Introitus
Ps LXXIII:20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Ps LXXIII:1
Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ? [Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis. [Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas. Gal III:16-22
“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.
Omelia I
[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia I .- Torino 1899]
“Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole; non dice: Ed alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: e dalla sua prole, la quale è Cristo. Ora io dico così: La legge, venuta dopo quattrocento trent’anni, non poté annullare un patto prima fermato da Dio, sicché restasse senza effetto la promessa. Perché, se l’eredità è per legge, non è più per la promessa. Eppure Dio la conferì ad Abramo per promessa. Perché dunque fu data la legge? Fu essa aggiunta in grazia delle trasgressioni, promulgata per angeli, per mezzo di un mediatore, finché non fosse venuta la prole, alla quale era stata fatta la promessa. – Ora mediatore non è di uno; eppure Dio è uno. Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. Ma se fosse stata data una legge capace di dare la vita, se ne avrebbe di fatto la giustificazione. Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti „ (Ai Galati, capo III, 16-22).
Anzitutto, o carissimi, devo dirvi che questi sette versetti della Epistola odierna, che vi ho recitati, sono difficili ad intendersi, e voi stessi, udendoli, ve ne sarete accorti. La difficoltà ed oscurità di queste sentenze si deve far dipendere da varie cause. Primieramente si tratta dei rapporti tra la legge antica mosaica e la legge evangelica, e si accenna alla efficacia di questa sopra quella, verità a quel tempo assai contrastata: in secondo luogo si fa un’allusione di volo; ad alcuni oracoli dell’antico Testamento, per noi oscuri, se ne deducono conseguenze d’alta importanza, con una concisione tutta propria dell’Apostolo. Finalmente il modo di fraseggiare e di argomentare qui usato da S. Paolo è così rapido e serrato e il giro del periodo sì involuto e duro, che rende faticoso il seguirlo ed afferrarne il significato. Ma se voi avrete la bontà di tenermi dietro con tutta l’attenzione, nutro fiducia di farvi comprendere perfettamente la dottrina dell’Apostolo, e troverete ampia mercede della fatica durata. Dio con la sua grazia, faccia sì che la mia parola sia semplice e chiara, e la vostra mente aperta e docile a riceverla. – La lettera di S. Paolo ai Galati si può dividere in tre parti: nella prima difende se stesso contro coloro che lo accusavano di aver alterato o frainteso il Vangelo e prova la sua missione divina; nella seconda svolge l’insegnamento dogmatico intorno alla giustificazione; nella terza inculca alcune verità morali pratiche. Il tratto che vi devo spiegare appartiene alla parte dogmatica, che aveva una importanza grande e pratica allorché l’Apostolo scriveva la sua lettera. Un cenno storico necessario. Molti Ebrei della Galazia, convertiti prima da S. Paolo, sedotti da falsi maestri, erano entrati nella persuasione che, per salvarsi, fosse necessario unire alla fede cristiana l’osservanza della legge mosaica in ogni sua parte, e nominatamente il rito della circoncisione. L’Apostolo vuol dissipare questo errore gravissimo, che rendeva perpetuo il giudaismo e tra gli altri argomenti; S. Paolo, parlando ad Ebrei, ricorda che Abramo fu giustificato dinanzi a Dio con la fede che prestò alla parola di Lui, non con la legge mosaica che non esisteva e che venne assai più tardi. E come Abramo piacque a Dio, non per la osservanza della legge mosaica, ma sì per la fede, così anche i veri suoi figli si giustificarono con la fede. Qui cominciano le sentenze, che dobbiamo interpretare: “Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole: non dice alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: ed alla sua prole, che è Cristo. Ecco come ragiona S. Paolo: “La Scrittura c’insegna che Abramo piacque a Dio e si santificò allorché credette alla sua parola ed ubbidì ad essa, lasciando la patria sua: Dio allora gli fece una promessa solenne, assoluta, dicendogli: “Tutte le genti saranno benedette in te, cioè riceveranno come te e allo stesso modo la mia grazia. „ Ora allorché Abramo ricevette la grazia, non vi era né la legge di Mose, né la circoncisione: dunque si giustificò non in forza della legge mosaica e della circoncisione, ma per la fede che ebbe e per l’ubbidienza sua alla parola di Dio; ma Dio promise che allo stesso modo si sarebbero giustificate tutte le genti, o Gentili; “dunque, o Galati, per piacere a Dio si esige la fede e l’obbedienza ai voleri divini, ma non l’osservanza della legge di Mosè”; e S. Paolo avverte che la promessa della giustificazione fu fatta non solo ad Abramo, ma anche alla sua “prole”, non proli, perché si indicava Cristo e tutti quelli che nella fede si sarebbero mostrati figli di Cristo. L’Apostolo prosegue argomentando così: “La legge venuta dopo 430 anni non poté annullare il patto già stabilito da Dio, sicché rimanesse la promessa senza effetto: „ che è quanto dire: la legge di Mose, data da Dio sul Sinai, venne 430 anni dopo; ora se fosse necessaria l’osservanza di questa legge per essere figli di Dio, Dio stesso avrebbe annullata la promessa od il patto stretto con Abramo in forza del quale i Gentili dovevano ricevere la benedizione alla maniera stessa di Abramo. Se la grazia divina venisse a noi dalla legge di Mose, allora non verrebbe secondo la promessa fatta ad Abramo; eppure questa grazia fu promessa da Dio fuori e prima della legge, e la promessa di Dio sta e deve stare, come sta e deve stare un testamento a cui non è lecito né aggiungere, né levare una sillaba. È questo l’argomento, sottile sì, ma valido dell’Apostolo. – Ora qualche osservazione acconcia ai nostri bisogni. In questi versetti si parla della giustificazione ottenuta da Abramo, e che doveva ottenersi dai suoi figli secondo lo spirito, mediante la fede in Cristo. Che cosa è questa giustificazione? È la grazia, è una forza stabile, che penetra tutta l’anima, la trasforma, la abbellisce e stampa in essa l’immagine di Dio e le dà il diritto di vederlo un giorno ed amarlo svelatamente ed essere felice della sua stessa felicità. Vedete un ferro: esso è di per sé freddo ed oscuro: fate che il fuoco, un fuoco potente lo investa; diventa non solo caldo, ma rovente e lucente senza cessare d’essere ferro: ciò stesso avviene dell’anima che riceve la grazia di Dio: non cessa d’essere anima, ma acquista doti e qualità ammirabili; diventa bella della bellezza di Dio, forte della sua forza stessa, e perciò i suoi atti acquistano un valore sovrumano. Quest’anima si dice giustificata, cioè fatta giusta e retta dinanzi a Dio, bella di quella bellezza ch’Egli vuole in lei, e perciò cara a Lui ed oggetto dell’amor suo: essa diviene partecipe della stessa divina natura, come il fiore è partecipe della bellezza del sole che lo colora ed abbellisce. Questa giustificazione o grazia divina non può essere il frutto delle opere nostre, né merito dei nostri sforzi, come non è merito del fiore l’essere abbellito dal sole: è dono, tutto e puro dono di Dio: tutto il nostro merito sta nel riceverlo, ancorché, ricevutolo, possiamo e dobbiamo accrescerlo con la nostra cooperazione. Questa grazia, che è il massimo dei doni di Dio, noi la riceviamo per i meriti di Gesù Cristo, nel quale e per il quale soltanto, come altrove scrive S. Paolo, siamo arricchiti d’ogni bene spirituale. – Seguitiamo l’Apostolo: “Voi direte, così egli fa parlare i Galati: Se la legge mosaica con tutte le sue prescrizioni e con la stessa circoncisione, non ci riconcilia con Dio e non ci santifica, che vale essa? Perché ci fu data? Qual pro di questa legge, che pure viene da Dio? Quidigitur lex?” — Risponde tosto l’Apostolo con la sua forma sì concisa: “Vi dico che la legge mosaica fu aggiunta alla promessa fatta ad Abramo a causa delle trasgressioni del popolo d’Israele, il quale per la sua lunga dimora in Egitto, era caduto in tanta ignoranza ed in tanto pervertimento, che spesso faceva il male senza nemmeno conoscerlo: (Lex) posìtà est propter transgressiones”. Spieghiamo un po’ meglio, se almeno ci vien fatto, la mente dell’Apostolo, che qui può parere oscura. – Abramo si giustificò innanzi a Dio, credendo alle sue parole e promesse ed ubbidendo ai suoi voleri; alla stessa maniera potevano e dovevano giustificarsi tutti i suoi discendenti: bastava che credessero alle divine promesse fatte ad Abramo e operassero conformemente ad esse, ma che avvenne? I suoi discendenti crebbero in gran numero, divennero un gran popolo in Egitto: a poco a poco dimenticarono le promesse avute per Abramo: caddero ripetutamente nell’idolatria e si resero colpevoli di gravissimi delitti. Che fece allora Iddio? Viste le male inclinazioni del popolo e le sue miserande cadute, nella sua misericordia gli diede la legge con tutto quel cumulo di minute prescrizioni ond’essa è ripiena: (Lex) propter transgressionea posita est. Questa legge di timore era un aiuto possente dato al popolo per tenerlo sulla via della verità e mantenere viva in lui la memoria delle promesse divine; questa legge, come poco appresso dice lo stesso Apostolo, era la guida, il pedagogo che doveva condurre Israele a Cristo e prepararlo al suo Vangelo (vers. 25). “La legge mosaica, soggiunge Paolo, fu promulgata dagli Angeli, per mezzo di un mediatore, che è Mosè. „ Da queste parole apprendiamo che la legge data sul Sinai fu data per mezzo degli Angeli: Ordinata per angelos, e che dagli Angeli la ricevette Mosè, il quale fu poi il mediatore tra Dio e il popolo: In manu mediatoris. Forse alcuno tra voi dirà: Noi abbiamo sempre udito dire che Mosè ricevette la legge da Dio stesso: come sta che qui S. Paolo ci insegna che Mosè la ricevette dagli Angeli? Nessuna difficoltà, o carissimi. Ciò che Iddio fa per mezzo degli Angeli o dei suoi ministri dicesi fatto da Lui stesso, perché Egli ne è la causa principale. Non diciamo noi che Dio santifica il bambino nel Battesimo, scioglie dai peccati l’adulto, benché il Battesimo sia conferito dal ministro, e la penitenza amministrata dal sacerdote ? Similmente le Scritture sante ci dicono che la legge fu data a Mosè, ora da Dio ed ora dagli Angeli, ed è l’una e l’altra cosa. E qui è superfluo il ciò che altre volte ebbi a dire, cioè Dio nelle opere tutte che compie fuori di sé, anche le più alte, suole usare come strumento le cause seconde, Angeli ed uomini, perché in tal guisa apparisce meglio la sua grandezza e la sua gloria, e perché eleva alla dignità di cause le creature, le nobilita e le rende più simili a sé. Impariamo dunque ad venerare questi spiriti eccelsi, gli Angeli che stanno tra Dio e noi, e che sono i ministri ordinari dei suoi voleri sulla terra. E fino a quando doveva durare la legge di Mosè, data in aiuto delle promesse fatte prima ad Abramo? Finché fosse venuto il seme a cui aveva promesso — Donec veniret semen cui promiserat, „ E chi è questo seme? Non occorre il dirlo, è Cristo, nel quale avrebbe avuto compimento la benedizione promessa ad Abramo. Allorché il fanciullo diventa uomo, cessa l’opera del pedagogo: dunque alla venuta di Cristo doveva cessare la legge, e cessò. – Continua S. Paolo e scrive: “Ora mediatore non vi fu per uno, eppure Dio è uno. „ È una sentenza che ha bisogno di essere chiarita, e così mi pare si possa chiarire: Dio è uno solo e Padre di tutti gli uomini, e tutti li vuol salvi, e la sua volontà è eterna ed immutabile: agli Ebrei diede la legge in aggiunta alla promessa per condurli a salute, e la diede per Mosè, come per un mediatore: a quelli che non sono Ebrei provvede Egli stesso, ponendo a loro capo Cristo stesso e in Lui unificando i figli di Abramo, ch’ebbero il mediatore in Mosè, ed i Gentili, che chiama a sé senza l’opera di Mosè. In altri termini: come gli uomini si salvavano senza la legge prima di Mosè, per la fede in Cristo ventura, così ora si salvano senza la stessa legge, purché credano in Cristo già venuto: la legge di Mosè fu un aiuto temporaneo dato da Dio ai soli Ebrei. La conseguenza pratica di questo insegnamento dell’Apostolo nei versetti citati, si riduce in sostanza a stabilire questo punto fondamentale: la salute per tutti gli uomini, Giudei e non Giudei, prima e dopo Cristo, sta riposta unicamente in Cristo, Salvatore universale. Egli comparisce sulla terra nel mezzo dei tempi: una parte dell’umanità lo precede: l’altra viene dopo di Lui e continuerà, fino alla fine dei tempi: quella prima parte guarda a Cristo venturo con la fede nelle promesse divine, come Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, o con la fede aiutata dalla legge mosaica, come Mosè, Davide e tutti i profeti; la seconda parte guarda a Cristo venuto, e a Lui si unisce colla fede, che opera per la carità. Per tal modo Cristo è il gran centro di tutta l’umanità, e in Lui si appuntano tutti gli sguardi, tutti i desiderai e tutti gli amori di quelli che cercano e vogliono la salvezza. Fratelli e figliuoli carissimi! Gesù Cristo è la luce delle nostre menti, è la forza delle nostre volontà, è la nostra vita. Tutti dunque uniamoci a Lui, perché solo per Lui abbiamo accesso a Dio, come scrive, altrove San Paolo. Ma come possiamo unirci a Lui sì che la sua vita divina si spanda in noi? Eccovelo. L’anima nostra si svolge tutta negli atti di quelle due potenze, che le sono proprie e caratteristiche: l’intelligenza e la volontà. L’intelligenza è ordinata al possesso della verità, come l’occhio è ordinato a ricevere la luce: e la volontà tende necessariamente ad amare, come i polmoni a respirare. Ora Gesù Cristo, autore e consumatore dalla fede, per mezzo della Chiesa, ci presenta le verità che sono la luce dalla nostra intelligenza, ci mostra se stesso, come oggetto degno di tutto il nostro amore. Ebbene: appuntiamo la nostra intelligenza in queste verità che sgorgano da Cristo, come i raggi emanano dal sole; volgiamo il nostro cuore a Gesù, come il fiore volge il suo calice al sole, che lo colora, e posiamolo in Lui, ed ecco compiuta la nostra unione con Gesù Cristo. Dietro alla mente ed al cuore, con la fede e con la carità intimamente uniti a Gesù Cristo, verranno le opere, verrà il corpo stesso, fedele esecutore di ciò che si conosce e si vuole od ama. Congiunti mente e cuore a Gesù Cristo nel tempo, lo saremo nella eternità. Ma è da passare alla spiegazione degli ultimi due versetti della nostra Epistola. “Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. „ — È una nuova difficoltà che l’Apostolo, secondo il suo stile sì conciso e vibrato, muove a se stesso. La legge di Mosè, come sopra si è stabilito, non dava la grazia e la santificazione per se stessa, ma questa veniva soltanto dalla fede salda alle promesse divine; ora l’essere aggiunta la legge di Mosè alle promesse divine fa sì che sembri non bastevole la fede, e che la giustificazione derivi dalla legge stessa. In altra forma: l’aggiunta della legge mosaica alle promesse divine arguirebbe il difetto di queste e la necessità e sufficienza di quella. No, no, risponde Paolo, quasi inorridito: Absit. Se la legge mosaica avesse avuto virtù di santificarci per se stessa, allora sarebbe vero che è contraria alle promesse, perché la giustificazione ci verrebbe dalla legge e non dalle promessa divine e dalla fede alle medesime. Resta dunque verità indubitata, che la legge mosaica non può sostituire la fede nell’opera della nostra giustificazione, e che fu soltanto un aiuto temporaneo dato agli Ebrei, per renderla più sensibile e conservarla finché venne Cristo, che la rese inutile. Siamo all’ultima sentènza dell’Apostolo: “Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti. „ Non ve lo dissimulo, o carissimi; anche quest’ultima sentenza è dura ad intendersi per la forma del dire e per la struttura del periodo: ma questo è il senso: No, la legge di Mose non è contraria alle promesse di giustificare gli uomini con la fede in Gesù Cristo; anzi serve di mezzo a compirle. In qual modo? La legge mosaica data agli Ebrei tolse forse le trasgressioni ed arrestò le colpe loro? No; anzi crebbero a dismisura fino all’eccesso di mettere a morte il Figliuolo di Dio: la legge mosaica mise in piena luce la debolezza dell’uomo, e gli fece sentire dopo sì lunga prova la necessità dell’aiuto divino, e che solo per la fede in Gesù Cristo poteva giustificarsi. Questa dottrina dell’Apostolo mi richiama al pensiero ciò ch’egli stabilisce nei primi tre capi della sua lettera ai Romani, e particolarmente nel terzo (vers. 20). S. Paolo mostra con robusta eloquenza, che tanto i Gentili con la sola ragione e con la sola forza della natura, come gli Ebrei con la loro legge mosaica, non poterono piacere a Dio, e che tanto quelli che questi dovevano confessare la loro impotenza assoluta nell’opera della propria giustificazione, ed erano forzati a riconoscerla soltanto da Gesù Cristo, e così nessuno possa gloriarsi dinanzi a Dio e tutti soggiaciamo al suo giudizio (Rom. III, 19). Tutti, Gentili ed Ebrei, sono peccatori: tutti egualmente, per piacere a Dio e salvarsi, hanno bisogno della fede in Gesù Cristo (Rom. III, 22, 23, 27, 29, 30). Deh! che questa fede, che riceveste nel santo Battesimo, che fu nutrita dalla parola di Dio e dai Sacramenti, che è la radice della nostra santificazione e che opera per la carità, sia sempre viva nei vostri cuori [Comprendo molto bene che il testo dell’Apostolo è oscuro e che anche dopo la mia spiegazione rimangano molti punti non abbastanza chiariti. Mi studierò di esporre in breve e più chiaramente il pensiero dell’Apostolo. S. Paolo vuol dimostrare che la legge mosaica per sé non salva e che salva la fede in Dio e in Gesù Cristo. Come lo mostra? Udite. Abramo si giustificò col credere a Dio e alle sue promesse: quelle promesse e quella fede furono anteriori alla legge di Mose e alla circoncisione: dunque la legge di Mosè e la circoncisione, per sé, non sono necessarie, perché l’uomo si giustificò sènza di esse con la fede allo promesse divine. Vanne la legge, venne la circoncisione. Perché? A che servono? Unicamente come aiuto e mezzo per avvivare la fede nelle divine promesse, attese le debolezze e la infedeltà d’Israele. La legge mosaica e la circoncisione non tolse dunque nulla alla efficacia della fede nelle divine promesse. Ora è venuto il termine delle divine promesse: Cristo. Via dunque la legge mosaica, via la circoncisione, ch’erano soltanto un aiuto per tenerci saldi alla fede nelle divine promesse: si leva l’impalcatura quando la fabbrica è compiuta. Così parmi spiegato meglio il testo apostolico].
Graduale
Ps LXXIII:20; 19; 22.
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.,+
Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja
[V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].
Alleluja
Ps LXXXIX:1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja. [O Signore, [Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII:11-19
“In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.” [In quel tempo: Recandosi Gesù a Gerusalemme, attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli corsero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono distanti e, alzando la voce, esclamarono: Gesú, Maestro, abbi pietà di noi. E come Egli li vide, disse: Andate, mostratevi ai sacerdoti. Ora avvenne che mentre andavano furono mondati. Ma uno di quelli, come vide che era guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce e cadde con la faccia a terra ai piedi di Gesú, ringraziandolo; e questi era Samaritano. Allora Gesú disse: Non sono stati guariti dieci? e gli altri nove dove sono? Non è stato trovato chi tornasse indietro e desse gloria a Dio, se non questo straniero? E gli disse: Alzati, va, poiché la tua fede ti ha salvato.]
OMELIA II
[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]
[Vangelo sec. S. Luca XVII, 11-19]
– Sollecitudine per i mali del Corpo –
L’uomo è tutto sollecitudine per guarire dai malori del corpo, tutto indolenza per guarire dai mali dell’anima. Di questa propensione, che io pianto e stabilisco per soggetto della presente spiegazione, ci somministra una prova assai convincente l’odierna evangelica storia. Mentre il divin Salvatore passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea, all’avvicinarsi ad un certo castello, ecco venirgli incontro dieci lebbrosi che, alzate le mani e la voce: “Gesù, esclamano, abbiate di noi pietà, vedete di quali obbrobriose macchie siamo noi ricoperti: vedete che giusta il prescritto della legge di Mose siamo segregati dal consorzio degli uomini, muovetevi a compassione del nostro misero stato”. Fin qui in queste preghiere altro non vedo se non una gran brama di ricuperare la pristina sanità, e che a quest’unico oggetto han fatto ricorso al divino Maestro. Ma ciò, ancor più chiaro si manifesta dalla loro condotta. Gesù Cristo ad essi intima di presentarsi ai sacerdoti, come la legge prescriveva; essi ubbidiscono e a mezzo del cammino si trovano con sorpresa e con gioia tutti mondati da quel morbo schifoso; indi senza più di altro curarsi si portano ai loro affari, dimentichi affatto d’un segno di riconoscenza verso il pietoso loro liberatore. Uno solo fra questi, uomo di Samaria, ritorna sui suoi medesimi passi e da lontano, alzata la voce, esalta la divina beneficenza e si getta poi ai piedi di Gesù Cristo, L’adora col volto a terra, e Lo ringrazia quanto può del prodigioso suo risanamento. “E gli altri nove dove sono? dice il divin Maestro”. “Ah! Rispondiamo noi, mostrano ben così non aver avuta altra mira che la sanità del corpo, e nessuna premura dell’anima propria e della grazia del Salvatore”. Il solo Samaritano mostrò che gli era cara e la salute del corpo e la salute dell’anima, e l’una e l’altra ottenne in effetti, come ricavano i sacri interpreti dalle parole del Redentore a lui dirette: “Vade fides tua te salvum fecit”. – Ditemi ora, cristiani amatissimi, siamo noi somiglianti al riconoscente lebbroso, o pure ai nove ingrati? Già ve lo dissi dal bel principio, l’uomo per l’ordinario è tutto sollecitudine per risanare i mali del proprio corpo, e tutto trascuratezza per guarire dai mali dell’anima. Vediamolo senza più. – Non vi è studio che si ometta per arrivare alla guarigione del corpo. Non bastano gli aforismi d’Ippocrate, le sentenze di Galeno, gli immensi volumi dei Greci e dei Latini, si fanno ogni giorno, dai fisici moderni, sempre nuovi studi, sempre nuove scoperte. Tutti, e semplici e composti, e vegetabili e minerali, tutte l’erbe, tutte le piante, dall’umile issopo fino ai cedri del Libano, sono il soggetto dei pìù sottili sperimenti. I Botanici non lasciano cosa intentata, i Chimici convertono i veleni in opportuni rimedi. Licei aperti di medicina, stipendi ai professori, premi agii studenti, son tutte prove dell’impiego dall’uomo per l’acquisto di questa scienza. Ottimamente! “E per l’anima, ripiglio io, quale studio si fa, quale scienza si apprende? Ohimè! “Non est scientia animæ” (Prov. XIX, 2). Tanti e tanti han l’anima inferma, “multi infirmi et imbecilles” (Ad Cor. I, XI, 39), l’hanno impiagata da gravi ferite, e ignorano la via di risanarla: la contrizione e la penitenza sono per essi rimedi ignoti e sconosciuti, “non est scientia animæ”. – Per guarire il corpo infermo sono necessarie le droghe del Messico, i balsami del Perù, i giulebbi, gli elettuari, le medicine più preziose; non si risparmia spesa purché si salvi la vita. Nuovi danari ci vogliono per i consulti dei medici, per chiamare da remote parti professori di grido. Si ordinano cambiamenti d’aria, bagni d’acque minerali; per ciò effettuare è spediente abbandonar la famiglia, lasciar i propri affari in mano altrui, intraprendere lunghi viaggi, incontrar debiti per far fronte alle spese, che fuori paese assorbiscono gran capitali. Vada tutto, tutto si sacrifichi, purché si viva. E il più delle volte non si vive, e tante spese non servono che a comprare una vana lusinga, una fallace speranza. – Ditemi ora, cristiani amatissimi, se tanti dispendi fossero necessari per procurare la sanità dell’anima, non saremmo tentati a credere che Iddio esigesse troppo da noi, ed a lagnarci della sua provvidenza? Se poi da noi richiede tanto e tanto di meno, non ci renderemo più rei e inescusabili trasandando la cura delle nostre anime? E che cosa Egli vuole da noi? Uditelo dallo stesso nel libro della Sapienza, “neque erba, neque maliagma sanavit eos” (Sap. XVI, 12). Per sanare le infermità dell’anima non vi vogliono né erbe, né impiastri, ma quel che il Signore prescrive colla sua divina parola: “sed tuus, Domine, sermo qui sanat omnia”, cioè un cuore umiliato e contrito, una volontà che odia il peccato, che risolve subir la morte prima che più commetterlo, che con una confessione sincera brama riconciliarsi con Dio. Ecco il farmaco che ci darà vita e salute. E pure a così dolci prescritti del Celeste Medico, si fa il sordo, si scrolla il capo, o si rimette la cura ad un incerto avvenire, che per ordinario non arriva giammai. – Andiamo innanzi. Per il corpo ammalato tutto si soffre. Fa d’uopo inghiottire sughi amarissimi; pillole disgustose e bibite nauseanti s’inghiottono. Conviene osservare rigorose diete, prolissi digiuni si osservano. Bisogna aprir la vena, non basta, son necessari vessicanti, senapismi, ventose, … si applichino. Ohimè! La piaga infistolisce, si converte in cancrena, il ferro non giova, l’osso s’infracidisce, è indispensabile il troncamento del braccio, della gamba, o del piede; si tagli, si tronchi … purché si salvi la vita! Si tronca, si taglia, e il più delle volte dopo tanti tormenti la vita non si salva, e si muore. Guai a noi se per la sanità dell’anima fossero prescritti così dolorosi e violenti rimedi. Atterriti dalla sola apprensione ci getteremmo in braccio alla disperazione. Ma no, i rimedi del nostro divin Medico sono d’un’altra specie, tutti con la sua grazia soavi, e non costano che un atto di generosa volontà. Comanda Gesù Cristo, che se noi abbiamo una mano, un piede che ci sia cagione di scandalo, dobbiamo reciderli. Non si deve già questo intendere in senso materiale, ma vuol dire: avete voi un’amicizia, una pratica, che vi è cagion di peccato, dovete troncar quell’amicizia, abbandonar quella pratica, sebbene vi fosse cara ed utile come una mano. “Si manus tua vel pes tuus scandalizat te, abscide eum, et proiice abs te”. Voi avete un impiego di giudice, di avvocato, di medico, di maestro, e questo o per ignoranza, o per malizia, o per debolezza è per voi una pietra d’inciampo, occasione di peccato, dovete dismettere la carica, lasciar l’impiego, quand’anche vi fosse necessario come un piede per reggervi e camminare, se volete salvarvi. Tutto ciò da taluni si ascolta come un linguaggio straniero; amano l’occasione del male per quel piacere o guadagno che ne riportano, come quei poveri che a bello studio mantengono aperte le loro piaghe per buscare più facilmente limosine. – Qui non finiscono le cure del corpo infermo. Quando si vedono tornar vani tutti i rimedi della farmacia, tutte le industrie dell’arte medica, si suol ricorrere a Dio. Presto che il male si avanza, presto che l’infermo s’abbatte, un triduo a tal Santo, una novena alla Vergine, una limosina allo spedale. Son ben lontano dal condannare queste pratiche di cristiana pietà: è cosa lodevolissima fare ricorso ai Santi acciò per noi s’impegnino presso l’Autor della vita e della morte. Dico solo che v’è da piangere, perché non si vede uguale premura per la salute dell’anima inferma. Pregate pure Iddio e i Santi per la sanità del corpo, ma se fia spediente per il bene dell’anima: pregate, non come l’empio Antioco per la sola brama di campare, e perciò non fu esaudito, ma come il penitente Davide, che chiedeva insieme e la salute del corpo e quella dell’anima: “Miserere mei, Domine, quoniam infirmus sum. Sana animam meam quia peccavi tibi” (Ps. XL, 4). – Finalmente per guarire da’ mali del corpo si fa ricorso al demonio»! Possibile? Così non fosse! Così fece lo scellerato Ochozia, che infermo per una mortale caduta, mandò a consultare Belzebub idolo di Accaron. Così fanno molte sciocche femminuzze, e non pochi scaltri impostori, qualora presumono medicar certi mali con un miscuglio di sacre e tronche parole, con segni insulsi e superstiziosi, pei quali si fa una tacita invocazione del demonio. A questi eccessi s’arriva per lo smodato amore del corpo; e che l’anima intanto ne resta offesa, aggravata, nemica di Dio, non importa. – Ecco la stravaganza veduta da Salomone. “Vidi servos in équis, et principes ambulantes super terram quasi servos” (Eccl. X, 7). Io ho veduto un servo vile di nascita, e più vile di mestiere, garzone di stalla, seduto su d’un cavallo adorno di nobile e ricca bardatura, e servito alla staffa da una principessa a piedi, come la più abbietta di tutte le serve. Questo servo vilissimo e cosi ben trattato è il nostro corpo, “sacco di vermi”, come lo chiama S. Bernardo; questa serva tanto avvilita e depressa è la nostr’anima. O stranezza degna di orrore e di pianto! Udite come la deplora un S. Agostino: “Tanta sollecitudine per morire un poco più tardi, e nessuna per non morir mai: tanta premura per tenere alquanto lontana la morte, che poi finalmente non si può evitare, e nessun impegno per non incorrere la morte sempiterna: tanto amore per lo schiavo, tanta indifferenza per la regina: tutto per un vaso d’immondezze e di putredine, nulla per uno spirito nobile e viva immagine del Creatore: tutto per quel che finisce in quattro giorni, niente per quel che durerà per secoli infiniti”.- O forsennatezza, o delirio dell’uomo cieco e di se stesso nemico! – Deh! almeno (io non ve lo contrasto) se tanta indulgenza avete pei mali del corpo, abbiatene almeno altrettanta per i mali dell’anima, che è vostra, che è la miglior porzione di voi medesimi; io ve ne prego, ve ne scongiuro colle parole dello Spirito Santo: “Miserere animæ tuæ placens Deo” (Eccl. XXX, 24). Imitate il riconoscente lebbroso, che, come dal bel principio abbiamo osservato, mostrò aver premura e del corpo e dell’anima, e meritò d’essere risanato e nell’anima e nel corpo. “Fides tua, te salvum fecit”.
Credo…
Offertorium
Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea. [O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]
Secreta
Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas. [Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]
Communio
Sap XVI:20
Panem de coelo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis. [Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]
Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum. [Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]