ipotizzare delle variazioni nelle norme disciplinari a tenore di quanto si è detto sopra. Ma non c’è nessun gusto per coloro che hanno simili desideri, dato che la somma dovrà essere la stessa e che pertanto quanto di austerità o di croce dovrà togliersi da una parte, dovrà pur esser messo da un’altra. – Essi infatti vogliono essere dispensati da pesi, null’altro. Ma avrebbero aver saputo per tempo che i pesi fondamentali li mette l’ordinamento divino intoccabile e che taluni altri pesi, quando sono stati liberamente accolti, dignità vuole si portino fino in fondo. – Taluni vorrebbero andare a caccia senza limitazioni, a teatro, a ritrovi mondani etc. Se questi taluni esistono, si vergognino di aver un giorno optato per Gesù Cristo e per la sacra maestà del Tempio. Essi si cullano in una mentalità contraddittoria a loro stessi, ossia al dignitoso momento in cui hanno assunto con grandezza luminosa impegni decorosi e fecondi. La voglia di adattare la verità e la legge ai propri vergognosi limiti ha creato Lutero e fu gran rovina, perché aveva pur doti lui e miserie immense l’ambiente intorno a lui. Ma quella di adattare la verità e la legge ai propri limiti è la più grande vigliaccheria che si possa concepire. C’è una affermazione che, per quanto superato ormai l’argomento, dobbiamo esaminare. Si dice nella proposizione in oggetto che il rilassamento della disciplina verrebbe bene per essere più vicini al popolo e stabilire con esso una apertura quanto mai utile alla sua santificazione. Premettiamo che mai si dovrebbe pensare a santificare il popolo contraffacendo la linea del sacerdozio ideato e costituito da Gesù. Premettiamo anche che talune cose inaccettabili come regola possono accettarsi come eccezioni ragionevoli. Il sacerdote deve vivere del suo ministero; ciò non ha impedito che san Paolo in talune circostanze e per ottenere taluni scopi giusti abbia fatto il tessitore, come non ha impedito ad un vescovo dell’Africa Equatoriale di fabbricare lui personalmente nei giorni liberi migliaia di mattoni per accelerare la costruzione di scuole cattoliche. Noi ammiriamo san Paolo e quel degno vescovo proprio perché si tratta di eccezioni che confermano nobilmente la regola. Chiediamoci però una buona volta: il popolo dobbiamo precederlo o dobbiamo seguirlo? E se appare ponderoso affrontare subito tale questione di massima chiediamoci: «ma è proprio vero che un rilassamento della disciplina avvicinerebbe al popolo e renderebbe più utile il nostro ministero?». Attenti bene: la questione non verte sulla opportunità di essere vicini al popolo (che si afferma, si desidera e non si discute neppure); la questione è se, ad ottenere tale vicinanza, noi si possa adottare la via di un rilassamento.

1) La media degli uomini mormora terribilmente dei più piccoli difetti degli ecclesiastici. Il criterio di tali giudizi è ordinariamente duro ed esagerato e nessuno questo lo può negare. Tali mormorazioni e tali criteri indicano per sé che i difetti e i rilassamenti allontanano e non avvicinano il popolo.

2) Accidentalmente la rilassatezza fa degli amici agli ecclesiastici. Li rende simpatici a coloro che trovano agio nelle loro umane qualità e giustificazione nella somiglianza con loro. Ma in tal caso l’ecclesiastico acquista alone, simpatia, corteggio per sé, non per Dio. Da questi corteggi sono usciti i peggiori anticlericali e molte volte i peggiori inciampi per i successori.

3) Attraverso l’ufficio Onarmo abbiamo fatto un sondaggio della opinione degli operai su questo tema e la risposta che abbiamo avuto non ci ha lasciato dubbi in merito: gli operai vogliono dei sacerdoti autentici, che siano solo e sempre sacerdoti, niente altro che sacerdoti, dal piedistallo morale più alto del proprio.

4) Lo studio della psicologia media rivela il bisogno di un prestigio al quale appoggiarsi nella profonda e bruciante esperienza della debolezza propria. E per questo che di fatto il prestigio nel sacerdote condiziona molto della riuscita del suo ministero. La vera domanda che il mondo rivolge al sacerdote è che egli sia più in alto per potervisi appoggiare e per poter ancora credere alla virtù ed alle superiori realtà. E esattissimo quando si afferma che nel sacerdote la gente cerca in verità non solamente un fratello, ma un padre.

5) L’idea della rilassatezza di disciplina come giovevole all’avvicinamento può germinare nella testa di chi ha riportato dei successi personali, che non sono in genere i successi di Dio e della sua santa legge. Taluni giudicano della questione del loro agio, non del razionale impiego della loro intelligenza. Tutto questo ha una singolare conferma dalle esperienze del campo giovanile. I giovani amano quelli che sanno stare con loro e mettersi al loro livello; ma cessano di domandare il sussidio spirituale, la direzione dell’anima a coloro dei quali si accorgono che si divertono a stare con loro e non stanno con loro per convinzione, sacrificio e rinuncia interiore.

6) Si osservi la storia. La Chiesa greca non ha avuto alcuna notevole influenza missionaria per aver abolito un capitolo di disciplina: quello relativo al celibato. La Chiesa greca eterodossa non ha avuto alcuna reale influenza nella completa maturazione dei popoli per lo stesso motivo. La considerazione generale delle condizioni dei diversi paesi rende chiaro che là si è maggiormente mantenuta la fede e la virtù del popolo dove più austera si è conservata la disciplina. Esistono nazioni nelle quali gli ecclesiastici hanno talune particolarità che parrebbero un allargamento, mentre negli stessi paesi si nota un consolante fiorire della vita ed influenza cattolica. Alludiamo in modo particolare all’America del Nord. Ma bisogna osservare che se talune particolarità possono indicare un maggiore agio materiale ed una maggiore snodatura, anche prescindendo da altre considerazioni, là il clero vive abitualmente la vita di comunità il che costituisce disciplina ben più stretta delle apparenti larghezze.

7) I fedeli vogliono vedere nel sacerdote qualcosa di più di quello che è in loro; nell’ordine ecclesiastico domandano maggiore compitezza e levatura di quanta non ne osservino nelle organizzazioni comuni. In essi la immagine del sacerdote prominente sull’altare rimane rilevata e non ne tollerano alcuna che sia contraddittoria con quella.

8) Finalmente è legge comune che tanto si aumenta la forza di volontà quanto, a parte la grazia di Dio, si aumenta l’esercizio della austerità e del sacrificio. Ciò significa che qualunque diminuzione di sacrificio, ossia di disciplina, significherebbe inevitabilmente unadiminuzione di presa della azione sacerdotale.

B) Attenuazione dello spirito della Croce.

Talune delle osservazioni, fatte per la proposizione precedente, dimostrano la falsità della proposizione presente e pertanto non sarebbe necessario insistere. E tuttavia bisogna affermare, a costo di ripetere, che essa è direttamente contraria alla essenziale impostazione della Rivelazione divina. Infatti il Verbo si è fatto uomo, è entrato nella famiglia umana; ha riaperto la sorgente della grazia ed ha redento attraverso la sofferenza. La Croce riassume tutto Gesù Cristo. In tal modo non solo ne è inseparabile, ma la Croce riassume tutta la sua via e tutta la divina saggezza contenuta nel suo messaggio. Una legge senza la Croce non è più di Cristo. Tutto questo sul terreno pratico Egli lo ha detto ripetutamente e duramente: «Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua» (Mt. XVI, 24 sgg.), «la porta è stretta e angusta è la strada» (Mt. VII,13 sgg.). San Paolo ha fatto chiari commenti. La santità ha battuto sempre questa strada e questo è accaduto necessariamente, non solo per la coerenza alla Redenzione sulla Croce, per la assimilazione a Cristo e per la dovuta espiazione, ma ancora per compiere in noi quello che manca nel tempo e nel Regno di Dio alla stessa passione di Cristo (cfr. Col. 1, 24). – L’idea di rammollire in qualche modo il senso della Croce con quanto essa significa è dovuta alla debolezza interiore di talune anime ed alla loro paura del mondo. Per lo più si tratta di un loro deragliamento spirituale, da giudicarsi per quello che è. Non si esclude in taluni il timore di non trovare seguaci a Cristo, se le cose si presentano dure. Forse qui c’è della buona fede, ma anche della pericolosa pusillanimità. Pretenderebbero che le cose fossero facili. Non devono essere facili, e per la dignità dell’uomo che riceve da Dio e per la dignità di Dio che dona all’uomo. Del resto attraggono assai più le ragioni forti che quelle deboli. L’orma che il Creatore ha stampato nelle sue creature si vitalizza assai più dinanzi a donazioni robuste che non a evocazioni di conciliante mollezza. Non per nulla Dio ci ha messo la sua grazia ed è per questo che può chiamare, come ha chiamato, attraverso la via della Croce. Quelli che attendono con intelligenza alla educazione di giovani sanno benissimo che in essi si ottiene assai più a domandare tutto che non a domandare metà. Si osservi infine: tolta la Croce che rimarrebbe di grande, di smagliante in tutte le virtù? E essa che dona le proporzioni alle migliori cose che possono fare gli uomini. Difesa la Croce sono difesi la penitenza, la mortificazione, la austerità, la rinuncia, il silenzio, la solitudine, la povertà, l’oblio, il patimento, i doveri pesanti, l’eroismo, l’olocausto, la disciplina, il metodo, la rigorosità di coscienza, il perdono, la restituzione di bene per male, il digiuno, l’offerta in spirito di vittima, il martirio. – L’idea di andare incontro al mondo dolcificandogli e rammollendogli quello che è amaro e duro è una capitolazione, non una furbizia. La verità mantiene pieni tutti i suoi severi diritti anche in questo campo.

C) Accettazione di alcuni principi marxisti per falsa carità verso i fratelli.

Il marxismo è monolitico. La accettazione di qualsivoglia sua conseguenza o applicazione «specifica» comporta la implicita accettazione del suo fondamento. Le separazioni tra effetto e causa sono assolutamente arbitrarie e non è lecito accettare una conseguenza pretendendo di non assumere le responsabilità del suo principio. Quanto alla inaccettabilità del principio marxista, che è materialismo, nessun cattolico può avere dubbi. Se li avesse sarebbe manifestamente o ignorante o in mala fede. Il punto è precisamente questo: il marxismo non lo si accetta a pezzi disgiunti: se se ne accetta una parte si assume la responsabilità di tutto. E pertanto un cattolico non salverebbe la sua ortodossia. Non salverebbe neppure la dignità della sua intelligenza, per la ragione seguente. Ammettere la bontà e la utilità di una applicazione del principio negatore di Dio anche ai soli effetti materiali ed ammettere insieme che c’è Iddio, unico principio della realtà esistente ed unico ordinatore di essa nella più perfetta ed unitaria finalità, è impossibile. Domanda un salto di logica che è mortale. Sul terreno puramente pratico: coloro che credono alla bontà parziale di talune applicazioni marxiste hanno gli occhi chiusi o forse li hanno troppo aperti e in mala fede. Parliamo di «occhi chiusi» perché non vedono che le applicazioni marxiste defraudano individui e popolo di tutta la libertà, inducendo un sistema di organizzazione talmente artificiale e meccanico da divenire antiumano e in prosieguo di tempo anche antieconomico e pertanto apportatore di più penose condizioni materiali. Parliamo di «occhi troppo aperti» perché le realizzazioni marxiste hanno certamente il pregio di creare posizioni di accentramento desiderate da uomini cupidi, i quali spesso non potrebbero altrimenti sperare di raggiungere posizioni di comando economico. – La verità è che la tintarella marxista ha beneficiato in qualche misura, anche presso oneste persone, della volgarizzazione di moda. E tutti sanno che le mode hanno sempre un singolare quanto inconsistente prestigio. – Dopo quanto si è detto per noi ha importanza il fatto che qualunque accettazione del marxismo o nei principi o nelle applicazioni specifiche comporta un almeno implicito o virtuale rinnegamento di Gesù Cristo ed una cancellazione del carattere di cristiano.

D) Sostituzione di un criterio educativo che tutto ceda alla personalità. Attenuazione del principio di obbedienza. Prevalenza dell’autocontrollo sulla disciplina.

In questa proposizione multipla c’è tutta la insofferenza patologica del nostro tempo. Essa è l’estremo tentativo di abolire la legge di Dio, mantenendo le apparenze di rispettarla. È insieme una aggressione ed una capitolazione. Questa proposizione è contraria o per lo meno lesiva di principi certi. Esaminiamo la prima parte della proposizione tenendo presente che in materia educativa il punto di vista cattolico può esprimersi nel modo seguente: «L’uomo, specialmente nella sua prima età, ha bisogno di educazione organica e ferma perché è immaturo, perché è debole umanamente con debolezza acuita dal peccato originale, perché deve ricevere dal di fuori di sé cose che non ha ancora, perché non ha maturo il discernimento ed è facile preda di ogni inganno ed errore, perché finalmente è soggetto a istinti, sentimenti e passioni turbinose ed obnubilanti specialmente nella adolescenza e giovinezza. Incompletezza, debolezza e facile passività alle suggestioni sono le ragioni per cui l’uomo ha bisogno sempre di una educazione, che gli deve venire da coloro dai quali si suppone esser già abbastanza superato il periodo delle naturali carenze. La educazione, o efficace conduzione dell’uomo verso la sua maturità complessiva, non può avvenire senza un ordine e questo è reso valido ed efficiente dall’uso ragionevole della autorità, sia essa dei genitori o sia di chi supplisce o completa i genitori. – È ovvio che la educazione si basa su principi inderogabili, il valore dei quali è costante quanto sono costanti la umana natura e la umana condizione. Circa i medesimi non si possono fare nella sostanza né mutazioni, né sostituzioni. Le mutazioni potranno riguardare gli aspetti marginali, gli strumenti, i metodi, le tecniche, non la sostanza. E attentato agli uomini il supporli diversi da quello che sono: in tal caso nulla sarà mai a loro conveniente». – Il concetto poi di personalità è certamente collegato col concetto di distinzione, la quale implica autonomia ed esclude ogni riduzione a denominatore comune. La personalità morale (si parla infatti di quella) viene raggiunta quando tutte le possibilità di un individuo sono messe in opera e quando egli è regolato nel suo interno senza alcuna riduzione della sua intelligenza e della sua libertà. E a questo punto che molti prendono l’abbaglio del quale è viziata la proposizione in oggetto. Infatti i più gravi attentati alla libertà ed alla vera autonomia, quindi alla personalità, l’uomo li ha nel suo interno dalla sua ignoranza, dai suoi istinti turbolenti e dal sentimento scatenato dal disordine soprattutto colpevole, dalle illusioni del suo orgoglio e dalle esigenze della sua sensualità. – In conclusione: la personalità morale la si raggiunge solo attraverso una perfezione interiore, la quale, oltreché necessitata a venir sostenuta dall’esterno per quanto si è detto sopra, deve armarsi soprattutto di umiltà, di distacco dalle cose terrene e di purezza. È dunque proprio la distinzione e la nobile autonomia dalle quali risulta la personalità morale che reclamano, perché essa si formi, la educazione e tutto il suo intervento. – Non può mettersi in dubbio allora che l’educazione reclama un ordine, che questo non sussiste senza l’uso della autorità e che l’autorità non è efficace se non si ammette la necessità della obbedienza. Anche la obbedienza cesserà di essere necessaria quando cambierà la natura umana. L’obbedienza in se stessa è fatta non tanto all’uomo quanto a Dio, avendo Egli disposto che la volontà sua arrivi alle creature attraverso umani strumenti. Così concepita, siccome va in realtà concepita, la obbedienza appare più partecipazione alla divina saggezza che diminuzione della umana autonomia, più completamento delle proprie carenze che sovrapposizione di altrui volontà. Chi obbedisce per il supremo motivo di essere conforme alla divina volontà non si abbassa mai ed obbedendo non apporta alcuna limitazione alla propria personalità, la quale ne esce anzi completata ed arricchita. – Messa dinanzi a queste chiare verità la proposizione appare falsa e pericolosa, appare soprattutto conseguenza di gravi lacune intellettuali. Altro giudizio si deve dare se la proposizione viene intesa in un modo che certamente essa non esprime, cioè si volesse intendere semplicemente:

– che si debbono sviluppare e non comprimere le doti positive;

– che si deve avere prevalente un criterio positivo e preventivo rispetto ad un criterio negativo e repressivo;

– che debbono capirsi e tenersi in conto le debolezze e i turbamenti prodotti dal moderno vivere frastornante, con le inevitabili complicazioni interiori dei giovani;

– che si deve ottenere una obbedienza «convinta» e non accontentarsi di una obbedienza «costretta», come si deve iniziare appena possibile dal convincimento piuttosto che dal timore; si può essere d’accordo. Ma è certo che gli assertori della proposizione non intendono tutto questo; essi vogliono semplicemente ridurre il campo della legge, aumentando quello della anarchia del piacere e del disordine. – Una parola va riservata all’autocontrollo quasi fosse l’antagonista della disciplina e la potesse sostituire, quasi si trattasse di due parallele tra le quali si dovesse scegliere. L’autocontrollo suppone chiarezza di visione sulla norma da seguire e forza di volontà per restare fedeli al proprio chiaro convincimento. Non si debbono spendere parole per dimostrare che l’autocontrollo è un punto d’arrivo, non un punto di partenza, un sogno da realizzare, non una fase d’inizio, una virtù acquisita, non una baldanzosa velleità. Chi non è abbastanza umile, continente, forte non ha autocontrollo reale. Esso suppone la educazione e l’aiuto del quale si è parlato fin qui. Autocontrollo e disciplina non sono due parallele, sono tra loro come effetto e causa. L’uno ha bisogno dell’altra, il primo viene raggiunto attraverso la seconda. La parola «autocontrollo» è certamente bella, ma inganna molti. Essa ha una storia, che qui non dobbiamo narrare. Ci basta aver messo in guardia. Non deve tacersi che la proposizione enunciata è «inumana». Ciò perché essa ignora la reale psicologia dei giovani e sentenzia come se le lacune, i dolori, le esitazioni, le incertezze, i pudori e le vergogne interiori della età più fresca non esistessero. Essa indurrebbe a pensare come se i ragazzi avessero di getto una capacità, una forza ed una chiarezza di visione che non hanno e che solo faticosamente e spesso penosamente conquistano. Si capisce questa inumanità se si riflette che essa è di origine protestante, segue cioè il filone accettato senza esame da molti che, attraverso Pestalozzi, si collegano a Rousseau. La mancanza di percezione del reale, la avulsione dalla esperienza, di cui la proposizione è prova, sono sufficienti a cancellarla in sede puramente umana, prima ancora che di fronte alla tradizione ed alla prassi cattolica. Essa tocca questioni di principio elementari.

E ) Democraticizzazione della Chiesa, aumento della caratura dei laici, limiti alla gerarchia.

Questa proposizione può essere sfumata e di fatto è sfumata spesso in modo da ridurla, davanti a teologi giustamente esigenti, a significati quasi passabili. Noi parleremo dopo delle «sfumature»; ora dobbiamo giudicarla come suono, affinché coloro i quali allungano il significato con moltissima acqua, non si fermino al fatto che «allungano e annacquano», ma capiscano che allungano ed annacquano un autentico veleno. Noi sappiamo che taluni veleni opportunamente diluiti sono sostenibili dall’organismo umano, ma questo accade solo dopo che il diluire ha sorpassato la soglia venefica. – Ora: la prima parte della proposizione è direttamente contraria ad una verità di fede – «la Chiesa è società gerarchica»; la terza parte intesa come deve essere intesa, per il solo fatto della giusta posizione, a tenore della prima è inconciliabile colla stessa verità di fede; la seconda parte, cha avulsa potrebbe intendersi anche in senso ortodosso, messa tra quelle due prende un significato che non è più possibile colla ortodossia. Infatti: la Chiesa è stata costituita da Cristo come società gerarchica. Ha avuto da Lui due gerarchie, quella di ordine e di giurisdizione, mirabilmente tra loro compaginate nella più completa unità. I poteri dati da Cristo alla gerarchia di ordine e di giurisdizione sono poteri propri e caratteristici, il che porta ad una precisa definizione di confini tra laici ed ecclesiastici, non in forza del solo diritto canonico, ma dell’ordinamento divino inderogabile. Come per diritto divino è definita la posizione della gerarchia così per lo stesso diritto divino è definita la posizione dei laici. Non è pertanto da credere che si possano avere delle mutazioni sostanziali su questo punto. – Lo sviluppo dello studio sui laici nella Chiesa potrà sciogliere cose cianciate in modo generico, potrà evolvere modi di collaborazione e strumenti di essa, potrà d’entrambi adattare le capacità alle esigenze dei tempi, ma non potrà mai uscire dall’alveo segnato negli inizi. Non si può credere che, a sviluppare una teologia dei laici, si spostino questi termini, perché, ove uno spostamento avvenisse, si lederebbe la istituzione divina. – Viene fatto di chiedersi donde abbia origine questo spirito (che talvolta alita) di democraticizzazione della Chiesa. Si resta certamente nel vero se si afferma che quello spirito è una suggestione dei tempi, accolta per ragioni di ignoranza teologica e per ragioni morali. I nostri tempi hanno conosciuto o credono aver conosciuto delle dittature. Se ne è formata una reazione. Come tutte le reazioni spirituali tende ad affermare non solo una libertà, ma un comando affidato al mutevole gioco di maggioranza e minoranza, con tutti i suoi prolegomeni e tutte le sue conseguenze. Quella reazione spirituale si getta in modo veemente contro tutte le diversità e contro tutte le limitazioni, soprattutto della libertà politica. In tale reazione si è formato un modo di pensare che è assolutamente contingente, quanto è contingente il fatto che lo ha determinato. Si tratta di una di quelle coloriture che a turno il mondo dà alle cose sue. Non è affatto a dire che la libertà sia una brutta cosa, (tutt’altro!), o che la democrazia non abbia le doti che giustamente le si possono attribuire. Si dice soltanto che i concetti puri ed ideali sono una cosa e che generalmente gli uomini li traducono in modo non sempre puro e scevro di scorie. Si afferma inoltre che questo modo di tradurre il concetto di democrazia, non scevra da scorie, tende a creare in spiriti meno provveduti una mentalità artificiale e volta contro la natura di una istituzione che ha origine e fisionomia divina, la Chiesa. In essa non si possono fare contaminazioni colle effimere cose di questo mondo. Naturalmente coloro che non sono in qualche modo ignoranti in tatto di teologia sanno bene quello che non si può accettare ed è per ciò che abbiamo elencato la ignoranza come una tra le cause di talune affermazioni. In più la democraticizzazione molce talmente coloro che vorrebbero comandare e non obbedire, che vorrebbero comandare essi e non lasciare comandare gli altri, che si ritengono non compresi, non valorizzati e non portati, da giustificare perché tra le cause della affermazione errata abbiamo messo quelle morali. – Ed ora veniamo alle sfumature, che tentano piallare la proposizione enunciata nell’intenzione di assottigliare la gravità e di renderla magari differibile. Un tentativo di «sfumatura» è il seguente: «non si vogliono dire eresie, si vuole soltanto affermare la necessità di indurre uno spirito più democratico». Che cosa può adunque significare uno spirito più democratico nella Chiesa? Forse una maggiore considerazione del popolo e di sue aspirazioni legittime? Ma che si devono sempre considerare i fratelli, i fedeli, con assoluta umiltà «non dominantes», ma «forma facti gregis ex animo» (1 Pt. V, 3) e ciò fino al punto di essere al loro «servizio» è sempre stato ideale affermato e praticato nella misura in cui gli uomini di Chiesa hanno fatto come Gesù Cristo ha voluto e come Lui ha dato l’esempio. Egli è andato in Croce per tutti gli uomini, ma ha detto quello che doveva dire, ha dato gli ordini che doveva dare, non ha ammesso discussioni dove non si doveva discutere, non ha chiesto la fede in Lui, ha stabilito si accetti quello che disporranno i deputati da Lui. In questo non è questione di democrazia, la quale, stando al termine, chiamerebbe sempre in causa un consenso collettivo escluso dalla costituzione della Chiesa, ma solo questione di morale e di aderenza al mandato di Cristo. Usare un simile termine per esprimere una tale giusta idea è fare cosa impropria e greve di equivoci pericolosi. – Si vuole forse intendere per democraticizzazione una variazione di forme e di distinzioni? A che scopo? Le forme esterne possono certo variare, ma debbono restare sempre, anche in sistemazioni diverse, quanto occorre per salvare la educazione e la pace tra i fratelli, la distinzione tra il valore sociale e quello individuale, tra l’ufficio a servizio del bene comune e l’interesse individuale, tra il merito e la inutilità. Messa così, la questione sta ai margini e non è su una questione di margini che si impostano la volontà o velleità di pretesi rinnovamenti. La verità è che si vuole allargare il margine della anarchia, restringere quello della obbedienza e del dovere, rendere facili le cose che dovrebbero invece per invito di Cristo (Mt. XXVI,24 sgg.) esser prese come sono anche se sono croci, abolire il precetto del Signore sul distacco dai beni terreni e lasciare illimitato campo all’orgoglio ed alla sensualità. La verità è che una simile proposizione suona facilmente là ove l’invidia e l’ambizione tengono il campo. E da considerarsi bene il caso, accaduto negli ultimi anni, di ecclesiastici i quali sembravano i portatori di nuovo eroismo e in parte si caratterizzavano per il disprezzo ostentato verso tutti gli altri ecclesiastici, non partecipi del loro sistema di vita. Non si dimentichi che la religione è l’alone di Dio, che in essa il criterio è divino; allora si comprenderà come le forme democratiche, accettabilissime nelle cose umane e spesso in esse migliori delle altre forme di regime, non vanno bene per Dio al quale solo si obbedisce, il quale non si appongono condizioni e limiti. Egli è il Signore. E l’alone che Lo riguarda non può ovviamente avere un diverso criterio. Non si dimentichi finalmente che nulla può dare valore alla nostra persona come la uniformità nostra alla volontà del Creatore. – Nessun limite può venir messo alla sacra gerarchia dai fedeli. La dottrina evangelica ci erudisce abbastanza sul potere dato a Pietro, depositario unico delle chiavi del regno, fondamento e centro della Chiesa, capace di disporre in terra ogni cosa che riguardi il raggiungimento del cielo, in ogni modo ed in ogni connesso. La costituzione dell’episcopato monarchico, nella successione apostolica, è parimente netta nelle fonti teologiche. Lo stesso  clero che appartiene pure alla gerarchia di Ordine soltanto, e cioè i diaconi e i preti, non fanno parte della Chiesa docente e sono soltanto cooperatori dei vescovi. – Vediamo che pensare circa l’aumento della «caratura dei laici». La loro figura è contenuta in un alveo preciso dalla dottrina che brevemente abbiamo riesumato fin qui. Essi rimangono dinanzi alla Chiesa come membri della sua società, membri del Corpo di Cristo, anime da erudire, santificare e guidare per la vita eterna. Essi entrano attivamente come figli nella Chiesa, non come padri o pastori, essi debbono cooperare. Non è dunque in questa situazione giuridica radicale che possono aumentarsi le carature dei laici, diminuendo naturalmente e proporzionalmente quelle della gerarchia. Non rimane di legittimo che una supposizione: si deve aumentare la caratura dei laici, chiamandoli a lavorare cooperando colla Chiesa più di quello che non sia accaduto fin qui; sia perché non è sufficiente a tutto la azione dei preti, sia perché nella attuale fisionomia del mondo la loro capacità strumentale per la santificazione e la salvezza dei fratelli è certamente aumentata. Intendiamoci: chiamarli a cooperare con chi resta superiore, non a iniziare autonomamente o a contenere entro più angusti limiti l’autorità della gerarchia alla quale si collabora. Si tratta di collaborazione subordinata. Sì, abbiamo detto che la capacità strumentale, non quella giuridica, dei laici è certamente aumentata nel mondo moderno. Spieghiamoci per evitare di essere male intesi. La fisionomia del mondo si è sempre spostata di più dal concetto topografico a quello sociale e di categoria. La divisione in categorie aumenta la vicinanza con taluni e mette distanze con altri. Molti ambienti sono diventati così meno permeabili agli ecclesiastici, molto più permeabili ai laici. E non si tratta solo della categoria, ma di molte altre circostanze che diminuiscono la penetrazione agli uni e la aumentano agli altri. E così che i laici diventano strumenti di maggiore valore per raggiungere anime che sono lontane e per realizzare meglio i fini dell’apostolato. La aumentata capacità strumentale loro la si dovrà certamente ritrovare, anche quando si pensasse che termini da raggiungere per l’apostolato non sono soltanto i singoli uomini, ma gli ambienti come tali, i circoli generatori della cultura, i livelli della grande informazione, della politica etc. Tali obbiettivi sono più raggiungibili, in via ordinaria, dai laici. Vien fatto di domandarsi donde provenga l’ansietà generosa che si nota in taluni scrittori (anche egregi) di promuovere una valorizzazione dei laici nella Chiesa, quasi che quella non ci fosse o fosse così infantile da dovere per giustizia farla promuovere ad uno stadio più adulto. In verità, se si leggono gli Atti degli Apostoli, bisogna dedurne che mai fu più adulta di allora la presenza dei laici nella Chiesa. Che se, sotto gli influssi indiretti del Protestantesimo prima, dell’illuminismo e del laicismo poi, i laici si occuparono sempre meno delle cose di Chiesa ed abbandonarono gli stalli delle confraternite belli come quelli dei canonici, i seggi dei consigli delle amministrazioni e dei protettorati nei superbi pancali, conservati ancor oggi in talune chiese, non è poi colpa del clero. Il quale al contrario ha promosso dal secolo scorso quel grandissimo movimento di associazioni nelle quali prese poi forma organica e appropriata la Azione Cattolica stessa. – E allora, che succede? Probabilmente talune preoccupazioni provengono dal fare della Chiesa la stessa valutazione dello Stato civile democratico, nel quale (almeno formalmente) i presidenti vanno in giacchetta come gli uomini qualunque e gli uomini qualunque vestono come i presidenti. Ma tale valutazione è fuori posto: la Chiesa non è lo Stato civile perché la «gestione del Regno di Dio» è affatto diversa basandosi su una verità ed una grazia che vengono da Dio e su una collaborazione libera alla legge di Dio comunque manifestata. Nella Chiesa come tale non ci sono proletari e capitalisti, aree depresse da sollevare e zone ricche, privilegiati e servi della gleba; nella Chiesa non c’è nulla di tutto questo e pertanto non ci sono classi da redimere od alle quali rendere giustizia. Ci sono solamente: Chiesa docente e Chiesa discente, peccatori e giusti, uomini viziosi e santi, cercatori della perfezione nell’amore di Dio e cercatori di difetti. Si tratta quindi di un fenomeno ottico il quale trasporta le immagini fuori della loro sede e trasferisce problemi là ove essi si dissolvono, o veste di colori umani una vicenda che nel suo fondo è divina. – La Chiesa, come tale, non amministra i beni terreni nella cui diversa partecipazione abbiamo ricchi e poveri, gaudenti ed affamati; la Chiesa, pur occupandosi di quanto necessario alle sue materiali esigenze, gestisce beni eterni, nei quali non esistono proletari e capitalisti. È da augurarsi pertanto che ogni considerazione sui laici si liberi da pericolose carenze di impostazioni o piuttosto da imitazioni illegittime. – La teologia dei laici non ha da scrivere alcun capitolo sostanziale nuovo ed il parlare lasciando sospettare o supporre che forse si possa trovare qualcosa di sostanzialmente nuovo in materia e sostanzialmente mutabile è contegno ingannevole e falso. Lo sviluppo della dottrina sui laici, se ci si allontana dal semplice dipanare ed applicare quello che sempre fu noto, non appartiene tanto alla teologia dogmatica quanto a quella morale, là ove si espongono i doveri soprattutto del proprio stato. Infatti oggi, per le ragioni sopra esposte, il dovere dei laici di collaborare colla Chiesa in ragione dell’immutabile titolo (battesimo e cresima con le loro conseguenze) è certamente cresciuto. È pertanto sconsigliabile in modo preciso il sistema di indulgere sull’argomento in quel modo che finirebbe con l’insinuare nei laici e uno spirito di indipendenza rispetto alla gerarchia ed uno spirito di critica e di controllo rispetto alla medesima, quale non si concilia certo con le posizioni rispettive, definite da Gesù Cristo. È per la stessa ragione sconsigliabile di far credito eccessivo o, peggio, esclusivo ad una certa letteratura importata o di ispirazione importata, che non preparerà certo dei cristiani eccessivamente rispettosi dei loro pastori. Non dimentichiamo che le più gravi angustie della Chiesa d’Italia in questo momento sono dovuti al fatto che un numero non disprezzabile di suoi figli, anche già militanti, si comporta nei suoi confronti con tale spirito di critica, di autonomia nei principi e positiva azione su delicati terreni da emulare in qualche momento i peggiori anticlericali del passato. Non è proprio il caso di allargare, con la improntitudine di chi non ha equilibrato giudizio in simili argomenti attinenti il dogma, questa dolorosa ferita.

F) Ecco un’ultima proposizione: «Riformare la liturgia e abolire il latino».

Quanto al latino abbiamo già lungamente intrattenuto il nostro clero sull’argomento colla apposita lettera del 10 agosto 1958 e crediamo di essere dispensati dal ritornare frettolosamente su di un argomento, trattato altrove con sufficiente ampiezza. Fermiamoci alle riforme liturgiche. Qui non si tratta di principi e di proposizioni attinenti in un modo o nell’altro alla verità rivelata, ma solo di disciplina. E tuttavia l’argomento è importante. Il giudizio sulla necessità di riforme e sulle riforme stesse appartiene alla Chiesa e non ai fedeli. Si tratta infatti di un punto dei più delicati della attività di governo ed il governo nella Chiesa appartiene al Papa ed ai vescovi nella soggezione piena al Papa. Comprendiamo dunque chiaramente che nella Chiesa l’argomento delle riforme di qualunque tipo e grado non può essere trattato alla maniera con cui lo si può trattare in un regime democratico e parlamentare. Stiamo attenti a non fare trasposizioni indebite e pericolose. Che nella liturgia si possano fare riforme lo dimostra il fatto che recentemente la Chiesa ha indotto delle riforme. È probabile che le riforme iniziate nel Pontificato della s.m. di Pio XII abbiano a continuare. Fin dove arriveranno? Crediamo che l’esame delle riforme fatte, la loro misura, il grado di mutazione indotta in parti liturgiche ormai definite (esempio: Settimana Santa), diano la linea di queste anche probabili mutazioni future. Risulta da queste considerazioni che ci saranno razionalizzazioni, semplificazioni, migliori armonizzazioni; non risulta affatto che ci saranno cicloni sterminatori con conseguenti creazioni ex novo. – E legittimo attendere quello che la Chiesa stessa ha in qualche modo lasciato capire che farà. Oltre non sappiamo, se rimangono salvi i principi enunciati sopra e che non sono solo delle nostre opinioni. – Una mentalità che anelasse a costruzioni ex novo crediamo sarebbe ingenua e male impostata. Nella Chiesa non si ha il campo delle effimere mode devastatrici per le radicali frettolose quanto moriture innovazioni. La Chiesa è terreno diverso da quello della noia, scontentezza, disperazione mondana. L’angoscia del mutare può avere una spiegazione nelle cose del gran mondo, ma non ha una spiegazione plausibile dove si prepara l’eternità nella luce di una verità intramontabile e nell’ambiente di certezze che non subiscono oltraggio per il rotar dei tempi. Quella mentalità è la trasposizione di una moda, che in parte è malattia, su di un terreno affatto improprio. – In effetti il mondo, che soltanto un attimo si ferma, è rapito dalla liturgia, come ne erano rapiti i nostri padri. Il guaio è che raramente si ferma un attimo a contemplare. Ed è inutile cambiare per chi non guarda. Si tratta dunque di mentalità di dubbia marca, che non è certamente indice di pacata e profonda veduta, di serena e documentata cognizione storica. Si noti che in genere la mentalità delle riforme è la mentalità dell’insofferenza. In verità la esperienza dice, anche per fatti piuttosto clamorosi, che i vaneggiamenti delle radicali riforme sono fenomeni di insofferenza spirituale, qualche volta, addirittura di isterismo. Concludiamo così questa prima rassegna di contaminazioni  teoriche e pratiche, le quali, perché ammannite in modo spesso subdolo o perché inserite in passioni veementi, possono alterare il rapporto vostro colla verità. Altre ne seguiranno perche intendiamo assolvere il nostro compito di vigilare affinché la verità non venga intaccata da alcuno.