MESSA del SACRO CUORE IMMACOLATO DI MARIA

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DI MARIA

La devozione al Cuore Immacolato.

La devozione al Cuore Immacolato di Maria è antica come il Cristianesimo. Lo Spirito Santo l’insegnò per mezzo di san Luca, l’evangelista dell’infanzia del Salvatore: «Maria conservava nel suo Cuore e meditava tutte queste cose ». « E la Madre di Gesù conservava tutte queste cose nel suo Cuore» (Lc. II, 19; 51). La devozione, che porta i fedeli a rendere a Maria l’onore e l’amore che a Lei si devono, ha qui la sua origine. I più grandi Dottori della Chiesa cantarono le perfezioni del suo Cuore: sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo, san Leone, san Bernardo, san Bonaventura, San Bernardino da Siena, le due grandi monache sante, Gertrude e Metilde… Nel secolo XVII, san Giovanni Eudes « padre, dottore e apostolo del culto al Sacro Cuore » (Bolla di Canonizzazione) si fece dottore e apostolo del culto al Cuore purissimo di Maria e dal dominio della pietà privata, lo introdusse nella Liturgia cattolica.

Oggetto della devozione.

Di questa devozione egli ci dice: « Nel Cuore santissimo della prediletta Madre di Dio, noi intendiamo e desideriamo soprattutto venerare e onorare la facoltà e capacità naturale e soprannaturale di amare che la Madre dell’amore tutta impegnò nell’amare Dio e il prossimo. Poiché sia che il cuore rappresenti il cuore materiale che portiamo in petto, organo e simbolo dell’amore, o piuttosto la memoria, la facoltà d’intendere con cui meditiamo, la volontà, che è radice del bene e del male, la finezza dell’anima per la quale si fa la contemplazione, in breve, tutto l’interno dell’uomo (noi non escludiamo alcuno di questi sensi) intendiamo e vogliamo soprattutto venerare e onorare prima di ogni cosa e sopra ogni cosa, tutto l’amore e tutta la carità della Madre del Salvatore verso di Dio e verso di noi » (Devozione al Sacro Cuore di Maria, Caen, 1650, p. 38 e Cuore ammirabile, 1. I, c. 2). – La cosa più dolce per un figlio è onorare la madre e pensare all’amore di cui è stato oggetto. San Bernardo, parlando del Cuore di Gesù, ci dice: « Il suo Cuore è con me. Il Cristo è mio capo. Come potrebbe non essere mio tutto quello che appartiene alla mia testa? Gli occhi della mia testa sono miei e allo stesso modo questo Cuore spirituale è veramente mio cuore. È veramente mio e io possiedo il mio cuore con Gesù» (Vigna mistica, c. 3). Possiamo dire allo stesso modo del Cuore di Maria. Una madre è tutta di suo figlio e gli appartiene con i suoi beni, il suo amore, la sua vita stessa. – Un figlio può sempre contare sul cuore della madre. Noi tutti siamo figli della Santa Vergine, che ci accolse con Gesù nel suo seno nel giorno dell’Incarnazione. Ci generò nel dolore sul Calvario e ci ama in proporzione di quanto a Lei siamo costati. Essa ha offerto al Padre, per noi, quanto aveva di più caro. Gesù, ha detto il suo fiat per l’immolazione, lo ha dato a noi e come l’avrebbe dato senza dare se stessa?

Confidenza nel Cuore Immacolato.

Maria ridice a noi le parole di Gesù: Venite a me voi tutti e vi consolerò… Ci sorride e ci chiama come a Lourdes e nessuno, per la sua indegnità, ha motivo di starne lontano. Il Cuore di Maria fu sede della Sapienza, dimora per nove mesi del Verbo fatto carne, formò il Cuore stesso di Gesù e gli insegnò la misericordia verso gli uomini, pulsò all’unisono col Cuore di Gesù e per quel Cuore fu ornato dei più preziosi doni di grazia. Cuore materno per eccellenza, resta il rifugio dei poveri peccatori. Per questo fu fatto Immacolato e ne sgorgò soltanto sangue purissimo, il sangue dato a Gesù, perché lo versasse per la nostra salvezza. È il Cuore depositario e custode delle grazie meritate dal Signore con la sua vita e con la sua morte e sappiamo che Dio non distribuì mai, né distribuirà grazie ad alcuno se non per le mani e il Cuore di Colei, che è tesoriera e dispensatrice di tutti i doni. È il Cuore, infine, che ci è stato dato con quello di Gesù, « non solo per modello, ma perché sia il nostro, perché, essendo membra di Gesù e figli di Maria, dobbiamo avere con il nostro Capo e con la nostra Madre un solo cuore e dobbiamo compiere tutte le nostre azioni con il Cuore di Gesù e di Maria » (S. Giov. Eudes, Cuore ammirabile, 1. XI, c. 2).

Consacrazione al Cuore Immacolato.

Se la consacrazione individuale di un’anima a Maria le assicura le grazie più grandi, quali frutti non potremo attendere dalla consacrazione del genere umano fatta dal Sommo Pontefice? La Vergine stessa si degnò farci sapere che desiderava tale consacrazione e, rispondendo al desiderio della Madonna di Fatima, S. S. Pio XII, il giorno otto dicembre 1942, pieno di confidenza nell’intercessione della Regina della pace, solennemente consacrò il genere umano al Cuore Immacolato di Maria. Le nazioni cattoliche si sono unite al supremo Pastore.

MESSA

La festa del Cuore di Maria era stata concessa a parecchie diocesi e a quasi tutte le Congregazioni religiose, che la celebravano in date differenti. S. S. Pio XII l’estese a tutta la Chiesa e la fissò al giorno 22 Agosto. – Vangelo (Gv. XIX, 25-27). – In quel tempo: Stavano vicino alla croce di Gesù la sua Madre, la sorella della sua Madre, Maria di Cleofa, e Maria Maddalena. Gesù dunque, vedendo la sua Madre e il discepolo ch’Egli prediligeva, disse a sua Madre: Donna, ecco il tuo figlio. Poi disse al discepolo: Ecco la tua Madre. E da quel momento il discepolo la prese con sé. La maternità di Maria data dall’Incarnazione, ma fu proclamata in modo solenne sul Calvario da Gesù morente. Dandoci sua Madre, Gesù ci diede la prova più grande del suo amore e Maria, accettando di divenirlo, ci mostrò quanto il suo Cuore possedesse di tenerezza e di misericordia. Maria non si sentì mai Madre come in quel momento in cui vedeva il Figlio soffrire e morire in croce, intendeva che ci confidava e ci donava a Lei, e accettò di estendere l’affetto che nutrì in vita per Gesù, non solo su san Giovanni, ma su noi tutti, sui carnefici del suo Figlio, su tutti quelli, che erano stati causa della morte di Lui. – Quando il centurione venne ad aprire il cuore di Gesù già morto, la spada predetta dal vecchio Simeone penetrò nell’anima, nel Cuore di Maria e produsse una ferita che, come quella del Salvatore, resterà sempre aperta.

Preghiera al Cuore Immacolato di Maria.

« Quali cose grandi e ricche di gloria bisogna dire e pensare del tuo amabile Cuore, o Madre degna di ogni ammirazione! Lo Spirito Santo dice che Tu sei un abisso di prodigi e noi diremo, senza ingannarci, che il tuo Cuore è un mondo di meraviglie. L’umiltà del tuo Cuore ti ha innalzata al più alto trono di gloria e di grandezza, che possa essere occupato da una creatura. L’umiltà, la purezza e l’amore del tuo Cuore ti resero degna di essere Madre di Dio e di possedere per conseguenza tutte le perfezioni, tutti i privilegi, tutte le grandezze, che sono dovute a tale dignità. Per questo io ammiro, saluto e onoro il tuo Cuore verginale come un Mare di grazia, un miracolo d’amore, uno specchio di carità, un abisso di umiltà, come il trono della misericordia, il regno della divina volontà, il santuario dell’amore divino, come il primo oggetto dell’amore della Santissima Trinità» (San Giov. Eudes, Cuore ammirabile, 1 IX, c. 14). – «Apri, o Madre di misericordia, apri la porta del tuo Cuore benignissimo alle preghiere che noi facciamo sospirando e gemendo. Tu non rigetti il peccatore, non lo disprezzi, anche se è al colmo della corruzione e del delitto, purché sospiri a te, purché implori con cuore contrito e penitente la tua intercessione » (San Bernardo, Preghiera alla Vergine). – « Sia sempre benedetto, o Madre, il tuo nobilissimo Cuore, onorato di tutti i doni della divina Sapienza e infiammato dagli ardori della carità. Sia benedetto il Cuore nel quale meditasti e conservasti con tanta diligenza e fedeltà i sacri misteri della Redenzione, per rivelarceli nel momento opportuno. A te la lode, a te l’amore, o Cuore amantissimo, a te l’onore, a te la gloria da parte di tutte le creature, per tutti i secoli dei secoli. Così sia » (Nicola de Saussay, Antidotario dell’anima, Parigi, 1495).

[Dom Gueranger, l’Anno Liturgico, vol II]

SANTA MESSA

Introitus
Hebr IV:16.
Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio
[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno].

Ps XLIV:2

Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea regi.  [Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema.]

Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno opportúno [Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno].
Oratio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spiritu tuo.
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui in Corde beátæ Maríæ Vírginis dignum Spíritus Sancti habitáculum præparásti: concéde propítius; ut ejúsdem immaculáti Cordis festivitátem devóta mente recoléntes, secúndum cor tuum vívere valeámus.
[O Dio onnipotente ed eterno, che nel cuore della beata Vergine Maria hai preparato una degna dimora allo Spirito Santo: concedi a noi di celebrare con spirito devoto la festa del suo cuore immacolato e di vivere come piace al tuo cuore.]

Lectio  Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XXIV:23-31
“Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei, fructus honóris et honestátis.
Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris, et agnitiónis, et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ, et virtútis. Transíte ad me omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.” [Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna.]

Graduale
Ps XII:6
Exsultábit cor meum in salutári tuo: cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi
[Il mio cuore esulta nella tua salvezza. Canterò al Signore perché mi ha beneficato, inneggerò al nome del Signore, l’Altissimo.]
Ps XLIV:18

Alleluja
Mémores erunt nóminis tui in omni generatióne et generatiónem: proptérea pópuli confitebúntur tibi in ætérnum. Allelúja, allelúja
[Ricorderanno il tuo nome di generazione in generazione, e i popoli ti loderanno nei secoli per sempre. Alleluia, alleluia.]
Luc 1:46; 1:47
Magníficat ánima mea Dóminum: et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo. Allelúja.
[L’anima mia magnifica il Signore, e si allieta il mio spirito in Dio, mio Salvatore. Alleluia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XIX:25-27
“In illo témpore: Stabant juxta crucem Jesu mater ejus, et soror matris ejus María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus.
Deinde dicit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua”. [In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua Madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la Madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua Madre: «Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua Madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Omelia

 per la Festa del SACRO CUORE DI M. VERGINE

[Del Padre Bonaventura da Venezia, dei minori riformati in:

 “Omelie” del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

 “Omnis gloria eius filiæ regis ab intus”. [Ps. 44.]

Sconsigliate figliuole di Sion, che vana pompa seguendo e fallaci ornamenti, dell’esteriore comparsa soltanto andate superbe, niente chiudendo in voi stesse di buono, e sotto una corteccia splendida e rilucente il loto ascondete di un frale mal composto, e di un vizioso animo; ah! copritevi pur di rossore la fronte, e di qua vi togliete. Ecco la bella Figliuola del principe, che d’ogni vezzo e grazia fornita, non stima che i tesori nel suo cuore raccolti, non va superba che delle eccellenti doti dell’animo suo. A Lei pure non manca soavità di linguaggio, leggiadria di volto, elevatezza di spirito, splendore di dignità; ma più di tutte queste sì belle doti, che provocar potrebbero l’ambizione e l’invidia di parecchie a voi simili, Ella si pregia del candor del suo cuore, e dell’altre belle virtù, che sì vagamente l’adornano: “Omnis gloria eius filiæ regia ab intus”. Siccome ella non cerca che d’incontrare il genio del suo Creatore Iddio, così non dell’apparenza fa conto ch’esteriormente appaga l’umano vedere, ma dell’interna sostanziale bellezza, ch’è l’oggetto del compiacimento divino: “Deus autem intuetur cor”. Di questa Ella fa degna stima qual di preziosa margarita d’inestimabile prezzo e valore, o qual di ben fortunato campo, in cui sta nascosto assai ricco tesoro, che solo può invogliare il giusto estimatore e buon discernitore celeste. Ora di questa sì rara margarita e tanto dalla Vergine avuta in pregio, di questo eccellente prezioso Cuore egli è ben giusto il favellare con lode; ed è ben saggio il consiglio vostro, o Signori, d’aggraduirvi l’affetto della gran Donna in questo giorno del suo lieto apparire fra noi mortali, di celebrarne festevole pompa e devota, e di presentarle insieme coi vostri affetti, gli ossequi e gli encomi. – Il che sebbene non molto acconciamente per me fare si possa, non potendo con disadorna e breve orazione i pregi tutti adeguare di sì nobile ed eccelso argomento; pure la devozione vostra seguendo, io mi lusingo di poter in qualche modo riuscir nell’impresa, se riconoscendo’ nel cuor di Maria tre sublimi caratteri, io vel fo veder senza più un Cuore purissimo, un Cuore dolcissimo, un Cuore afflittissimo, che sono appunto gli aspetti sotto dei quali la pietà vostra, a grande vostro profitto, è solita riguardarlo. Sotto di queste semplicissime idee adunque io vi propongo il Cuor di Maria quale specchio di purità, e ciò dovrà servire a vostra particolar edificazione: qual fonte di dolcezza, e ciò potrà servire a vostra spiritual consolazione: in fine qual pelago di amarezza, e ciò dovrà destare nei vostri petti la più tenera compassione. Me felice, se tali pregi devotamente esponendo, potrò meritarmi in oggi il favor della Vergine, potrò piacere all’amabile suo Cuore, e potrò godere insieme e gloriarmi del vostro spirituale profitto.  – La purità di un Cuore, comeché sostanziale divisione non ammetta in sé stessa, siccome neppur variazione o esteriore frammischianza; pure al proposito nostro in negativa e positiva agevolmente si distingue. Consiste la prima nell’aver il cuore immune da ogni macchia e difetto, e da quello eziandio sì universale, che per infelice retaggio dai nostri progenitori ci fu partecipato; consiste la seconda nella bellezza della castità, e nell’aver il cuore netto interamente e puro dal fango d’ogni sensuale brutto piacere. Or sì dell’una e sì dell’altra eccovi, signori miei, quasi centro, anzi quasi lucido specchio il cuor della Vergine. E a riscontrarvi in esso la prima, io salgo tosto col pensiero ad Adamo e a quella, per nostra mala ventura, debole e lusinghiera sua compagna; e li vedo creati da Dio di un animo per natura innocente, di una coscienza tutta pura e illibata, di un cuore d’ogni passione sgombro, di speciale grazia forniti, di scienza, di carità, delizia agli occhi di Dio, cui solo riguardano coi loro purissimi affetti: che già non uscì giammai della mano di Dio opera che tutta pura non fosse e nel primo esser suo tutta bella e perfetta. Ma poco tratto seguendo, ahimè io vedo smarrirsi di questi il bel candore, lo splendore oscurarsi, mancar la beltà. Ambedue queste creature sì monde ribellansi a Dio, si macchiano di grave colpa, e perdono del loro animo la sì pregiata originaria innocenza. Disubbidisce Adamo, ed Eva con esso, e in conseguenza di sì funesto delitto, tutta rendono prevaricatrice la in sé stessi raccolta umana generazione. Or che fia mai della Vergine? Essa pure è di Adamo figliuola; essa pure dallo stesso ceppo e radice trae la sua discendenza. Dovrà dunque essa pure essere a parte… Essa pure dovrà soggiacere… Che mai vi pensate, o signori? S’io ben intendo le Scritture, se non mi fallisce la Chiesa, no che Maria, sebbene da Adamo progenerata, sebbene per natura agli altri tutti congiunta, non porterà, per grazia almeno, di un sì gran disordine il Cuore unquemai macchiato. E vaglia pur sempre la verità, miei ornatissimi. – Di chi si parla là per l’Ecclesiastico a quel passo: “Ego ex ore Altissimi prodivi primogenita ante omnem creaturam”? Io so che la divina sapienza proferisce letteralmente di sé un oracolo sì bello, ma so pur che la Chiesa in quegli arcani detti riconosce significata e rappresentata a vivo la Vergine. Che se Maria fu il primo parto della privilegiante divina bocca, come potrà ella aver parte nel contagio dell’umana perduta discendenza? S’Ella fu innanzi nella sua spirituale generazione e nella predilezione celeste, come dipenderà dalla sorte infelice di chi le viene dietro peccando? Ella al più lo potrà essere secondo la carne, non lo potrà secondo Io spirito; quella al più in qualche maniera potrà apparire ad alcuno della paterna concupiscenza ingombrata, lo spirito e il cuore non lo potrà esser mai. Poiché il suo Cuore predestinato da Dio con elezione speciale, antecedente e opponentesi ad ogni preveduta umana colpa e miseria, nacque innanzi alle cose tutte nello straordinario decreto della grazia (che questo è il nascer vero), nacque prima alla purità che alla vita, prima alla salute che alla corruzione, e però non va soggetta ai danni della già preveduta e ristorata in Maria umana prevaricazione. Quindi prima essendo di tutte le creature, ogni altra creatura avanza nella purità, né può mai essere soggetta alle altrui triste affezioni, poiché dalla parola efficace di Dio uscì primogenita: “Ego ex ore Altissimi prodici primogenita ante omnem creaturam”. – M’inganno io forse, o signori, o cerco con strani arditi pensieri di far onta e violenza alla verità? I nostri cuori, pur troppo avvezzi a incontrare fin dal primo loro nascere la impurità della colpa, non sanno intendere nel prediletto Cuor di Maria una tanta purezza. Del resto Ella fu preordinata fin dai secoli eterni a noi tutta dissimile, non soggetta ad alcun posteriore infortunio o miseria, tutta pura ed intatta: “Ab eterno ordinata sum, et ex antiquis”. Ella apparì appunto siccome la luce, che fin dal primo giorno tratta con impero sovrano dal sen delle tenebre e degli abissi, purissima sfavillò, brillante, serena, e d’ogni macchia e vapore sgombra e purgata: ed anzi la separò Iddio in tutto dall’orrore e dall’oscurità delle tenebre: “iussit separari lucem a tenebris”; che quantunque involgessero poi queste di fosca notte il mondo e tutte le create cose, pure non ne ricevette giammai offesa od oltraggio, ma sempre bella in sé stessa ritenne la sua primiera purezza, e l’antico splendore. Tale Maria; luce nata prima ancor della luce, fu separata dalle tenebre della colpa con esterna irreconciliabile nimistà; e quantunque destinata fosse a risplendere fra le tenebre e fra gli orrori della morte, non mai, però queste offuscarono la sua beltà, il suo chiarore; ma sempre in tutta la sua vita, pura si conservò senza ombra e senza macchia, tutta bella e immacolata: “Tota pulcra es, et macula non est in te”. Ma stringiamoci sempre più, miei signori, al Cuor della Vergine, e veggiamone l’altra sorta di purità positiva e più propria, di cui fu fornita, e da cui la sua virtù riceve siccome il compimento e la perfezione. Purità di un Cuore si è più propriamente, e più distintamente lo zelo e la premura di mantener intatto il giglio purissimo della castità. Questa virtù è delicata cotanto, che ogni legger fiato l’appanna, ogni ombra la tinge e la scolora, e quindi, chi questa sa mantener veramente illibata, dà mostra sicura della sua universale mondezza e integrità. A questa si applicò con gran fervore il Cuor della Vergine vago oltremodo di possederla. E voi già l’avreste veduta fin dai più teneri anni, allorché sapeva reggere appena i primi passi, tutta sollecita del suo bel candore, palpitare ad ogni umano incontro, starsi vegliante sempre e guardinga, che il suo tenero fior non languisse, e comparire così fin d’allora fra le donzellette di Sion, qual comparisce candido giglio, in mezzo ad ispide e brutte spine, o qual maligna stella in mezzo a dense e fosche nuvole. Voi La avreste veduta sempre grave nel portamento, modesta negli atti, circospetta nel conversare, nel ragionare parca, amare il ritiro, il silenzio, il riserbo, la semplicità, di verecondia assai spesso coprirsi, e gli occhi di colomba, e gli altri sensi tutti fra gl’innocenti pensieri ed i purissimi affetti tener in Dio rapiti, e al mondo chiusi sempre; e rimaner sempre così qual ben suggellato fonte, che non perde giammai la tranquillità delle cristalline sue acque, o qual orto ben chiuso, che non vede giammai appassito da rio tocco o velenoso fiato alcun suo fiore. Voi l’avrete veduta… Ma che vederla voi? Già La vide il tempio replicar frequenti i voti per la sua integrità; La vide la casa in continue orazioni, in solitudine, in penitenza, in disagio; La vide il mondo viaggiar con fretta fuggendo sempre la vista e la comunanza degli uomini; La vide e l’ammirò il cielo palpitare e smarrire alla vista in fino dei suoi Angeli stessi; La vide, sì, La vide anche Iddio, e se ne compiacque, e amor lo prese di quest’anima eletta; e deliberò di affrettar in Essa il suo riposo e di venire a deliziarsi nel suo castissimo seno, per uscir poi del suo seno a purgar le macchie del tristo mondo. – Bello innocente Cuor di Maria, or che dite di questo divino consiglio? Il Signore della purità, quegli che a voi La ispirò, La mantenne e La stabilì con eterno decreto, Quegli che compiacesi tanta delle anime pure e caste, questi vuole adesso in voi discendere, in voi e di voi ingenerarsi. Ah! voi vi turbate a un tale annuncio? Non temete o Maria, Voi siete la favorita da Dio, Voi siete la privilegiata, destinata a fortunatissima Madre del gran Messia e Dio Salvatore, Voi siete la Regina del cielo e della terra. Tutto bene, Ella dice, ma pur “quomodo, quomodo fiet istud” O parole degne di eterno encomio! O Cuor di Maria geloso troppo di sua purità! Si tratta di esser genitrice del Monarca dei cieli, del Salvatore del mondo e si frammettono dimore, e s’interpongono domande? Eh, non tardate. Il compiacimento di Dio, la salute del mondo, la gloria vostra dipende da Voi. Maria pensa, sospira, ma non risolve. O cimento sorprendente invero e terribile all’illibatissima sua purità! O angustie maggiori ancora di quelle, in cui fu posto il patriarca Abramo nel punto del gran sacrifizio! Imperciocché ivi combatteva l’immancabile promessa di Dio col nuovo comando, qui la inviolabile promessa fatta a Dio col richiesto consenso; la speranza contro speranza, qua evidenza, dirò cosi, contro evidenza; là l’amore del figlio con l’amore di Dio, qua amore di Dio contro lo stesso Dio; là il paterno dolore col divino piacere, qua il piacere di Dio con la premura di più sempre piacerGli. Voi volete, diceva Ella, o mio diletto, venire nell’orto ch’è vostro? Veniteci pure in buona pace, ch’Io di gigli lo adorno, e ve ne farò satollo; ma soffrite che i miei gigli, onde è cinto tutto e vallato, ve ne contendano per poco il passo; Voi volete discendere nel mio seno, ma il mio seno a Voi consacrato non può ammettere mischianza alcuna di umano consorzio, Voi mi proponete la vostra maternità per esaltarmi, ma io lasciar non posso la mia integrità per sempre e maggiormente piacervi: “Quomodo, dunque, “quomodo fiet istud”? Sapete come, o gran Vergine? Con un portento, che coroni la vostra incomparabile purità, che vi renda il miracolo di tutti i secoli, lo stupore di tutte le generazioni. La vostra Virginità stessa diverrà feconda, ed essa stessa vi renderà adorna e lietissima del divin Parto. – Sì, o gran Vergine, il vostro cuore è veramente un sole di purità; e Iddio appunto in questo sole vuol porre il suo tabernacolo: “In sole posuit tabernaculum suum”. Il vostro cuore è letto florido d’intemerato pudore, e in esso appunto vuol posarsi il diletto: “Adorna thalamum tuum, Sion, et suscipe Regem Christum”. Siccome il sole manda fuori di sé il puro raggio senza lesione neppur menoma del suo splendore, così dal verginale seno vostro uscirà Cristo senza il minimo pregiudizio della vostra interezza. Siccome lo Sposo si leva del letto tutto riguardoso per non recar disturbo alla sposa, che soavemente riposa; così da Voi, dal vostro verginale chiostro, se ne uscirà chetamente e quasi non avvertito Gesù: “In sole posuit tabernaculum suum, et ipse tamquam sponsus procedens de thalamo suo”. O miracolo adunque, o portento! “Maria virginitate placuit”, dirò con Bernardo, ma più forte chiuderò ancor col Crisostomo: “Propterea Christum ventre concepit”. Ella in premio della sua purità ricevette la gloria di sì nobile fecondità; Ella l’una e l’altra in sé stessa mirabilmente congiunse: “Gloria Libani data est ei, decor Carmeli et Saron”; e la maternità sua è divenuta la prova più bella e più autentica della nitidezza del suo Cuore illibato. – Che dite voi pertanto, amatissimi, a un esempio sì bello? Non vi par veramente il Cuor di Maria un miracolo di purità? Ma che vi par poi di voi stessi in faccia a questo limpidissimo specchio? Ah! che alcuno non potrà forse fissar in esso lo sguardo senza coprirsi tutto di confusione e di vergogna. La scostumatezza che corre ai giorni presenti, il disordine in cui sono poste le umane passioni, la niuna custodia dei sentimenti, lo sregolamento di tutti gli affetti fanno pur brutto un tale confronto, e fanno apparir questo specchio a guisa di un cristallo orribile, quanto più bello in sé, tanto più disviato e sconcio elle altrui triste apparenze. Per me non si faranno adesso su di ciò maggiori o più lunghe parole per non contaminare di tali sozzure un argomento sì casto, e per non funestare con troppo amari rimproveri l’allegrezza di un sì bel giorno. Voi da voi stessi già vel vedete, amatissimi, a vostra emendazione; che io a più leggiadre cose rivolgendo adesso il pensiero, della dolcezza del Cuor di Maria mi fo a ragionarvi, secondo argomento proposto alla vostra attenzione. – Se il tempo avaro troppo non mi premesse ai fianchi, e se virtù di dire m’avessi pari al leggiadro argomento; oh! le belle cose che io vorrei qui dirvi, amatissimi, atte a stemperare ad ognuno per dolcezza il cuore. Ma io debbo cedere alla delicatezza del nobile soggetto, io dunque d’una tanta dolcezza or vi darò sol qualche saggio, e voi, gentili anime e devote, ne riconoscerete per le vie del cuore la miglior parte, che ancora vi taccio, né saprei qui palesare. – La dolcezza di un cuore non da altro procede, né  da altro si può meglio conoscere, che dall’amore; essendo l’amore, al definire dei mio serafico Bonaventura, una dolce pendenza dell’animo verso un qualche oggetto, che più ne diletta, o da cui il Cuore riempiuto viene di dolcezza e di soavità. Ora due amori considero nella gran Vergine; uno più nobile, che ha Dio per oggetto, ed è della sua dolcezza siccome il principio e la fonte; 1’altro inferiore, che noi riguarda, ed è della sua dolcezza siccome effetto e testimonio. L’amor di Dio in Lei infuso la riempì di soavità, di delizie; l’amor suo a noi diffuso fe’ conte e palesi a noi le sue dolcezze. Abbondò in Lei l’amor di Dio; e ciò fin d’allora, che chiamandola all’esser primiero di sua innocenza, Vieni, le dice con voce tutta di grazia, vieni mia Bella, mia Colomba, mia Immacolata, che già per te è finito il crudo inverno, il diluvio della colpa è ormai passato, e sul terreno ch’è mio spuntano i vaghi fiori dell’innocenza, e i primi frutti della mia redenzione; vieni; mia sposa e mia diletta, tutta secondo il mio cuore formata; vieni, ch’io già ti eleggo al mio amore, al mio trono; e in così dire, stendendo a Lei le caste braccia, e facendo della manca sostegno al capo, e della destra dolce ritegno al colpo, se La strinse pieno di amore al seno. Chi può mai spiegare qual si restasse allora il Cuor di Maria a questa prima sorpresa di amore? Qual bianca neve, cui fervido raggio di sole batte immoto e ferisce, tosto si dilegua in umor radioso, o qual molle cera a fuoco ardente appressata, si strugge tosto e si sface; tal si rimase della Vergine il cuore ai raggi di quel Sole divino: “Factum est cor meum quasi cera liquescens”. La sua anima restò allora liquefatta tutta d’amore alle voci del suo Diletto, e fu allora che a formar venne un Cuore di tempra sì amabile e sì dolce, che solo amore e tenerezza respira, solo di amore e dolcezza si pasce. Soavi pensieri, dolci e teneri affetti, estasi giocondissime, sfinimenti, grazie, tenerezze, delizie sono il suo continuo esercizio, la sua vita, il suo nutrimento. – Ma qual poi non divenne allora quando, disceso il Verbo dal seno del Padre, La riempi tutta di sé, e nelle sue viscere prese giocondo albergo e umane spoglie dalla sua carne, e sua Madre chiamolla e sua Signora, allora quando i monti stessi distillarono dolcezza, e giù dai colli si vide scorrere il puro latte e il dolce miele; che sarà stato allora del Cuor della Madre? Allora il suo cuore e la sua carne esultarono unitamente nel suo Dio di nuova vita; allora il suo spirito restò tutto compreso d’un immenso ardore di carità al vedersi unita sì strettamente al suo diletto, e d’una strabocchevole piena di dolcezza e di gaudio restò inondato. E in verità, miei signori, se la grazia divina è una specie di giocondità e di dilettazione procedente da amore, per cui al dir di S. Agostino sopra qualunque oggetto 1’anima si diletta e piace di Dio, e dolce le diventa ed amabile. “Per quam dulcescit Deus”; di qual giocondità e dolcezza, di qual amore non sarà stato ricolmo il Cuore della Vergine, s’Ella in quel punto fu piena di grazia non solo, ma sovrappiena, al dire dei Padri, e sopraffluente, che mai la maggiore o simile, siccome non si troverà giammai la più capace? E se Gesù Cristo è il fonte della dolcezza e della grazia, che in sé i tesori tutti racchiude della divinità; come non ne sarà rimasta piena Colei che doveva essere qual canale al fonte, anzi del fonte e della grazia stessa la produttrice? E se Iddio d’un torrente di giocondità e di piacere allaga il cuor dei beati in Paradiso; di qual soavità e dolcezza non avrà riempito il Cuore di Maria, mentre conteneva in sé stessa quello, per cui solo è delizia il Paradiso? Se non che sì belle congetture ancora non bastano; che a riconoscer la dolcezza del Cuor di Maria più chiara prova e più sensibile a noi pur rimane da quell’amore, ch’Ella per noi nutre ancora e conserva. – Amore, miei dilettissimi, amore niente men che di madre, che tale divenne, poiché del comun nostro fratello Gesù in Genitrice fu eletta; che tale divenne, poiché da Gesù Cristo medésimo sopra il Calvario in Madre Ei fu lasciata. – Del che se ogni altra prova pur ci mancasse, il suo Cuore abbastanza per tale la ci avrebbe data a conoscere. E qual miglior cuore per noi del Cuor della Vergine? Madri infelici, onde venimmo a questa mortale vita di supplizio e lamento, voi d’ordinario avete il nome e l’apparenza di madri, ma non ne avete già il cuore. – Solo Maria, e dicasi pure che è dolcissima gioia il dirlo, solo Maria ha propriamente viscere e cuor vero di Madre. Per Lei noi siamo alla grazia divina rigenerati, per Lei diletti noi diventiamo e cari al divino suo Figliuolo; per Lei le dolcezze del cielo a noi piovono copiosamente. Lo  dicano pure quelle anime, che a Lei, siccome a madre, han ricorso, e che di Lei fanno spesso amorosa e pia rimembranza, qual rugiada di grazie non le conforta? Qual latte soavissimo di devozione non le nutrisce? Qual amore beatissimo non le infiamma ed accende? E perché, a dire di Bernardo Santo, la misericordia agl’infelici appare ancora più dolce; voi, o peccatori, voi che vi trovate nelle tenebre e nell’ombre della morte, voi meglio ancora lo dite, se sia dolce della Vergine il Cuore. In tanta vostra disgrazia, in tanto abbandono, dov’è l’unico vostro rifugio? Ov’è il dolce conforto vostro? Se non nel Cuor amantissimo della Vergine, se non nel cuor della Madre? A Lei non temete già voi di ricorrere, che niente ha Ella in sé di aspro e terribile, tutta … tutta è soave; e a tutti esibisce ricreazione e riposo. Già non sa Ella, né può ai vostri prieghi resistere, se parlano e pregano per voi le stesse sue viscere, e s’interpone per voi l’amoroso suo Cuore: “Urgentur Matris viscera: intus est, qui interventi et exorat affectus”. Ma che dico resistere? Ella anzi vi viene incontro, e va in cerca di voi ansiosa e sollecita, siccome del suo smarrito figliuolo? Ella vi viene appresso a stimolarvi con la dolcezza e con l’amore; e qual esca soavissima, come la chiamò Gesù Cristo, sempre intenta a far preda di miseri peccatori, Ella vi tira dietro di sé col grato odore dei suoi unguenti e delle sue virtù, vi conduce soavemente in braccio alla misericordia, v’introduce alle nozze del Re celeste, alle delizie del Paradiso. O Maria, dunque veramente nostra Madre, nostra vita, nostra dolcezza! O clemente e pia Vergine! Che Cuore è il vostro sì dolce, sì pietoso, sì amabile? Già non è egli questo un Cuore, ma puro miele, anzi del miele stesso più soave e più dolce: “Spiritus meus super mel dulcis”. – Un Cuore egli è questo, amatissimi, più ancor che di madre, poiché Ella ci amò più ancora in qualche guisa, che non amò lo stesso unigenito suo diletto Figliuolo, avendocelo Ella dato in dono per la nostra salute, e per dimostrarci la estrema dolcezza del suo Cuore amantissimo. – Ella ce Lo diede fino a privarsene e a perderLo in questo mondo; e quasi minore avesse per Lui la tenerezza e l’affetto, Ella lo diede a nostro riguardo a strazi inumani, e Lo sacrificò per noi a barbara e cruda morte . . . Ma quale a tal riflessione idea di onore mi si apre innanzi, e tutta m’ingombra di dolore e di tristezza la mente? Sospendiamo, in grazia, sospendiamo per poco il discorso, poiché mi convien mutare e tuono e stile e pensieri, se da un Cuore dolcissimo io mi vedo costretto a dimostrarvi in fine il Cuor di Maria veramente afflittissimo. – Doveva pure, o signori, un Cuore sì dolce, per quanto il pensiero nostro porta e l’affetto, andar esente da ogni angustia e travaglio, e ogni contrario insulto infrangere e superare; ma non fu così, che anzi per questo stesso egli è il Cuore più afflitto, il più addolorato di tutti, Lo stesso amore, che della sua dolcezza fu il principio e la fonte, rivolto adesso in amarezza, è il più fiero carnefice, che La tormenta. Passati erano i giorni felici della deliziosa dimora di Gesù nel suo verginal utero; quando appena uscito alla luce Lo vide esposto alle pubbliche contraddizioni, bersaglio fatto alle più fiere persecuzioni. Qual tormento al Cuor della Madre nel vedere si villanamente oltraggiato il divino suo Figliuolo! O come poi al vederLo in sul Calvario crocifisso e piagato spasimava nell’anima di un atroce supplizio! “Tota es … ”, esprime pur bene un tanto dolore il mio piissimo Bonaventura, “tota es in vulneribus crucifixi”. Stava Maria con tutta l’anima nelle piaghe del suo amor crocifisso, con tutta l’anima ne accoglieva i tormenti. Dimentica di sé stessa e di ogni sua gloria, pendeva Essa pur dalla croce del suo caro Figlio, agonizzava con Gesù moribondo, e nelle sue piaghe e sulla sua croce Essa pure moriva: “Christo confixa sum cruci, tota es in vulneribus crucifixi”; e quasi ciò ancor non bastasse, di un sì doloroso oggetto la sanguinosa immagine tutta in sé ritraendo, scolpiva altamente a colpi di fiero dolore nella più tenera e più delicata parte del Cuor suo a farlo scoppiare di un estremo rammarico: “Totus Christus crucifixus est in intimis visceribus cordis tui”. Così nave che, abbandonata alle furie di mar procelloso, dopo di aver sofferti gli oltraggi tutti del cielo irato, dell’onda fremente e terribile apre in fine il fianco lacero a ricevere il nemico elemento, che già la sommerge: Maria pure così: “Miserere mei, quoniam intraverunt aquae usque ad animam meam” … “Tota es in vulneribus crucifixi: totus Christus crucifixus est in intimis visceribus cordis tui”. Oh lo strano combattimento! Oh il fiero spasimo! Oh la tempesta atrocissima dell’amabile suo Cuore! – Tempesta che non si calma già al riflettere del nostro vantaggio e della nostra salute, ma si accresce anzi, e più fiera diventa al comprendere, che la maggior parte dei figli suoi non si sarebbe approfittata di una tanta passione e di un sì acerbo tormento. Ed ecco nel nuovo amore una nuova e più aspra cagione di dolore; ecco il Cuor di Maria per ogni parte combattuto e trafitto. “Ahimè, va Ella dicendo con Giacobbe, e con quella sapiente di Tecue, ahimè! madre dolente e infelice che sono, che mi vedo estinto a’ fianchi un Figliuolo, vedo gli altri spinti da furor cieco condursi a eterna morte. Io per vederli salvi, ho dato questo, che era la mia delizia, il mio amore; ed ora che Lo vedo esanime nel mio seno, quelli ricusano la salute e la vita, e me lasciar vogliono vedova desolata e senza conforto. E dovrò dunque dopo un tanto costo, dopo un sì grande affanno vederli morire? Dovrò vederli ancora seguaci del peccato, prigionieri del demonio; vittime infelici di eterna morte? Ah figli, ingrati figli, mie viscere, parlo di questo Cuore, con tanto affanno sopra il Calvario da me generati, perché trafiggete di sì acuta saetta il cuor della Madre? Deh! vi sovvenga di questo seno, che sì amorosamente vi accolse, mirate il vostro dolce Fratello, che sì stranamente per voi morì, lasciate il peccato, e fate a Lui e a questo mio Cuore ritorno.” Ove son questi figli sì ingrati, che tanto accrescono con le loro colpe a Maria il tormento? E chi dei suoi cari le arreca adesso qualche consolazione? – Questi ingrati forse qui non si trovano, o che io non li discerno. Ed io sol vedo una illustre e pia congregazione tutta applicata a onorare con nobil pompa e devoti il Cuor della Vergine, e compatendone i suoi dolori, imitarne la purità, per godere abbondantemente dì sue delizie! Vedo una corona di anime gentili e devote, che nulla più bramano che di piacere al cuor di Maria, e di meritarsi il suo amore e il suo patrocinio. Queste belle e pie anime, che si specchiano sovente nella sua purità, che bevono al fonte di sua dolcezza, che non ricusano di essere a parte delle sue amarezze; queste sono il suo gaudio, la sua corona, il suo conforto. Sopra di queste adunque si allarghi, o pia Vergine, il vostro Cuore dolcissimo, e in esso accogliendole tutte, fate che vi abbiano sicuro asilo, tranquilla pace, dolce consolazione, e per esso siano trasferite un giorno, quando che sia, al sommo gaudio, ove giubilar possano e deliziarsi con esso Voi in Dio eternamente.

Credo …

 Offertorium
Orémus
Luc 1:46; 1:49
Exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus.
[L’anima mia esulta perché Dio è mio Salvatore, perché il Potente ha operato per me grandi cose e il Nome di Lui è Santo].

Secreta
Majestáti tuæ, Dómine, Agnum immaculátum offeréntes, quǽsumus: ut corda nostra ignis ille divínus accéndat, cui Cor beátæ Maríæ Vírginis ineffabíliter inflammávit. [Offrendo alla tua maestà l’Agnello immacolato, noi ti preghiamo, o Signore: accenda i nostri cuori quel fuoco divino che ha infiammato misteriosamente il cuore della beata Vergine Maria.]

 Communio
Joann XIX:27
Dixit Jesus matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus: deinde dixit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua. [Gesù disse a sua Madre: «Donna, ecco il Figlio tuo». Poi al discepolo disse: «Ecco la Madre tua». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Postcommunio
Orémus.
Divínis refécti munéribus te, Dómine, supplíciter exorámus: ut beátæ Maríæ Vírginis intercessióne, cujus immaculáti Cordis solémnia venerándo égimus, a præséntibus perículis liberáti, ætérnæ vitæ gáudia consequámur. [Nutriti dai doni divini, ti supplichiamo, o Signore, a noi che abbiamo celebrato devotamente la festa del suo Cuore immacolato, concedi, per l’intercessione della beata vergine Maria: di essere liberati dai pericoli di questa vita e di ottenere la gioia della vita eterna.]

 

IL MALE COME UN FUOCO DIVORANTE

COME FUOCO DIVORANTE

etenim Deus noster ignis consumens est [Hebr. XII, 29]

[Les Prophéties de La Fraudais, 9°ed. 2007, p. 270]

Si avranno gravi malattie [dopo i tre giorni di buio –ndr.-] che l’arte medica dell’uomo non potrà alleviare. Questo male attaccherà dapprima il cuore, poi lo spirito e nello stesso tempo la lingua. Sarà orribile. Il calore che l’accompagnerà sarà come un fuoco divorante, insopportabile e tanto forte che le aree del corpo colpite ne saranno arrossate, infiammate in modo insopportabile. Nell’arco di sette giorni questo male, seminato come il grano nei campi, germoglierà rapidamente dappertutto e farà progressi immensi. Figlioli miei, ecco il solo rimedio che potrà salvarvi:  Voi conoscete le foglie del biancospino che cresce vicino a tutte le siepi. Le foglie di questo biancospino potranno fermare l’avanzarsi di questa malattia.  – Raccogliete le foglie, non le parti legnose: esse anche secche, conserveranno la loro efficacia. Voi le metterete in acqua bollente e le lascerete per 14 minuti, coprendo il recipiente per conservarne il vapore. Quando si presenterà il male, bisognerà servirsi di questo rimedio tre volte al giorno.

«IL LUNEDI DOPO LA MIA ASSUNZIONE, tu mi presenterai queste foglie di biancospino ed ascolterai attentamente le mie parole. … il male produrrà nausea, palpitazioni continue e vomito. Se il rimedio è assunto troppo tardi, le parti del corpo affette diverranno nere e nel nero si formeranno come dei solchi che tenderanno ad un giallo pallido.

Si chieda alla nost­ra Madre Santissima di benedire le foglie per guarire le persone eventualmente colpite dalla malattia ventura; si chie­da l’aiuto per farlo correttam­ente. Si offrano poi tre Ave Maria in onore del­la Purezza del corpo, della Purezza della mente e della Pure­zza dell’anima della Beatissima Vergine. È opportuno spruz­zare dell’acqua santa, debitamente benedetta da un “vero” Sacerdote cattolico, sulle fogl­ie raccolte.”

[M. J. Jahenny; 5 agosto 1880]

alcune varietà di biancospino: “Cratægus”

Ulteriori informazioni in:www. MJJProphecy.com,  sito approvato dalla Gerarchia Cattolica in esilio.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: DOCTOR MELLIFLUUS

Questa stupenda lettera Enciclica di S. S. Pio XII è interamente dedicata alla figura di uno dei più grandi Cattolici di ogni tempo: San Bernardo di Chiaravalle. Strenuo difensore della Santa Chiesa Cattolica e del ruolo essenziale del Santo Padre, ha portato immenso lustro alla teologia speculativa e pratica ed alla dottrina mariana. Certo è stato un gigante, specie se paragonato ai “nani” ed ai “buffoni” attuali che operano nel baraccone del modernismo postconciliare foriero di una totale apostasia, che dal confronto esce “nudo”, coperto dal lurido e consunto abito del nemico-ingannatore, con tanto di corna, zoccoli e coda caprina. Chiediamo tra lacrime ed invocazioni a Dio Trino: Padre, Figlio e Spirito Santo, di suscitare tanti nuovi San Bernardo, amanti della Chiesa, del Papa, e della Vergine Maria, per distruggere ed annientare la sinagoga infernale che occupa usurpandola la Santa Sede ed i palazzi sacri, perché possano questi tornare quanto prima sotto il dominio di Cristo, del suo Vicario, e dei credenti rimasti fedeli e senza deviazione alcuna alla dottrina del Salvatore ed alla sua “vera” Chiesa, unica arca di salvezza che conduce alla vita eterna.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

DOCTOR MELLIFLUUS

NEL VIII CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN BERNARDO

Il dottore mellifluo «ultimo dei padri, ma non certo inferiore ai primi», si segnalò per tali doti di mente e di animo, cui Dio aggiunse abbondanza di doni celesti, da apparire dominatore sovrano nelle molteplici e troppo spesso turbolente vicende della sua epoca, per santità, saggezza e somma prudenza, consiglio nell’agire. Perciò grandi lodi gli vengono tributate non solo dai sommi pontefici e dagli scrittori della chiesa cattolica, ma non di rado persino dagli eretici. Il Nostro predecessore di f.m. Alessandro III, nell’atto di iscriverlo tra l’universale giubilo nell’albo dei santi, così scrisse con riverenza di lui: «Abbiamo rievocato alla nostra memoria la santa e venerabile vita di questo spirito eletto: come egli, sostenuto da una non comune prerogativa di grazia, non solo risplendesse per la sua vita pia e santa, ma anche irradiasse dappertutto nella chiesa di Dio la luce della sua fede e della sua dottrina. Quali frutti egli abbia recato nella casa di Dio con la sua parola e il suo esempio non c’è nessuno, si può dire, in tutta l’estensione della cristianità che lo ignori, avendo egli diffuso le istituzioni della nostra santa religione fino nelle terre straniere e barbare … e avendo revocato alla retta pratica della vita religiosa … una moltitudine infinita di peccatori». «Egli fu infatti – scrive C. Baronio – uomo davvero apostolico, anzi vero apostolo inviato da Dio, potente per l’opera e per la parola, che ha reso illustre in ogni dove e fra tutti il suo apostolato con i prodigi che lo accompagnavano, sì da doversi dire che nulla ebbe in meno dei grandi apostoli … ornamento e sostegno a un tempo di tutta la chiesa cattolica».  – A queste testimonianze di somma lode, cui altre senza numero si potrebbero aggiungere, si rivolge il Nostro pensiero, mentre si compiono otto secoli dal giorno in cui il restauratore e propagatore del sacro ordine cistercense piamente passò da questa vita mortale, che egli aveva illustrata con tanto lume di dottrina e fulgore di santità, alla suprema vita. Ci è cosa assai grata meditare e scrivere sui suoi grandi meriti in modo che, non solo i suoi seguaci, ma altresì tutti coloro che pongono il loro diletto in ciò che è vero, bello, santo, ne traggano incitamento a seguire i suoi preclari esempi di virtù. – La sua dottrina fu attinta quasi interamente dalle pagine della sacra Scrittura e dei santi Padri, che giorno e notte aveva tra mano e meditava a fondo; non già dalle sottili dispute dei dialettici e filosofi, che più di una volta mostra di stimar meno. Si noti però che egli non rigetta l’umana filosofia che sia genuina filosofia, che conduca cioè a Dio, alla vita onesta e alla cristiana sapienza; ma quella che con vuota verbosità e col fallace prestigio dei cavilli presume con temeraria audacia di assurgere alle cose divine e penetrare interamente i misteri divini, sì da violare – come spesso accadeva anche allora – l’integrità della fede e miseramente sdrucciolare nell’eresia. – «Vedi … – egli scrive – come [san Paolo apostolo [cf. 1Cor 8,2]] fa dipendere il frutto e l’utilità della scienza dal modo di sapere? Ma che vuol dire modo di sapere, se non che tu sappia con quale ordine, con quale animo, a qual fine, che cosa si debba sapere? Con quale ordine: anzitutto, ciò che è più opportuno per la salvezza; con quale animo: più appassionatamente ciò che più accende l’amore; a qual fine: non per vana gloria o per curiosità o per qualcosa di simile, ma solo per tua edificazione o del prossimo. Vi sono infatti alcuni che amano di sapere solo per sapere; ed è turpe curiosità. Altri che desiderano di conoscere perché essi stessi siano conosciuti; ed è turpe vanità. Ci sono alcuni che desiderano di sapere per vendere la loro scienza, ad esempio, per denaro, per gli onori; ed è turpe mercimonio. Ma ci sono anche di quelli che vogliono sapere per edificare; ed è carità. Ci sono poi coloro che desiderano sapere per esser edificati; ed è prudenza». – Qual sia la dottrina, o meglio la sapienza che egli segue ed intensamente ama, felicemente esprime con queste parole: «C’è lo spirito di sapienza e d’intelletto, il quale come un’ape che reca cera e miele, ben ha donde accendere il lume della scienza e infondere il sapore della grazia. Non speri dunque di ricevere il bacio, né colui che afferra la verità ma non ama, né colui che ama, ma non comprende». – «Che cosa produrrebbe la scienza senza l’amore? Gonfierebbe. Che cosa l’amore senza la scienza? Errerebbe». – «Risplendere soltanto è vano; ardere soltanto è poco; ardere e risplendere è perfetto». – Da dove abbia origine la vera e genuina dottrina e come debba essere congiunta con la carità, egli spiega con queste parole: «Dio è sapienza, e vuol essere amato non solo dolcemente, ma anche sapientemente. … Altrimenti assai facilmente lo spirito dell’errore si farà giuoco del tuo zelo, se trascurerai la scienza; e l’astuto nemico non ha strumento più efficace per strappar dal cuore l’amore, che se riesce a far sì che si cammini in esso incautamente e non sotto la guida della ragione». – Da queste parole appare ben chiaro che Bernardo con lo studio e la contemplazione ha unicamente inteso di dirigere, stimolato dall’amore più che dalla sottigliezza delle opinioni umane, verso il Sommo Vero i raggi di verità da qualsiasi parte raccolti; da lui impetrando la luce alle menti, la fiamma della carità agli animi, le rette norme per la condotta morale. È questa la vera sapienza, che supera ogni umana realtà e tutto riconduce alla propria fonte, cioè a Dio, per convertire a lui gli uomini. Il dottore mellifluo, dunque, non si fonda sull’acutezza del suo ingegno per procedere con piede di piombo fra gli incerti e malsicuri anfratti del ragionamento, non si fonda sugli artificiosi e ingegnosi sillogismi, di cui tanto abusavano sovente al suo tempo i dialettici; ma come aquila, con lo sguardo fisso al sole, con rapidissimo volo mira al vertice della verità. Infatti, quella carità che lo stimolava non conosce impedimenti e mette ali, per così dire, all’intelligenza. A lui, insomma, la dottrina non è ultima meta, ma è piuttosto via che conduce a Dio; non è cosa fredda, in cui vanamente indugi l’animo, come gingillandosi affascinato da fulgori evanescenti, ma dall’amore è mosso, stimolato, governato. Perciò Bernardo, sostenuto da tale sapienza, meditando, contemplando e amando si eleva alle supreme vette della scienza mistica e si congiunge con Dio stesso, quasi fruendo già in questa vita mortale della beatitudine infinita. – Il suo stile poi, vivace, fiorito, abbondante e sentenzioso, è così dolce e soave da attirare l’animo del lettore, dilettarlo, elevarlo alle cose di lassù; da eccitare, alimentare, dirigere la pietà; da indurre infine l’animo a perseguire quei beni che non sono caduchi e passeggeri, ma veri, certi, eterni. Perciò i suoi scritti furono sempre in grande onore; da essi la chiesa stessa ha tratte non poche pagine celestiali e calde di pietà per la sacra liturgia. – Sembrano quasi vivificate dal soffio dello Spirito Santo e vivide di tal luce, che mai può estinguersi nel corso dei secoli, perché nasce dall’animo di colui che scrive, assetato di verità e carità, e desideroso di nutrirne gli altri conformandoli a propria immagine. – Ci piace, venerabili fratelli, riferire circa questa mistica dottrina dai suoi libri, a comune utilità, alcune bellissime sentenze: «Abbiamo insegnato che ogni anima, benché piena di peccati, irretita nei vizi, schiava delle passioni, prigioniera dell’esilio, incarcerata nel corpo, benché, dico, a tal punto condannata e priva di speranza; abbiamo insegnato che essa tuttavia può scorgere in sé tanto, da poter non solo dilatare l’animo alla speranza del perdono, della misericordia, ma perfino da osar aspirare alle nozze del Verbo, da non temere di stringere patto d’alleanza con Dio, da non dubitare di stringere soave giogo d’amore con il Re degli angeli: Che cosa non può osare con sicurezza presso Colui di cui essa scorge in sé la nobile immagine, conosce la splendida somiglianza?». – «Tale conformità marita l’anima col Verbo, poiché così essa si rende simile per mezzo della volontà a Colui cui è simile per natura e Lo ama come ne è amata. Se dunque ama perfettamente; ha contratto le nozze. Che cosa vi è di più giocondo di tale conformità? Qual cosa più desiderabile di quella carità da cui proviene che tu, o anima, non contenta degli insegnamenti degli uomini, da te stessa con fiducia ti avvicini al Verbo, sia sempre unita al Verbo, interroghi familiarmente il Verbo e lo consulti su ogni cosa, fatta tanto capace di comprendere, quanto sei audace nel desiderio? È questo veramente un contratto di connubio spirituale e santo. Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso, in verità, in cui volere e non volere le stesse cose fa di due uno spirito solo. E non c’è da temere che la disparità delle persone renda in qualche modo imperfetto l’accordo delle volontà, perché l’amore non sente soggezione reverenziale. Infatti amore viene da amare, non da riverire. … L’amore abbonda nel proprio senso, l’amore quando giunge assimila e sottomette tutte le altre affezioni. Perciò chi ama, ama ed altro non sa». – Dopo aver notato che Dio vuole dagli uomini esser amato, ancor più che temuto e onorato, aggiunge queste acute e sottili osservazioni: «Esso (l’amore) basta da sé, piace in sé e per sé. Esso è merito, è premio a se stesso. L’amore non ricerca motivo, non frutto fuori di sé. Il suo frutto è l’uso di sé. Amo perché amo; amo per amore. Grande cosa è l’amore, purché ricorra al suo principio, ritorni alla sua origine, rifluisca alla sua fonte, sempre vi attinga di che perennemente scorrere. È solo l’amore, fra tutti i moti, sentimenti e affetti dell’animo, quello in cui la creatura può, anche se non a parità, corrispondere al suo Autore, ovvero restituire vicendevolmente in cosa simile». – Poiché egli stesso ha sovente sperimentato nella contemplazione e nella preghiera questo divino amore che ci permette di congiungerci strettamente con Dio, dal suo animo prorompono queste parole infocate: «O felice (anima), resa degna di esser prevenuta con la benedizione di tanta dolcezza! Felice, poiché le è stato dato di sperimentare un abbraccio così beatificante! Ciò non è altro che amore santo e casto, soave e dolce; amore tanto sereno, quanto sincero; amore scambievole, intimo e forte, che congiunge due non in una sola carne, ma in un solo spirito, fa sì che due non sian più due, ma uno solo, come dice Paolo (cf.1 Cor 6,17): “Chi aderisce a Dio, è un solo spirito con Lui”». – Questa sublime dottrina mistica del Dottore di Chiaravalle, che supera e può saziare ogni umano desiderio, sembra al giorno d’oggi talora negletta, o messa da parte, o dimenticata da molti; costoro, presi dalle sollecitudini e dalle faccende quotidiane, non cercano e desiderano altro se non ciò che è utile e redditizio per questa vita mortale; e quasi mai elevano l’occhio e la mente al cielo; quasi mai aspirano alle cose di lassù, ai beni non perituri. – Eppure, anche se non tutti possono attingere le vette di tale contemplazione divina, di cui Bernardo discorre con sublimi pensieri e parole, anche se non tutti possono congiungersi così intimamente con Dio, da sentirsi uniti col Sommo Bene con i vincoli come di un arcano celeste connubio; tutti possono e debbono però elevare di tanto in tanto l’animo da queste cose terrene alle celesti e amare con attiva volontà il Supremo Datore di ogni bene. – Pertanto, mentre oggi in molti animi l’amore verso Dio o insensibilmente si raffredda, o anche non raramente si spegne del tutto, stimiamo che siano da meditarsi attentamente questi scritti del dottore mellifluo; dalla loro dottrina, che del resto scaturisce dal Vangelo, tanto nella vita privata di ciascuno, quanto nell’umano civile consorzio può diffondersi una nuova soprannaturale energia che regga il pubblico costume, lo renda conforme ai precetti della morale cristiana e possa in tal modo offrire gli opportuni rimedi ai tanti e così gravi mali che turbano e travagliano la società. Quando infatti gli uomini non amano come si deve il loro Creatore, donde viene tutto ciò che essi hanno, allora non si amano neppure tra loro; anzi – come troppo spesso accade – nell’odio e nella contesa si separano vicendevolmente con asprezza si avversano. Dio è padre amorosissimo di noi tutti; noi siamo fratelli in Cristo, che egli ha redento versando il suo sacro sangue. Ogni qualvolta, dunque, non riamiamo quel Dio che ci ama e non riconosciamo con riverenza la sua divina paternità, anche i vincoli dell’amore fraterno sono disgraziatamente lacerati; e sventuratamente spuntano fuori – come purtroppo talora si vede – le discordie, le contese, le inimicizie; e queste possono arrivare a tal punto da sconvolgere e scalzare i fondamenti stessi dell’umana convivenza. – È dunque necessario restituire a tutti gli animi questa divina carità che infiammò così ardentemente il Dottore di Chiaravalle, se vogliamo che i costumi cristiani rifioriscano dappertutto, che la religione cattolica possa efficacemente compiere la sua missione e che, sedati i dissidi e restaurato l’ordine nella giustizia e nell’equità, al genere umano affaticato e travagliato rifulga serena la pace. – Di questa carità, per mezzo della quale dobbiamo sempre e con gran fervore essere uniti con Dio, siano infiammati in primo luogo coloro che hanno abbracciato l’ordine del dottore mellifluo, e parimenti tutti i sacerdoti ai quali spetta particolarmente l’obbligo di esortare ed eccitare gli altri a riaccendere il divino amore. Di questo divino amore – come abbiamo detto – se altre volte nel passato, in questi nostri tempi hanno immenso bisogno i cittadini, la domestica convivenza, l’umanità intera. Se esso arde e porta gli animi a Dio, fine ultimo dei mortali, si corroborano le altre virtù; se invece si affievolisce o si estingue, anche la tranquillità, la pace, la gioia e tutti gli altri veri beni a poco a poco si affievoliscono o si estinguono del tutto, come quelli che vengono da colui che «è carità» (1Gv 4,8). – Di questa divina carità nessuno forse ha parlato così bene, con tanta profondità, con tanta forza come Bernardo. «Il motivo per amare Dio, è Dio stesso; la misura, amarlo senza misura». – «Dove c’è amore, non c’è fatica, ma gusto». –  Egli stesso confessa di averlo sperimentato, quando scrive: «O amore santo e casto! O dolce e soave affetto, tanto più soave e dolce, perché è tutto divino il sentimento che se ne prova. Sperimentarlo è divinizzarsi». –  E altrove: «È cosa buona per me, o Signore, piuttosto stringermi a te nella tribolazione, averti con me nella fornace, che essere senza di te fosse pure in cielo». – Quando poi è giunto a quella somma e perfetta carità che lo unisce in intimo connubio con Dio stesso, gode di tanta gioia, di tanta pace, da non potervene essere di più grande: «O luogo della vera quiete, in cui non si vede Dio come turbato da ira o occupato in sollecitudini, ma si sperimenta in lui la sua volontà buona, benevola e perfetta! Questa visione non spaventa, ma accarezza; non eccita inquieta curiosità, ma mette in calma; non stanca i sensi, ma dà pace. Ivi veramente si riposa. Dio tranquillo dà tranquillità in tutto; vederlo pacifico è stare in pace». – Questa perfetta quiete non è già morte dell’animo, ma vera vita: «Tale sopore vitale e vigilante illumina piuttosto il senso interiore e, scacciata la morte, dona la vita eterna. È veramente un sonno, che per altro non assopisce, ma è evasione. È anche morte – non temo di dirlo – poiché l’apostolo elogiando alcuni ancor vivi nella carne, dice così (Col 3,3]: “Siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”». – Questa perfetta quiete dell’animo, di cui godiamo nel riamare Dio che ci ama, e fa sì che a lui volgiamo e dirigiamo noi e ogni nostra cosa, non ci porta alla pigrizia, non all’ignavia, non all’inerzia, ma ad un’alacre, solerte, operosa diligenza, con la quale cerchiamo di procurare, con l’aiuto di Dio, la nostra salvezza e anche quella degli altri. Infatti, tale sublime meditazione e contemplazione, incitata e stimolata dall’amore divino, «governa gli affetti, dirige le azioni, corregge gli eccessi, regola i costumi, adorna la vita e vi fa regnare l’ordine, dona infine la scienza delle cose divine e umane. È essa che distingue ciò che è confuso, unisce ciò che è diviso, raccoglie ciò che è disperso, investiga ciò che è nascosto, ricerca il vero, pondera ciò che è verosimile, scopre la finzione e l’artificio. Essa preordina ciò che è da farsi, riflette su ciò che è stato fatto, di modo che nulla rimanga nell’animo di poco corretto o bisognoso di correzione. Nella prosperità essa presente l’avversità, nelle avversità quasi non le sente; l’una è fortezza, l’altra prudenza». – E infatti, benché aneli a restar immerso in sì alta meditazione e soave contemplazione, alimentata dal divino spirito, tuttavia il dottore mellifluo non rimane chiuso tra le pareti della sua cella, che pur «custodita è dolce», ma dovunque sia in questione la causa di Dio e della chiesa, è subito presente col consiglio, con la parola, con l’azione. Asseriva infatti che non «deve ognuno vivere per sé, ma per tutti». –  Di se stesso, poi, e dei suoi così scriveva: «In tal modo anche ai nostri fratelli tra cui viviamo, siamo debitori, per diritto di fraternità e umano consorzio, di consiglio e di aiuto». – Quando con dolore vedeva minacciata o perseguitata la nostra santa Religione, non risparmiava fatiche, non viaggi, non premure per difenderla strenuamente e porgerle aiuto secondo le sue possibilità. «Nulla mi è estraneo – diceva – di ciò che si riveli interesse di Dio». –  E al re Ludovico di Francia scrive queste coraggiose parole: «Noi figli della Chiesa, non possiamo in alcun modo dissimulare le ingiurie recate alla nostra Madre, il disprezzo verso di lei, i suoi diritti conculcati… Per certo staremo saldi e combatteremo fino alla morte, se sarà necessario, per la nostra madre, con le armi che ci si addicono; non con gli scudi e le spade, ma con le preghiere e le lacrime al cospetto di Dio». A Pietro, abate di Cluny: «Mi glorio nelle mie tribolazioni, se sono stato ritenuto degno di soffrirne alcuna per la Chiesa. Questa è la mia gloria che esalta il mio capo, il trionfo della Chiesa. Se infatti siamo stati compagni nella fatica, lo saremo anche nella consolazione. È stato doveroso collaborare con la nostra Madre, unirci alla sua passione …». – Quando poi il corpo mistico di Gesù Cristo fu conturbato da scisma così grave che anche i buoni rimanevano dubbiosi tra le due parti, egli si consacrò interamente per comporre i dissidi e per la felice riconciliazione e unione degli animi. Poiché i prìncipi, per ambizione di dominio terreno, erano separati da spaventose discordie, dalle quali potevano derivare gravi danni per i popoli, egli si fece artefice di pace e riconciliatore per una mutua concordia. Infine, poiché i luoghi santi della Palestina consacrati al divino Redentore col proprio sangue erano in gravissima condizione ed esposti all’ostile pressione di eserciti stranieri, per mandato del Sommo Pontefice incoraggiò con alte parole e più alta carità i prìncipi e i popoli cristiani ad una nuova crociata; se questa non sortì felice esito, non fu certo per sua colpa. – Trovandosi poi soprattutto esposta a gravissimi pericoli l’integrità, trasmessa dagli avi quale sacra eredità, della fede cattolica e dei costumi, per opera soprattutto di Abelardo, di Arnaldo da Brescia e di Gilberto della Porretta, egli, sia con la pubblicazione di scritti colmi di dottrina, sia con faticosi viaggi, tentò, sorretto dalla divina grazia, tutto ciò che gli fu possibile, per debellare e far condannare gli errori, e perché gli erranti, per quanto era in suo potere, ritornassero sulla retta via e a miglior consiglio. – Egli, consapevole che in questa cosa non importava tanto la sapienza dei dottori, quanto l’autorità soprattutto del romano pontefice, si diede cura d’interporre tale autorità, da lui riconosciuta, nel dirimere tali questioni, come suprema e del tutto infallibile. Pertanto al Nostro predecessore di f.m. Eugenio III, già suo discepolo, scrive queste parole, che rivelano il suo amore e la profonda riverenza verso di lui, unita con quella libertà d’animo che si addice ai santi: «L’amore non conosce il padrone, conosce il figlio anche sotto la tiara. … Ti ammonirò dunque non come maestro, ma come madre; certamente come uno che ti vuol bene». Lo interpella in seguito con queste ardenti parole: «Chi sei? Il gran sacerdote, il Sommo Pontefice. Tu sei il principe dei vescovi, l’erede degli apostoli … Pietro per potestà, per unzione Cristo. Sei colui al quale sono state consegnate le chiavi, affidate le pecorelle. Vi sono anche altri portinai del Cielo e pastori di greggi; ma tu sei tanto più glorioso, quanto più grande è la differenza con cui hai ereditato al disopra degli altri entrambi questi nomi. Quelli hanno assegnati i loro greggi, a ciascuno il proprio: a te sono stati affidati tutti, a te solo nell’unità. E non soltanto tu sei pastore dei greggi, ma unico pastore di tutti i pastori». E ancora: «Deve uscir al di fuori di questo mondo chi volesse ricercare ciò che non appartiene alla tua cura». – Riconosce poi apertamente e pienamente l’infallibilità del magistero del romano pontefice, per quanto riguarda la fede e i costumi. Infatti, quando combatte gli errori di Abelardo, il quale «allorché parla della Trinità, risente di Ario; quando della grazia, sa di Pelagio; quando della persona di Cristo, sa di Nestorio»; «egli che pone dei gradi nella Trinità, delle modalità nella maestà, successione numerica nell’eternità»; e in lui «l’umana ragione usurpa tutto per sé e nulla lascia alla fede»; egli non discute le sottili, contorte e ingannevoli fallacie e cavilli, li dissolve e li confuta, ma scrive altresì al Nostro predecessore d’immortale memoria Innocenzo II per simile motivo queste gravi parole: «Occorre riferire alla vostra autorità apostolica ogni pericolo… quelli soprattutto che riguardano la fede. Penso esser giusto che ivi soprattutto si riparino i danni della fede, dove la fede non può venir meno. E questa è la prerogativa di tale sede… È tempo, Padre amatissimo, che voi riconosciate la vostra potestà… In questo fate veramente le veci di Pietro, del quale occupate la sede, se con i vostri moniti confermate gli animi incerti nella fede, se con la vostra autorità sterminate i corruttori della fede». – Ma da dove questo umile monaco, quasi senza alcun mezzo umano, abbia potuto attingere la forza per vincere anche le più ardue difficoltà, per risolvere intricatissimi problemi e dirimere le questioni più imbarazzanti, solamente si può capire se si pensa all’esimia santità di vita che lo adornava, congiunta con un grande amore della verità. Era infiammato soprattutto, come abbiamo detto, della più accesa carità verso Dio e verso il prossimo, che è, come ben sapete, venerabili fratelli, il principale precetto e quasi il compendio di tutto il Vangelo; di modo che non solo era sempre misticamente unito col Padre celeste, ma ancora niente più desiderava che guadagnare gli uomini a Cristo, sostenere i sacrosanti diritti della Chiesa e difendere con invitto coraggio l’integrità della Fede Cattolica. -In mezzo ai tanti favori e alla stima di cui godeva presso i Sommi Pontefici, presso i prìncipi e presso i popoli, non si insuperbiva, non andava in cerca della mutevole e vana gloria umana, ma risplendeva in lui sempre quella cristiana umiltà che «raccoglie le altre virtù … dopo averle raccolte le custodisce … e conservandole le perfeziona»; sicché «non sembrano nemmeno virtù … senza di quella». – Perciò non agitarono la sua anima gli onori che gli furono offerti, e il suo piede non fu mosso per dirigersi verso la gloria; e non lo attirava «più la tiara o il sacro anello, che il rastrello e il sarchio». – Mentre poi si sobbarcava a tali e tante fatiche per la gloria di Dio e l’incremento del nome cristiano, si professava «inutile servo dei servi di Dio», «vile vermiciattolo», «albero sterile», «peccatore, cenere …». – Alimentava quest’umiltà cristiana e le altre virtù con l’assidua contemplazione delle realtà celesti; le alimentava con le infiammate preci rivolte a Dio, con le quali attirava la grazia celeste su di sé e sulle opere da lui intraprese. – In modo specialissimo era preso da così ardente amore per Gesù Cristo, divino redentore, che sotto la sua mozione e il suo stimolo scriveva pagine bellissime e nobilissime, che ancor oggi destano l’ammirazione universale e infiammano la pietà del lettore. «Quale altra cosa arricchisce l’anima che vi medita sopra … irrobustisce le virtù, fa fiorire i buoni e onesti costumi, suscita casti affetti? È arido ogni cibo dell’anima, se non vi si infonde questo olio; è insipido, se non è condito con questo sale. Se scrivi qualcosa, non lo gusto se non vi leggo Gesù. Se fai una disputa o un ragionamento, non mi piace se non vi risuona Gesù. Gesù è miele nella bocca, dolce concerto all’orecchio, giubilo al cuore. Ma è anche medicina. C’è tra voi qualcuno triste? Gesù scenda nel cuore, salga poi al labbro; ed ecco, alla luce di questo nome ogni nube si dissolve, torna il sereno. Qualcuno ha commesso una colpa? corre disperato al laccio di morte? Ma se invocherà questo nome di vita, non sentirà subito speranza di vita?… C’è qualcuno che, angustiato e trepido tra i pericoli, invocando questo nome di forza non senta subito la fiducia e fugato il timore?… Nulla meglio infrange l’impeto dell’ira, reprime il tumore della superbia, sana la ferita dell’invidia…». – A questo infiammato amore per Gesù Cristo si univa una tenerissima e soave devozione verso la sua eccelsa Madre, che egli, come propria amorosissima Madre, ricambiava di amore nutrendo per lei un culto profondo. Aveva tanta fiducia nel suo potente patrocinio, da usare queste espressioni: «Dio ha voluto che noi nulla ottenessimo, che non passi per le mani di Maria». Così pure: «Tale è la volontà di Colui, che ha voluto che noi avessimo tutto per mezzo di Maria». – A questo punto ci è grato, venerabili fratelli, proporre a tutti da meditare quella pagina che è forse la più bella per le lodi della santa vergine Madre di Dio, la più ardente, la più atta a suscitare in noi l’amore verso di lei, la più utile per infiammare la pietà e a imitare i suoi esempi di virtù: «… È detta Stella del mare e la denominazione ben si addice alla Vergine Madre. Ella con la massima convenienza è paragonata ad una stella; perché come la stella sprigiona il suo raggio senza corrompersi, così la Vergine partorisce il Figlio senza lesione della propria integrità. Il raggio non menoma alla stella la sua chiarità, né il Figlio alla Vergine la sua integrità. Ella è dunque quella nobile stella nata da Giacobbe, il cui raggio illumina tutto il mondo, il cui splendore rifulge in cielo e penetra gli inferi… Ella è, dico, la preclara ed esimia stella, che è necessariamente al di sopra di questo grande e spazioso mare, fulgente di meriti, chiara dei suoi esempi. O tu, chiunque sia, che ti avvedi di essere in balìa dei flutti di questo mondo, tra le procelle e le tempeste, invece di camminare sulla terra, non distogliere gli occhi dal fulgore di questa stella, se non vuoi essere travolto dalle tempeste. Se insorgono i venti delle tentazioni, se incappi negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. Se sei sballottato dalle onde della superbia, della detrazione, dell’invidia: guarda la stella, invoca Maria. Se l’ira, o l’avarizia, o l’allettamento della carne scuotono la navicella dell’anima: guarda a Maria. Se tu, conturbato per l’enormità del peccato, pieno di confusione per la laidezza della coscienza, intimorito per il tenore del giudizio, incominci ad essere inghiottito dall’abisso della tristezza, dalla voragine della disperazione: pensa a Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l’aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l’esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta…». – Ci sembra che meglio Noi non potremmo terminare questa lettera enciclica, che invitandovi tutti con le parole del dottore mellifluo ad accrescere ogni giorno più la devozione verso l’alta Madre di Dio, e parimenti a imitare col più grande impegno le sue eccelse virtù, ciascuno secondo le peculiari condizioni della propria vita. Se nel secolo XII gravi pericoli minacciavano la chiesa e l’umanità, altri non meno gravi, senza dubbio, minacciano la nostra età. La fede cattolica, che dà all’uomo le più grandi consolazioni, non di rado è indebolita negli animi, e perfino in alcuni paesi e nazioni è aspramente combattuta in pubblico. E quando la religione cristiana è negletta e combattuta dai suoi nemici, si vede purtroppo che i costumi privati e pubblici tralignano dalla retta via e anche talora attraverso i meandri dell’errore si scende infelicemente nel fondo dei vizi. – Al posto della carità, che è vincolo di perfezione, di concordia e di pace, si fanno strada gli odi, le contese, le discordie. Un che d’inquieto, d’angustioso e di trepido penetra nell’animo umano: c’è proprio da temere che, se la luce del Vangelo a poco a poco diminuisce e languisce in molti, o – peggio ancora – se viene respinta del tutto, verranno a crollare i fondamenti stessi della civiltà e della vita domestica; e in tal modo verranno tempi anche peggiori e più infelici. – Come, dunque, il dottore di Chiaravalle chiese l’aiuto della vergine Madre di Dio Maria e lo ebbe per l’età sua turbolenta, così noi tutti, con la medesima costante pietà e preghiera dobbiamo ottenere dalla divina madre nostra che a questi gravi mali, sovrastanti o temuti, essa impetri da Dio gli opportuni rimedi; e benigna e potente conceda che, con l’aiuto divino, arrida finalmente una sincera, solida e fruttuosa pace alla chiesa, ai popoli, alle nazioni. – Siano questi i pingui e salutari frutti, mercè la protezione di Bernardo, delle celebrazioni centenarie della sua pia morte; tutti si uniscano a Noi in queste preci e suppliche, e ad un tempo, osservando e meditando gli esempi del dottore mellifluo, si sforzino di seguire volenterosamente e con zelo le sue sante tracce. – Di questi salutari frutti sia propiziatrice l’apostolica benedizione che a voi, venerabili fratelli, ai vostri greggi e particolarmente a coloro che appartengono all’istituto di san Bernardo, impartiamo con effusione di cuore.

Roma, presso San Pietro, nella festa di pentecoste, il 24 maggio 1953, anno XV del Nostro pontificato.

 

 

DOMENICA XI dopo PENTECOSTE

Introitus
Ps LXVII:6-7; 36
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII:2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.
[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ. [Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.
[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV:1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]

Omelia XXIII.

“Ora vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato e che voi avete anche accettato, e nel quale state saldi e per il quale anche vi salverete, se lo ritenete nel modo che vi ho predicato, purché non abbiate creduto indarno. Perché prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto; come cioè Cristo è morto pei nostri peccati, secondo le Scritture, e come fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture: e come apparve a Cefa e poscia agli undici: quindi apparve a più di cinquecento fratelli, dei quali molti vivono tuttora e gli altri morirono. Poi apparve a Giacomo, poi agli Apostoli; finalmente all’ultimo di tutti, quasi ad aborto, apparve anche a me, che sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato apostolo perché ho perseguitata la Chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di Dio in me non fu sterile: anzi ho lavorato più di essi tutti: non già io, ma la grazia di Dio con me „ (I. Cor. c. XV, vers. 1-10).

Noi siamo siffatti, che sentiamo il bisogno vivissimo di mutare spesso le cose che ci stanno intorno, e le impressioni che riceviamo, anche belle e gradite. Un cibo, una bevanda, ancorché squisita, se è sempre quella, ci viene a noia: una armonia, una vista, una scena, ancorché incantevole, dopo un certo tempo, non ci interessa gran fatto. Noi abbiamo bisogno di variare le nostre impressioni per gustarne la bellezza: siamo simili alle api, che vanno di fiore in fiore, succhiando da ciascuno il miele e assaporandone sempre nuove dolcezze. I Libri sacri, massime del nuovo Testamento, sono come un immenso panorama, nel quale le scene variano mirabilmente: sono come un vastissimo prato, coperto d’una infinita varietà di fiori, una splendida mensa imbandita d’ogni sorta di cibi. La Chiesa ci spiega dinanzi questo panorama, ci mostra questo prato, ci introduce a questa mensa, ma pone ogni cura di variare le viste ed i fiori, di mutare i cibi, onde colla novità rendere più gradevoli le nostre impressioni. Perciò ogni Domenica la Chiesa ci mette innanzi qualche tratto nuovo, volete nell’Epistola, volete nel Vangelo: ora è un fiore colto in una delle quattordici lettere di S. Paolo, od in una di quelle di S. Pietro, di S. Giovanni o di S. Giacomo; ora ci dà a gustare una scena narrata in uno dei quattro Evangeli, e ci nutre col cibo sostanzioso delle sentenze di Gesù Cristo, che vi sono largamente disseminate. Così la novità delle cose eccita la nostra curiosità e tien desta la nostra attenzione, e la nostra curiosità eccitata e la nostra attenzione più vivamente destata trovano più gradito e più sostanzioso l’alimento della verità, che ci è offerta. – La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere e meditare i primi dieci versetti del capo XV della prima lettera ai Corinti, e servono di prefazione alla dottrina della risurrezione finale dei nostri corpi, che l’Apostolo ampiamente vi svolge. Io vi invito a considerare con me questa breve lezione della Epistola, con cui S. Paolo si apre destramente la via a spiegare il dogma fondamentale della futura nostra risurrezione. – È manifesto da questo capo XV di S. Paolo, che a Corinto, nella Chiesa fondata da lui stesso, vi erano alcuni, che negavano la risurrezione dei corpi o almeno ne dubitavano (vers. 12, 35), e muovevano difficoltà, che turbavano la fede dei semplici. Forse era il mal seme già sparso dagli eretici Imeneo e Pileto, riprovati da S. Paolo (II. Timot. II, 17, 18), e che si propagava come gangrena, a detta dello stesso Apostolo. Volendo egli pertanto porre in sodo questo articolo capitale della nostra fede, comincia dal ricordare ai Corinti ciò che loro aveva insegnato, cioè che Cristo era veramente risorto dai morti, e ne cita i testimoni, per conchiudere poi a suo luogo, che se Cristo era veramente risorto, Egli il capo dell’umanità, tutti sarebbero risorti. Udiamolo: ” Ora io vi rammento, o fratelli, il Vangelo, che vi ho predicato, che voi ancora avete accettato, nel quale v i mantenete saldi. „ Il Vangelo, che Paolo qui ricorda ai fedeli di Corinto, non è certamente il libro scritto, ma sì l’insegnamento evangelico, ossia la dottrina di Gesù Cristo: questa dottrina, egli Paolo, l’aveva annunziata, ed essi, i Corinti, l’avevano accolta: Accepìstis, non solo, ma in essa stavano saldi: In quo et statis. Doppio elogio, che l’Apostolo fa ai suoi Corinti, quello d’aver ricevuto il Vangelo e di perseverare in esso in mezzo ai pericoli ed alle persecuzioni, che d’ogni parte li circondavano e molestavano. Figliuoli! quel Vangelo che i Corinti avevano ricevuto adulti, noi l’abbiamo ricevuto ancor bambini, prima ancora di conoscerne il tesoro: i Corinti vi si tennero fermi; imitiamoli, conservando gelosamente e a qualunque costo questa santa eredità lasciataci dai nostri avi: In quo et statis. Pur troppo alcuni dei nostri cari fratelli, massime istruiti, colpa dei tempi e della scaltrezza dei nemici e della debolezza umana, hanno perduta la fede succhiata col latte tra le braccia della madre: deh! Che nessuno di voi la perda, ma la serbi intatta e viva, perché ad essa è legata la nostra speranza e la eterna nostra salvezza. – Seguitiamo S. Paolo. “Per questo Vangelo voi sarete salvi; „ ma a qual patto? ” Se lo tenete nel modo, con cui io ve l’ho predicato, „ risponde l’Apostolo. Non basta, o cari, avere la fede, ma bisogna averla e conservarla quale l’autore e consumatore della fede; ma egli ce la dà per mezzo della sua Chiesa, che ne è la depositaria ed interprete infallibile. Noi dunque dobbiamo ricevere e conservare questa fede secondo l’insegnamento della Chiesa: aggiungervi o levarne una sola sillaba sarebbe delitto, sarebbe sacrilegio. Nessuno può mutare una parola d’una sentenza pronunciata da un tribunale, che giudica secondo il codice e l’applica ai casi particolari, e se la mutasse sarebbe punito: similmente noi dobbiamo ricevere le sentenze della Chiesa, unica interprete infallibile del Vangelo. Teniamo dunque il Vangelo come ce lo porge la Chiesa, e allora non avremo creduto indarno: Nisì frustra credidistìs, giacché pretendere di piegare la fede, allargarla, restringerla, modificarla secondoché pare alla nostra corta intelligenza, è un sottoporre Dio a noi stessi, è un farci giudici della sua parola, è un distruggere la natura stessa della fede, e questa è inutile: Frustra credidistìs. In tal caso non crederemmo a Dio, ma a noi medesimi, e la fede sarebbe, non l’opera di Dio, ma sì l’opera nostra. Che cosa anzi tutto avete voi insegnato, o grande Apostolo, ai vostri Corinti? Qual fu il punto capitale del vostro Evangelo? Eccovelo: “Prima di tutto vi ho trasmesso quello, che anch’io ho ricevuto. „ La verità, sì la naturale, come la sovrannaturale, quella propria della ragione, come quella della fede, non è opera o fattura dell’uomo; se lo fosse, sarebbe in potere dell’uomo annientarla o mutarla: essa viene da Dio, da Dio solo, e l’uomo non può esserne che il mezzo o lo strumento di comunicazione, non mai la sorgente. Bene a ragione pertanto S. Paolo dice: Quelle verità, che io vi ho insegnate, non sono mie, non le traggo da me stesso, ma le ho ricevute anch’io, come voi le ricevete da me: Tradidi vobis in primis quod et accepi. E da chi le ha ricevute S. Paolo? Lo dice e lo ripete altrove; non dagli uomini, né per gli uomini, ma da Gesù Cristo. — E che cosa ricevette da Gesù Cristo? ” Che Gesù Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture. „ Non basta: ” Fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture. ,, In queste poche parole, come vedete, si contiene il compendio di tutta la fede cristiana, la morte di Gesù Cristo per i nostri peccati, la sua sepoltura, la sua risurrezione, in breve, il secondo mistero della fede, che ci insegna il Catechismo. È da notarsi quella espressione ripetuta due volte: “Secondo le Scritture: „ Secundum Scripturas, che la Chiesa volle conservata nel Simbolo, che si canta nella Messa. E perché questa espressione è con insistenza speciale inculcata? Le Scritture, delle quali parla in questo luogo l’Apostolo, non possono essere i libri del nuovo Testamento, che allora non esistevano che in minima proporzione, nè v’era ragione di citarli. Resta dunque che si alluda a quelli dell’antico Testamento, e v’era ben ragione di accennarvi. In quasi tutti i libri dell’antico Testamento si parla di Gesù Cristo, della sua venuta, della sua origine, della sua vita, della sua passione, morte e risurrezione, tantoché non è esagerazione il dire che tutta la vita di Cristo, prima che nei Vangeli, è scritta nei profeti. È questo un vero miracolo, una prova della divinità di Gesù Cristo, e perciò S. Paolo, inteso sempre a raffermare nella fede i suoi neofiti, ricordando la vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, ricorda eziandio che questa vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo era già stata predetta e descritta nei Libri santi, e così delle prove della divinità di Gesù forma un solo fascio, che vince ogni opposizione e schiaccia qualunque mente riottosa. Vedete, sembra dire l’Apostolo, il cumulo di miracoli operati da Cristo che tutti si incentrano nella risurrezione, sono più che bastevoli a mostrare chi Egli sia: eppure vi è un altro cumulo di miracoli, che si legano ai primi, ed è che questi miracoli furono tutti predetti, e se volete persuadervene pigliate in mano i libri del vecchio Testamento e ve li troverete descritti prima che avvenissero: Secundum Scripturas. – Scopo dell’Apostolo, come dicemmo, è di mostrare il dogma della risurrezione universale: per mostrare questo dogma, egli appella alla risurrezione di Cristo, predetta dai profeti. Ma questa risurrezione di Cristo è avvenuta? E certa? Si può provare? La risurrezione di Gesù Cristo è un miracolo, il sommo dei miracoli operati da Cristo, ed è insieme un fatto; un fatto che si può e si deve provare a punta di ragione. Ora i fatti come si provano? Indubbiamente coi testimoni; non c’è altra via. Come provate voi che Cristoforo Colombo abbia scoperto l’America e che Goffredo di Buglione abbia preso Gerusalemme? Colle testimonianze di quelli che videro od udirono quei fatti. Similmente nel caso nostro: se Cristo è veramente risorto noi lo sapremo da coloro che lo videro ed udirono risorto. Fuori dunque i testimoni degni di fede della risurrezione di Cristo. Paolo li accenna per sommi capi, e le sue parole sono come l’eco ed il sunto delle narrazioni evangeliche. “Gesù Cristo, dice S. Paolo, apparve a Cefa, cioè Pietro: „ Visus est Cephæ? È cosa che non deve passare inosservata: l’Apostolo, enumerando le principali apparizioni di Cristo, mette in primo luogo quella fatta a Pietro, avvenuta certamente il giorno stesso della risurrezione, come apparisce dal Vangelo di S. Luca (XXIV, 34), ancorché l’Evangelista non la descriva particolarmente (Senza dubbio la prima apparizione di Cristo risorto e dai Vangelisti narrata, fu fatta alle donne e alla Maddalena, andata al sepolcro in sul far del giorno, ma l’Apostolo la passa sotto silenzio e si restringe a quelle che ebbero gli Apostoli e: discepoli, e la ragione è manifesta). E perché porre in primo luogo l’apparizione di Pietro: Visus est Cephæ? La ragione vuolsi cercare, penso io, nella dignità di Pietro: egli era il capo degli Apostoli, la pietra fondamentale della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo, da Lui stesso ripetutamente designato come tale: la sua testimonianza era la maggiore, e perciò doveva andare innanzi a quella degli Apostoli tutti: è questo un indizio non dubbio del primato di S. Pietro, che l’Apostolo S. Paolo ci dà in questo luogo, e del quale si deve tener conto. Dopo l’apparizione di Pietro viene quella degli Apostoli uniti: Et post hoc undecim. Gesù apparve il giorno della risurrezione, a notte chiusa, ai dieci Apostoli raccolti in Gerusalemme: erano dieci, perché, oltre Giuda, il traditore, mancava Tommaso, come narra S. Luca (XXIV). Otto giorni appresso, ancora secondo il Vangelo di S. Luca Gesù apparve nuovamente agli Apostoli, ed a questa seconda apparizione di Gesù era presente S. Tommaso, ed a questa indubbiamente accenna S. Paolo, allorché dice: ” E poscia agli undici: „ Et post hoc undecim. Credo poi che l’Apostolo, accennando a questa seconda e più completa apparizione fatta a tutti gli Apostoli, in modo indiretto sì, ma certo, alludesse anche alla prima fatta ai dieci e registrata nello stesso Vangelo di S. Luca, che secondo alcuni, è quello che S. Paolo chiama Vangelo suo: Secundum Evangelium meum. Prosegue S. Paolo la sua enumerazione, e dice: ” Quindi apparve a più di cinquecento fratelli insieme: „ Deinde visus plus quam quingentis fratribus simul. La parola, insieme, usata da S. Paolo, non permette di considerare questi cinquecento e più testimoni come la somma totale di quelli, ai quali Gesù risuscitato apparve; qui evidentemente parlasi di una apparizione speciale, a cui erano presenti più di cinquecento persone. Non può essere quella della Ascensione, perché S. Luca (Atti Apost. c. I, vers. 15) afferma che questa avvenne sul monte degli Olivi, presso Gerusalemme e sembra che tutti quelli, i quali ne furono testimoni, si raccogliessero poi nel cenacolo, ed erano in numero di circa cento venti. Quale è dunque questa apparizione fatta a più di cinquecento persone insieme, molte delle quali, allorché S. Paolo scriveva la sua lettera, erano morte, ma alcune vivevano ancora? Dai Vangeli non apparisce né quando, né dove, né come avvenisse la grandiosa apparizione, ma secondo ogni verosimiglianza avvenne nella Galilea, dove Gesù Cristo stesso aveva comandato si radunassero e dove si sarebbe loro mostrato. ” Dite ai fratelli miei, che vadano in Galilea; là mi vedranno „ (Matt. XXVI, 10). – Checché sia del luogo e del tempo di questa apparizione, è indubitato, che oltre a cinquecento persone ne furono testimoni, che è ciò che più importa. S. Paolo continua la enumerazione: “Dopo apparve a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli .„ – Ignoriamo i particolari della apparizione fatta a Giacomo, che si crede sia il Minore e poi vescovo di Gerusalemme. L’apparizione poi che dicesi fatta agli Apostoli tutti si può considerare come il compendio o riassunto di tutte le altre narrate o indicate nei Vangeli. – “Finalmente, all’ultimo di tutti, come ad aborto, conchiude S. Paolo, apparve anche a me. „ Io pure, esclama il grande Apostolo, ho veduto Cristo risorto, là sulla via di Damasco; io, ultimo degli Apostoli, io aborto di Apostolo, perché chiamato a tanta dignità dopo gli altri e in modo affatto diverso dagli altri, io pure l’ho veduto Gesù risorto, io pure ne sono testimonio. — Qui la mente dell’Apostolo, com’era naturale, vola sulle memorie e sulle vicende del passato: ricorda ciò che fu e quel che è di presente, raffronta l’alta dignità di Apostolo, della quale è rivestito, e la sua vita e condotta prima della miracolosa sua vocazione, sente la propria indegnità e l’immenso beneficio della grazia ricevuta, e nell’impeto, non so ben dire della sua riconoscenza o del suo dolore, e più probabilmente dell’una e dell’altro, esce in questo grido sublime: “Perché io sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo! „ E perché, o vaso di elezione, vi chiamate minimo degli Apostoli, indegno d’essere Apostolo? Non avete voi lavorato come e più degli altri Apostoli? Non siete voi l’Apostolo dei Gentili? Non siete voi stato chiamato da Cristo stesso, e in un baleno da Lui trasformato meravigliosamente? Non avete portate le vostre catene dinanzi ai tribunali della terra per amore di Cristo, per Lui vergheggiato, per Lui lapidato? Migliaia e migliaia di Gentili, guadagnati a Cristo, non formano la corona e la gloria del vostro apostolato? Sì, tutto questo è vero, lo so, risponde l’incomparabile Apostolo; ma io ricordo d’aver perseguitato la Chiesa di Dio: Persecutus sum Ecclesiam Dei; il sangue di Stefano mi sta sempre dinanzi agli occhi: sono Apostolo di Cristo, ma prima fui suo persecutore e feroce persecutore: Persecutus sum supra modum, come scrive altrove: unico tra gli Apostoli fui persecutore della Chiesa prima d’essere Apostolo: ciò mi umilia, mi confonde, mi copre di vergogna, e mi fa sentire d’essere non solo l’ultimo degli Apostoli, ma indegno d’essere Apostolo. Questi due versetti, nella loro semplicità ed inarrivabile eloquenza, ci rivelano tutta la grand’anima dell’Apostolo, ce ne fanno vedere il fondo, e per poco ci strappano le lacrime. Ma torniamo all’argomento, che l’Apostolo sta svolgendo. Vuol provare, come dicemmo, la risurrezione futura dei nostri corpi; per provarla appella alla risurrezione gloriosa del corpo di Gesù Cristo, nostro capo e modello: e per provare il fatto della risurrezione di Gesù Cristo appella all’autorità dei testimoni, Pietro, Giacomo, gli undici Apostoli, tutti gli Apostoli, cinquecento persone, che lo videro, e infine produce la propria testimonianza. Qual serie, quale schiera di testimoni pel numero, per le qualità morali, per la costanza, per la varietà ed unanimità, per le conseguenze pari a questa! Un fatto qualunque attestato da due, tre, quattro persone oneste ed intelligenti e degne di fede genera in noi la certezza del fatto istesso per guisa, che non ci resta ombra di dubbio, e sulla loro testimonianza i tribunali pronunciano sentenze della più alta importanza, e tutti le trovano ragionevoli e giuste: il fatto della risurrezione di Gesù Cristo è affermato da tutti gli Apostoli e i discepoli: è affermato da oltre cinquecento persone, che protestano d’averlo veduto e toccato, d’aver mangiato con Lui e ricevuti i suoi comandi; è affermato dovunque, costantemente, sempre allo stesso modo, e a costo di esili, di carceri, di supplizi e della morte più atroce: chi mai potrebbe dubitarne? Se fosse possibile dubitare di tale e tanta testimonianza, sulla terra non vi sarebbe più un solo fatto, che si potesse dir certo; sarebbe forza dubitare d’ogni cosa. Voi vedete pertanto che il gran fatto della risurrezione di Gesù Cristo, base della nostra fede, riposa sul più incrollabile fondamento, che si possa desiderare, agli occhi stessi della ragione umana. Paolo aveva proclamato d’essere il minimo degli Apostoli, d’essere indegno di sì alta prerogativa: era il grido sincero della sua coscienza, era l’omaggio dovuto alla verità; ma l’umiltà è inseparabile dalla verità, anzi essa è verità, null’altro che verità. Io, per me, dice Paolo, non sono stato che un miserabile persecutore della Chiesa, e lo sarei tuttora; “ma per la grazia di Dio sono quel che sono; „ sono cioè apostolo di Gesù Cristo: Gratìa Dei sum id quod sum. E perché, o grande Apostolo, per la grazia di Dio siete quel che siete? Perché, risponde, la grazia di Dio in me non fu sterile. ., Non fu come un raggio di sole, che cade sopra un occhio chiuso, come un seme sparso sulla pietra, come un ramo innestato sopra un tronco disseccato. A questa grazia, colla quale Iddio mi chiamò senza alcun mio merito, anzi ad onta dei miei demeriti, io risposi, e risposi perché mi diede la grazia di rispondere e feci ogni suo volere. In altri termini, se sono uscito dalla cecità ebraica, ed ho abbracciato il Vangelo di Gesù Cristo, e fattone apostolo, lo devo anzi tutto alla grazia di Dio; ma non solo alla grazia di Dio, sebbene anche alla mia cooperazione. E questa la dottrina cattolica intorno ai rapporti della grazia divina e del nostro libero arbitrio, esposta da S. Paolo con una chiarezza e precisione, che non lascia nulla da desiderare. Dio previene con la sua grazia, illuminando la mente e movendo la volontà, e l’uomo lasciandosi illuminare e muovere e cooperando alla grazia coll’unire all’azione di questa la propria azione. Che cosa sono le opere buone e sante del cristiano? Sono il risultato dell’azione divina, mercé della grazia e dell’azione umana, mercé del concorso della volontà nostra, insieme unite ed armonizzanti. – Badiamo, o cari, che la grazia di Dio non fa mai difetto, come nel seme non fa difetto il principio vitale; ma che questo rimane sterile se la terra, che lo riceve, non è preparata e non risponde. Che non rimanga giammai sterile questo germe della grazia, che Dio ci largisce, onde possiamo dire con S. Paolo: Gratia ejus in me vacua non fuit! L’Apostolo conchiude il suo dire che la grazia di Dio in lui non solo non fu sterile ma fu ricca di opere, a talché, soggiunge: “Ho faticato più di tutti gli Apostoli: „ Abundantius illìs omnibus laboravi. Santa franchezza e mirabile audacia questa del nostro Paolo! Protesta d’essere l’ultimo degli Apostoli, indegno di chiamarsi Apostolo, non Apostolo, ma aborto di Apostolo, e poi non esita a dichiarare di aver fatto più di tutti gli altri Apostoli. Parrebbe una contraddizione manifesta, ed è una lampante verità: egli è veramente l’uno e l’altro, secondochè consideriamo in lui ciò che era da sé, prima dell’opera della grazia e ciò che fu poi dopo l’opera trasformatrice della grazia. E poiché gli parve, che l’aver detto: “Ho faticato più degli altri Apostoli, „ potesse sonare millanteria, quasi fosse opera tutta sua, spiega stupendamente l’espressione, soggiungendo: “Non io, ma sì la grazia di Dio con me: „ Non ego autem. sed gratia Dei mecum. Le opere del mio apostolato sono grandi, maggiori di quelle dei miei fratelli, che mi precedettero; voi le vedete e le vede il mondo tutto; ma esse non sono esclusivamente mie; sono mie e della grazia di Dio, che mi prevenne, mi avvalorò e le condusse a termine. È la stessa verità sopra accennata è  qui ribadita con una frase brevissima e insieme chiarissima: “La grazia di Dio con me. „ – Tenete saldi, o dilettissimi, questi due gran capi di dottrina cattolica, qui stabiliti dall’Apostolo, vale a dire, la necessità della grazia di Dio e la cooperazione della libera nostra volontà per fare il bene ed operare la nostra salvezza eterna; questi due elementi, queste due forze insieme unite portano le anime nostre alle altezze de cieli e le depongono in seno a Dio; separate, le lasciano povere e nude su questa misera terra, anzi le lasciano cadere negli abissi di eterna dannazione. Il far sì che siano o congiunte o separate dipende da noi, onde se bene si guarda la salute eterna o l’eterna perdizione è nelle nostre mani, perché è sempre in nostro potere usare o non usare della grazia divina a tutti e sempre più che bastevolmente offerta.

Graduale
Ps XXVII:7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.
[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja [A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX:2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum.
R. Gloria tibi, Domine!
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venitper Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.


Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Marco VII, 31-37]

-Lingua oscena-

E perché Gesù Cristo per dar la favella a un muto tanti adopra modi inusitati, e riti misteriosi? Udite, è S. Marco che nel Vangelo della corrente Domenica ci narra come il divin Signore a guarire quel muto si lasciò prima pregare da molti, “deprecabantur eum”: indi lo trasse fuor della turba in disparte, poscia gli pose le dita nelle orecchie, in seguito con poca saliva tratta dalla sua bocca gli toccò la lingua, e alzati gli occhi al cielo, alzò un sospiro, e finalmente in tuono imperioso pronunziò una parola siriaca “Ephetà”, apritevi, ed ecco sull’istante aperte le sue orecchie, e sciolta la sua lingua per modo che felicemente parlava: “Loquebatur recte”. E perché, io ripeto, tanti adopera il Redentore segni misteriosi e insolite maniere? Non eran queste a guarirlo assolutamente necessarie, dice qui un saggio Spositore (Cardin. Cajet.): senza di queste aveva pure risanati infermi, risuscitati morti o col solo tocco della sua mano, o col semplice suono della sua voce. Ecco, se io ben mi avviso, la vera cagione. – Si trattava di dare l’uso della lingua ad un muto: la lingua suole essere strumento di mille peccati, e perciò bisognava, dirò così, consacrarla con mistiche significazioni, e colla saliva dell’Uomo-Dio. Anche verso di noi furono nel nostro Battesimo dalla Chiesa praticati quasi tutti i riti, che Gesù adoperò a riguardo dell’odierno mutolo, e con tutto ciò qual uso abbiamo fatto della nostra lingua? Quante volte l’abbiamo contaminata colle mormorazioni, e colle oscene parole? Delle prime già vi parlai in altra Spiegazione. – Ora mi desidero un fuoco di santo zelo per scagliarmi contro le lingue oscene; la onde passo a dimostrarvi quanto male fa a sé stesso, tanto nell’ordine civile, quanto nel morale, l’impuro parlatore.

I. Il peccato della disonestà è un vizio così infamante, un mostro così abominevole, che ama le tenebre, cerca nascondigli, esige segreti, egli è una colpa così vergognosa, che per nasconderne i turpi effetti si ricorre talvolta a micidiali bevande, anzi che sopravvivere allo scoprimento d’un fallo di questa sorta, si elegge la morte. Ora l’osceno parlatore viene coll’impura sua lingua a scoprire, e ad infamare sé stesso. Non bada è vero alla sua onta, alla sua infamia, ma per sé ne copre, e svela senza riflettere l’interna infezione del suo cuore impuro. È detto evangelico, e la ragione e l’esperienza lo confermano, che la lingua parla dall’abbondanza del cuore, “ex abundantia cordis os loquìtur (Matth. XII, 34); onde per quella relazione tanto fisica quanto morale, che passa tra il cuore e la lingua, ne segue che scopre la lingua l’interne qualità l’intime disposizioni dell’animo buono o malvagio. Fuori la lingua, dice il medico all’infermo, e dalla lingua sporca, nera, immonda, argomenta l’interno malore. – Domandiamo ai Teologi se sia temerario giudizio il pensare di alcuno, che fa sovente laidi discorsi, o vomita spesso disoneste parole, il pensare, dissi che abbia corrotto e marcio il cuore, e ci risponderanno che non è né giudizio temerario e né pur giudizio, ma bensì una giusta necessaria conseguenza derivata da una certa premessa, o pure una evidente cognizione della causa per mezzo del suo effetto, come chi dicesse: “fumus, ergo ìgnis”; così lingua oscena, dunque anima oscena. –  Infatti se la lingua d’un oriuolo [cucù] segna le ore fuor di regola, se l’oriuolo stesso batte l’ore a sproposito, non si può dire che l’interno movimento delle ruote non sia guasto e sconnesso? Se un vaso esala dalla bocca un fetore intollerabile, dovrem dire che sia pieno d’acqua odorifera? Se un tale per tosse frequente, sputa marcia e sangue corrotto, chi potrà dire o credere che abbia sani i polmoni/? È questo il primo male che cagiona a sé stesso l’impuro parlatore, si qualifica per un impudico sfacciato, per uomo carnale, incivile, spregevole, da cui fuggono come da una puzzolente cloaca le oneste persone, meno quelle che com’esso lui son avvezze allo stesso linguaggio. Ma questo è un’ombra di male in paragone degli altri eccessi di cui fa reo, per il suo immondo e scandaloso parlare.

II. Il Re Profeta rassomiglia una di queste bocche immodeste ad un’aperta sepoltura piena di verminosi e fetenti cadaveri, “sepulchrum patens est guttur eorum” (Ps. V, 11). È avvenuto talora che all’alzarsi la lapide d’un sepolcro, per l’esalazione di quell’aria fetida, pestifera, sono caduti morti tutt’i circostanti. Così suole avvenire qualora una bocca immonda s’apre in oscene parole, restano per lo più infetti, avvelenati e morti nell’anima tutti gli ascoltanti. “Sepulchrum patens est guttur eorum”. Or chi può calcolare la strage di tanti innocenti, e la spiritual morte di quegl’incauti, che con piacere ascoltano, o non correggono, o non s’allontanano con orrore da quelle bocche infernali? Tutte quest’anime ferite ed uccise son tutte a carico del sordido e pessimo ciarlatore. Con questo di più che le oscene parole, le favole disoneste, i turpi racconti, i motti allusivi, gli equivoci maliziosi, le sporche buffonerie con gusto s’imparano, si ripetono, come malvagie sementi, passano di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, e con diabolica fecondità crescono e si moltiplicano all’infinito. Ecco in effetti quel che asserisce l’Apostolo S. Giacomo: la lingua scorretta è un fuoco d’inferno, “lingua ignis est inflammata a gehenna” (Jacob. III, 6). Una sola scintilla di questo fuoco tartareo basta ad eccitare un incendio immenso, che incenerisca un numero sterminato di mille anime e mille. “Ecce quantus ignis quam magnam sìleum intendit” (V, 7). Ma di questo incendio divoratore, che forse non s’estinguerà mai più, tutta sarà la colpa della lingua oscena. Dirò di più, dirò cosa che a prima giunta sembrerà strana. Può darsi il caso che un parlatore osceno pecchi tuttavia, ancorché confinato col corpo in un sepolcro, e coll’anima nell’inferno. Non è mio questo sentimento, ma del gran Padre S. Agostino, il quale parlando dell’empio eresiarca Ario, già morto e dannato, dice che pur pecca e ancor va peccando, “Arius adhuc peccat”; pecca nei suoi pervertiti seguaci, pecca per l’eresie da esso sparse e seminate, che in tanti incauti pullulano e si riproducono; laonde tutti questi tristi germogli attribuirsi debbono alla velenosa radice, come effetti della causa primiera; e perciò in un senso ancorché Ario sia “in terimino”, nell’eterna dannazione, ove non v’è più luogo a merito o a demerito, pure per le conseguenze funeste a lui imputate in origine, si può dire che ancor pecca. “Arius adhuc peccat”. Già forse mi preveniste nell’applicazione dell’esempio. Un uomo di lingua impura, già incenerito nella tomba, già sepolto nell’abisso, pecca ancora per la zizzania sparsa dalle sue turpi parole, per la peste uscita dalla lorda sua bocca, con cui ha infette tante anime, peste che forse si propagherà fino alla consumazione de’ secoli. – Possibile!? Dirà qui alcuno di voi, possibile un male sì grande, anzi una serie di tanti mali! “Io pronunzio, è vero, qualche sconcia parola, qualche motto allusivo, ma così per ischerzo a muovere il riso, ben lontano dal prevedere, molto meno dal voler tanta rovina”. Lo so, e lo dice nei Proverbi lo Spirito Santo, che lo stolto, cioè il peccatore, fa il male come per riso e per trastullo, quasi per risus et stultus operatur scelus (Prov. I, 23); ma quella turpe facezia, quella ridicola maliziosa parola è un cancro micidiale, dice l’Apostolo, che dall’orecchio passa al pensiero, dal pensiero si attacca al cuore, e fa nell’anima una piaga insanabile, “sermo eorum ut cancer serpit (ad. Tim. II, 17). Scolpatevi ora col pretesto di dire per burla e per scherzo, la vostra scusa accrescerà la vostra colpa. Non trovate voi dunque altro modo di ricreare lo spirito, che ridendo a danno dell’anima vostra, e delle anime altrui che costano tutto il sangue preziosissimo di Gesù Cristo? Sarà dunque minore l’oltraggio fatto alla sua Divina Maestà, perché lo fate per giuoco per sollazzo? Scusereste voi i Giudei quando per burla schernivano il divin Redentore, e con finte adorazioni Lo acclamarono Re da beffe e da teatro? Voi ne fate altrettanto; ma udite le proteste e le minacce di un Dio vilipeso. Voi ridete oltraggiandomi, voi mi oltraggiate ridendo, anch’Io quando sarete tra le fauci di morte nelle angustie estreme della vostra agonia, anch’Io mi riderò di voi: “Ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo” (Prov. I, 26). – “Ma noi, soggiungono altri, noi senza malizia alcuna e senza riflessione ci lasciamo uscire di bocca certe parole veramente poco oneste, ma non si bada, la lingua scorre, siamo avvezzi così, bisogna compatire.” – A questo passo vi voleva S. Giovanni Crisostomo per farvi tornar in gola le vostre discolpe, frivole insieme, ed aggravanti il vostro reato. – Un ladro (dice egli in una delle sue Spiegazioni al popolo di Antiochia) un ladro non è così folle da dire al giudice: “Signore perdonate o almeno compatite il mio fallo, io sono assuefatto a rubare che non mi posso astenere”; sarebbe per tale scusa più severamente punito. “Cur non praetendit fur consuetudinem, ut a supplicio liberetur (Rom. XII)? Ecco l’esempio che vi condanna. L’abito malvagio non diminuisce, anzi aggrava la colpa. Si forma quest’abito dagli atti ripetuti, continuati, per i quali la rea consuetudine passa in seconda natura. Da ciò ne segue, che sebbene vi cadan di bocca parole scorrette senz’avvedersene, in forza dell’abito cattivo da voi contratto, siete più rei per inveterata malizia, come d’accordo parlano i Teologi. – E pur non è ancor questo il colmo dei mali che cagiona a sé stessa una lingua oscena. Il colmo dei mali suoi, lasciatemi così esprimere, si è lo scrivere colle sue sozze parole sulla propria fronte il carattere della sua riprovazione. Per poco che uno sia versato nelle divine Scritture sa che figura dei predestinati fu Giacobbe, e immagine dei presciti Esaù. Ora Giacobbe, sebbene nascosto sotto le spoglie del fratello, e sotto le pelli del capretto, fu dal cieco padre riconosciuto alla voce: “Vox quidem, vox Jacob est” (Gen XXVII, 22). Per simil modo sebbene il mistero della predestinazione sia recondito ed inscrutabile, pure da certi contrassegni si può averne una cognizione capace a darcene una probabile e quasi certa congettura. Uno di questi chiari e forti segni è la lingua. Volete sapere se sarete predestinato o reprobo? parlate ch’io vi vegga: “Loquere ut videam”. Dal canto si conoscono gli uccelli, dal linguaggio gli uomini delle diverse nazioni. Aveva un bel dire S. Pietro là nel pretorio, e confermare col giuramento le sue proteste, che l’ancella più che a lui, credeva al suo linguaggio: “tu sei Galileo, gli diceva, il tuo parlare ti scopre per quel che sei”: “Loquela tua manifestum te facit” (Matth. XXVI, 73). Parlate orsù voi, se volete che io argomenti se sarete nel numero dei reprobi o dei predestinati. Voi avete una lingua pessima, laida, immonda, un vocabolario di termini nefandi? Ohimè, voi vi assomigliate ai dannati, voi sarete con essi abitatori dell’inferno. Laggiù si bestemmia, si maledice, si parla e si parlerà sempre male. Voi, come mi giova sperare, avete una lingua modesta, un parlar da buon cristiano, vi servite della lingua, come l’odierno muto risanato, a parlar rettamente, a lodare Dio, a edificare il prossimo? Consolatevi, voi sarete cittadini del cielo. Lassù quei beati comprensori hanno sempre in bocca le glorie dell’Altissimo: “Exaltationes Dei in gutture eorum (Ps. CXLIX). Aspiriamo colla purità delle nostre lingue, ad esser loro consoci.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.
[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta
Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

Communio
Prov III:9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.
[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio
Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

UN MEZZO DI SALVEZZA SUGGERITO DA FATIMA

UN MEZZO DI SALVEZZA

SUGGERITO DA FATIMA

[Attualità di Fatima, Città della Pieve, 1953]

  Chi legge la storia delle Apparizioni di Fatima non può non restare colpito dall’insistenza, con la quale la Beata Vergine raccomanda ai tre Pastorelli, e per essi a tutti i cristiani, la recita quotidiana del Santo Rosario. La Madre di Dio sei volte si mostra a Lucia, Giacinta e Francesco e tutte e sei le volte termina il suo colloquio con i fortunati Fanciulli con la raccomandazione della recita del Rosario, come di cosa graditissima al Suo Cuore Immacolato e come strumento adatto a ottenere la conversione dei peccatori, la pace del mondo e il trionfo della Chiesa. – Sinceramente, non potremmo attenderci una più alta autorevole ratifica di questa devozione, che la tradizione fa risalire a S. Domenico.

TESTIMONIANZA DELLA STORIA

Documenti diretti e precisi, in base ai quali si possa incontestabilmente provare che S. Domenico sia l’autore del Rosario, non ce ne sono. Tuttavia la tradizione non è priva di fondamento e può vantare il consenso di molti Pontefici, cioè di:

Alessandro VI (« lllius qui» del 13 giugno 1495),

Leone X (« Pastoris Æterni» del 6 ottobre 1520),

Pio V (« Consueverunt » del 17 settembre 1569),

Gregorio XIII (« Monet Apostolus » del 1° aprile 1573)„

Sisto V (« Dum ineffabilia » del 30 gennaio 1586),

Gregorio XIV (« Apostolicæ, servitutis » del 25 settembre 1591),

Clemente VIII (« Cura Beatus Dominicus » del 22 novembre 1592) ,

Alessandro VII (« Cum sicut accepimus » del 15 novembre 1657, e dell’ll maggio 1663. ),

Clemente IX (« Cum sicut accepimus » dell’ll marzo 1669),

Clemente X (« Cum sicut accepimus» del 7 febbraio 1676),

Innocenzo XI (« Cum sicut accepimus» del 17 febbraio 1683),

Benedetto XIII (« Cum sicut accepimus» del 19 gennaio 1726

                e « Pretiosus » del 26 maggio 1727),

Benedetto XIV (« Cum sicut accepimus» del 17 dicembre 1753),

Clemente XIII (« Cum sicut accepimus » del 21 agosto 1767),

Clemente XIV (« Ex poni Nobis » del 9 novembre 1770 e «Cum

                 sicut accepimus » del 4 settembre 1774),

Pio VI (« Cum sicut accepimus» del 26 aprile 1786),

Pio VII (« Ad augendam fidelium » del 16 febbraio 1808),

Pio IX ( « Postquam Deo manente» del 12 aprile 1867;

             « Egregiis sui Ordinis » del 3 dicembre 1869 e

             « Proditum est » dell’8 febbraio 1875),

Leone XIII (In quasi tutti i documenti dedicati al Rosario),

Benedetto XV (Lettera «In cœtu sodalium » del 29 ottobre 1916 ed

                 Enciclica «Fausto appetente» del 29 giugno 1921) e

Pio XI (Lettera « Inclytam ac perillustrem » del 6 marzo 1934 ed

               Enciclica « Ingravescentibus » del 15 settembre 1937).

Papa Sisto IV (Ea quæ ex fidelium » del 12 maggio 1479) afferma che la pratica del Rosario anticamente era diffusa nelle diverse parti del mondo, e che, caduta in disuso, era stata da qualche tempo ripristinata. Era stato un domenicano, Alano de la Roche, a risuscitare la devozione del Rosario, e dotato come era di una grande facondia e di una eminente santità di vita, aveva saputo suscitare un immenso entusiasmo nelle Fiandre, nella Bretagna e nell’Olanda. Tanto era l’affollamento nelle Chiese domenicane per la recita del Rosario, che i Parroci se ne allarmarono, vedendo non più frequentare le loro Chiese. I Pontefici tuttavia dichiararono il Rosario « rito di pregare pio e devoto » (Sisto IV, ibid.), « metodo di preghiera facile e accessibile a tutti » (Pio V: « Consueverunt » del 17 settembre 1569), « piissimo modo di pregare » (Gregorio XIII: «Monet Apostolus » del 1° giugno 1573), che S. Domenico istituì per ispirazione del Signore (Alessandro VI: « Illìus qui» del 13 giugno 1495: Sisto V: «Dum ineffabilia » del 30 gennaio 1586: Clemente VIII: « Cum Beatus Dominicus » del 22 novembre 1593 e Pio IX: « Postquam Deo manente » del 12 aprile 1867). Non solo; ma molti Papi hanno dichiarato il Rosario potente arma contro le eresie e i vizi (Pio V: «Consueverunt» del 17 settembre 1569: Pio IX: « Postquam Deo manente » del 12 aprile 1867; « Egregiis sui Ordinis » del 3 dicembre 1869; Leone XIII: in quasi tutte le Encicliche e i documenti sul Rosario); presidio e difesa contro tutti i nemici; mezzo efficace di santificazione (Pio IX: «Præsidium opportunissimum praesentibus malis » (Lettera « Proditum est » dell’8 febbraio 1875). Clemente VII (« Etsi temporalium » dell’8 maggio 1534) non esita ad asserire che per il Rosario tanto i chierici che i laici, come gli uomini così le donne sono giunti a tanto fervore che Dio e la Beata Vergine li hanno voluti ricompensare non solo con grazie abbondanti, ma anche con moltissimi miracoli e portenti. S. Pio V proclama che i fedeli accesi dalle meditazioni e infiammati dalle preghiere del Rosario si sono sentiti spiritualmente trasformati (« Consueverunt » del 17 settembre 1569). E’ bello notare che non solo i Papi dei secoli passati, ma anche i Pontefici dei nuovi tempi hanno solennemente attestato l’efficacia soprannaturale del Rosario per la santificazione delle anime, per la repressione delle eresie e dei vizi, e per la pacificazione del mondo. Non possiamo non tener conto di queste testimonianze, che vengono dai supremi Maestri della fede e con gioia constatiamo la perfetta concordanza del pensiero tradizionale dei Vicari di Cristo con il Messaggio rosariano di Fatima.Certamente la parola dei Pontefici Romani non ha bisogno di essere confermata da interventi soprannaturali, almeno per i cattolici, ai qual i basta la promessa che Gesù un giorno fece a Pietro: « Qualunque cosa tu avrai legato in terra, sarà legato anche nel cielo; e qualunque cosa tu avrai sciolto in terra, sarà sciolto anche in cielo » (Matt. XVI, 19); nondimeno un intervento soprannaturale varrà sempre a rinforzare la fede dei deboli e dissipare le dubbiezze degli incerti. Così a Lourdes la Beata Vergine, proclamandosi l’Immacolata Concezione, confermò non il dogma, che era stato definito quattro anni prima, ma la fede soggettiva dei cristiani. Non altrimenti a Fatima per la devozione del Santo Rosario e per la sua potenzialità in ordine al bene delle anime e della società. Chi vorrà fare il sordo alla voce del Papa, ascolti almeno il monito e l’esortazione della Madre Celeste.La storia del Rosario, confusa e frammentaria fino a metà del secolo XV, può vantare una documentazione certa e solida da quando il Beato Alano si fece ripristinatore di questa devozione e da quando il grande Papa francescano, Sisto IV, con bolla del 30 maggio 1478 « Pastoris æterni », approvando la confraternita « de Rosario Beatæ Virginis Mariæ nuncupata », eretta nella Chiesa dei Domenicani di Colonia, lo introdusse ufficialmente nella Chiesa.La Divina Provvidenza aveva riservato all’Ordine Domenicano il privilegio singolare di suscitare una simile devozione e di propagandarla con incredibile zelo nel mondo; ma aveva anche riservato all’Ordine di S. Francesco il privilegio grande di presentarlo alla Chiesa con l’autorità di un Papa, tratto dal suo seno. Da allora il Rosario, come dirà in seguito Leone XIII («Octobri mense» del 22 settembre 1891), è divenuto la tessera della fede. Il vero cristiano lo si riconosce più facilmente dalla corona del Rosario, che porta in tasca, che da qualsiasi altra manifestazione esterna.

SALTERIO MARIANO

La più completa ed esatta definizione del Rosario ce la dà il Breviario, nella quinta lezione della festa della Madonna del Rosario. « II Rosario o Salterio è una sacra formula di pregare Iddio in onore della Beata Maria; mediante la quale, in quindici decadi di Salutazione angelica, intermezzate da un Pater, si contemplano con pie meditazioni i quindici principali misteri della Redenzione umana » (« Est autem Rosarium sive Psalterium, sacra quædam formula precandi Deum in honorem Beatæ Mariæ: qua per quindecim salutationis angelicæ decades interiecta singulis Oratione Dominica, quindecim præcipua Redemptionis humanæ mysteria piis meditationihus percensentur »).Orazione vocale e orazione mentale insieme: qui è l’essenza del Rosario. Per la verità, benché sia assodato che la meditazione dei misteri fosse in uso fin dai tempi almeno del Beato Alano, tuttavia, salvo errore, nei documenti pontifici la prima volta ne è fatta menzione nella bolla di S. Pio V, « Consueverunt » del 17 Settembre 1569. Il contesto fa comprendere che essa fosse già praticata dai Rosarianti; ma è la prima volta, ripeto, che l’autorità suprema della Chiesa dichiara che la meditazione dei misteri fa parte integrante del Rosario. Si dovrà giungere nondimeno a Benedetto XIII (Decr. della S. C. delle Indulgenze del 13 agosto 1726) per sapere che la meditazione dei misteri è necessaria per lucrare le indulgenze annesse a questa devozione, benché lo stesso Pontefice dichiari (Ibid. e Costituzione Apostolica « Pretiosus » del 26 maggio 1727) anche che i fedeli, che per la loro ignoranza non sapessero meditare i misteri della vita del Redentore, possano egualmente guadagnare le sante indulgenze, meditando i Novissimi od altre pie cose. L a S. C. delle Indulgenze confermò la disposizione di Benedetto XIII in un Rescritto del 1 Luglio 1839. Leone XIII nella Costituzione Apostolica « Ubi primum » del 2 Ottobre 1898, dice che agli Ascritti alla Confraternita del Rosario è imposto l’obbligo di recitare nel corso della settimana il Rosario « cum quindecim mysteriorum meditatione». E’ chiaro dunque che per aversi il vero Rosario debbono concorrere questi due elementi: la recita delle Ave Maria e dei Pater e la meditazione dei misteri. – L’uso della corona è necessario perché si abbia il Rosario? Rispondiamo subito di no! La corona è semplicemente uno strumento adottato per rendere più ordinata e regolare la recita del Rosario. Essa oggi è divenuta il simbolo di questa devozione mariana e la Vergine Santa tanto a Lourdes che a Fatima è apparsa tenendo in mano la corona. L’uso di contare i Pater e le Ave con dei grani infilati nello spago è antecedente all’istituzione del Rosario. I Rosarianti lo adottarono fin dagli inizi, tanto è vero che, come rileviamo da una Bolla di Innocenzo VIII del 26 Febbraio 1491 e da un’altra di Alessandro VI del 13 giugno 1495, la Confraternita del Rosario era chiamata anche « de Capelleto », dal francese « chapelet », corrispondente all’italiano « corona ». Più tardi fu annessa l’indulgenza alla corona stessa; onde oggi dobbiamo distinguere le indulgenze, di cui è arricchito il Rosario come tale, dalle indulgenze legate alla corona. Per lucrare le prime non occorre l’uso della corona, benedetta o no; mentre usandosi la corona benedetta da cui ne abbia facoltà, si guadagneranno in più le indulgenze che i Sommi Pontefici hanno voluto annettere al pio strumento.

SCUOLA DI SAPIENZA

Abbiamo riportato sopra la testimonianza altissima di alcuni Papi circa gli effetti di santità, che la devozione del Rosario produce nelle anime. Addentrarsi in una profonda analisi sul valore spirituale di questa regina delle devozioni mariane è compito del teologo. Noi, senza la pretesa di fare una trattazione esauriente, ci sentiamo in dovere di esaminare questo lato, d’altronde importantissimo, del Rosario. Affermiamo innanzi tutto che il Rosario è una scuola, in cui è Maestra Maria, la Madre di Dio. Maria insegna che punto di arrivo di ognuno che tende alla perfezione è l’amore di Dio. Amare Dio con tutte le nostre forze, ecco il termine di ogni nostra attività interiore ed esteriore. Il punto di partenza è la fuga del peccato, la repressione delle passioni disordinate, la mortificazione dei sensi. Man mano che l’anima si scosta dalle cose terrene, avanzerà nella conoscenza e nel desiderio di possedere le cose celesti, fino a raggiungere quella perfetta unione con Dio, in cui solo l’uomo può trovare la sua pace e il suo riposo. S. Tommaso ha scritto: « Hoc præcipue in oratione petendum est, ut Deo uniamur » (Summ. Theol. II II. q. 83, a. 1, ad 2). Pregando col Rosario è Maria che ci guida, quasi tenendoci per mano, a Dio, e c’insegna come dobbiamo unirci a Lui e con la sua intercessione ci ottiene la grazia dell’unione. L’a nima si unisce a Dio mediante la carità, da cui sgorgano i doni dello Spirito Santo. Tra i doni dello Spirito Santo quello che più direttamente unisce l’anima a Dio è, secondo S. Tommaso (Ib. q. 45, a. 3. ad 1), l a Sapienza, che, secondo lo stesso Dottore (Ib. q. 9, a. 2) è « cognitio divinarum rerum ». Questo altissimo dono innanzi tutto eleva l’anima alla contemplazione delle verità della fede e poi muove gli affetti del cuore. « Per sapientiam dirigitur et hominis intellectus et hominis affectus » (Ib. I II, q. 68, a. 4, ad. 5); onde essa è insieme speculativa e pratica (Ib. II II, q. 45, a. 3).Ho creduto necessario premettere questi brevissimi elementi sul dono della Sapienza, per poter affermare che intanto la recita del Rosario ha così potente influenza in ordine alla santificazione delle anime e, conseguentemente, alla loro unione con Dio, in quanto è nel Rosario che il dono della Sapienza esercita la sua dolce e penetrante azione.Per spiegare questa mia asserzione, debbo rifarmi ancora una volta alla dottrina dell’Angelico Dottore. Sappiamo da S. Luca come la Beata Vergine conservasse nel suo cuore il ricordo degli avvenimenti, che distinsero la nascita di Gesù e la Sua infanzia. Due volte S. Luca rende a Maria questa preziosa testimonianza. Difatti l’Evangelista, dopo di aver narrato l’adorazione dei pastori a Betlemme, soggiunge: « Maria autem conservabat omnia verba hæc, conferens in corde suo » (II, 19). Più sotto, raccontato lo smarrimento di Gesù e il suo ritrovamento nel tempio, chiude : « Et Mater eius conservabat omnia verba hæc in corde suo » (II, 51) . Nella prima testimonianza, c’è quel « conferens in corde suo », che è di un valore incalcolabile. Esso ci dice come Maria dei misteri dell’Infanzia del Suo Figlio Divino facesse continua meditazione. E’ il Rosario in embrione! Da questo particolare S. Tommaso deduce che nella S. Vergine ci fu in modo eminente il dono della Sapienza. Scrive il S. Dottore: « Non c’è alcun dubbio che la Beata Vergine abbia ricevuto in modo eccellente il dono della sapienza, di cui ebbe l’uso nella contemplazione, secondo che scrive Luca: « Maria autem conservabat omnia verba hæc conferens in corde suo » ( Ib. III, q. 27, a. 5, ad 3). E’ evidente che, secondo S. Tommaso, la Vergine Santissima esercitò il dono della sapienza, meditando e contemplando i misteri della vita di Gesù. Possiamo ragionevolmente ritenere che Maria per tutta la sua vita abbia concentrato le sue meditazioni su questi soggetti, a Lei carissimi, sia perché riguardavano Gesù, sia perché in molti di essi. Ella medesima aveva avuto una parte non trascurabile. Alla luce della fede e della teologia noi crediamo alla decisiva importanza dei doni dello Spirito Santo in ordine alla elevazione e alla santificazione delle anime. Riteniamo che questi divini doni — e sopratutto il primo — hanno modo di svolgere la loro azione segreta, lenta e costante nelle anime che, alla scuola di Maria, contemplano i misteri della nostra Redenzione. L’esperienza del mistero sacerdotale spesso ci ha dato la consolazione di trovarci di fronte ad anime dotate di grandi virtù cristiane; anime che in mezzo al turbinìo delle passioni giovanili, hanno saputo conservare pura e intatta la loro fede, o che, dopo un più o meno lungo periodo di sbandamento, hanno ritrovato la « diritta via » e si sono avviate verso la santità. Con gioia abbiamo constatato sempre che due elementi sono stati decisivi per queste anime: la Comunione frequente e la recita quotidiana del Rosario. Abbiamo conosciuto anche anime semplici, illetterate, eppure dotate di un profondo senso di penetrazione nelle cose della Religione. Nel Rosario avevano trovato la fonte della loro sapienza! – Acutamente Leone XIII ha avvicinato il Rosario alla Somma Teologica, lodando i Domenicani che con queste due istituzioni hanno operato grandi cose « ad salutem et doctrìnam chrìstiani populi » (Lettera al maestro Gen. O. P. del 20 sett. 1892).

SEGRETO DI VITTORIA

Mi viene alla mente la profonda sentenza di S. Agostino: – Qui recte novit orare, recte novit vìvere – (In Ps. CXVIII.). Di qui inferisco che colui che prega col Rosario, prega bene; onde è impossibile che non viva bene. D’altronde il dono della Sapienza, che, sulle orme dell’Angelico Dottore, ho ammesso pure prevalentemente operante nell’anima di chi recita il Rosario, secondo lo stesso Dottore — l’ho citato sopra — è insieme speculativo e pratico e dirige non solo l’intelletto, ma anche l’affetto dell’uomo. – E come potrà vivere nel peccato, chi assiduamente medita sulla vita di Gesù Cristo e della Sua Madre Santissima? I misteri gaudiosi susciteranno nel cuore del cristiano il disprezzo dei beni terreni e accenderanno il desiderio dei celesti; i misteri dolorosi indurranno alla nausea e alla fuga dei più vili piaceri, infondendo la gioia del più delicato rispetto al proprio corpo, in quanto è, come dice S. Paolo, « tempio dello Spirito Santo » (1 Cor. III, 16-17; VI, 19); in ultimo, i misteri gloriosi, sollevando la mente alla visione dei trionfi immortali di Gesù e Maria, faranno comprendere il beneficio del dolore e delle lacrime e l’inanità di quella gloria mondana, che è come « eco di tromba, che si perde a valle » (Carducci, La Chiesa di Polenta).Si sa come l’uomo è continuamente insidiato dalle tre tentazioni, che lo stesso Figlio di Dio volle sperimentare nel deserto, benché senza il minimo pericolo per Lui e che l’apostolo S. Giovanni ha indicato e identificato nella concupiscenza degli occhi, nella concupiscenza della carne e nella superbia della vita (1 Giov. II, 16). E simili tentazioni se vincono gli individui assaliranno anche le collettività, perché la collettività non è altro che la raccolta di più individui, i quali, se saranno buoni, costituiranno una collettività buona, se cattivi, cattiva.Geneticamente abbiamo prima l’individuo, poi la famiglia, poi la nazione, poi l’umanità tutta. Risanare l’individuo è il primo passo verso quel rinnovamento della società, che tutti invocano, perché a tutti appare necessario e urgente, se si vuole ancora salvare il nostro patrimonio di millenaria civiltà.Il Rosario, come abbiamo visto, potrà giovare molto al risanamento e al rinnovamento degli individui, attraverso i quali farà giungere i suoi benefici effetti alla collettività. Per questa ragione i Papi di oggi, come quelli del 400 o 500, fanno appello al Rosario come a mezzo di salute, e la Vergine Maria, come a Lourdes così a Fatima, indica nel Rosario l’arma per vincere i nemici della Chiesa e dell’umanità. I profani, i cristiani deboli, i nemici, forse ci accuseranno di semplicismo, se in tanto sfoggio di erudizione moderna, in tanto apparato di potenza, in tanto tramestio di politici, diplomatici, giuristi e studiosi di problemi atomici, noi, con serenità di spirito, docili alle esortazioni dei Pontefici e accogliendo il Messaggio Mariano di Fatima, ci appigliamo a quell’umile e fragile tavola di salvezza, che è il Rosario. « Questa è la vittoria sul mondo, la nostra fede » (1 Giov. V, 4), ammonisce l’Apostolo S. Giovanni e noi crediamo a questa parola, perché viene da Dio, e perché è stata collaudata da venti secoli di storia. La fede viene alimentata stupendamente dal Rosario; onde non può mancare la vittoria a chi sa sgranare questa benedetta corona, col cuore sollevato a Dio e lo sguardo fisso in Colei, che è l’aiuto dei cristiani. Nella storia del Rosario leggo che si attribuiscono a questa devozione ben ventotto grandi vittorie contro i nemici armati della fede e della civiltà cristiana, tra cui le più famose sono quelladi Muret contro gli Aìbigesi nel 1212 e quella di Lepanto contro i Turchi nel 1571. Ma chi potrà contare le vittorie riportate dal Rosario contro i nemici dottrinali della Chiesa? Quante eresie compresse, quanti scismi sanati, quanta miscredenza eliminata! – Contro l’invadenza del neo paganesimo, si chiami nazismo o si chiami comunismo, i due ultimi Papi ripetutamente hanno indicato nel Rosario l’arma di vittoria e la rocca di salvezza. Pio XI emanò una enciclica il 29 settembre 1937, e Pio XII, felicemente regnante, ne emanò un’altra il 15 Settembre 1951, senza ricordare tutte le esortazioni, che questo grande Pontefice, a voce, nei Suoi sapienti discorsi, indirizza alle varie categorie di fedeli, che si recano a venerarlo da tutte le parti del mondo. – Come rispondono i cattolici alla voce dei Papi e al Messaggio di Maria?

LA CONFRATERNITA DEL ROSARIO E LE SUE PROPAGGINI

Il Rosario ha una particolare organizzazione che ha giovato molto alla sua diffusione e al suo incremento. –  Prima, in ordine di tempo e in ordine d’importanza, è la CONFRATERNITA. Essa è antichissima. La bolla di Sisto IV del 1478, che sopra abbiamo citata, ha lo scopo di confermare e arricchire di favori spirituali la Confraternita del Rosario, stabilita nella Chiesa dei Domenicani di Colonia. Da Sisto IV a Leone XIII non c’è Pontefice che non abbia largito nuove indulgenze alle Confraternite, o non ne abbia confermate le già concesse. – A ridare vita e spirito a questa Confraternita Leone XIII dedicò la sua enciclica Rosariana « Lætitiæ sanctæ » del 1893 e le diede nuova sistemazione con la Costituzione Apostolica « Ubi primum » del 2 Ottobre 1898. – L’erezione canonica di questa Confraternita, fin dai tempi di Pio V, è riservata al Generale dei Domenicani. I Confratelli assumono l’obbligo particolare di recitare il Rosario intero ogni settimana. Quanti degli odierni Ascritti alle Confraternite del Rosario conoscono questo dovere e quanti, conoscendolo, lo adempiano? Non credo di esagerare, asserendo che la Confraternita del Rosario è la più ricca d’indulgenze e di favori spirituali. Perché e stata sempre la più favorita dai Vicari di Gesù Cristo (L’elenco delle Indulgenze e dei favori spirituali concessi dalla S. Sede alla Confraternita del Rosario è stato recentemente (2 gennaio 1953) aggiornato e approvato dalla S. C. dei Riti (Cfr. Analecta S.O.P., vol. XXXI, 1953, pag. 39 ss.). E’ da augurarsi che sacerdoti e laici veramente cattolici vogliano adoperarsi a ricondurre le Confraternite del Rosario al loro vero spirito, che non è certamente quello di organizzare accompagnamenti funebri e commerciare in loculi cimiteriali. Tornando alle origini, le Confraternite risponderanno in pieno agli appelli dei Romani Pontefici e attueranno il pio desiderio della Madre celeste. Appendice nobile e veramente operante della Confraternita è il cosiddetto ROSARIO PERPETUO, chiamato da Leone XIII « pulcherrima in Sanctissimam Matrem pietatis manifestatio » (Encicl. « Augustissimæ Virginis » del 12 settembre 1897).Istitutore del Rosario Perpetuo, secondo le maggiori probabilità storiche, sarebbe stato il ven. Timoteo Ricci (+1643), domenicano fiorentino. Questa pia pratica consiste nella recita ininterrotta del Rosario, fatta dagli Ascritti ad un’ora per ciascuno determinata, di giorno e di notte, in modo che non vi sia mai un istante nella Chiesa, in cui non si elevi al trono di Maria il profumo di queste mistiche rose, fiorenti nel cuore dei suoi figli migliori. – Nato nel 1635, il Rosario Perpetuo si diffuse con prodigiosa rapidità e Papa Alessandro VII nel 1656 concesse l’indigenza plenaria ai fedeli, che praticassero l’Ora del Rosario Perpetuo, indulgenza in seguito rinnovata e confermata dai Pontefici Clemente X (« Ad augendam » del 17 febbraio 1676), Innocenzo XI (Lettera del 17 febbraio 1683), Clemente XI: ((53) Lettera del 14 novembre 1710), Innocenzo XIII (Lettera del 3 agosto 1723.), Clemente XII (Lettera del 20 maggio 1737) , Pio VI (Lettera del 17 dicembre 1779, e del 13 maggio 1786) , e Pio VII (Lettera del 16 febbrai.. I808).Con la Rivoluzione Francese e con i sovvertimenti sociali e politici, che ne seguirono, il Rosario Perpetuo decadde, ma Pio IX, con breve apostolico del 12 Aprile 1867 « Postquam monente Deo », lo ripristinò, arricchendolo di nuove Indulgenze. Per quanto mi risulta, il titolo di Rosario Perpetuo ufficialmente in un documento pontificio viene usato la prima volta da Pio IX, nel Breve or ora citato.Dal 1867 la pratica del Rosario Perpetuo ha reclutato milioni di fedeli, che in tutto il mondo, senza interruzione, sgranano ai piedi di Maria la loro corona. Leone XIII volle onorare del Suo grande nome l’Associazione del Rosario Perpetuo, obbligandosi a tenere la Sua Ora di Guardia dalle 10 alle 11 di sera in ciascun primo giorno del mese. Un’altra appendice della Confraternita del Rosario è il così detto ROSARIO VIVENTE. Ne fu Autrice, verso l’anno 1826, la signorina Paolina Maria Jaricot, di Lione. Il Rosario Vivente è un’Associazione in cui gli Ascritti vengono divisi in gruppi di quindici; ogni gruppo è presieduto da uno Zelatore o Zelatrice. che ha il compito di assegnare, al principio del mese, uno dei quindici misteri a ciascun Ascritto. Questi si obbliga a recitare ogni giorno una posta di Rosario, meditando il mistero assegnatogli. In tal modo la recita quotidiana del Rosario intero diviene un atto della collettività, cioè del Gruppo. Il Rosario Vivente ebbe una diffusione rapidissima, diremmo prodigiosa. Dopo appena sei anni di vita, fu approvato e raccomandato da Papa Gregorio XVI (Costit. Ap. « Benedicentes Domino» del 27 gennaio 1832), che lo arricchì di sante indulgenze e che dopo quel primo atto, onorò l’istituzione di ben altri quattro importanti documenti (Lettera ai RR. Betemps di Lione e Marduel di Parigi , del 2 febbraio 1832; Lettera al R. Betemps, del 13 aprile 1833; Lettera a Paolina Maria Jaricot, Fondatrice del Rosario Vivente, del 13 aprile 1833; Lettera alla medesima, del 21 febbraio 1835), volti a esaltare e incoraggiare la nuova forma di questa devozione mariana. Pio IX, seguendo le orme del Suo venerabile Predecessore, accordò anche lui la sua alta protezione a questo nuovo germoglio del Rosario, confermando le indulgenze di Gregorio XVI (Lettera Apost. del 12 agosto 1862) e mettendo l’Associazione sotto la giurisdizione dell’Ordine Domenicano (Cost. Apost. « Quod iure hereditario » del 17 agosto 1877), a cui per diritto ereditario, riconosciutogli dai Sommi Pontefici, spetta regolare e dirigere la propaganda del Rosario, sotto qualunque forma. Una pagina simpatica nella storia del Rosario Vivente l’ha scritta e la scrive tuttora la bianca Legione dei Piccoli Rosarianti, sorta nel 1904 in Francia, trapiantata nel 1909 in Italia e ormai diffusa i n tutto il mondo cattolico. Questa « puerile decus », che graziosamente circonda il trono della Regina degli Angeli, ha avuto il suo particolare altissimo riconoscimento dalla Sede Apostolica, quando Benedetto X V , con decreto della Suprema Sacra Congregazione del S. Ufficio – Sezione Indulgenze – del 18 Marzo 1915, concedeva ai Fanciulli della Bianca Legione indulgenze particolari, oltre quelle di cui gode il Rosario Vivente (Analeeta S. O. Fratrum Prædicatorum, 1915. pag. 61).

PRATICHE ROSARIANE

In connessione con la devozione del Rosario accenneremo a qualche pia pratica, sorta nella Chiesa. Innanzi tutto ricordiamo la preparazione che i fedeli sogliono fare alla festa del Rosario con i così detti QUINDICI SABATI. Quindici, perché tale è il numero dei misteri rosariani, e Sabati, perché si sa che fin dal medio evo questo giorno fu dedicato in modo particolare al culto della Beata Vergine, poiché, tra le altre ragioni addotte da Umberto de Romanis ( De Vita Regulari, voi. II, pag. 72, a cura del P. Berthier, 1888), « in sabbato completum est opus creationis sive naturæ: in ipsa (Maria) vero completum est opus recreationis, sive gratiæ ». – L’origine dei XV Sabati risale al secolo XVII, cioè alla vittoria riportata dal re di Francia Luigi XIII a La Rochelle, contro gli Ugonotti. I primi a praticare questo pio Esercizio, stando alle più accreditate notizie giunte fino a noi, furono i Domenicani di Tolosa, imitati ben presto dai Domenicani di tutto il mondo e quindi dal Clero secolare e regolare indistintamente. Ha dato molto incremento a questa devozione la propaganda del Servo di Dio Bartolo Longo. L a S. Sede accordò subito il suo favore ai XV Sabati, concedento molte indulgenze. Allo stato attuale, è concessa l’indulgenza plenaria per ciascun Sabato, purché il fedele si confessi, si comunichi e reciti almeno una terza parte del Rosario. Inoltre, per comodità dei cristiani, al posto dei XV Sabati si possono fare altrettante Domeniche, alle stesse condizioni e con gli stessi benefici spirituali; in ultimo il pio Esercizio dei XV Sabati lo si può fare in qualunque tempo dell’anno, e perciò non esclusivamente in preparazione alla festa del Rosario (Cfr. Preces et Pia Opera inlulgentiis ditata, edita dalla S. Penitenzieria Apostolica, al n. 362). Un’altra pia pratica, tanto raccomandata dai Sommi Pontefici, è quella del mese di OTTOBRE DEDICATO ALLA MADONNA DEL ROSARIO. Ad iniziare questo pio Esercizio furono i domenicani, in ricordo della battaglia di Lepanto, che avvenne il 7 Ottobre 1571. Fino a Pio IX nessuna speciale indulgenza era stata concessa ai fedeli che lo praticassero. Questo Pontefice, accogliendo una supplica del P. Giuseppe Moran, domenicano spagnolo, nel 1868 concesse l’indulgenza di sette anni e sette quarantene ai fedeli, per ogni volta che assistessero alla funzione del mese di Ottobre in onore della Madonna del Rosario, e plenaria alla fine del mese per quanti avessero seguito la pia pratica per l’intero mese. Leone XIII, con l’enciclica « Supremi Apostolatus » del 1° Settembre 1883, estese l’obbligo del mese di Ottobre alle chiese parrocchiali della Cristianità, obbligo che confermò l’anno seguente con l’enciclica « Superiore Anno » del 30 Agosto 1884. Un decreto della S. C. delle Indulgenze, del 31 Agosto 1885, fissa le norme del mese di Ottobre e ne determina i favori spirituali, che sono tuttora vigenti, per quanto l’obbligo delle funzioni da tenersi nelle Parrocchie sia cessato dopo la conclusione dei Patti Lateranensi, essendo venuto a mancare il motivo principale, che aveva indotto Papa Leone XIII a ordinare la pratica del mese di Ottobre. Un’altra pia pratica del Rosario è la solenne Processione, che le Confraternite dovrebbero fare nella prima domenica di Ottobre, a ricordo della vittoria di Lepanto. I Domenicani, per privilegio apostolico (Benedetto XIII « In supremo» del 1° aprile 1725 e « Pretiosus » del 26 maggio 1727; Clemente XII « Cum sicut accepimus » del 10 aprile 1733), possono fare la processione in detto giorno « ingrediendo limites cuiuscumque parochiæ, ordinarli licentia minime requisita et absque licentia Parochi » (Benedetto XIII. ibid). Papa Leone XIII annette molta importanza a questa « Processione » e nelle Sue encicliche « Supremi Apostolatus » e « Superiore Anno », più volte ricordate, esorta i fedeli a intervenire a un simile atto di pietà mariana, con spirito di preghiera e di penitenza. Abbiamo brevemente ricordato le Istituzioni Rosariane, che sono sorte nella Chiesa, da  quando il Rosario si è diffuso tra i fedeli (Per più ampie notizie, vedere l’eccellente opera del P. Ludovico Fanfani O.P. « De Rosario B. M. Virginis » (Marietti, 1930). Anche oggi, possiamo ammetterlo con certezza, sono milioni di anime, sparse in ogni parte della terra, che quotidianamente recitano il Rosario, per il trionfo della Chiesa, per la conversione dei peccatori, per la pace del mondo, per il benessere di tutta l’umanità. – Né i tempi nuovi, pur essendo saturi di miscredenza e di scetticismo, hanno affievolito l’ardore della preghiera rosariana, che anzi potremmo affermare, l’hanno incrementata, suggerendo forme nuove, più adatte all’indole e alle esigenze del secolo XX, e aumentandone, per conseguenza, l’efficacia spirituale e sociale.

TROVATE ROSARIANE

Anche la pietà ha le sue industrie, cioè quei ritrovati ingegnosi, che servono a far penetrare in un ambiente meno preparato o in un cuore refrattario, un raggio di fede, un alito di speranza e una scintilla di carità. La Sapienza di Dio che, secondo l’affermazione della Scrittura (Prov. VIII, 31), si diverte nel mondo — ludens in orbe terrarum — ispira Essa stessa queste industrie, che spesso ottengono degli effetti strabilianti. Pio IX (Bolla « Ineffabilis » dell’8 dicembre 1854) asserisce che molto opportunamente i Santi Padri applicano a Maria quanto dai Libri Santi viene detto della Sapienza. Onde le parole sopra riportate — « ludens in orbe terrarum » — le possiamo anche intendere, sia pure con senso accomodatizio, come riferentisi alla Madre di Dio. Anche Maria « si diverte nel mondo », mettendo in azione l’intelligenza e il cuore dei Suoi devoti.  Assistiamo a un consolante spettacolo, cioè a una ripresa rosariana generale nel mondo cattolico in conseguenza della diffusione del Messaggio recato da Maria a Fatima. Ovunque sorgono anime generose — anche in ambienti che ci sembrano negati e chiusi ermeticamente al soffio divino — che si dedicano alla propaganda di questa devozione mariana e collaborano attivamente con la Gerarchia della Chiesa.Parlerò in ultimo della Crociata del Rosario; ora voglio segnalare alcune « specialità » rosariane, che dimostrano lo spirito di adattamento alle esigenze dei nostri tempi, che distingue la devozione del Rosario. Quasi tutte queste « specialità » rappresentano un meraviglioso effetto della Crociata del Rosario, la quale ha infervorato tanti cuori di amore per la Madonna e sappiamo che l’amore ha una genialità tutta sua nell’escogitare mezzi e forme, intesi ad appagare i bisogni del cuore. Accenno a qualche iniziativa, che mi sembra più meritevole di rilievo. – Il Rosario radiofonico o radiotrasmesso è iniziativa dell’americano P. Patrizio Peyton. Ha avuto uno straordinario successo e ora ha acquistato un carattere internazionale. In parecchi paesi del mondo il Rosario ogni giorno viene radiotrasmesso. Gli Stati Uniti sono al primo posto, la Spagna al secondo. Diamo il posto d’onore all’America del Nord, perché in quella grande nazione sono ben 230 le Stazioni Radio che trasmettono il Rosario e di esse 100 lo trasmettono quotidianamente. E’ significativo che il P. Peyton i primi e i migliori collaboratori per questa Sua Crociata li abbia cercati e trovati a Hollywood, nell’ambiente più mondano che si possa immaginare. Scherzi della Madonna! Quanto al Rosario radiotrasmesso l’Italia forse occupa uno degli ultimi posti; ma già è in azione un’armata azzurra, che promuove petizioni e raccoglie firme per ottenere dalla R. A. I. la trasmissione quotidiana e sistematica del Rosario. Il P. Peyton ha inviato in Italia un’Ambasciatrice di Maria, la grande artista Miss Kety, per preparare i nostri artisti alle trasmissioni mariane radiofoniche. Auguriamo a Miss Kety il più lusinghiero successo della sua missione. – Come auguriamo ai promotori della iniziativa di riuscire nel bel tentativo di dotare il Santuario di Pompei di una Radio mariana, di una Radio che funzioni solo per lanciare alle quattro parti del mondo messaggi mariani, cioè messaggi di carità e di pace. C’è anche un Rosario telefonico, in vigore nella cattolica Spagna fin dal 1935. Quando fu lanciata l’idea del Rosario per telefono nella Patria di S. Domenico, ben 60 Centri telefonici aderirono. I telefonisti spagnoli s’impegnarono alla recita del Rosario per linea, quotidianamente, di buon mattino, alle ore 4,45, per non essere di disturbo agli utenti. In America, sempre feconda di trovate curiose, anche nel campo della pietà, è stato inventato in questi ultimi tempi nientemeno che il Rosario a orologeria. Se c’è un ordigno di morte a orologeria, perché non ci dev’essere con lo stesso sistema un congegno di vita e di salute, quale è il Rosario? così avrà ragionato il Sig. Damon M. Doherty di St. Cloud nel Minnesota. Non solo la necessità, ma anche l’amore aguzza l’ingegno! E d ecco il Sig. Doherty prendere un disco e sopra annotarci i quindici misteri del Rosario e disporvi in giro una corona autentica, piantare al centro due lancette, una delle quali segna i misteri e l’altra i grani della corona. C’è una suoneria, che dà il segnale alla fine di ogni decade. Tutto funziona… come un orologio. Nel centro del disco si possono leggere queste parole: « prega per la pace ». Un simile congegno è stato approvato dall’Autorità Ecclesiastica e può essere utile a chi vuol recitare il Rosario durante il lavoro. Tuttavia perché chi usasse questo sistema — e penso che esso potrebbe riuscire comodo, per es.: agli autisti — possa lucrare le indulgenze annesse alla corona, deve tenere indosso, in qualunque modo, la stessa corona, giusta il Decreto della S. Penitenzieria del 9 Novembre 1933. – Un buon autista ogni giorno in macchina recita il suo Rosario, assegnando una posta per ogni sosta e meditando sui misteri. E pare che gli affari gli vadano bene. E’ il Rosario in macchina o in veicolo! Quanti autisti e quanti vetturini possono imitare l’esempio di questo loro collega, attirando su di sé le benedizioni e lo sguardo compiacente della celeste Madre! Una curiosità rosariana? Eccola! A Birmingham in Inghilterra, durante la recente Crociata del Rosario, predicata dal celebre P. Peyton, fu benedetta una corona di 15 poste, lunga 6 metri. Essa era destinata alla Famiglia Poole, composta di padre, madre e 12 figli. In tal modo la numerosa famiglia potrà recitare il Rosario insieme con una sola corona, della quale ciascun membro reggerà una parte. Potrei continuare nella narrazione di simili spigolature, come potrei aggiungere episodi altamente significativi di quel fervore e di quell’entusiasmo, con cui i buoni cristiani hanno accolto il pressante invito della Vergine di Fatima a recitare ogni giorno il santo Rosario. Per suscitare tanto entusiastico fervore la Madonna ha dato vita alla cosi detta CROCIATA DEL ROSARIO.

LA CROCIATA DEL ROSARIO

E ‘ ora che diciamo una parola di questa bellissima e utilissima iniziativa. L’ideatore e l’iniziatore della Crociata del Rosario fu il domenicano belga P. Luca Hellemans, che organizzò la prima Crociata nel 1939, proprio alla vigilia della seconda grande guerra. In seguito il P. Hellemans, rimasto minorato a causa di un incidente automobilistico, fu sostituto nella direzione della Crociata per il Belgio dal P. Giacinto Berghmans, che ha saputo dare all’opera del suo confratello sviluppi meravigliosi. La Crociata ben presto valicò i confini del piccolo Belgio e si estese prima alla Francia, poi al restante delle nazioni europee, quindi passò l’oceano e negli Stati Uniti, nel Canada, nelle Repubbliche dell’America Latina, nelle Filippine, nell’Australia, finanche in alcune regioni dell’Estremo Oriente, essa oggi è in atto, accolta con immenso favore dall’Episcopato, dal Clero, dalle popolazioni cattoliche e anche dalle non cattoliche. Quasi ovunque la Crociata del Rosario è diretta dai Domenicani, i quali però hanno trovato dei collaboratori preziosi in sacerdoti del Clero Secolare e Regolare, tutti affratellati nell’amore e nello zelo della gloria di Colei, che è la Madre e la Regina di tutti i sacerdoti. In America il più grande, fervente e geniale collaboratore della Crociata del Rosario è il famoso P. Peyton, che non è un domenicano, ma un Religioso della Congregazione della S. Croce, che ha creato il Rosario alla radio. In Italia a capo della Crociata c’è il P. Marcello Vanni O. P., il quale dirige tutto il lavoro dei suoi trenta Confratelli Domenicani e lo organizza nelle varie diocesi secondo le richieste dei Vescovi Nel 1952 ha fatto rumore la Crociata del Rosario in Inghilterra, voluta da S. E m . il Card. Griffin, predicata dal P. Peyton e onorata da una lettera del Sommo Pontefice. L’augusto documento è di importanza eccezionale, perché con esso la Crociata del Rosario riceve il crisma dell’ufficialità, se così posso esprimermi. Il Santo Padre, dopo di aver ricordato quanto bisogno vi sia di pregare « nel presente momento, in cui una pericolosa forma di materialismo tende a minare i rapporti degli uomini col loro Creatore, e con i loro simili, e a distruggere la santità della famiglia », proclama che nessuna preghiera è più efficace di quella che si fa in comune, e tra le preghiere collettive, nessuna è più semplice e più fruttuosa del Rosario in famiglia. La Crociata dell’Inghi1terra ha avuto vasta eco nel mondo cattolico, per la forma spettacolare che ha assunto, dato l’entusiasmo con cui l’accolsero i cattolici inglesi. E non solo i cattolici; finanche gli anglicani furono presi dal fuoco. A Birmingham fu lo stesso Rettore della Chiesa Anglicana che esortò i suoi fedeli ad andare a sentire le prediche del P. Peyton. Si calcolano a 400.000 i cattolici inglesi che hanno risposto all’appello del P. Peyton. La definizione della Crociata del Rosario ce la dà il P. Vanni : « E’ un Movimento spirituale di preghiere, penitenze e predicazioni, che si propone di contribuire alla restaurazione in senso cristiano della nostra società, attraverso il ristabilimento del Rosario nelle famiglie e in tutte le comunità (Istituti, Ospedali, Prigioni, ecc.) (P. Marcello Vanni, 0. P., La Crociata del Rosario.). Essa ha lo scopo precipuo di propagare la recita quotidiana del Rosario non tanto come forma privata e personale di devozione mariana, ma sopratutto come preghiera collettiva, e non solamente nelle Chiese e nelle Comunità Religiose, ma anche ovunque si trovi una collettività, sia pure embrionale, cioè nelle famiglie, negli ospedali, nelle carceri ecc. Se la preghiera del Rosario ha per se stessa un’efficacia tutta sua, aumenterà questa sua efficacia, quando sarà fatta in comune, perché Nostro Signore Gesù Cristo ha detto: « Io vi dico: che se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo nel domandarmi una qualsiasi cosa, sarà loro accordata dal Padre mio che è nei cieli. Di fatti dove saranno raccolti due o tre ne1 mio Nome, ivi sono Io, in mezzo ad essi » (Matth. XVIII, 19-20). San Tommaso commenta e spiega: « Impossibile est enim preces multorum non exaudiri, si ex multis orationibus fìat quasi una » (In. Matth., XIX). E io penso che quando la famiglia o la comunità si raccoglie per recitare il Rosario, Maria, invisibile, ma reale sia lì, come uno della famiglia o del1a comunità a recitare il Rosario, come lo recitò a Lourdes con Bernardetta, come nel Cenacolo pregò con gli Apostoli (Atti, 1, 14). E potrà non essere esaudita la preghiera, che Maria fa sua e presenta al Suo Figlio Divino? La Crociata proponendosi come suo fine principe quello di riportare la recita quotidiana del Rosario nelle famiglie e nelle comunità, innanzi tutto asseconda una volontà precisa dei Sommi Pontefici. Leone XIII (Enciclica « Fidentem piumque » del 20 settembre 1896 e vari altri Documenti), PioXI (Lettera al Maestro Gen. O. P. « Inclytam ac perillustrem » del 6 marzo 1934 ed Enc. «Ingravescentibus » del 29 settembre 1937.) e Pio XII (Discorso agli Sposi dell’8 ottobre 1941, Encicl. « Ingruentium » del 15 settembre 1951 e vari altri Documenti), per ricordare solo gli ultimi Pontefici, che maggiormente lo hanno raccomandato, hanno ripetutamente e caldamente propugnato il ritorno del Rosario in seno alla famiglia. Poi la Crociata dà compimento al desiderio della Vergine SS. a Fatima, ove, come abbiamo ricordato al principio, Essa ha così vivamente raccomandato la recita del Rosario. In ultimo la Crociata varrà a riportare i costumi dei cristiani sulla scia del Vangelo, eleverà il livello morale e spirituale della Società e salverà il mondo dai tremendi castighi, che si merita per la sua apostasia da Dio (Ricordiamo qui, almeno in una nota, la magnifica  iniziativa di Mons. Fulton J. Sheen, che va sotto il nome di « Crociata mondiale del Rosario Missionario ». Inaugurata nel 1950, essa ha l’intento di far pregare per la pace del mondo e per la conversione di tutti gli uomini, in particolare degli infedeli. Il Rosario si compone di cinque decine di colore diverso, rappresentanti i cinque Continenti: la decina verde l’Africa, la rossa il Continente americano, la bianca l’Europa (in questa decina si prega anche per il Sommo Pontefice, il Bianco Padre, che da Roma veglia sul mondo …), l’azzurra l’Oceania, la gialla l’Asia. – Tre Ave Marie finali vengono dette per i Missionari del mondo. « Quando il Rosario è finito — osserva graziosamente Mons. Fulton Sheen — si è circumnavigato il globo, abbracciando tutti i continenti, tutto il popolo in preghiera». Il Card. Fumasoni Biondi aggiunge: « è una ingegnosa maniera di dare alle persone una coscienza missionaria »). – In America e altrove è stato lanciato questo slogan: il Rosario è più potente della bomba atomica! Così è e così sarà. La modesta fionda del giovinetto Davide non fu più forte della spada, della lancia e dello scudo del gigante Golia (I Reg. 17, 39)? La fionda del pastorello era dotata di una forza divina. Il Rosario è munito anch’esso della forza di Dio, di cui dispone Maria, la Donna Forte per eccellenza (Cant. VI, 3, e 9), terribile come un esercito schierato (Cant. VI, 3, e 9). E noi ci appiglieremo a questa forza e l’useremo per salvare le anime nostre, per salvare la società e il mondo. Non dubitiamo della vittoria. Dio è con noi, e con noi è Maria!

+ fr. Reginaldo G. M. Addazi O. P.

[Arcivescovo di Trani, Nazareth e Barletta]

 

ACCECAMENTO SPIRITUALE

È questo il male che più colpisce la società moderna e soprattutto, oggi, coloro che si pretendono religiosi o spiritualmente “evoluti”, come gli eretici scismatici del “novus ordo”, quelli della sinagoga dei nani e dei buffoni, o i  sedicenti tradizionalisti, e cioè: 1° i sedevacantisti apocalittici [per l’apocalisse nel loro cervello], 2° gli spocchiosi sedeprivazionisti, sostenitori di una “tesi” antitomistica assurda e addirittura ridicola per tanti aspetti; 3° i gallicani fallibilisti acefali disobbedienti, i non-preti eredi di Achille, il “cavaliere kadosh” ; 4° i vari “cani sciolti” senza missione e senza giurisdizione, “ladri e briganti” dello spirito, secondo l’insegnamento evangelico.

ACCECAMENTO SPIRITUALE

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, Vol. I – S.E.I. Torino, 1930]

1. Che cosa sia l’accecamento spirituale. — 2. L’accecamento spirituale è un delitto. — 3. Quest’accecamento è volontario. — 4. Quanto cieco sia il peccatore. 5. Il mondo vive nella cecità spirituale. — 6. Cause della cecità spirituale. — 7. Il Demonio è la causa principale della cecità di spirito. — 8. Danni e disordini prodotti dalla cecità spirituale. — 9. Quanto sventurati siano i ciechi spirituali. — 10. Castighi dell’accecamento spirituale. — 11. Rimorso dei ciechi spirituali. — 12. Mezzi con cui si guarisce della cecità spirituale.

1. Che cosa sia l’accecamento spirituale. — L’accecamento spirituale non è altro se non una certa stupidità o, diremo, abbrutimento dello spirito, che impedisce di scorgere e gustare le cose divine. L’accecamento spirituale è proprio dell’intelletto, l’indurimento, della volontà: l’uno e l’altro sono un peccato, castigo del peccato, e un principio di peccato. « L’accecamento spirituale, che solo Dio può guarire, perché Egli solo è la vera luce, è un peccato, scrive S. Agostino, per il quale si cessa di credere in Dio; è castigo del peccato, perché punisce il cuore superbo tirandogli contro il giusto sdegno ed odio di Dio; è causa di peccato, quando il cuore ingannato dalla passione viene a commettere qualche cosa di male ». Così i Giudei, accecati dall’errore e dall’indurimento del cuore, perseguitarono Gesù Cristo e lo misero a morte.

2. L’accecamento spirituale è un delitto. — Chi è cieco dello spirito si fa un dio della sua passione nella quale pone il suo fine ultimo… Miserabile! egli non ha la fede… L’accecamento spirituale è il principio d’innumerevoli colpe; ora, non si deve chiamare un delitto, un male gravissimo in se stesso, quello che dà origine a molti peccati, ben spesso gravi? Quest’accecamento proviene dalla volontà indurita nel male, e mena seco per conseguenza il non vedere, né sentire, né temere più nulla; non si pratica più la virtù, si cade anzi nell’indifferenza, nell’incredulità, nell’empietà… « Come il cieco corporale, dice S. Agostino, non vede la luce del sole, ancorché l’investa coi luminosi suoi raggi; così il cieco spirituale non comprende la luce di Dio ». Lo stolido non apprende le opere meravigliose del Creatore, canta il Salmista, e l’insensato non le intende (Psalm. XCI, 6). Ma chi non chiamerà un delitto enorme questa follia volontaria? Gesù Cristo, il Vangelo, la Chiesa, i dogmi, la morale, i Sacramenti, la grazia, la santità, i novissimi non sono che tenebre per il cieco dello spirito: ora nessuno oserà scusare da colpa chi non vede o non intende tali fatti e verità, così necessarie alla salvezza e la cui esistenza riposa su dimostrazioni innegabili. Ai ciechi spirituali le cose della Religione sono come caratteri d’un libro sigillato, dice Isaia (Isai. XXIX, 11).

3. Quest’accecamento è volontario. — L’accecamento dello spirito proviene dalla volontà, ed è ciò che lo rende più colpevole. Non vogliono intendere, dice particolarmente di questa sorta di ciechi il Profeta, per timore di dover fare bene (Psalm. XXXV, 3). Lo splendore delle opere di Gesù Cristo, osserva S. Cirillo, era tanto, che non lasciava luogo a dubbio a chi non fosse corrotto di mente, ma siccome la più parte dei Giudei si trovava in tale condizione, perciò non voleva vedere. Quando Gesù arrivò in vista di Gerusalemme, nota S. Luca che pianse sovr’essa esclamando: « Ah! se tu conoscessi almeno almeno in questo punto quello che ti può portare la pace, ma, ohimè! ora gli occhi tuoi stanno chiusi su tutto, perché non hai voluto conoscere quand’eri in tempo, la grazia della mia visita » (Luc. XIX, 42-44). Come se volesse dire: O figlia di Sionne cotanto da me amata, onorata, arricchita, istruita, come va che non mi conosci? Per qual motivo mi rigetti, mi perseguiti e ti prepari a condannarmi a morte, a crocifiggermi? Per tuo amore e vantaggio sono disceso dal Cielo e mi sono incarnato; per te ho passato i miei giorni in continui travagli, nella povertà, nel dolore; io t’ho visitata e ammaestrata; ho guarito i tuoi lebbrosi, risanato i tuoi malati, liberato i tuoi indemoniati, risuscitato i tuoi morti; e tu di ricambio mi fuggi, mi disprezzi, mi calpesti, mi odii. Ma nemmeno questo tu conosci e vedi, poiché non hai voluto accogliermi né credere in me. L’incarnazione, la predicazione, la passione, la risurrezione di Gesù Cristo furono dunque celate ai Giudei induriti; questo popolo deicida non conobbe nemmeno la sua perfidia; come non s’accorse del suo accecamento e dell’ingratitudine sua. Ma una strepitosa vendetta si versò sopra Gerusalemme presa e distrutta da Tito. Io ho incontrato in una delle vostre piazze, predicava S. Paolo agli Ateniesi, un’ara dedicata al Dio ignoto (Act. XVII, 23); su queste parole dice Tertulliano: « Ecco il sommo delitto di coloro che non vogliono riconoscere Colui che pure non possono ignorare ». « E dove siamo noi? esclama S. Pier Crisologo? Che è questa stupidità che ci smemora? Che è questo sonno che ci opprime? Quest’oblio mortale che c’incatena? Perché non cambiare la terra col Cielo? non comprar i beni imperituri a prezzo dei beni caduchi? non arricchirci col mezzo delle ricchezze temporali de’ tesori eterni? ». Udite come si lagna Iddio per bocca del Profeta: « E fino a quando, o figliuoli degli uomini, avrete stupido il cuore? perché amate voi la vanità e andate dietro alla menzogna? » (Psalm. IV, 2). «Ah! il mio popolo non ha udito la mia voce, Israele non m’ha prestato attenzione » (Psalm. LXXX, 10), «anzi, ha rigettato e disprezzato e allontanato da sé il Cristo ». (Psalm. LXXXVIII, 37); — « e ha detto: Il Signore non vedrà, il Dio di Giacobbe non ne saprà nulla… Deh! intendetela, o i più stupidi del popolo, e voi, stolti, imparate una volta. Colui che piantò l’orecchia, non udirà? e quei che lavorò l’occhio, sarà senza vista? Non vi condannerà forse colui che castiga le genti? che all’uomo insegna la scienza? ». Sta scritto nel primo libro dei Re, che gli empi si taceranno nelle tenebre (II, 9); si taceranno, perché non avranno scusa d’essere ciechi. E quegli è cieco, dice S. Gregorio, che vuole ignorare la luce della contemplazione celeste; che sprofondato nelle tenebre della vita presente, e non volgendo mai con amoroso desiderio l’occhio alla vera luce, non sa a qual mèta dirigere le sue azioni. « Va, intimò il Signore ad Isaia, e dirai a questo popolo: Ascoltate voi che avete orecchi e non vogliate capire; e vedete e non vogliate intenderla » (Isai. VI, 9); che vuol dire, voi vedrete e voi udirete, ma non vorrete né intendere, né conoscere… perché il cuore di questo popolo è accecato, le sue orecchie sono turate, le sue palpebre incollate per timore che ha di vedere co’ suoi occhi, d’udire colle sue orecchie la verità, d’avere l’intelligenza, di convertirsi e d’essere guarito (Ib. VI, 10). Due cose formano l’accecamento spirituale : 1° Un attaccamento perverso alla propria volontà, che impedisce di ricevere la vera luce, con la quale Dio propone, spiega, e sufficientemente prova, sia per se medesimo, sia per mezzo de’ Profeti, degli Apostoli, o della Chiesa insegnante, le verità necessarie alla salvezza. Allora si imita colui che chiude ben bene e tura ogni, fessura dell’impannata, perché non penetri raggio di sole nella sua camera. 2° La mancanza della luce divina, mancanza provocata dalla volontà perversa; e da ciò ne segue l’impotenza morale di conoscere il vero. Un esempio parlante ce ne offrono i Giudei, i quali vedendo Gesù operare tanti miracoli, dovevano conchiuderne ch’Egli era il Messia ed erano quindi tenuti a credergli; ma essi vi si rifiutarono, ed in questo modo s accecarono: la cagione poi di questo loro rifiuto era l’avarizia, l’ambizione, l’invidia, l’orgoglio, ecc. che Gesù loro rimproverava. E se Isaia dice: « Accecate, o Signore, il cuore di questo popolo » (VI, 10), queste parole significano: Permettete che sia accecato: perché, propriamente parlando, è l’uomo che s’acceca e s’indura di per se stesso secondo che s’esprime in termini precisi la Sapienza: « La loro malizia li ha accecati » (Sap. II, 21). La causa positiva dell’accecamento spirituale è dunque la malizia di colui che sottosta a questo castigo. Iddio poi non acceca se non indirettamente, sottraendo a poco a poco agli empi la luce della verità e della grazia e permettendo, in punizione dei loro peccati, che le occasioni li trascinino nell’errore e nell’accecamento : e s’avvera di loro quel che dice Geremia: « Per costoro il sole è già tramontato in pieno giorno » — (IEREM. XV, 9). – Tutti i ciechi dello spirito, scrive S. Cipriano (Epist.), sono, come i Giudei, privi d’intelligenza e di saviezza; indegni della vita della grazia, essi l’hanno sotto gli occhi e non la scorgono. « Lasciandosi vedere a quelli che in Lui credono, soggiunge S. Leone, Gesù si nasconde a coloro che lo perseguitano coi peccati. Ed essi vengono colpiti da cecità spirituale, perché non comprendano la gravità dei loro misfatti, né s’inducano a pentirsene ». Volete vedere fin dove si spinge questo volontario accecamento di spirito? osservate, dice S. Agostino (Homil. in Evang.), il contegno dei Giudei in faccia a Lazzaro risuscitato: non potendo né celare, né mettere in dubbio il fatto, che cosa inventano? Nientemeno che d’ucciderlo. O insensato pensiero, o crudeltà avventata! Non vediamo noi tuttodì dei ciechi spirituali che volontariamente fuggono la luce? O non volesse Dio che fosse pur troppo così sovente! poiché tali sono coloro che schivano le chiese, le sacre funzioni, l’insegnamento della parola di Dio; tali, quei giovani che si rifiutano d’accogliere i buoni consigli d’un padre, d’una madre, d’un amico, di un pastore; tali coloro che s’allontanano dalla confessione, che s’espongono temerari alle occasioni prossime del peccato; tali quei genitori deboli e negligenti i quali o non mai, o di rado e rimessamente, correggono i loro figli, ecc.

4. Quanto cieco sia il peccatore. — 1° Il peccatore non vede perfettamente la malizia del peccato, perché se lo vedesse così deforme, così crudele, ecc. non gli basterebbe mai l’animo di abbandonarvisi. Il peccato l’inganna accecandolo. 2° Egli non comprende quel che fa peccando, giacché opera contro i lumi della sua intelligenza. « Una volta non eravate che tenebre » cioè peccatori, scriveva San Paolo agli Efesini (Eph. V, 8). Osservate che l’Apostolo chiama tenebre i peccati: 1° perché i peccatori non vedono volentieri la luce, ma desiderano le tenebre, perché il peccato è quanto v’ha di più vergognoso, e vile e degradante; 2° perché i peccati accecano la ragione… Il peccato trae sempre sua origine o dall’errore, o dall’imprudenza, o dal difetto d’esame, o dall’inavvertenza della ragione e dell’intelletto; allorché poi è commesso, istupidisce, acceca, falsifica la coscienza; e con ciò s’addensano ognor più le tenebre in mezzo alle quali il peccatore s’è inoltrato secondo la sentenza di S. Gregorio , « che nei peccati v’è densa caligine, e che quegli che li commette, è trascinato in fondo a fitte tenebre ». « Non peccate, scrive S. Agostino, e Dio che è il vero sole non cesserà di risplendere ai vostri occhi; se al contrario cadete in colpa, Dio tramonterà al vostro sguardo. Se vi piace godere della luce, siate voi medesimi puri e splendidi come la luce; ma se vi piacciono le tenebre e le tenebrose passioni, state certi che sarete da esse non solo oscurati, ma accecati ». I peccati hanno il nome di tenebre perché ne hanno tutta la somiglianza; infatti : 1° Le tenebre son la privazione della luce, e i peccati la privazione della grazia, la quale è alla nostr’anima e al nostro cuore ciò che è il sole alla terra. 2° Quegli che cammina fra le tenebre, non vede nulla e spesso mette il piede in fallo e cade; così pure per la strada della salute quelli che peccano non vedono nulla, cadono e si imbrattano. 3° Gli uccelli notturni fuggono la luce perché li abbaglia; i peccatori temono la luce di Dio e degli uomini, secondo le parole di Gesù Cristo : « Chi fa male, odia la luce » « affinché le azioni sue non siano riprese, corrette, castigate » (Ioann. Ili, 20). 4° I peccati sono anche chiamati tenebre, in quanto che sono opere del Demonio, principe delle tenebre. 5° Perché i più dei peccati si commettono nelle tenebre. 6° Perché nascono dalle tenebre, che vuol dire da un errore pratico, il quale porta il peccatore a credere che egli può carezzare la sua passione, per quanto vile ella sia ed anche a costo di perdere Dio, l’anima e i beni eterni: il che è senza contrasto il sommo della cecità, l’eccesso della follia. 7° Perché il peccato immerge sempre più lo spirito nelle tenebre., 8° Perché il peccato mortale conduce alle ultime ed eterne tenebre, che son quelle dell’Inferno. La luce è cosa salutare, anzi necessaria per la vita degli uomini e d’ogni creatura, mentre nocive e mortifere sono le tenebre: cosi pure la fede e la grazia di Gesù Cristo sono la sorgente della salvezza e procurano la vita eterna, mentre i peccati indeboliscono l’anima e le danno la morte. « Andranno brancolando come ciechi, dice Sofonia, perché peccarono contro Dio » (Sophon. I, 17). « Il cammino che battono gli empii è ingombro di tenebre, leggiamo ne’ Proverbi: essi non sanno né quando, né dove cadranno » (Prov. IV, 19).

5. Il mondo vive nella cecità spirituale. — «Gesù Cristo, scrive S. Giovanni, era la luce vera, la quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Egli era nel mondo e il mondo per Lui fu fatto, ma il mondo non lo conobbe. Egli venne in casa sua, e i suoi non lo ricevettero » (Ioann. I, 9-11). E Gesù Cristo anch’Egli diceva al Padre: « Padre santo, il mondo non vi ha conosciuto » (Ioann. XVII, 25). « Il mondo, scrive S. Bernardo, ha pur esso le sue notti, e non brevi e non poche. Ma che dico? il mondo ha le sue notti! mentre, ahimè! è egli medesimo una notte continua, e non vive se non nelle più cupe tenebre. E non è forse oscurissima notte la perfidia dei Giudei; notte l’ignoranza dei pagani; notte la depravazione degli eretici; notte la vita animalesca e sensuale dei non cattolici? non è il regno delle tenebre, là ove non si comprendono le cose divine? ». Leggiamo nella Scrittura che le tenebre coprivano la superficie dell’abisso (Gen. I, 2). Ora, il mondo è la superficie degli abissi infernali: esso è involto nel tetro fumo che si sprigiona copioso dalle fiamme eterne. « Le tenebre avvilupperanno il mondo, tenebrosa notte piomberà sui popoli. », possiamo dire con Isaia (Isai. LX, 2). Sta scritto che alla morte di Gesù « spesse tenebre si sparsero su tutta la terra » (Matth. XXVII, 45). Per i peccatori queste tenebre non sono ancora scomparse: le massime del mondo, la sua morale corrotta, i suoi scandali, la sua incredulità provano che esso sta sepolto nelle più orrende e pericolose tenebre. Quindi il real Profeta lo chiama « terra d’oblio » (Psalm. LXXXYII, 13).

6. Cause della cecità spirituale. — La prima cagione dell’accecamento spirituale sono le passioni: « L’occhio tuo, dice Gesù Cristo, è la luce del tuo corpo » (Matth. VI, 22). Quel che l’occhio è per il corpo, è l’intelligenza per l’anima; ma l’anima caduta sotto il giogo delle passioni non ha più intelligenza: ella è abbrutita… « A colui sul quale discende il fuoco della concupiscenza, dice S. Gregorio, è tolto di vedere il sole dell’intelligenza »; egli può ripetere a tutta ragione col Salmista, che le sue passioni l’hanno precipitato in una fossa profonda, tenebrosa, dove regna l’orrore della morte (Psalm. LXXXVII, 6). La seconda cagione della cecità spirituale sta nelle ricchezze. E che l’abbondanza dei beni materiali accechi l’anima, lo conobbero perfino i poeti pagani, i quali facevan Plutone, il Dio della mammona, cieco dalla nascita… – La terza proviene dalla tiepidezza, dall’accidia spirituale… La quarta è la corruzione del cuore. « L’insensato ha detto nel suo cuore: Non v’ha Dio» (Psalm. XIII, 1); e « quei che son corrotti, non vedono la luce » (Iob. IlI, 16). Quanto più si cade e si dorme nella colpa, tanto più lungi si parte da Dio, luce increata e sola origine d’ogni chiarezza. Altre cause dell’accecamento spirituale possono essere l’imprevidenza…, l’imprudenza…, l’orgoglio…, ma principalmente il Demonio.

7. Il demonio è la causa principale della cecità di spirito. — « Il Dio di questo secolo, scriveva S. Paolo ai Corinzi, ha accecato le menti degl’infedeli » (II Cor. IV, 4). Ora, il Dio del secolo è il Demonio che è il Dio di coloro che vivono a genio del secolo, non già che esso li abbia creati, ma perché coi funesti suoi suggerimenti per via di cattivi esempi li guida, e perché impera sopra di loro sovranamente. Egli è il padre della bugia, della superbia, dell’errore. Cominciò dall’accecare Adamo ed Eva, poi non ha cessato mai, nel corso dei secoli, d’accecare, per quanto gli venne potuto fare, gl’individui e le nazioni. Tutti coloro che obbediscono a satana, che a lui si dedicano, operano spinti dal più lacrimevole accecamento, perché dal demonio non è da aspettar altro che disgrazie, e in questa e soprattutto nell’altra vita. Non è una cecità che confina colla pazzia, che tocca alla frenesia, il gettarsi alla mercé d’un nemico crudele ed implacabile, di colui che fu omicida fin dal principio? esporsi alle zanne d’un leone furioso, d’un lupo arrabbiato? Ebbene, il demonio è tutto questo. Fate conto della quantità dei ciechi spirituali, della moltitudine di coloro che fanno la volontà del diavolo, che sono sue vittime…

8. Danni e disordini prodotti dalla cecità spirituale. — 1° L’accecamento spirituale uccide la fede… 2° Rende stupido l’uomo: ché il cieco dello spirito non gusta più nulla delle cose di Dio. Egli non si dà un pensiero al mondo per sapere donde viene, dove si trova, dove va… 3° Allontana la sapienza: essendosi il Signore protestato, per bocca d’Isaia, che tolto avrebbe la sapienza dai sapienti e sottratto da loro l’intelligenza (Isai. XXIX, 14). 4° Rende talmente indocili, che non s’obbedisce nemmeno più alla verità; che è appunto quanto rimprovera S. Paolo ai Galati, là dove dice loro: « O Galati mentecatti, che v’ha affascinati cosi che non obbedite più alla verità? » (Gal. III, 1). 5° Distrugge la vita divina, secondo quel detto dell’Apostolo agli Efesini: « Hanno l’intelletto ottenebrato, sono alieni dal vivere secondo Dio… a causa dell’accecamento del loro cuore » (Eph. IV, 18). « Se noi diciamo che siamo uniti a Dio, e frattanto camminiamo tra le tenebre, noi mentiamo », scrive l’Apostolo S. Giovanni (I Ep. I, 6): poiché, soggiunge S. Paolo, « qual comunanza vi può essere tra la luce e le tenebre? » (II Cor. VI, 14). 6° Fomenta tutte le tentazioni; ed a questo proposito si riferiscono le parole del Salmista: « Avete condotto con voi le tenebre, ed ecco che s’è fatta notte densa, e col favore di esse le belve del deserto scorrazzeranno alla preda » (Psalm. CIII, 20). I ladri cercano il buio; il demonio, che spoglia d’ogni virtù, gira del continuo in cerca di ciechi spirituali, e toglie a loro tutto ciò che possono avere. 7° I ciechi dello spirito precipitano d’abisso in abisso; s’inoltrano di delitto in delitto; si sprofondano nel male, e sono immersi in ogni sorta di brutture finché vi periscono soffocati. Come cadaveri nel sepolcro finiscono nella putrefazione. 8° L’accecamento spirituale termina finalmente nell’induramento.

9. Quanto sventurati siano i ciechi spirituali. — Siccome il cieco spirituale non conosce il suo stato, non procura di uscirne: egli si crede di non aver bisogno di nulla, e non s’avvede che è povero, miserabile e nudo. – In mezzo alla, sua grandezza, dice il Salmista, l’uomo non ha compreso il suo destino: s’è uguagliato agli animali senza ragione, e la strada che tiene lo mena all’accecamento (Psalm. XLVII1, 13-14). E di lui può ripetersi col medesimo re Profeta « che va errando pel deserto del vizio e non trova il cammino alla volta della città delle virtù» (Psalm. CVI, 4); simile a quei simulacri che hanno bocca, e non parlano; occhi, e non vedono; orecchie, e non odono; narici, e non odorano; mani, e non toccano; piedi, e non si muovono; gola, e non profferiscono suono (Psalm. CX1II, 13-10). Considerate, scriveva S. Paolino a Severo, la condotta dei ciechi spirituali, e voi li rassomiglierete ad un giumento cieco, che gira del continuo movendo una mola. Dopo essersi rotti di fatica ogni giorno, arriveranno alla morte senza aver dato un passo verso il Cielo (Epl. IV). O ciechi figli d’Adamo! perché preferite le cose caduche alle imperiture, l’esilio alla patria, la terra al Cielo, la creatura al Creatore, il vizio alla virtù, uno straniero a Gesù Cristo, il demonio a Dio, il tempo all’eternità, la morte alla vita? Perché avventurarvi, per un abbietto e breve piacere, alle angosce, ai dolori, ad una morte disgraziata, e al fuoco dell’Inferno?

10. Castighi dell’accecamento spirituale. — 1° L’accecamento spirituale provoca la collera di Dio. « S’oscurino gli occhi loro, così impreca il Salmista, affinché non vedano, e portino sempre curvo il dorso sotto il peso della schiavitù. Versate su loro, o Signore, la vostra ira, e il furore della vostra collera li investa » (Psalm. LXVIII, 24-25). 2° Dio abbandona il cieco spirituale, secondo la minaccia fattane già dal Signore per bocca di Davide : «Il mio popolo non ha udito la mia voce, Israele non ha prestato orecchio alle mie parole, ed io l’ho abbandonato ai desideri dei suo cuore, per ciò camminerà secondo i suoi vani consigli » (Psulm. LXXX, 10-11). « Si, io mi ritirerò dà lui, gli nasconderò la mia faccia, ed egli cadrà preda di ogni genere di mali, sarà bersaglio di tutte le afflizioni » (Isai. LVII, 17). 5° Il cieco spirituale si castiga da se stesso, ripetendosi su di lui, quello che S. Paolo disse già al mago Elimas : « Ecco che la mano del Signore cade sopra di te, e sarai cieco, sì da non iscorgere nemmeno più il sole » (Act. XIII, 11). Il cieco nello spirito si rifiuta di vedere; ebbene la mano di Dio si aggrava sopra di lui, e l’accecamento diventa la sua pena, il suo più terribile castigo. E quei che è più, questa pena è un male non temperato da nessun bene, per quanto piccolo: egli soffre, ma senza merito; i patimenti che prova, e che sono essi medesimi uno spaventoso castigo, diventano delitto, di guisa che egli si trova punito non solamente per aver chiuso gli occhi alla luce, ma ancora per quel che patisce, non patendolo se non perché l’ha voluto. 4° Il Cielo è chiuso per sempre al cieco spirituale: «Non hanno voluto conoscere le mie vie, dice il Signore per bocca del Salmista, ed io ho giurato nel mio sdegno che non entreranno mai nel luogo del mio riposo » (Psalm. XC’IV, 11). – Si racconta nel Genesi che gli Angeli colpirono di cecità gl’infami abitanti di Sodoma, per modo che non poterono più trovare la porta dell’abitazione di Loth (Gen. XIX, 11). Questo appunto è il castigo che Iddio infligge ai ciechi spirituali: essi non trovano più la via, né la porta del Cielo… 5° Il cieco spirituale discende all’Inferno e dalle tenebre della cecità piomba in quelle dell’eternità infernale. (Matth. VIII, 12). « Dandosi in braccio ai colpevoli piaceri di questa vita, che altro fa l’anima peccatrice, dice S. Gregorio, se non gettarsi a occhi chiusi nel fuoco eterno? ».

11. Rimorso dei ciechi spirituali. — Udite quello che v’annunzia la Sapienza: « Gli empi, gli accecati dello spirito, andranno vergognosamente per terra, e tra i morti saranno in eterna ignominia: perché Dio li renderà muti e li prenderà e li scuoterà dai fondamenti, e li ridurrà in estrema desolazione, ed essi saranno in gemiti, e andrà in fumo la loro memoria. Entreranno tutti sbigottiti nel pensiero dei loro peccati, e le loro iniquità stando incontro di essi li convinceranno » (Sap. IV, 13-20). « Allora i giusti si leveranno con grande fermezza contro quelli che li vessarono, e depredarono le lor fatiche. A questa vista gli empi saranno colti da spavento orrendo; e resteranno stupefatti della inaspettata repentina salvezza di quelli e, tocchi da rimorso, e gemendo affannosi, diranno dentro di sé: Questi son coloro che noi un dì avemmo come oggetto di scherno ed esempio d’obbrobrio! Noi insensati! la vita loro tenemmo per una pazzia, e come disonorato il loro fine; ed ecco ch’eglino son contati tra i figliuoli di Dio, ed hanno parte con i Santi. Noi dunque smarrimmo la via del vero, e non rifulse per noi la luce della giustizia, e non si levò per noi il sole dell’intelligenza. Ci stancammo nella via dell’iniquità e della perdizione, battemmo strade disastrose e non conoscemmo la via del Signore » (Sap. V, 1-7). Da queste parole si rileva che un triplice errore ed una triplice follia si rimproverano i ciechi spirituali. 1° D’essere stati raminghi fuori della strada del vero 2° D’aver operato in guisa che la luce della giustizia, cioè della ragione e della prudenza, non risplendette per loro: avendola essi volontariamente negletta e preferito le tenebre 3° D’essersi meritato che il sole, cioè Dio, e Gesù Cristo, il quale illumina ogni uomo che viene al mondo, non sorgesse per loro: perché essi rifiutarono d’aprire a Lui il loro cuore. « Questa è vera pazzia, scriveva S. Cipriano, non conoscere che le ingannatrici passioni non ingannano a lungo. La notte dura finché non compare sull’orizzonte l’astro del giorno, ma levato ch’ei sia, bisogna pure che le tenebre si dissipino, e cessino i latrocini che col favor delle medesime si commettevano ». O ciechi dello spirito! verrà giorno in cui vi pentirete, ma tardi e senza pro. Aprite gli occhi e comprendete mentre v’è dato farlo: lavorate fino a tanto che splende il giorno; accettate la grazia quando vi viene offerta, per timore che imitando le vergini stolte, non abbiate anche da partecipare della loro misera sorte, e avendo al par di loro lasciato spegnere la luce della vostra intelligenza, la cerchiate poi tra il pianto, e non riusciate poi a trovarla. Deh! temete che, esclusi dalle nozze celesti, non vi sentiate rivolgere dal sovrano giudice, Gesù Cristo, quelle tremende parole: «Vi affermo che non vi conosco» (Matth. XXX, 12).

12. Mezzi con cui si guarisce della cecità spirituale. — Per guarire della cecità spirituale bisogna: 1° Vivere della verità…, dell’immortalità…, dell’eternità… 2° Pregare. « Dio mio, gridava il Salmista, dissipate le tenebre che m’ingombrano l’intelletto…, illuminate del vostro chiarore i miei occhi, affinché non mi aggravi il sonno della morte, e l’avversario mio non possa una qualche volta dire: Ecco ch’io l’ho vinto » (Psalm. XVII, 28) (Psalm. XII, 4-5). 3° Appressarci a Dio e tenerci accanto a Lui, perché Egli c’illuminerà, secondo la parola di Davide (Psalm. XXXIII, 5). 4° Aprire le orecchie e gli occhi alla fede (Isai. XLII, 18).
5° Scuotere la pigrizia spirituale, sorgere dall’accidia. « Lèvati su, Gerusalemme, gridava Isaia, e sii illuminata perché la, tua luce è spuntata e la gloria del Signore è a te venuta » (Isai. LX, 1). 6° Non tardare a mettersi all’opera, approfittando dell’avviso del Salvatore: « Camminate mentre avete la luce, e affrettatevi che la notte non vi sorprenda » (Ioann. XII, 35). 7° Andare a Gesù che è la via, la verità, la vita: e chi lo segue, non cammina, nelle tenebre, ma avrà la luce della vita. (Ib. XIV, 6).

LEGITTIMITA’ E RISULTATI DELLE CROCIATE.

[Mons. J. Fèvre: LÉGITIMITÉ ET RÉSULTATS DES CROISADES – LA SEMAINE DU CLERGÉ, Parigi, maggio 1873]

 Dopo le guerre per le investiture e dell’impero, l’avvenimento più grande del Medio-evo è, senza dubbio, quello delle Crociate. – Non c’è un fatto storico che manifesti così perentoriamente la potenza dello spirito cristano, il regno della Chiesa nel Medio-Evo e la supremazia del Papato, per cui dei popoli si levano in massa alla voce di un Pontefice disarmato, al fine di liberare il Santo Sepolcro: quale gloria per il Cristianesimo! Per questo motivo, il gallicanesimo del XVII secolo, l’empietà del XVIII ed il razionalismo del XIX secolo, si sono messi con tenacia a recriminare contro le crociate [nel XX e inizio XXI secolo a questi si sono aggiunti tutti gli imbecilli laico-progressisti social-comunisti, i radical schic sinistrorsi del pensiero unico dominante, gli storici falsificanti massonizzati, laici e finti chierici usurpanti! – ndr.-]. Le Crociate, essi dicono, non erano altro che eccessi di fanatismo, il disprezzo flagrante dei diritti dell’islam, delle barbarie senza ombra di pretesto e senza un utile ritorno. Illegittime nei loro principi, sterili nei loro risultati, tali sarebbero state le Crociate. « L’uomo oltraggia, dice lord Byron, ed il tempo vendica. »  Dopo due secoli di ingiurie, il progresso “onesto” degli studi storici, conduce non alla vendetta, bensì alla giustizia. Noi cerchemo di illustrare i benefici delle crociate, dimostrando la perfetta legittimità di queste spedizioni, nonché l’immensità provvidenziale dei loro risultati. Dapprima però, cerchiamo di comprendere cosa si intenda per Crociate. Come nostra prima idea, la Crociata non è altro che il mistero della Croce, meditato e realizzato, messo in pensieri ed in azione in tutta la loro estensione, non da un individuo solo, né da un’unica nazione, ma dalla intera Cristianità, da tutto il Corpo mistico di Gesù Crocifisso e Resuscitato. «  Era necessario che il Cristo soffrisse ed entrasse nella sua gloria. » Ciò che era necessario per Gesù-Cristo, lo è ancor più per l’umanità rigenerata. In ogni uomo si agitano gli istinti contrari del vecchio e del nuovo Adamo. Nel mondo si elevano le due città costruite dai due amori. La terra è un campo di battaglia ove si compie la lotta dei due “uomini” e delle due città. La Chiesa, incarnazione permanente di Gesù-Cristo, è sempre attaccata, sempre nella necessità di difendersi e, con la forza del suo principio vitale, sempre vittoriosa nei suoi sacrifici. [come lo sarà ancora tra breve dopo l’attuale “eclissi” –ndr. -]. Partendo da questa idea generale, si intende per Crociata una spedizione militare in cui i soldati hanno per bandiera la Croce, e come scopo diretto il bene della religione; – e più in particolare, queste spedizioni militari, intraprese dai principi cristiani nel medio-evo, per punire e riparare la profanazione dei luoghi santi ed assicurare, con la conquista della Palestina, il libero accesso alla Terra Santa. Le crociate, prese nel loro ultimo senso, non sono, come spesso si è detto, un episodio interessante del Medio-evo; esse sono invero, per così dire, il focolaio, il punto centrale dal quale emanano tutti i raggi della forza  vitale e dell’azione civilizzatrice.

I.

Le Crociate sono legittime, si possono giustificare agli occhi della ragione, della politica e della Chiesa? Il principio di diritto, per la Chiesa, è nella divinità della sua origine e la missione del suo stabilirsi. « Mi è stata data ogni potenza in cielo e sulla terra, dice Gesù-Cristo; andate, insegnate a tutte le nazioni, » Secondo queste parole, la Chiesa non solo ha il diritto, ma il dovere di inviare dappertutto i suoi Apostoli; ed Ella gode, per proteggerli, soccorrerli, e al bisogno vendicarli, della potenza del Salvatore. Se i suoi Apostoli sono accolti, si stabilise una chiesa tra i popoli in predenza seduti all’ombra della morte. Se i suoi Apostoli sono respinti, la Chiesa ha diritto non di imporre la fede con la forza, ma di far rispettare con la forza i suoi missionari. Se i suoi Apostoli sono sgozzati, la Chiesa ha il diritto di domandare il riscatto del loro sangue. Un altro principio di diritto, per la Chiesa, o piuttosto l’applicazione del diritto constatato in precedenza, sono le assurde e funeste superstizioni che seducono i popoli inflici. La Chiesa è inviata per salvare i peccatori, e più è grande la degradazione dei peccatori, più è necessaria l’impegno che deve salvarli. Secondo questo principio, non si può dire che il Cristianesimo abbia il diritto di liberare, anche con la forza, un povero popolo di una religione che autorizza la schiavitù, la poligamia, l’infanticidio, e che rende impossibile ogni civilizzazione? Un filosofo lo dice con finezza tale che ci dispensa da altre prove: « Si fa la guerra per avere la libertà di comprare la polvere di cannella, e non si ha il diritto ugualmente di farla per la difesa della virtù e della propagazione della verità, per salvaguardare la dignità dell’uomo e la prosperità della terra. » [Bacon, De Bello sacro, Citato in “Dimostrazioni evangeliche” di Migne]. Quando noi diciamo che la Chiesa ha il diritto di mettere la forza al servizio della giustizia, noi non pretendiamo che la Chiesa faccia indossare la corazza ai suoi sacerdoti. Coloro che sono arruolati nella milizia di Cristo non si interessano delle armi secolari. Noi vogliamo dire però che la Chiesa, pur avendo il diritto radicale di usare la forza, può, se Essa lo giudica utile ed opportuno, fare appello alle Potenze cattoliche per sostenere o rivendicare i suoi diritti. Una volta riconosciuti questi princȋpi, la questione si riduce a questi termini: la Chiesa che nel Medio-evo si trovava in presenza del maomettismo, era nella condizione di usare i suoi diritti? Per saperlo, bisogna esaminare la situazione rispettiva di queste due potenze. Tutto il mondo sa, che agli occhi del Corano, ogni non-musulmano è un “giaurro” [termine dispregiativo usato dai musulmani nei confronti dei non musulmani, soprattutto Cristiani], infedele, e che contro di lui la guerra è santa. Dapprima puramente difensiva, questa guerra, dopo i successi iniziali, divenne aggressiva, animata da una insaziabile sete di conquista. Verso i pagani, la condotta del Profeta era: « Credi o muori. » Ai credenti della scrittura, giudei o Cristiani, la guerra doveva essere fatta fino a che essi divenissero tributari. Così il combattere per la fede diviene obbligatorio per tutti i musulmani, senza eccezioni: chiunque, non malato o inabile, se ne esentasse, era destinato all’inferno! « Il paradiso è sotto l’ombra della spada, diceva Maometto. “È meglio combattere che pregare settanta anni nella propria casa”, “andare una volta alla guerra santa vale più di cinquanta pellegrinaggi”; “una ferita è sufficiente per ricevere da Dio il sigillo del martirio”; “i martiri in cielo aspirano a tornare sulla terra per perirvi ancora dieci volte sul cammino di Dio, istruiti delle ricompense legate ad una tale morte”. – Con simili immagini, e con il fanatismo delle sue predicazioni, il novatore aveva acceso i fedeli di un ardore guerriero che doveva minacciare tutti gli imperi. Ne consegue che la dichirazione di guerra è permanente nel maomettismo, contro tutti i non-musulmani; da ciò segue ancora che tutti i non-musulmani sono riconosciuti dai credenti in diritto di attaccare per prevenire le aggressioni che, più tardi, non saprebbero probabilmentee evitare. Quando il maomettismo, in parte con la parola,  in parte con la scmitarra, ebbe riunito nell’unità di uno stesso culto le tribù feticiste dell’Arabia, lanciò le sue orde da un lato verso la Persia, l’India, la Palestina, la Siria e l’Asia minore, dall’altra sull’Egitto, il litorale settentrionale dell’Africa, la Spagna ed il paese dei Franchi. I suoi soldati, piombando sui popoli minati dalla corruzione o infettati dall’arianesimo, fecero rapide conquiste. Venne il giorno tuttavia che essi attaccarono i figli della Chiesa ove trovarono ad arrestarli: il petto degli eroi di Cavadonga e di Poitiers e le falangi veglianti dei crociati. La storia attesta dunque che i devoti dell’islam furono gli aggressori, e che i Crociati, respingendoli, non fecero che attuare la loro legittima difesa. Inoltre il maomettanesimo, sempre armato, marciava contro il Cristianesimo senza tener alcun conto delle più elementari nozioni dei diritti delle genti. Con esso non c’era pace se non quando non potevano attaccare. Poiché si sentivano forti, si lanciavano negli attacchi senza preavvisi né alcuna dichiarazione di guerra. Nei combattimenti, essi impiegavano strumenti di guerra vietati dall’umanità; popo la vittoria sottoponevano i prigionieri alla barbarie più orribili. La Chiesa poteva dunque, ed anzi doveva armarsi contro questo nemico selvaggio, ed applicare in tutto il suo rigore le leggi delle dodici tavole: “Adversus hostem, æterna auctoritas esto”. Per la crudeltà, ed anche per la sua audacia, l’islam aveva conquistato la Spagna, stava per invadere l’Italia, minacciava il Bosforo. Conquistando i Darfanelli ed i Balcani, la valle del Danubio li avrebbe introdotti nel cuore dell’Europa se per arrestarli non ci fosse stato né Vienna, né la Polonia di Jagellone, né i cavalieri teutonici. I fratelli della Spagna ed i vincitori dell’Italia portarono ad arrestare l’avanzata. Per evitare le Crociate, bisognava subire l’avanzata o mettere il turbante. C’era dunque, per la Cristianità, non solo il diritto, ma la necessità di attaccare il maomettismo. E la legislazione del corano, gli attacchi dell’islam, le sue crudeltà, le sue conquiste, le sue minacce, sono altrettante ragioni che legittimano le crociate. – Per completare questa dimostrazione, occorre stabilire il diritto particolare che avevano i Cristiani di correre in soccorso della Terra Santa: le Crociate avevano lo scopo primario di liberare la tomba di Gesù-Cristo. La Terra Santa appartiene ai Cristiani per il possesso che ne ha fatto Gesù-Cristo. Bethleem, Nazareth, il Calvario, la santa Grotta, i luoghi ove furono la culla del Salvatore e la sua Croce, sono di proprietà mistica dei suoi discepoli. Questo cade tanto bene sotto il senso che mai l’islam, malgrado il suo odio, lo ha mai contestato; ed oggi ancora, malgrado le eresie e gli scismi che affliggono i Cristiani, noi li vediamo tutti dediti a raccogliere la loro parte della santa Eredità. Noi Cattolici, che troviamo in questa eredità tanto il soggetto di duolo, noi dobbiamo almeno avere, pur nella competizione delle sette, la conoscenza non interrotta del principio dei nostri diritti. Questa proprietà mistica era sotto la salvaguardia del diritto pubblico. Durante le persecuzioni, i Cristiani non avevano cessato di conservare la maggior parte dei luoghi santificati dala Passione di Gesù-Cristo. Costantino e sua madre Elena, li avevano ristabiliti nell’integrità dei loro diritti e avevano aggiunto a questo atto di giustizia i più nobili marchi della munificenza imperiale. L’impero greco di Costantinopoli aveva naturalmente aggiunto a questo diritto di proprietà la consacrazione del diritto politico. Il califfo Omar, nelle capitolazioni, aveva riconosciuto agli abitanti di Gerusalemme, con la consacrazione dei loro beni, la conservazione dei loro beni, la conservazione e l’uso esclusivo dei Luoghi Santi. Infine, per meglio riconoscere il diritto dei Cristiani, l’amico di Carlo Magno, Haroun-al-Raschid, aveva aggiunto al testo delle capitolazioni come omaggio pubblico di vassallato, inviando al grande Imperatore di Occidente, le chiavi del Santo Sepolcro. Senza misconoscere il diritto dei Cristiani, i musulmani, sotto i fatimiti e il furore di una setta fanatica, inflissero loro ogni sorta di vessazioni e di ingiurie. Le lettere dei Cristiani di Oriente e d’Occidente, i discorsi di Pietro l’eremita e di Urbano II fanno un quadro drammatico degli abomini che si compivano in Gerusalemme. Poiché questi rapporti e discorsi potrebbero essere tacciati di esagerazione, – perché è proprio del dolore esaltare la sensibilità, – noi citiamo un “asettico” rapporto diplomatico, la lettera di Alessio Gomnenio ai principi d’Occidente. « I turchi ed i pincinai invadono il nostro impero, dice il cesare bizantino; le cose sante ed i fedeli di Gerusalemme sono ogni giorno l’oggetto di nuovi oltraggi. Sui fonti battesinali i barbari, in disprezzo al Salvatore, fanno colare il sangue dei nostri bambini e dei nostri giovani sotto i ferri della circoncisione. Essi oltraggiano le nobili matrone come dei vili animali; disonorano le vergini sotto gli occhi delle loro madri costrette ad applaudire e a cantare canzoni empie e licenziose. I Babilonesi, tra gli altri scherni, dicevan al popolo di Dio: “Cantateci i cantici di Sion”. Qui le madri sono costrette a cantare il disonore delle loro figlie! È piuttosto il caso di piangere con Rachele. Ancora le madri degli innocenti sgozzati da Erode, se dovevano da un lato piangere la loro morte, potevano consolarsi con la salvezza delle loro anime. Ma qui, nessuna consolazione, perché periscono i corpi e le anime. Che diremo ancor noi? Ci sono cose ancor più spaventose. I turchi, perché bisogna dirlo, costringono ad essere assecondati nel crimine di Sodoma; essi vi costringono gli uomini di ogni età e di ogni condizione. Essi profanano i luoghi santi in mille modi, li distruggono minacciando di fare peggio. Chi non verserà una lacrima al racconto di tanti mali? » Questi barbari hanno invaso quasi tutti i paesi, da Gerusalemme fino alla Grecia, tutte le regioni superiori dell’impero greco, le due Cappadocie, le due Frigie, la Bitinia, Troia, il Ponto, la Galazia, la Libia, la Pamfilia, l’Isauria, la Licia, con le prinipali isole; non mi resta che Costantinopoli, che essi minacciano di invadere quanto prima, se Dio ed i Latini non vengono in nostro soccorso; perché già con duecento navigli, che essi hanno fatto costruire da prigionieri greci, si sono impadroniti di un luogo importante sul Propontide, da cui minacciano di prendere ben presto Costantinopoli da terra e dal mare. Noi vi preghiamo dunque, per l’amore di Dio e per compassione di tutti i Greci che sono Cristiani, di raccogliere tutti i guerrieri cristiani che potrete, e venire in nostro soccorso; affinché, come questi guerrieri hanno già cominciato a lberare i Galli e gli altri reami dell’Occidente dal giogo dei pagani, si sforzino di liberare parimenti l’impero greco per la salvezza delle loro anime; perché, per me, benché sia imperatore, non posso trovare né rimedio né consiglio; incessantemente io fuggo davanti ai turchi e i pincinati; io non resto in questa città aspettando che si avvicinino. Preferisco di più essere sottomesso ai Latini che diventare il giocattolo di questi barbari pagani. – Prima che Costantinopoli sia presa da essi, voi dovete dunque combattere con tutte le vostro forze, alfine di ricevere nello stesso tempo la ricompensa gloriosa ed ineffabile del Cielo. » Così il diritto dei cristiani sui Luoghi Sacri, le crudeltà di cui sono oggetto, il loro grido di dolore spinto verso l’Occidente, l’appello dell’imperatore d’Oriente, sovrano politico della Terra Santa, la decisione di due Concilii di Piacenza e di Clermont, l’appello di Urbano II e dei suoi successori, sono tanti fatti il cui fascicolo prova invincibilmente la legittimità delle crociate. Questa legittimità tanto sentita in questa epoca, fece sì che tutti, principi e popoli, rispondessero all’appello. L’Eurosa subì un impulso generale; essa aveva l’energia della fede e la fibra del guerriero. Piuttosto queste risorse si sono poi indebolite o sono venute meno. – Le crociate si sono dunque fatte in virtù del diritto di proprietà, del diritto politico di attacco e di difesa, del diritto ecclesiastico, del diritto delle genti; esse si sono fatte nell’ora della Provvidenza.

III.

Per apprezzare nel fondo la legittimità delle Crociate, non è sufficiente invocare i principi del diritto ed i fatti storici, non è sufficiente guardare verso terra; bisogna altresì alzare lo sguardo al Cielo. Le Crociate sono un avvenimento molto grande per non avere il sigillo divino. Dio, che le ha visibilmente preparate, ha voluto rivestirle di testimonianze autentiche della sua approvazione. Michaut, che ne ha scritto la storia con spirito di umiltà quaranta anni or sono, ne ha conservato le prove. Sfogliando le vecchie cronache, troviamo altri fatti meravigliosi che attestano tutti che le Crociate erano volute dall’Alto. Quando Pietro l’eremita pregava nella chiesa del santo Sepolcro, per il successo del suo ritorno, si addormentò, dice Guglielmo di Tyr, e vide in sogno Gesù Cristo che gli diceva: « alzati Pietro, esegui la tua commissione, senza nulla temere, perché Io sarò con te! È tempo che i Luoghi Santi siano purificati ed i miei servi soccorsi. » Al concilio di Clermont, quando Urbano II finì di parlare, l’agitazione fu molto grande; ben presto si udirono le acclamazioni: Deus lo volt! Deus lo volt! Noi ricorderemo a quresto proposito l’adagio conosciuto: “vox populi, vox Dei”; diremo ancora che questa acclamazione, che doveva diventare il grido di guerra dei Crociati, non ha potuto essere composto che per un istinto divinatorio. Da dove poteva venire, se non dal Cielo una simile ispirazione? Nella sede di Antiochia, quando i Crociati dimenticarono lo scopo del loro santo pellegrinaggio, apparve un segno dal cielo verso Oriente; un terremoto venne a richiamarli ad un sentimento più chiaro ed espresso del loro dovere. – Dopo la presa della città, i crociati, da che erano assedianti, divennero assediati con vigore. Un disertore, avendo voluto uscire da Antiochia, incontrò Gesù in persona. Gesù gli promise che l’assedio sarebbe stato tolto prossimamente. In altra sede, sant’Ambrogio apparve ad un venerabile prete e gli assicurò che i Cristiani, dopo aver abbattuto tutti i loro nemici, sarebbero entrati vincitori in Gerusalemme, ove Dio si riservava di ricompensare la loro dedizione. Un ecclesiastico lombardo, avendo trascorso la notte in una chiesa, vide Gesù accompagnato da Maria e dal Principe degli Apostoli. Il Figlio di Dio irritato per la condotta dei Crociati, rigettava le loro preghiere; avendo la Vergine placata la sua ira: «Alzati, dice Gesù al prete lombardo; fa conoscere al mio popolo il ritorno della mia misericordia. » Un prete marsigliese, chiamato Barthélemi, vide per tre volte sant’Andrea, ed ogni volta l’Apostolo gli diceva di andare nella chiesa di San Pietro, di scavare a destra dell’altare maggiore ove avrebbe ritrovato la lancia che aveva squarciato il fianco del Redentore. Si scavò, ed effettivamente si trovò questa lancia, « … ed io che scrivo, dice Raimondo d’Agiles, man mano che il reperto usciva dalla terra, lo baciavo devotamente. » – Presso la sede di Gerusalemme, in mezzo alle vicissitudini dell’assalto, si vide all’improvviso apparire, sul monte degli Ulivi, un cavaliere che agitava uno scudo dando all’armata cristiana il segnale per entrare in città. Goffredo, che lo intravide per primo, esclamò che San Giorgio veniva in soccorso dei Cristiani. La vista el cavaliere celeste, infiammò i cristiani di un nuovo ardore; essi tornarono alla carica e la sera stessa la città cadde in loro potere. Non citeremo altri fatti. Gli storici moderni, anche cristiani, suppongono che queste apparizioni non fossero che l’effetto di una immaginazione malata. Noi al contrario crediamo, dice Rohrbacher, che dopo i sacrifici dei Cristiani ed in mezzo alla loro afflizione, fu permesso, naturalmente alla fede cristiana, di credere che Dio inviasse ai suoi servi scoraggiati, come al Cristo agonizzante, dei messaggeri per ridar loro forza e coraggio. Secondo noi, attenendoci solo ai fatti riportati da testimoni oculari, vediamo, in questa serie di meravigliosi avvenimenti, la prova che le crociate fossero volute da Dio.

IV.

Quali furono i risultati delle Crociate? Il movimento dei Crociati tenne l’Europa in suspens per più di tre secoli. La prima grande spedizione, secondo le valutazioni di Foucher de Chartres, mise sul cammino della Terra Santa circa sei milioni di crociati. Le successive spedizioni, meno numerose, è vero, non lasciarono però all’Oriente prevedere un termine agli sforzi di una moltitudine di Cristiani. Se è vero che la civilizzazione cammina con le armate, dobbiano naturalmente credere che i Crociati, con i rapporti stabiliti, modificarono profondamente la situazione del mondo. Forse non è temerario dire che esse furono lo strumento scelto dalla Provvidenza per l’avanzamento dell’umanità. Si cita volentieri, a questo soggetto, la parola di M. de Maistre: « Nessuna crociata riuscì in pieno, anche i bambini lo sanno; ma tutte sono riuscite, e questo è quanto gli uomini stessi non vogliono vedere » L’antitesi è falice, ma non è vera che a metà. Nessuna crociata è andata fallita. Lo scopo primario di queste spedizioni era quello di onorare la Croce della tomba del Salvatore, di punire e riparare le profanazioni che vi facevano i saraceni, di riconquistarli con la forza, ridando ai Cristiani di Occidente il libero accesso ai Luoghi Santi. Questo scopo è stato raggiunto fin dall’inizio e non se ne sono poi mai persi i vantaggi conseguiti. Se le Crociate hanno fallito nella conquista della Terra Santa e nel ristabilimento definitivo del regno di Grusalemme, occorre dire che questo reame e questa conquista non erano, agli occhi della loro prudenza, che un mezzo per assicurare la fine delle Crociate. Almeno essi hanno ottenuto ciò a cui aspirava la loro pietà verso il Santo Sepolcro e la loro carità verso i Cristiani d’Oriente. Infatti, l’ “uomo propone e Dio dipone”, e bisogna essere fortemente ciechi per non riconoscere in questi relativi insuccessi le vedute sempr magnifiche della Provvidenza. A nostro umile avviso, la riuscita è stata pari a quanto si poteva desiderare: conservando i nostri diritti sui Luoghi Santi, noi abbiamo perso Gerusalemme. Il turco, padrone della Palestina, l’ha votata alla sterilità; così si compiono le profezie di rovina e di Gloria che riguardano il santo Sepolcro. È una armonia provvidenziale che i Cristiani soffrono sul teatro della Passione. Grazie alle loro umiliazioni, i Cristiani conservano per i Luoghi Santi sentimenti di vera pietà. Chissà, se noi fossimo rimasti padroni di Gerusalemme, forse la civilizzazione vi avrebbe portato le sue follie e le sue snervanti mollezze. Il Paese sacro per eccellenza sarebbe stato disonorato per la mal condotta dei Cristiani. – Le Crociate hanno tuttavia portato indirettamente degli immensi risutati: religiosi, politici, scientifici e letterari. Procediamo a farli conscere.

V.

Parliamo inizialmente dei riultati religiosi. Il primo, è di avere, con una diversa potenza, arrestata la tendenza razionalista che cominciava a sorgere nell’Europa cristiana. L’uomo non resta senza grande virtù nella semplicità della fede. Nel suo spirito c’è un fondo di inquietudine che lo spinge a scrutare le cose nascoste, ed in questo spirito un fondo di debolezza che non gli permette di scoprirlo sempre, o se lo scopre gli impedisce di sopportarne lo splendore senza esserne abbagliato. Nel X secolo, questo male cominciava a manifestarsi. Scott Eriugena e Gotescalco erano caduti in eresia. La vicinanza degli arabi faceva temere per la temerarietà dei sapienti, il contagio di falsi principi. Il movimento guerresco dei Crociati tagliò corto questo movimento di idee. Il pensiero Cristiano, depurato da errori e non esausto da dispute, guardò questa forte lucidità a ciò che irradiava nei capolavori innumerevoli del XIII secolo. Un secondo risultato religioso delle Crociate fu quello di aver rsvegliato la fede con la potenza delle idee che esprimevano e facendo fare a grandi colpevoli delle grandi espiazioni. La fede, anche se pura, tende incessantemente nell’uomo e deviare, sia per il semplice fatto dell’infermità umana, sia per l’influenza delle cattive inclinazioni sulle convinzioni. Nel Medio-evo, questa seconda causa esercitava sui Crociati una funesta influenza. L’uomo rude di questa epoca aveva la fede robusta e delle passioni violente; a dispetto di una fede che non doveva suscitare se non dei rimorsi, questi commetteva spesso i crimini più grandi; quando i predicatori vennero a lui, con la croce in mano, e gli parlarono di Gesù morto e del suo Sepolcro oltraggiato, la sua coscienza si risvegliò. I signori vendevano le oro terre per farne delle fondazioni pie, e con il ricavato dalle vedite contribuirono alle spese della spedizione, sopportandone così il carico maggiore. Il contraccolpo di queste penitenze fu, con un salutare rilassamento dela disciplina, il far sparire le istituzioni penitenziali della Chiesa primitiva, create solo in vista di bisogni passeggeri. Il Pellegrinaggio, le fondazioni, furono da allora una delle istituzioni pubbliche di penitenza. Un altro risultato fu quello di avere eccitato la pietà per il numero di immense reliquie che fu portato dalla Palestina in Europa. I viaggiatori che hanno visitato il Belgio o le rive del Reno conoscono bene questi preziosi tesori. Ed il cristiano che ha baciato una volta la traccia di sangue e le ossa di un martire sa quale virtù ne fuoriesce per animare la pietà. Inoltre queste Crociate, sempre predicate, dirette da lontano dai Papi, contribuirono grandemente all’esaltazione del Papato. In mezzo a questa spedizioni, l’Europa era come una anfizionia, una lega, che aveva come presidente il successore di San Pietro. Questa elevazione della Cattedra Apostolica doveva concorrere efficacemente allo sviluppo della civilizzazione cristiana per non essere considerata patrimonio religioso delle Crociate. – Infine, le crociate, dopo aver dato ai fasti militari di tutti i popoli. i nomi di grandi guerrieri, legarono alla Chiesa gli ordini militari. Gli ordini militari del Tempio, di San Giovanni di Gerusalemme, dell’Ordine Teutonico, di Calatrava, di Aire, sono la continuazione delle Crociate. Questa meravigliosa associazione della vita monastica e della vita religiosa, sostenendo sempre più la Croce contro gli sforzi della mezzaluna, rese alla Cristianità illustri servizi.

VI.

Dei i risultati sociali delle crociate, noi menzioniamo soltanto i due più importanti: la cessazione delle guerre private e la repressione del maomettismo. Prima di essere addolcite dal Criatianesimo, dice Rohrbacher, le popolazioni che compongono l’Europa non amano che la guerra. Il franco, il goto, il lombardo, il sassone, il vandalo, non lasciano mai la propria spada: è questa la sua vita e la sua salvezza durante la guerra; il suo tribunale e la sua giustizia durante la pace, così come può concepirsi la pace tra popolazioni barbare sempre in armi. Da qui, per chi ci pensa, è facile capire quanto sia servito alla Chiesa di Dio, di tempo e pazienza, per domare e addolcire questa moltitudine sì diversa di caratteri intrattabili. La grande “edulcorazione” dell’Europa da parte della Chiesa, avanzava molto facilmente sotto Carlo Magno; ma già sotto suo nipote, Carlo il Calvo, i terribili uomini del nord vennero a turbare ed interrompere questa assimilazione cristiana dell’Europa, non solo per il fatto che introducevano con la loro persona un elemento troppo selvaggio, ma per il fatto che, per l’impotena dell’autorità pubblica nel difendere la Francia contro le loro incursioni, ogni città, ogni monastero, ogi signorotto, ogni proprietario terriero, fu formalmente autorizzato a difendersi da sé. Da qui questa abitudine, già così naturale in questi popoli, di farsi guerra, non tra individuo ed individuo, ma tra città e città, tra castello a castello. Per porre un termine a queste guerre private, i Vescovi ed i Concili avevano ordinato una tregua divina; ma a questo male occorreva un rimedio più grande. Le crociate stornarono le passioni dalle loro sanguinose rivalità e diedero all’ardore bellico un nobile scopo, trasportando le ostilità d’Europa in Asia, sventolando in queste regioni lo stendardo di Cristo, e rimediando ad un’altra calamità: la mezzaluna e la croce erano irreconciliabili per natura. L’inimicizia era giunta all’ultimo grado di furore per mezzo di una lotta lunga ed accanita. Sui due lati: dai vasti piani ed una vasta potenza; sui due lati: popoli arditi, pieni di entusiasmo e pronti a precipitarsi gli uni sugli altri; sui due lati: grandi probabilità e speranze fondate sulla base del tionfo. A chi resterà la vittoria? Qual condotta dovevano tenere i Cristiani per preservarsi dal pericolo? Era meglio attendere tranquillamente in Europa l’attacco dei musulmani, o sollevarsi in massa, precipitarsi in Asia, attaccare là ove il nemico si credeva invincibile? Il problema fu risolto in questo ultimo senso, ed i secoli hanno dato il loro suffragio all’abilità di questa risoluzione. Cosa importano alcune declamazioni affettate del filosofismo! La filosofia della storia ha portato su questa causa un giudizio irrecusabile: su questi punto, come in tutti gli altri, la Religione ha trionfato sul tribunale della filosofia. Le Crociate, lungi dall’essere considerate un atto di temerarietà, sono oramai considerate come un capolavoro di sapienza sociale che, dopo avere liberato l’Europa dalle due divisioni, assicurò la sua indipendenza e conquistò ai popoli cristiani una decisa preponderanza sui musulmani.

VII.

Le modifiche politiche che si possono attribuire alle Crociate, si intrecciano in una serie di cause e di effetti correlati, e si riassumono nell’abbattimento della feudalità. Il feudalismo, all’origine, fu uno strumento di civilizzazione. Con la moltiplicazione della autorità locali, esso aveva lottato corpo a corpo con tuttti i princȋpi del disordine interiore, ed aveva visto il flusso delle incursioni nomadi sgretolarsi sotto i bastioni dei suoi castelli. Era come un rudimento di organizzazione sociali. Ma in seguito, questa stessa moltiplicazione di poteri, era stato un fermento di guerre private; per di più, ai signorotti laici, ripugnava l’affrancamento dei servi; di modoché la feudalità era divenuto un ostacolo al bene del popolo ed alla fondazione delle unità nazionali. Con la vendita dei feudi, la morte dei signorotti, o semplicemente con le conquiste fatte nello spirito di uguaglianza, le Crociate portarono al feudalesimo un colpo decisivo. Dal suo affievolimento risultano l’affermarsi del potere reale, lo stabilirsi di comuni, la formazione del terziario, l’affracamento dei servi, l’epurazione delle moltitudini armate ed una riconciliazione sensibile tra le diverse classi sociali; a questi effetti politici si collegano: 1° il progresso dell’arte militare in rapporto alla tattica, alla disciplina ed alla organizzazione finanziaria, 2° l’affermazione della marina, lo stabilirsi dei contatori, l’espansione del commercio, la distruzione dei pirati del Mediterranei e la definizione di un codice marinaro, 3° l’iniziazione dell’industria europea ai segreti dei Greci e dei saraceni. Infine i risultati scientifici e letterari furono immensi: la geografia imparò a conscere meglio il mondo; la storia ebbe dei nuovi soggetti e analisti meno sprovveduti; la filosofia si elevò prendendo Aristotele come testo base e le università come teatro; la medicina, le scienze matematiche, l’astronomia, presero un rapido slancio; le lingue moderne ricevettero un nuovo impulso di formazione; la lingua francese conquistò il suo ascendente; l’architettura si aprì delle vie veramente originali che devon qualcosa alle reminiscenza dei crociati; infine la poesia sembrò fremere davanti al materiale di una nuova Iliade. Tali sono, senza parlare degli effetti secondari e dell’nfluenza che fu esercitata sul maomettismo, i risultati generali delle Crociate. Tracciando questo quadro sommario, noi non vogliamo asserire che gli uomini dai quali furono concepite le Crociate, i Papi che le eccitarono, i signori ed i principi che li secondarono, i popoli che li seguirono, avessero misurato l’immensità di questi risultati. Ma facciamo però osservare che più che attribuire tali risultati alle previsione degli uomini, bisogna inchinarsi davanti all’importanza provvidenziale degli avvenimenti. – Noi diremo anche che la grande e generosa idea delle Crociate fu concepita con una certa vaghezza, ed eseguita con una certa precipitazione, frutto dello zelo e degli errori dell’impazienza. Ma gli errori e i tristi risultati dai quali le cose umane non sono mai esenti, occorre qui attribuirli all’imprevidenza ed alla debolezza degli uomini, all’imperfezione ed anche alla scarsità di mezzi materiali, benché la Chiesa avesse sollecitato a prevenire le impruenze, impedire i crimini e scongiurare imprese disastrose. Gli errori ed i guai entrano comunque nei disegni della Provvidenza che voleva alfine tenere la Cristianità in allerta , non annientando troppo presto l’islamismo.

JUSTIN FÈVRE, Protonotario apostolico.

[La Chiesa, la Sposa Immacolata di Cristo, non deve chiedere scusa a nessuno, mai e per nulla! Le infamità sono state e vengono compiute dagli infiltrati, i servi del “nemico”, ieri ed oggi sprattutto. Essi devono pentirsi, finché sono in tempo, davanti a Dio! Dopo sarà per loro pianto e stridor di denti in eterno! ndr. -]

STORIA DEL BUON LADRONE di mons. J.- J. GAUME (2)

 

CAPITOLO PRIMO

I LADRI NELLA GIUDEA.

Etimologia della parola ladro. — Ladri o briganti molto numerosi nella Giudea ai tempi di Nostro Signore Gesù Cristo. — Testimonianza dello storico Giuseppe. — Caccia data ai ladri da Erode, e dai governatori Romani Pilalo, Felice, e Festo.

Perché questo gran numero di briganti nella Giudea.

« Insieme con Gesù eran condotti anche due altri, che erano malfattori, per esser fatti morire, E giunti che furono al luogo detto Calvario, quivi crocifissero lui, e i ladroni uno a destra, l’altro a sinistra. E Gesù diceva: Padre perdona loro: conciossiachè non sanno quel che si fanno. E spartendo le vesti di lui, le tirarono a sorte …E uno dei ladroni pendenti lo bestemmiava dicendo: se tu sei il Cristo salva te stesso e noi. – E l’altro rispondeva sgridandolo, e dicendo: nemmeno tu temi Iddio, trovandoti nello stesso supplizio? E quanto a noi certo che con giustizia, perché riceviamo quel che era dovuto alle nostre azioni; ma questi nulla ha fatto di male. E diceva a Gesù: Signore, ricordati di me, giunto che Tu sia nel tuo regno. E Gesù gli disse: oggi sarai meco nel paradiso1.» – I due malfattori, che salivano il Calvario col fìgliuol di Dio erano ladri, latrones. Questa parola latina esprime non già un truffatore o un mariuolo, ma un vero ladro di strada, un brigante. « Gli antichi, dice Festo, chiamavano ladri, latrones i soldati mercenarii. Oggidì si dà questo nome ai ladri di strada, sia perché essi attaccano i viandanti di fianco, qaod a latere adoriantur, sia perché si nascondono per tendere loro insidie, vel quod latenter insidiantur 2. » – La legislazione di tutti i popoli li puniva di morte. Presso i Romani il più crudele ed il più ignominioso dei supplizi, la crocifissione, era loro riserbata. « La ragione di ciò è, dice s. Gregorio Nisseno, perché il brigante, per ottenere il suo intento, non rifugge dal ricorrere anche all’omicidio. Egli è armato, si associa altri compagni, sceglie i luoghi più favorevoli al delitto, e perciò le leggi lo condannano alla pena degli assassini » Così i malandrini, facevano allora quello che fanno ancora ovunque i loro successori. Armali insino ai denti, errando per le montagne, nascosti nelle caverne, appostati in imboscate sulle pubbliche vie, in luoghi appartati, essi attaccavano i passeggeri, e li percuotevano; e se non li uccidevano, li lasciavano semivivi e coperti di ferite. Senza dipartirci dal Vangelo, ne abbiamo la prova nella storia o parabola del viaggiatore da Gerusalemme a Gerico. Ne è questa la sola volta che il testo sacro parla dei ladri di strada. Nel giorno della passione, noi troviamo Barabba ladro insigne, sedizioso ed assassino. Finalmente due ladri sono i compagni di supplizio del Figliuol di Dio. – Si può domandare, perchè l’Evangelio, cosi parco nell’accennare le particolarità, constata a più riprese l’esistenza dei briganti nella Giudea. Soprattutto si può domandare, perché nostro Signore prende a soggetto di una delle sue più belle parabole il fatto di un viandante assalito dai ladri. La storia sacra e la storia profana insieme ce ne danno la risposta. La prima ci dice: che per essere compreso dalle moltitudini l’ammirabile Divin Maestro traeva le sue istruzioni dalle cose che erano da tutti conosciute. La seconda aggiunge, che all’epoca in che Egli viveva, e sino allo sterminio della nazione, la Giudea era infestata dai briganti. D’onde proveniva questa strana situazione? Da una parte i Giudei nella loro qualità di popolo di Dio, si credevano affrancati da ogni dominazione straniera. Dall’altra essi avevano dovuto soffrir crudelmente dai re di Siria ed anche dai Romani. L’odio per lo straniero, che bolliva nel cuore della nazione, si manifestava con ribellioni e sommosse incessantemente rinascenti. Dispersi dalla forza pubblica, i ribelli si ritiravano nelle montagne, e non tardavano, come abbiamo visto anche ai giorni nostri, a divenire terribili briganti. Vuolsi sapere la causa che produsse la riputazione di Erode, e gli spianò la via al trono? Ascoltiamo lo storico Giuseppe Ebreo: « Antipatro, egli dice, avendo acquistato un gran potere, confidò il governo della Galilea al suo figliuolo Erode ancora giovanissimo, mentre non aveva che quindici anni: ma la giovinezza non toglieva nulla alla di lui capacità. D’un carattere ardente e risoluto, non tardò a trovare l’occasione di mostrare il suo coraggio. Avendo incontrato Ezechia, capo di briganti, il quale alla testa di una numerosa banda infestava le frontiere della Siria, si precipitò su di lui e l’uccise insieme a gran numero di ladri suoi compagni. Quest’impresa gli meritò al più alto grado l’affezione dei Siri, poiché ne aveva appagati i voti liberando il paese dal brigantaggio. Per la qual cosa essi pubblicavano da per tutto nelle città e nei villaggi che egli era il loro liberatore, e che a lui erano debitori del tranquillo godimento dei loro beni. Questi elogi lo fecero conoscere a Sesto Cesare, parente del gran Cesare, e governatore allora della Siria. Una delle grandi occupazioni di Pilato durante i dieci anni del suo governo, e dei suoi successori Felice, Sesto ed altri, nel tempo della loro presidenza, fu di dare la caccia ai briganti. – Il paese ne era pieno, quando l’ anno 51 di Gesù Cristo, nono anno del regno di Claudio, Felice prese possesso del suo governo. – Il temuto capo dei briganti era Eleazaro figlio di Dineo. Già da venti anni questo vecchio malandrino era il terrore della provincia. Spesso le truppe romane lo avevano perseguitato nelle montagne, che gli servivano di ricovero. Molti della sua compagnia erano stati presi, ed all’istante giustiziati per ordine di Felice; ma Eleazaro era sempre sfuggito. Or essendo inutile la forza, Felice ricorse all’astuzia. Fece domandare ad Eleazaro un abboccamento, con giuramento che non gli sarebbe fatto nessun male. Avendo Eleazaro a ciò condisceso, appena entrò nella tenda di Felice, fu caricato di catene, ed inviato a Roma per subire nel carcere Mametino il supplizio riserbato ai più grandi malfattori. – La morte di Eleazaro non pose fine al brigantaggio; anzi tutto al contrario, si manifestò questo con nuova recrudescenza, e fini coill’infestare tutta la Giudea. Non udivasi parlare che di villaggi saccheggiati ed incendiati, di viandanti arrestati, di abitatori sgozzati. In questa trista condizione Festo successore di Felice trovò la Giudea, allorché ne venne a prendere 1’amministrazione. L’anno 58 di Gesù Cristo decimo di Nerone. Una delle cause di questa recrudescenza fu il malcontento dei Giudei di Cesarea. Questa città era abitata da Giudei e da Siri, che godevano dei medesimi privilegi, e vivevano sul piede di un’intera eguaglianza. I Siri, gelosi dei Giudei, vollero togliere a questi il diritto di cittadinanza, ed a questo intento, i principali fra essi scrissero a Berillo antico professore di Nerone, corrompendolo per via di doni, affinché ottenesse dall’imperatore il consenso alla loro domanda. Presto se ne vide il successo. Appena fu conosciuto il rescritto imperiale che i Giudei entrarono in piena ribellione; [Joseph., Antiq., Jud., lib. XX, c. VII.]; si formarono in tutto il paese delle bande di briganti, alla cui testa si pose un Mago impostore che attirava la folla nel deserto, la lusingava con vane speranze, e prometteva di renderla invulnerabile. Al fine di mettere un termine a questo stato di cose reso intollerabile, Festo spedì un corpo d’armata, cavalleria e fanteria che diede la caccia ai briganti, e massacrò l’impostore con tutta la sua truppa. – Per una ben meritata disposizione della divina giustizia, quegli orgogliosi Giudei i quali ricusavano di riconoscere un Messia pacifico, e che crocifiggevano la Verità in persona, accettavano tutte le chimere; e sempre in guerra, per sostenerle arrischiavano anche la loro vita. E sarà sempre così fino alla fine dei secoli. Datemi una nazione, una società, un’epoca che scuota il giogo del Principe della pace, che insorga contro la Verità vivente, e la vedrete infallibilmente cadere sotto la tirannia del principe della guerra e del padre della menzogna; e se Dio non interviene con un’azione diretta e sovrana, questo mondo affascinato camminerà d’errori in errori, di rivoluzioni in rivoluzioni, fino a che si sbrani di propria mano, o qualche capo di barbari venga a metter fine alla sua colpevole esistenza. – Non era difficile adunque trovare dei ladri nella Giudea, e possiamo credere che i due ladri del Calvario abbiano fatto parte delle tante numerose bande sparse nel paese. Queste particolarità storiche non solo servono a spiegare la menzione, che più volte si fa nel Vangelo, dei ladri nella Palestina, ma autorizzano altresì la tradizione di cui ora parleremo.

CAPITOLO II,

IL BUON LADRONE.

Fuga della sacra famiglia in Egitto. — Incontro dei ladri nel deserto. — Questo fatto molto verosimile in se stesso è attestato dalla tradizione. — Autorità di questa tradizione: essa è notata in vari monumenti del secondo e terzo secolo. — Che si deve pensare dei vangeli apocrifi. — Testimonianze dei secoli posteriori; Eusebio Alessandrino, Gregorio di Tours, S. Anseimo, Vincenzio di Beauvais. — Il grande istoriografo di Gesù Cristo, Laudolfo di Sassonia, il sapiente P. Orilia, e molti altri.— Quello che accadde in questo incontro. — Previdenza dell’infinita misericordia del Signore.

La strage degli innocenti era imminente, e fra tante vittime Erode ne cercava una sola. Iddio che si ride dei proponimenti degli uomini, salvò questa sola vittima, ed il regale assassino non altro vantaggio riportò dalla sua barbarie, che l’orrore della posterità. Giuseppe avvertito da un Angelo, prende il Bambino e la di lui Madre, lascia la sua dimora nel silenzio della notte, ed in tutta fretta si dirige verso l’Egitto. [Matt. II, 13-14] – Due vie potevano condurvici; la via di mare, e quella di terra. Prendendo la prima bisognava venire fino a Ioppe (Giaffa) o ai dintorni di essa, ed attraversare venti leghe di un paese popolatissimo; il che per i fuggitivi sarebbe stato lo stesso che correre quasi certissimo pericolo di essere riconosciuti; ed arrestati. – Di più arrivati al luogo d’imbarco potevano vedersi costretti ad attender anche più giorni 1’occasione della partenza, ed in tal caso ogni ora di dilazione sarebbe stata un ora di nuovo pericolo. Finalmente era necessario aver mezzi di pagare il viaggio, e la sacra famiglia era povera; ed è anzi molto probabile che lo fosse più ancora in questa circostanza, in cui l’ordine di partenza essendo venuto inaspettatamente e nel mezzo della notte, non si era potuto fare alcun preparativo. Quest’ordine pressante come un grido di allarmi, rispettato come un ordine del cielo, non permetteva né titubanza, né dilazione. Queste ragioni ed altre ancora sono sì gravi da non poter supporre che la sacra famiglia abbia scelta la via di mare. – Restava la via di terra; la quale aveva anch’essa i suoi pericoli. Da una parte, tra le frontiere meridionali della Giudea, e la terra di Egitto, stendevasi un deserto di quaranta leghe, che bisognava necessariamente attraversare. D’altra parte abbiamo veduto che la Palestina e i dintorni erano da molto tempo infestati da briganti, i quali, naturalmente, e diremmo anche quasi infallibilmente, dovevano incontrarsi, più che altrove, in questi luoghi appartati, lontani dalle abitazioni, e sopratutto nel mezzo di una vasta solitudine, che era la via obbligata delle carovane; in questi luoghi, essi potevano, senza timore di esser visti o conosciuti, esercitare la loro colpevole e troppo spesso sanguinaria professione. – Questa fu la strada che scelsero gli illustri fuggitivi: e l’arte, interprete della tradizione, rappresenta costantemente la sacra famiglia fuggitiva verso l’Egitto per la via di terra; e dipinge S. Giuseppe, che con una mano appoggiata ad un bastone, conduce con l’altra la modesta cavalcatura, sulla quale è assisa la SS. Vergine col bambino Gesù in braccio. Un’altra tradizione, della quale il terzo secolo offre già alcuni monumenti scritti nelle lingue orientali, ci fa conoscere che la sacra famiglia non iscampò al pericolo comune, e fu incontrata dai briganti del deserto. Prima di riportare i particolari di questo incontro, ci sembra utile di addurre qualche prova in appoggio di un avvenimento, che secondo la medesima tradizione occupa un vasto campo nella vita di S. Disma. – Nel fatto che la sacra famiglia come tanti altri viaggiatori, sia stata sorpresa dai ladri nella sua fuga in Egitto, non v’ha nulla d’impossibile; e si può anzi aggiungere che le nozioni storiche rammentate precedentemente lo rendono verisimile. È vero che non trovasi di un tal fatto parola nel Vangelo: ma il silenzio dei sacri scrittori non ne distrugge l’autenticità; poiché non tutto è stato scritto nel nuovo Testamento, e lo stesso Apostolo S. Giovanni dice, che il Libro divino contiene appena la minima parte dei fatti relativi a N. S. Gesù Cristo. [« Sunt autem et alia multa quæ fecit Jesus; quæ si scribantur per singula, nec ipsum arbitror mundum capere posse eos, qui scribendi sunt, libros. » XXI, 25]. – Vi sono anzi dei punti essenziali, di cui non vi si trova alcun vestigio, come sono fra gli altri, la sostituzione della Domenica al Sabato, e la validità del Battesimo per infusione. Qui come altrove la tradizione supplisce al silenzio dell’Evangelo; poiché questa tradizione di buon ora si fissò nei monumenti scritti. S. Luca ci dichiara, che sin dai primi giorni del Cristianesimo apparve un gran numero di opere sulla vita di Gesù Cristo. Ciò si comprende facilmente; poiché, al dir di Eusebio, folle innumerevoli di persone, attirate dal rumore dei miracoli dell’Uomo-Dio, accorrevano in Palestina dalle estremità più lontane della terra per vederlo e domandargli grazie e favori. [Hist, lib. I c. XIII.]. – Or l’uomo è così fatto che sempre e dapertutto, anche nei secoli d’incredulità e di materialismo, si mostra avido del meraviglioso. Questi pellegrini, Giudei o stranieri, che avevano avuto la sorte di vedere Gesù di Nazaret, o che avevano conversato con coloro che lo avevano veduto, facevano a gara in pubblicare le minime particolarità della sua vita e de’suoi miracoli. – Fu questa l’origine moralmente certa dei numerosi scritti, ai quali fa allusione l’Evangelista. – Quali erano queste prime opere delle quali dobbiamo deplorare la perdita? Nessuno lo sa. Possiamo affermare almeno che esse servirono di base ad un gran numero di raccolte di tradizioni evangeliche sparse più tardi in Oriente ed in Occidente. Le une furono redatte con più pietà che critica; l’altre composte o falsificate dagli eretici, racchiudevano il veleno dei loro errori: alcuna di esse non apparteneva con certezza all’autore, di cui portava il nome; e la Chiesa nella sua infallibile saggezza le rigettò tutte dal canone delle S. Scritture. – Ma col dichiararle apocrife essa non ebbe intenzione di denunziarle per false e menzognere affatto: alla zizzania dell’errore si trova in esse mescolato il buon grano della verità. La verità si riconosce facilmente, allorché il racconto di questi apocrifi è conforme a quello degli autori canonici, o all’insegnamento tradizionale della Chiesa; ed i casi ne sono assai frequenti. Se a cagion d’esempio, riportano essi alcune particolarità relative a Gesù Cristo, alla S. Vergine, o agli Apostoli; qualora simili particolarità non abbiano nulla di puerile o di inverisimile, ed a più forte ragione nulla di contrario alla fede; se anzi appariscano conformi agli usi ed ai costumi dell’antichità; esse costituiscono come una tradizione di second’ordine, che non è affatto riprovata né riprovevole; tradizione che gode anche di un’autorità relativa, sulla quale riposano un certo numero di fatti entrati senza opposizione per parte della Chiesa nel dominio del pubblico. La Chiesa medesima si è servita contro gli iconoclasti della lettera di Abgaro, comunque fosse stata messa tra gli apocrifi da S. Gelasio Papa. [Ved. Baron. an. 31. n. 50]. –  Nell’ottavo secolo, Papa Gregorio II, che doveva conoscere il decreto del suo predecessore, non teme di scrivere all’Imperatore iconoclasta Leone Isaurico in questi termini: « Trovandosi nostro Signore nei dintorni di Gerusalemme, Abgaro re d’Edessa, che aveva inteso parlare dei miracoli di Lui, gli scrisse una lettera, alla quale degnossi nostro Signore rispondere, e mandargli il suo adorabile ritratto. A vedere questa santa Immagine, non fatta per mano di uomo, accorri tu pure, o manda altri. Là accorrono e pregano molti dall’Oriente. » [Epist. I ad Leon. Isaur.]. –  Alcuni anni dopo un altro sommo Pontefice, Adriano I informa Carlo Magno di quanto si era fatto nel Concilio tenuto a Roma sotto Stefano IV e gli dice: « Il nostro predecessore di santa memoria, il Signore Stefano, presedendo al sopradetto Concilio, riporta un gran numero di testimonianze degne di fede, che egli stesso conferma; indi soggiunge: ma non è da omettersi quello che per relazione dei fedeli, i quali vengono dalle parti di Oriente, abbiamo appreso noi stessi. Per verità il vangelo non parla di quanto essi riferiscono; pure non è cosa incredibile, affermando lo stesso evangelista, come molti altri prodigi operò Gesù, che non sono stati scritti in questo libro. Asseriscono essi dunque che il Redentore del genere umano, avvicinandosi il tempo di sua passione rispondesse a una lettera del re di Edessa, il quale desiderava di vederlo, ed offrirgli un asilo contro le persecuzioni dei Giudei. »  [Apud Bar., an. 769, n. 8. Vedi ibid, an. 809, n. 17; an. 114, n. 17, etc.]. Segue poi la lettera di nostro Signore. Osservisi che S. Gregorio e Adriano scrivono lettere officiali ad imperatori, uno dei quali era nemico giurato delle sante immagini. Se le lettere di nostro Signore e di Abgaro, benché non ammesse nel canone delle scritture, non avessero avuto un’autorità molto rispettabile, come mai i sommi Pontefici avrebbero osato produrle con tale asseveranza in favore del culto tradizionale delle sante immagini? – I protestanti poi si mostrano talvolta meno disdegnosi di certi cattolici relativamente agli apocrifi. Quanto alle lettere di Abgaro conservateci da Eusebio, il dotto Pearson mostra una tal confidenza nelle primitive nostre tradizioni, che fa onore e alla sua imparzialità e alla sua erudizione.1 [Not. Ad Euseb. lib. I, c. XIII]. – Il dotto e saggio annalista della Chiesa Baronio non trova difficoltà alcuna di appoggiarsi agli apocrifi per stabilire, contro S. Girolamo, che quel Zaccaria ucciso dai Giudei fra il tempio e l’ altare è Zaccaria padre di S. Giovanni Battista. La regola da seguirsi, citando 1’autorità degli apocrifi, è quella indicataci dal gran cardinale: ammetterla cioè con prudenza, caute admittenda, e non sostenerla pertinacemente, mordicus defendi non deberi. [Ann. 48, n. 14. ann. 55. n. 5. et Iudex, t. I, p. 265, et 304]. – È inutile aggiungere essere nostra intenzione conformarvici in tutto il corso di questa storia. – « Le circostanze particolari contenute negli apocrifi, aggiunge Brunet, lungi dall’essere rimaste sterili, hanno avuto per una lunga serie di secoli razione la più potente e la più feconda sullo sviluppo della poesia e delle arti. L’epopea, il dramma, la pittura, la scultura del medio evo non hanno mancato di avervi ricorso. Trascurare lo studio dei vangeli apocrifi è lo stesso che rinunziare a scoprir le origini dell’arte cristiana. Essi sono stati la sorgente, alla quale gli artisti dopo l’estinzione del paganesimo hanno attinto tutto il loro vasto simbolismo: diverse circostanze rapportate da queste leggende, e consacrate dal pennello dei grandi maestri della scuola italiana, hanno dato luogo a tipi ed attributi che sono giornalmente riprodotti dalle arti del disegno.11. [Evang. apocryph. p. V. et VI; v. anche Bergier, Diz. artic. apocrifi, e vangeli.]. – Fra tutte queste opere noi ne citeremo due soltanto. L’una riferisce con qualche particolarità l’incontro della sacra famiglia coi ladri del deserto: l’altra dà il nome divenuto tradizionale dei due ladroni del Calvario. Il primo è l‘Evangelo della Infanzia, [Brunet, Evang. apocr., p. 54]. il quale risale almeno alla fine del secondo secolo. Scritto prima in siriaco, o in greco, fu tradotto poi nelle diverse lingue dell’Oriente e dell’ Occidente. Se ne trovaron copie in Egitto presso i Copti, nelle Indie presso i cristiani stanziati sulle coste del Malabar, presso gli Armeni ed anche presso i Musulmani; senza parlare dei popoli dell’Europa, ove le edizioni moltiplicate lo avevano reso popolare. [Brunet, Ibid., p. 53 et seg.]. – Questo scritto, chiunque siane l’autore, contiene fatti perfettamente avverati: tali sono le circostanze dell’adorazione dei Magi, e la causa della partenza della sacra famiglia per la terra di Egitto. « Ecco, dice il capo VII, ecco quello che avvenne. Mentre il Signore Gesù era nato a Betlelemme, città della Giudea, ai tempi del re Erode alcuni Magi vennero dal paese dell’Oriente a Gerusalemme, come l’aveva predetto Zorodascht (Zoroastro). Ed essi portarono seco alcuni doni, oro, incenso e mirra, ed adorarono il Bambino, e gli fecero omaggio dei loro doni. » Ed il capo IX: « Erode vedendo che i Magi non ritornavano da lui… cominciò a meditare nel suo spirito l’uccisione del Signore Gesù. Allora un angelo apparve a Giuseppe in sogno, e gli disse: Levati, prendi il bambino e la sua Madre, e rifugiati in Egitto. Ed al canto del gallo, Giuseppe si levò e partì. » Vi si trovano altri fatti che appartengono alla tra dizione di second’ordine, di cui abbiamo parlato, come l’incontro dei ladri e della sacra famiglia, che il capo XXIII descrive in questi termini. « Essi arrivarono quindi all’entrata del deserto, e saputo che questo era infestato dai ladri, si preparavano ad attraversarlo durante la notte. Ed ecco che nel medesimo istante vedono due ladri che erano addormentati, e vicino ad essi videro un gran numero di altri ladri, i quali erano i compagni di questa gente, e che erano pure immersi nel sonno. Questi due ladri si chiamavano Tito e Dumaco. [La tradizione meglio accertala dà differenti nomi a costoro, e nulla impedisce di ammettere che eglino avessero più e diversi nomi. Che forse la storia profana, e pur essa la storia evangelica, non fanno menzione di personaggi conosciuti sotto svariati nomi? Oggi stesso è forse rara cosa il vedere in ogni paese le relazioni giudiziarie, dar notizia al pubblico dei nomi che, oltre il lor proprio, moltissimi malfattori si ebbero per falsi delle loro audaci imprese?]. – II primo disse al secondo: ti prego dì lasciare andare in pace questi viaggiatori, per timore che i nostri compagni non li vedano. Ricusandosi Dumaco di ciò fare, Tito gli disse: Ricevi da me quaranta dramme, e prendi per pegno la mia cintura; e gliela presentava, pregandolo di non chiamare gli altri e di non gridare allarme.« Maria scorgendo la buona disposizione di quel ladro ad usarle riguardo, gli disse: Iddio ti sorregga con la sua destra, e ti accordi la remissione dei tuoi peccati. Ed il Signore Gesù disse alla Madre: Madre mia, passeranno trent’anni, e i Giudei mi crocifìggeranno, e questi due ladroni saranno crocifissi con me, Tito alla mia destra e Dumaco alla sinistra; ed in quel giorno Tito sarà con me in paradiso. E poiché ebbe così parlato, la Madre gli replicò: che Iddio tenga lontano da te, figlio mio, avveramento di siffatto presagio: e proseguirono il viaggio verso una città idolatra. ». – II secondo e il più celebre di tutti è l’Evangelo di Nicodemo. Esso non ha quasi una frase che, quanto al sentimento, non si trovi in parecchi scrittori dei primi secoli, come s. Cirillo di Gerusalemme, Finnico Materno, s. Crisostomo, s. Ippolito. Quindi la sostanza del racconto non è da porsi in dubbio. Redatto nella sua forma attuale verso il quarto o quinto secolo, questo e vangelo fu ben presto diffuso e letto in tutto l’Occidente. Gregorio di Tours, Vincenzio di Beauvais, ed un gran numero di scrittori del Medio Evo ebbero spesso ricorso a quest’opera, la cui autorità non fu punto sospetta ai loro occhi. In Egitto Eusebio di Alessandria la commenta ed analizza con energica confidenza. In epoche non molto remote, l’Evangelo di Nicodemo leggevasi nelle Chiese Greche, non come parte della s. Scrittura, ma come opera edificante e di rispettabile autore. Quindi è che innumerevoli ne sono le edizioni fatte in tutte le lingue. [Brunet, Evang. apocr,, p. 215. 220.].- Al pari di quello dell’Infanzia, il Vangelo di Nicodemo riferisce, oltre i fatti divinamente certi, le particolarità tralasciate dal racconto, tanto rapido e conciso, del sacro testo. Eccone, fra gli altri, un esempio : « Gesù, dice il capitolo X, uscì dal Pretorio; e quando ebbe raggiunto il luogo chiamato Golgota, i soldati lo spogliarono delle sue vesti e il recinsero di un saio, e coronatone il capo di spine, e messagli nelle mani una canna, lo crocifissero insieme coi due ladroni ai suoi fianchi, Dima a destra e Gesta a manca. » Fondati su questi evangeli, o su monumenti ora perduti, numerosi testimoni, sulla scienza e buona fede dei quali non cade sospetto, tramandarono alla posterità così la memoria di questo memorabile incidente, come i nomi dei due ladroni. Fra le opere dì s. Agostino, una ve n’è una che porta il titolo De vita eremìtica; la quale per lunga serie di anni fu attribuita al gran Vescovo d’Ippona, ma che col dottissimo P. Raynaud crediamo piuttosto di s. Anseimo, Arcivescovo di Cantorbery. [Metamorpìios. latr. inter Op. t. IX, p. 457, ediz. in fol. Lugd. 1665]. Chiunque ne sia per altro l’autore, molto antico è un tale scritto, e sul punto che trattiamo, esso conferma la tradizione dell’Oriente e dell’Occidente. – Or ecco in quali termini la riassume. « Abbiate per vero quanto si dice della sacra famiglia, che arrestata dai masnadieri, dovette la sua salvezza al buon volere di un giovane di quella banda. La tradizione vuole che ei fosse figlio del capo di quei ladri. Arrestati gli augusti viaggiatori, esso vide il bambino in grembo della madre. La maestà, che splendeva sul volto ammirabile di quel figliuolo, lo colpì talmente, che punto non dubitò esser desso più che un uomo, e col cuore intenerito abbracciatolo: « O benedetto fanciullo, esclamò, se mai l’occasione ti si offra di aver pietà di me, sovvengati di me, né dimenticare l’incontro di questo giorno. » – « La tradizione ritiene che questo giovane fosse poi il ladrone crocifisso alla destra di Gesù Cristo. Rivoltosi dalla sua Croce al Signore, miracolosamente riconobbe in esso il maestoso fanciullo che aveva veduto nella sua gioventù, e tornandogli a mente il suo patto: Sovvengati di me, gli disse, quando sarai nel tuo regno. – Come incentivo di amore, non credo inutile servirsi di questa tradizione, senza alcuna temeraria affermazione del fatto » – Il dottissimo Cardinale s. Pier Damiano, morto nel 1072: attribuisce la conversione del Buon Ladrone alle preghiere della beatissima Vergine lieta di riconoscere in esso lui il masnadiere, che nel deserto aveva protetta e salvata la sacra famiglia. — Il giovane ladrone volle compiere la sua buona azione. Non solamente esso impedì lo spoglio degli augusti viaggiatori, ma offrì loro la sua capanna per riposare e passarvi la notte, somministrò ad essi quanto era necessario, e l’indomani diede loro una scorta sicura per accompagnarli. – Lunga in vero sarebbe la lista degli autori, commendevoli per scienza e per pietà, che si fecero campioni di questa medesima tradizione, e l’accettarono senza riserva. Tali sono particolarmente il Beato Giacomo de Voragine Arcivescovo di Genova, il dotto Vescovo d’Equilio, Pietro de Natalibus, il P. Orilia dei Pii Operai, ed il grande storiografo di nostro Signor Gesù Cristo, Landolfo di Sassonia. II primo di essi, in un suo discorso, si esprime così: « La sacra famiglia allorché fuggiva in Egitto cadde nelle mani dei ladri. Uno di essi preso dalla bellezza del bambino: Io dico in verità, così parlò rivolto ai suoi compagni, che se Iddio potesse rivestirsi della nostra carne, giurerei che questo bambino è Dio. » Queste parole commossero quei banditi, e la Madre ed il pargoletto furono lasciati proseguire il viaggio senza far loro alcun danno ». – Al fatto principale il secondo aggiunge le seguenti circostanze: Il giovane ladrone, sorpreso dalla bellezza del Bambino, e dalla dolcezza di sua Madre, non solo si astenne dallo svaligiarli, ma li condusse nella sua caverna per passarvi la notte, somministrò loro quello che era ad essi necessario, e li fornì di una scorta per accompagnarli [Catatog. SS. lib. IlI, c.ccxxviii.]. – Landolfo di Sassonia non si allontana per nulla dalla tradizione, di cui sembra aver copiato la testimonianza in S. Anselmo [Oltre a ciò si deve notare che Maria fa presa insieme col fanciullo dai ladroni ec. Come in s. Anselmo, De vita eremitica, citato più sopra. Vita di Gesti Cristo, c. XIII, fol. 37, edizione di Venezia, 1531. in fol.]. –  A siffatte autorità il P. Orilia aggiunge il peso della sua erudizione e della sua pietà, al pari degli accennati scrittori, egli non dubita punto dell’incontro della Sacra Famiglia coi masnadieri del deserto, e della influenza che esso ebbe sulla conversione del buon Ladrone. « Io potrei, egli dice, fare un non breve elenco degli autori che narrano il medesimo fatto, ma sarebbe cosa noiosa citarli tutti. [P. Orilia, Riflessioni, ec. c. II, pag. 10]. – Egli avrebbe potuto aggiungere che in Oriente è volgarissima questa tradizione, la quale egli tiene con quella fermezza, e diremo anche con la immobilità che lo caratterizza. Quanto poi alle varianti che si notano nei racconti dei nostri autori, sono esse forse tali da toglier fede al fatto principale? No certamente, secondo il nostro giudizio. La critica stessa la più severa non si ricusa di ammettere come veri nella sostanza un gran numero di fatti in vario modo narrati dagli storici. Tali sono, per citarne alcuni dei più celebri e dei meno revocati in dubbio, l’assassinio di Cesare, le conquiste del re Clodoveo, e puranco talune delle battaglie di Napoleone. – Una prova d’ordine morale può confermare le testimonianze della tradizione. La Provvidenza non opera mai a caso. La sua infinita sapienza abbraccia il presente, il passato ed il futuro, e la bontà ne uguaglia la sapienza. Chi sa che per far risaltar l’una e l’altra, non fosse disposta l’avventura dell’incontro nel deserto? Quante altre non meno misteriose combinazioni non troviamo noi nel Vangelo! Fu egli forse per caso che il lebbroso della montagna, la Samaritana, Zaccheo, Matteo si trovassero sul passaggio di Nostro Signore? Cieco chi in questi fatti non scorge la misericordia correre in cerca della miseria, ed il medico andare incontro al malato! – Così pure chiamando sul suo passaggio il giovane ladro, ed ispirandogli un vivo senso di umanità, Colui che disse: « Io era viaggiatore e mi deste l’ospitalità: » Colui che non lascia senza premio un semplice bicchier d’acqua fresca dato in suo nome all’assetato, avrà voluto deporre nell’anima di quel malfattore il germe prezioso che un giorno doveva così magnificamente manifestarsi sulla croce. Se così è, e nulla prova che sia altrimenti, abbiamo sin dal principio, di che ammirare la divina misericordia, della quale la conversione del buon ladrone è senza dubbio uno dei più consolanti miracoli.

MESSA DELL’ASSUNTA

Introitus
Ap XII:1
Signum magnum appáruit in cœlo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim [Un gran segno apparve nel cielo: una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].
Ps XCVII:1
Cantáte Dómino cánticum novum: quóniam mirabília fecit. Cantate al Signore un càntico nuovo: perché ha fatto meraviglie.
Signum magnum appáruit in coelo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim [Un gran segno apparve nel cielo: una donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui Immaculátam Vírginem Maríam, Fílii tui genitrícem, córpore et ánima ad coeléstem glóriam assumpsísti: concéde, quǽsumus; ut, ad superna semper inténti, ipsíus glóriæ mereámur esse consórtes.
Onnipotente sempiterno Iddio, che hai assunto in corpo ed ànima alla gloria celeste l’Immacolata Vergine Maria, Madre del tuo Figlio: concédici, Te ne preghiamo, che sempre intenti alle cose soprannaturali, possiamo divenire partecipi della sua gloria.

Lectio
Léctio libri Judith.
Judith XIII, 22-25; XV:10
Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino Deo excelso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit coelum et terram, qui te direxit in vúlnera cápitis príncipis inimicórum nostrórum; quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri. Tu glória Jerúsalem, tu lætítia Israël, tu honorificéntia pópuli nostri.
[Il Signore ti ha benedetta nella sua potenza, perché per mezzo tuo annientò i nostri nemici. Tu, o figlia, sei benedetta dall’Altissimo piú che tutte le donne della terra. Sia benedetto Iddio, creatore del cielo e della terra, che ha guidato la tua mano per troncare il capo al nostro maggior nemico. Oggi ha reso cosí glorioso il tuo nome, che la tua lode non si partirà mai dalla bocca degli uomini che in ogni tempo ricordino la potenza del Signore; a pro di loro, infatti, tu non ti sei risparmiata, vedendo le angustie e le tribolazioni del tuo popolo, che hai salvato dalla rovina procedendo rettamente alla presenza del nostro Dio. Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la gloria di Israele, tu l’onore del nostro popolo!]

Graduale
Ps XLIV:11-12; XLIV:14
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam, et concupíscit rex decórem tuum. [Ascolta, o figlia; guarda e inclina il tuo orecchio, e s’appassionerà il re della tua bellezza.]

V. Omnis glória ejus fíliæ Regis ab intus, in fímbriis áureis circumamícta varietátibus. Allelúja, allelúja. V. Tutta bella entra la figlia del Re; tessute d’oro sono le sue vesti. Allelúia, allelúia.
V. Assumpta est María in coelum: gaudet exércitus Angelórum. Allelúja.  [Maria è assunta in cielo: ne giúbila l’esercito degli Angeli. Allelúia.]

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc 1:41-50
“In illo témpore: Repléta est Spíritu Sancto Elisabeth et exclamávit voce magna, et dixit: Benedícta tu inter mulíeres, et benedíctus fructus ventris tui. Et unde hoc mihi ut véniat mater Dómini mei ad me? Ecce enim ut facta est vox salutatiónis tuæ in áuribus meis, exsultávit in gáudio infans in útero meo. Et beáta, quæ credidísti, quóniam perficiéntur ea, quæ dicta sunt tibi a Dómino. Et ait María: Magníficat ánima mea Dóminum; et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia respéxit humilitátem ancíllæ suæ, ecce enim ex hoc beátam me dicent omnes generatiónes. Quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus, et misericórdia ejus a progénie in progénies timéntibus eum.”

[In quel tempo: Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo, e ad alta voce esclamò: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno! Donde a me questo onore che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, infatti, che appena il tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bimbo ha trasalito nel mio seno. Beata te, che hai creduto che si compirebbero le cose che ti furono dette dal Signore! E Maria rispose: L’ànima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha guardato all’umiltà della sua serva; ed ecco che da ora tutte le generazioni mi diranno beata. Perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente, e santo è il suo nome, e la sua misericordia si estende di generazione in generazione su chi lo teme.]

OMELIA DELL’ASSUNTA

DISCORSO PER L’ASSUNZIONE

DELLA SS. VERGINE.

[da: Discorsi parrocchiali del sig Billot – II ediz. Napoli- 1840]

“Quæ ista quæ progreditur quasi aurora consurgens,

pulchra ut luna, electa ut sol?”

[Cant. VI]

Voi mi prevenite senza dubbio, fratelli miei, nell’applicazione che debbo fare di queste parole del mio testo, e facilmente comprendete che quella magnifica descrizione, che fa qui lo Spirito Santo conviene perfettamente all’incomparabile Vergine, di cui celebriamo in questo giorno la trionfante Assunzione. Ma qual gloria, fratelli miei! E chi può esprimerne l’eccellenza? Il sepolcro medesimo, ove la gloria degli altri mortali sparisce, è glorioso per Maria: Erit sepulcrum eius gloriosum. Siccome Ella era stata preservata dalla corruzione del peccato, ed aveva servito di santuario alla divinità, così conveniva che il suo corpo non fosse soggetto alla corruzione del sepolcro. E perciò non sì tosto si addormenta Maria nel seno della morte che il suo corpo riprende una nuova vita, e riunito, alla sua anima, è innalzato con essa al trono di gloria che gli è apparecchiato nel cielo. Non cerchiamo dunque più Maria in questa bassa regione di morte, che non meritava più di possederla; ma seguitiamola in ispirito lassù nel cielo, ove Ella sale accompagnata da una moltitudine di Angeli, che premurosi sono di renderle gli onori che merita. Di già quest’arca misteriosa è introdotta nei tabernacoli eterni, e va a riposarsi nel posto che le è destinato. Di già io vedo questa Vergine incomparabile innalzata sopra i cori degli Angeli, assisa su di un trono accanto del suo caro Figliuolo, dove non riconoscendo alcun superiore fuorché Dio, Ella è riconosciuta per Regina degli Angeli e degli uomini. Tale è, fratelli miei, il gran soggetto di allegrezza che occupa il cielo e la terra in questa solennità: motivo di allegrezza per Maria, che vede in questo giorno le sue virtù ricompensate dalla gloria che ha meritata: motivo d’allegrezza per gli uomini, cui questa divina Madre è per servire di avvocata e di protettrice presso Dio per ottener loro tutte le grazie onde hanno bisogno. Ma quali saranno coloro che proveranno gli effetti della sua protezione, che avranno parte ai suoi favori? Tutti quelli che avranno una vera devozione verso di Ella. Per rinnovarla nei vostri cuori questa devozione verso la Madre di Dio, voglio proporvene i motivi, insegnarvene la pratica. Quali sono i motivi che indurre ci debbono alla devozione verso la Santissima Vergine, primo punto. In che consiste questa devozione, secondo punto.

Ave Maria.

I Punto. Benché Dio solo meriti il culto supremo a cagione dell’eccellenza e dell’indipendenza del suo Essere, ciò non impedisce che noi onoriamo i Santi che sono i suoi servi ed amici. Lungi di qui dunque quegli eretici che condannano questa pratica della nostra santa Religione come se disonorassimo il Figliuolo di Dio con gli onori che rendiamo ai suoi eletti. Il culto che loro rendiamo è sempre un culto subordinato; non è che un culto di venerazione, la cui gloria tutta si riferisce ancora a Dio, perché onorando i Santi, noi non onoriamo in essi che l’eccellenza dei doni che hanno dal cielo ricevuti: Dio medesimo, il quale, come ci attesta il Vangelo, onora i suoi servi, Honorìficabit eum Pater meus, ci fa un comando di onorarli a suo esempio. Or se è un obbligo di onorare e di invocare i Santi, non dobbiamo noi a più forte ragione decretare lo stesso onore a Quella, che tra tutti i Santi occupa il primo grado? L’innalzamento di Maria corrisponde e alla sua qualità di Madre di Dio e alla pienezza dei suoi meriti; e ancora su questa divina Maternità e sulle virtù sublimi che l’accompagnarono è fondato tutto il culto religioso che noi le dobbiamo. Che Maria sia Madre di Dio ella è una qualità che non si può disputarle senz’attaccare la fede, contraddir la Scrittura e dispregiare l’autorità della Chiesa nelle sue decisioni. Infatti quando il Vangelo ci dice che da Maria è nato Gesù: De qua natus est Jesus, non dice forse che essa è Madre di Dio? Poiché questo Gesù nato da Ella è il Figliuolo del Dio vivente, Dio da tutta l’eternità com’Egli, uguale a Lui in tutte le sue perfezioni. Invano per rapire a Maria l’augusta qualità di Madre di Dio, l’empio Nestorio ebbe la temerità di asserire che eranvi due persone in Gesù Cristo, e che Maria non era che madre di un uomo: questa bestemmia fu anatematizzata dalla Chiesa, radunata per questo motivo in Efeso; e vi fu deciso che sebbene vi fossero due Nature in Gesù Cristo, non eravi però che una sola Persona; e che Maria essendo la Madre di un uomo che era Dio, era per conseguenza Madre di Dio. E la Chiesa perciò radunata in questoCconcilio mise in bocca dei suoi figliuoli quella bell’orazione che noi indirizziamo tutti i giorni alla Santissima Vergine: Sancta Maria mater Dei, ora prò nobis peccatoribus. Or se Maria è Madre di Dio, qual rispetto, qual venerazione dal canto nostro non le merita una sì augusta qualità? Poiché se Maria è Madre di Dio, egli è fuor d’ogni dubbio che Ella ha data la vita all’Autore del suo essere e di tutte le creature che ha generato nel tempio Colui che il Padre Eterno ha generato sin dall’eternità; che ha portato nel suo seno Colui che la terra e i cieli non possono contenere; che entra a parte in qualche modo dei diritti del Padre celeste sopra il suo Figliuolo adorabile; Colui che comanda a tutta la natura le è sottomesso; il che c’insegna il Vangelo con quelle parole; Erat subditus illis. Gesù era sottomesso a Maria ed a Giuseppe! Qual cosa più gloriosa per una pura creatura? – Se Maria è madre, Ella è, per servirmi delle parole di s. Bernardo, la  riparatrice di tutti i secoli, la salute di  tutto l’universo, non certamente nel senso che lo è stato Gesù Cristo; Egli solo è il nostro Salvatore, Egli è il nostro unico Redentore, perché Egli solo ha potuto con i suoi patimenti e con la sua morte soddisfare pienamente alla giustizia di Dio suo Padre, ed ha versato il suo sangue per riscattarci. Ma non possiamo forse dire che la ss. Vergine ha cooperato a questa redenzione in quanto che Ella ha somministrato il suo più puro sangue per formare quel corpo adorabile offerto per nostro riscatto? Ella ha nutrito del suo proprio latte la Vittima che doveva essere sacrificata per i peccati degli uomini. Ella ha offerto nel tempo ed al piede della croce il suo Figliuolo adorabile per la redenzione del genere umano. – Ella ha dunque avuta la gloria di cooperare alla nostra salute, ed a questa gloria l’ha innalzata la divina maternità. Qual motivo, dico, di renderle i nostri omaggi ed i nostri rispetti. – Se Maria è Madre di Dio, Ella contrasse un’alleanza più particolare che alcuna creatura colle tre auguste Persone della Santissima Trinità. Ella è divenuta figliuola dell’Eterno Padre, Ella è il capolavoro della sua onnipotenza; come Madre del Figliuolo, Ella è stata la dimora e come la sede della sua sapienza; Sedes sapientìæ; come sposa dello Spirito Santo, Ella possiede i tesori del suo amore. In una parola, Ella è, secondo l’espressione di s. Agostino, l’opera per eccellenza dei disegni eterni: Æterni consiliì opus; e per parlare con s. Bonaventura, Ella è un raggio della Divinità: Radius Divinitatis. Sì, fratelli miei, Maria è il capolavoro dell’onnipotenza dell’Eterno Padre, della sapienza del Figliuolo, dell’amore dello Spirito Santo, poiché non vi è creatura alcuna in cui questi divini attributi si siano maggiormente manifestati che in Ella. L’onnipotenza di Dio si è manifestata in Maria in quanto che Ella non solamente è la più perfetta di tutte le creature, ma perché Dio non ha potuto, come dice s. Tommaso, fare una Madre più grande di Maria: Maiorem matrem Virgine Maria facere non poterat. La ragione che ne apporta questo santo dottore si è che, per fare una Madre più grande di Maria, converrebbe aver potuto darle un Figliuolo più grande di Gesù Cristo, che è Dio; e siccome nulla v’è di più grande che Dio, cosi nulla dopo Lui di più grande che Maria. Ella è altresì stata il capolavoro della sapienza di Dio, non solo per i lumi abbondanti che le sono stati comunicati, ma ancora perché Ella è stata scelta per essere la dimora ed il santuario di quella divina sapienza che risiedeva in Dio “ab eterno”. Anche lo Spirito Santo ne fece il capo d’opera del suo amore colla pienezza di grazie di cui la favoreggiò; pienezza di grazie sì grande che non solamente Maria fu preservata sin dal primo istante del suo concepimento dalla macchia del peccato originale, ma non ha neppure provato durante sua vita il minimo assalto del peccato, e che i ricchi doni di cui la sua anima è ricolma uguagliano la dignità a cui l’innalza la Maternità divina; di modo che, per giudicare dell’abbondanza dei doni che Ella riceve, converrebbe comprendere ciò che può fare di grande Colui che è il solo potente: Fecit mihi magna qui potens est. Bisogna forse stupirsi dopo questo, fratelli miei, all’udire i padri della Chiesa confessare ingenuamente l’impossibilità in cui sono di lodare degnamente le grandezze di Maria? Quali lodi, dice la comun dei dottori con s. Agostino, quali lodi, Vergine Santissima, possono accostarsi alla grandezza dei vostri meriti? Quìbus te laudibus effèram, nescio. L’impossibilità in cui siamo di parlare degnamente di Voi è precisamente ciò che ci dà una vera idea della vostra grandezza, e ciò che vi rende ai nostri occhi più degna dei nostri omaggi e del nostro rispetto. Ma un motivo molto forte ancora di esservi tutti dedicati si è quel complesso di virtù sublimi che accompagnò le vostre gloriose prerogative. – Qui, fratelli miei, io entro in un altro abisso di cui non posso penetrare la profondità. Se la santa Vergine ricevette dal suo Dio una pienezza di grazie si può dire che la sua vita fu un prodigio di virtù e di santità, perché, sempre fedele alla grazia, la lasciò operare sopra di sé in tutta la sua forza ed estensione, di modo che tutti i movimenti della sua vita furono segnati con azioni di virtù; e perché aveva essa ricevute maggiori grazie che tutte le creature insieme, né alcuna di queste grazie fu in Ella sterile, bisogna necessariamente confessare, dice il Crisostomo, che questa Vergine incomparabile ha sorpassato in virtù tutti i Santi, che essa ha avuta maggior fede che i Patriarchi ed i Profeti, maggior carità che gli Apostoli, maggior pazienza e costanza che i Martiri. Ma a qual segno principalmente non portò Ella l’umiltà, la purità? Lungi dal prevalersi nel mondo della sua dignità di Madre d’un Dio per esigere gli ossequi che le erano dovuti, Ella chiude gli occhi su tutto ciò che ha di grande, dimentica la nobiltà della sua nascita e non si ricorda che dell’umiliazione di sua natura. Ella mettesi sempre nel numero delle più semplici ancelle, e per meglio involare al mondo i favori che riceve dal cielo, Ella si confonde nella folla delle donne ordinarie, si sottomette, benché innocente, ad una legge stabilita per purificarsi dal peccato. Essa nasconde la santità della sua vita nell’oscurità del ritiro, e si studia di rimanere sconosciuta agli occhi degli uomini per non piacere che a Dio. O la più umile delle vergini! Quanto questo abbassamento volontario in cui vivete confonde il nostro orgoglio! Deh possiamo noi a vostro esempio amar il dispregio e l’oscurità, e meritare come Voi i favori del nostro Dio coll’umiltà dei sentimenti e con la purezza del cuore! Voi lo sapete, fratelli miei, la purità fu la virtù favorita di Maria: sin dall’età di tre anni essa si consacra al Signore con lo stato di verginità che abbraccia, virtù che era allora in obbrobrio tra le figliuole d’Israele. Quindi quale attenzione a fuggire tutto ciò che può lusingare i sensi? La vista di un Angelo la fa tremare, essa ama meglio rinunciare di esser Madre di Dio che rompere la fatta promessa di una verginale purità; e se consente finalmente al suo innalzamento, ciò non è che dopo essersi assicurata di non avere per isposo che lo Spirito Santo. Or sono queste sublimi virtù e tante altre da Maria praticate in un grado eminente che l’hanno innalzata a quel trono di gloria che occupa, e che sono i sodi fondamenti del culto religioso che le si rende in tutto il mondo cristiano. Invano i nemici della sua gloria si sono sforzati e si sforzerebbero di distruggere nello spirito dei fedeli i sentimenti di venerazione che sono stati sempre riserbati alle sue auguste qualità. – Invano le potenze dell’inferno han fatto ogni loro possa per togliere agli uomini il dolce rifugio che essi trovano nella sua protezione: questa potente Regina trionferà sempre dei nemici del culto; e la Chiesa, sempre condotta dallo Spirito Santo, si farà in tutti i tempi un dovere di sostenere gli interessi della Madre di Dio. Quindi le feste che esse ha istituite in suo onore, le chiese che consacra a Dio sotto il suo nome, le orazioni pubbliche che le indirizza, le confraternite erette a sua gloria, quelle società religiose che combattono sotto i suoi stendardi. La Chiesa s’ingannerebbe ella dunque inspirando e sostenendo una devozione falsa e temeraria? No, fratelli miei, ma sono i nemici della Chiesa che s’ingannano! Dio medesimo fa conoscere i loro errori: i miracoli che opera, le grazie singolari che accorda ai devoti servi di Maria provano abbastanza che Egli si compiace di vederla onorata sotto questi riguardi; ma per ricevere queste grazie bisogna metterne in pratica la devozione.

II Punto. In che consiste, fratelli miei, la vera devozione verso la Santissima Vergine? Nell’invocarla con confidenza, nell’imitarla con fedeltà. Queste due pratiche seguono naturalmente dai motivi che vi ho proposti per inspirarvi questa devozione. Infatti, se Maria è Madre di Dio, qual credito non ha Ella presso del suo Figliuolo, e qual confidenza non dobbiamo noi avere nella sua protezione? Se Maria è un modello perfetto di tutte le virtù, qual mezzo più efficace di meritare la sua protezione che imitare gli esempi che Ella ci ha dati? Quel che c’induce a mettere la nostra confidenza nelle persone capaci di farci del bene si è il potere e la volontà che esse hanno di farcene. Se non avessero che il potere senza la volontà o la volontà senza il potere, la nostra confidenza sarebbe vana; ma quando il potere è accompagnato da una buona volontà, questo è che fa nascere e sostiene la nostra speranza e ci autorizza a domandare delle grazie. Or l’uno e l’altra si trovano nella Santissima Vergine, dice s. Bernardo; Ella è Madre di Dio, per una necessaria conseguenza Madre degli uomini: la sua qualità di Madre di Dio, ci assicura del suo potere, e la sua qualità di Madre degli uomini ci assicura della sua buona volontà verso di noi. Ella è la più potente e la migliore di tutte le madri; con qual confidenza dobbiamo noi dunque indirizzarci ad Ella nei nostri bisogni! – Che la ss. Vergine in qualità di Madre di Dio abbia tutto il potere presso del suo caro Figliuolo, ella è una verità sulla quale non è possibile di formare il minimo dubbio. Ed in vero che non può la più perfetta di tutte le madri presso di un figliuolo che teneramente l’ama? Or un figliuolo amò mai egli giammai più teneramente la propria madre di quel che Gesù Cristo ami la sua? Potremmo noi credere che Colui il quale ha comandato ai figliuoli di amare e rispettare i loro genitori, mancasse di rispetto verso sua Madre? -Ah! fratelli miei, non impieghiamo qui altro linguaggio che quello della natura. Che non fareste voi per una madre che teneramente amate? Potreste voi ricusarle qualche grazia che Ella vi domandasse, senza esser tenuto per un ingrato, per un mostro di natura? E potreste voi avere sentimenti sì ingiuriosi verso Gesù Cristo di creder che Egli rassomigliasse a quei figliuoli disumani i quali non hanno che della durezza verso i loro genitori? Ah! Pensate meglio della bontà di un figliuolo che tiene a sua madre nel cielo il medesimo linguaggio che Salomone teneva un tempo alla sua. Domandate, o madre, tutto quello che vorrete, mettete alla prova la tenerezza d’un figliuolo, mentre non conviene ch’io vi ricusi alcuna cosa: Pete, mater mea, neque enim fas est, ut avertam faciem tuam.Tutte le mie grazie sono nelle vostre mani, spargetele sopra i vostri servi; qualunque cosa voi dimandiate, vi sarà accordata: Neque enim fas est etc. – Noi ammiriamo, fratelli miei, il potere di quei servi di Dio, di cui fa menzione la Scrittura, i quali avevano tanto accesso presso sua divina Maestà che Dio sembrava farsi ubbidiente alla loro parola, come è detto di Giosuè: Obediente Deo voci hominis. Or se i servi hanno avuto tanto di credito presso del padrone, quanto grande non deve essere quello della madre presso del figliuolo? Ella ne ha ricevuto tutto il potere nel cielo e sulla terra, dice s. Bonaventura, applicando ad Ella le parole di Gesù Cristo medesimo: Data est mihi omnis potestas in cœlo et in terra. S. Antonino aggiunge che è impossibile che Maria non sia esaudita: Impossibile est Mariam non exaudiri. Di modo che, continua egli, la prontezza con cui le vien accordato tutto quel che domanda le dà un credito che ha del comando e dell’impero. Rationem habet imperii.- Qual felice conseguenza, fratelli miei, a dedurre a favore di coloro che mettono la loro confidenza in questa divina Madre! Poiché alla grandezza del suo potere Ella unisce eziandio la volontà più sincera di soccorrerci. Noi siamo i suoi figliuoli, ed Ella ci ama con tenerezza; Ella vede in noi i fratelli di Gesù Cristo, e a ciascuno di noi in particolare questo divin Salvatore la diede per Madre prima di spirare sulla croce: Ecce mater tua. Noi possiamo ben dunque dire con ragione di avere una Madre onnipotente nel cielo. Or qual cosa più consolante? Potrebbe Ella dimenticare i nostri bisogni o vederli con occhio indifferente? No, fratelli miei, questa divina Madre dall’alto grado di gloria a cui è innalzata, non è talmente occupata della sua felicità che non pensi più a noi. Ella ci serve di avvocata presso di Dio; e siccome Gesù Cristo è il principale mediatore che difende la nostra causa presso suo Padre, come dice s. Paolo: Semper vivens ad interpellandum prò nobis, Maria impiega altresì la propria mediazione presso del suo Figliuolo, in favore di coloro che ricorrono alla sua protezione. Per mezzo di questa potente mediazione, arresta Ella il braccio della divina giustizia pronta a vibrare i suoi fulmini sopra gli uomini colpevoli. Oimè! quanti peccatori tra coloro che mi ascoltano sarebbero di già precipitati nell’inferno, se la Santissima Vergine non avesse domandata grazia per essi, se non avesse loro ottenuto il tempo di far penitenza. Quanti peccatori le sono debitori della loro conversione, quanti giusti della loro perseveranza, quanti Santi della loro ricompensa nel cielo! In una parola, la Santissima Vergine è come il canale per cui tutte le grazie, tutti i tesori del cielo ci sono comunicati: chiunque è favorevolmente ascoltato da Maria lo è altresì da Gesù Cristo; e chiunque con fiducia la invoca è sicuro di essere esaudito e di provare gli effetti della sua protezione. Ricorrete dunque a Maria, conchiude a questo proposito s, Bernardo, o voi tutti che vi riguardate in questo mondo come sopra un mare procelloso, agitati dalle tempeste, trasportati dai flutti, esposti ad ogni momento al pericolo di far naufragio. Se voi volete non restare sommersi, tenete fissi gli occhi a quest’astro che calma le tempeste: « Respice stellam, voca Mariam ». Se voi siete assaliti dalle tentazioni, come da venti fuoriosi, che si sollevano contro di voi, se le vostre passioni vi spingono contro gli scogli, se l’ira vi strascina al precipizio: ricorrete a Colei che può far cessare la tempesta e che vi farà trionfare dei vostri nemici con le grazie che vi otterrà per superarli: Voca Mariam. Se, molestati dai rimorsi di vostra coscienza e dalla gravezza dei vostri peccati, siete tentati di precipitarvi nell’abisso della disperazione alla vista dei terribili giudizi di Dio, pensate solamente: Maria, invocatela nei vostri pericoli, nelle vostre tribolazioni, in tutti i vostri bisogni, e proverete consolazione nelle vostre pene, sentirete rianimarsi la speranza, perché è impossibile, dice s. Bernardo, che un vero servo di Maria possa perire. Datemi qualcheduno, dice egli, che l’abbia invocata invano, ed io consento che non l’invochi più. Ma ricordatevi, aggiunge il citato santo Dottore, che il mezzo più efficace di rendervela propizia è d’imitare gli esempi delle virtù che Ella vi ha dati: Ut impetres eius oratiònis suffragium , non deseras contersationis èxemplum. In questa pratica, fratelli miei, consiste principalmente la vera devozione verso lo Santissima Vergine. Bisogna onorarla, ella è cosa buona ed utile, invocarla con confidenza. Ma contentarsi di darle qualche segno di venerazione, d’indirizzarle alcune preci, d’essere aggregato a qualcheduna delle sue confraternite ed attenersi precisamente a questo, senza fare alcuno sforzo per imitare le sue virtù, ella è una devozione superficiale ed inutile. Per essere vero servo di Maria Vergine, bisogna esser servo di Gesù Cristo, ubbidire come Ella alla sua legge, camminare come Ella sulla tracce di questo divin modello. La Santa Vergine, è vero, è il rifugio dei peccatori: Refugium peccatorum; essa ottiene loro le grazie di conversione e di salute. Ma otterrà Ella forse queste grazie di conversione ai peccatori che non vogliono convertirsi, che persistono ostinatamente nei loro disordini? Salverà Ella forse quei peccatori che non vogliono profittare delle grazie di salute? No, fratelli miei, Dio medesimo che ci ha creati senza noi, non ci salverà senza di noi, dice s. Agostino. Non bisogna dunque, o peccatori, immaginarvi che con alcune preci indirizzate alla Madre di Dio, con alcune pratiche di devozione in onor d’Ella adempite, voi nulla abbiate a temere, perché siete, dite voi, sotto la protezione di Maria, la quale non vi abbandonerà. Voi avete ragione di mettere in Lei la vostra confidenza, e di tutto aspettare dal suo potere e dalla sua bontà; ma non è confidenza, ella è presunzione il credere che la Santa Vergine farà tutto dal canto suo mentre voi nulla volete fare dal vostro. Essa protegge i peccatori ma ha in orrore il peccato. Le stanno troppo a cuore gl’interessi del suo caro Figliuolo per autorizzare gli oltraggi che Gli si fanno; chiunque dichiara la guerra al suo Figliuolo incorre il suo sdegno; l’ubbidienza ai voleri del Figliuolo è il solo mezzo con cui sperare si possono i favori della Madre. –  Eh! come mai questa Vergine, che è stata la più grande e la più umile nello stesso tempo tra tutte le creature, accorderebbe Ella i suoi favori a quegli uomini orgogliosi che pieni di se stessi non hanno che del dispregio per gli altri; che cercano solo d’innalzarsi e comparire quel che non sono, mentre hanno tanti motivi di umiliarsi, di abbassarsi? Con qual occhio questa Vergine tutta pura potrebbe vedere nel numero dei suoi figliuoli quelle anime carnali e voluttuose, che nutriscono la loro immaginazione di pensieri disonesti, si abbandonano ai desideri sensuali, s’immergono nel fango e nella sozzura del peccato, cui Ella ha tanto in orrore? Quali grazie possono sperare da questa Madre del divino Amore quei vendicativi che non vogliono perdonare, quei maldicenti che vibrano i loro colpi avvelenati contro la riputazione dei prossimo, quegli usurpatori ingiusti dei beni altrui? No, no, peccatori, chiunque voi siate, non vi lusingate dalla protezione e del credito della Santissima Vergine; se voi non lascerete le vie dell’iniquità, non crediate che all’ombra delle sue ali possiate mettervi a coperto delle ree passioni che non volete domare; non sperate che, dopo aver passata la vostra vita nel peccato, Ella vi ottenga la grazia d’una santa morte. Egli è impossibile, lo so, che un vero servo di Maria perisca, ma se volete essere di questo numero ed aver parte alla sua amicizia, cessate di essere i nemici del suo Figliuolo: cominciate a lasciare i vostri disordini, a cambiare vita, ed Ella vi otterrà gli aiuti di cui avete bisogno per rientrare in grazia con Dio. Nel che la sua potente protezione molto serve ai peccatori; mentre i peccatori, per uscire dall’abisso del peccato, hanno bisogno di una grazia particolare, che essi non meritano; ma se hanno un vero desiderio di ritornar a Dio, e per riuscire in quel buon disegno ricorrono alla Santa Vergine, ah! allora sì che Ella fa loro sentire il suo credito, ottenendo loro quelle grazie forti e potenti che fanno loro ricuperare la libertà dei figliuoli di Dio. – Quanto a voi, anime giuste, che possedete l’amicizia del vostro Dio, e che in questa qualità avete maggior parte ai favori della Santa Vergine, voi potete tutto sperare dalla sua protezione, se siete fedeli a camminare sulle sue tracce. Indirizzatele ferventi orazioni, Ella vi otterrà la perseveranza nel bene e la grazia di morire della morte dei giusti. – Per ottenere tanti favori, a Voi ricorriamo, o Vergine Santissima, Madre di misericordia, nostra speranza presso Dio: Mater misericordiæ, vita, dulcedo, spes nostra. Noi v’indirizziamo i nostri voti, i nostri sospiri in questa valle di lacrime, ove la nostra occupazione è di gemere, di piangere sulle nostre miserie: Ad te suspiramus. Degnatevi di gettare su di noi i vostri sguardi propizi, affine di procurarci dopo il nostro esilio, un accesso favorevole presso del vostro caro Figliuolo: Et Jesum benedictum etc. – Noi non vi domandiamo, Vergine Santissima, i beni transitori di questo mondo: noi non vi domandiamo neppure di ottenerci la liberazione dai mali di questa vita, essi possono essere per noi un motivo di predestinazione, se ne facciamo un santo uso; ma noi vi preghiamo di ottenerci la pazienza di soffrirli in vista della nostra salute. Otteneteci un grande orrore del peccato, che è il solo male che dobbiamo temere. Domandate per noi la purità, l’umiltà e le altre virtù che vi hanno resa sì gradita a Dio. Fate vedere in questo che voi siete nostra Madre; fatecelo conoscere principalmente al momento della morte, che deve decidere della nostra sorte eterna. Si è soprattutto per quell’ultimo momento che noi imploriamo il vostro potentissimo patrocinio affinché il nemico della salute non prevalga su di noi, e la morte non sia che un passaggio alla vita beata. Cosi sia. [Oltre le pratiche generali di devozione verso la Santa Vergine, che si sono proposte in questa istruzione, si raccomandano le seguenti: Recitare ogni giorno qualche preghiera in suo onore, come la corona, le sette allegrezze: ascriversi nelle sue confraternite come del Rosario, del Carmine ecc. Si può facilmente recitare la terza parte del Rosario ogni giorno, cominciando sempre con un atto di contrizione; digiunare, o far qualche mortificazione il sabato in suo onore, averne un’immagine nella sua camera, salutarla quando si passa avanti qualche cappella o immagine, dicendo: O mater Dei, memento mei: o madre di Dio, ricordatevi di me, adesso e nell’ora della mia morte. Proporsela per modello nelle sue azioni, principalmente le persone del sesso, domandando spesso a sé medesimo come la Santa Vergine pregava, come conversava essa col modo; qual era il suo orrore per le compagnie profane, il suo amore per la solitudine, pel silenzio ecc.]

 

Offertorium
Orémus
Gen III:15
Inimicítias ponam inter te et mulíerem, et semen tuum et semen illíus.[Porrò inimicizia tra te e la Donna: fra il tuo seme e il Seme suo.]

Secreta
Ascéndat ad te, Dómine, nostræ devotiónis oblátio, et, beatíssima Vírgine María in coelum assumpta intercedénte, corda nostra, caritátis igne succénsa, ad te júgiter ádspirent.
[Salga fino a Te, o Signore, l’omaggio della nostra devozione, e, per intercessione della beatissima Vergine Maria assunta in cielo, i nostri cuori, accesi di carità, aspirino sempre verso di Te.]

Communio
Luc 1:48-49
Beátam me dicent omnes generatiónes, quia fecit mihi magna qui potens est. [Tutte le generazioni mi diranno beata, perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente.]

Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, salutáribus sacraméntis: da, quǽsumus; ut, méritis et intercessióne beátæ Vírginis Maríæ in coelum assúmptæ, ad resurrectiónis glóriam perducámur.
[Ricevuto, o Signore, il salutare sacramento, fa, Te ne preghiamo, che, per i meriti e l’intercessione della beata Vergine Maria Assunta in cielo, siamo elevati alla gloriosa resurrezione.]

STORIA DEL BUON LADRONE di mons. J. J. GAUME (1)

STORIA

DEL BUON LADRONE

DEDICATA AL SECOLO XIX.

DI MONSIGNOR GAUME

[Prato, Tip. Guasti. 1879]

PREFAZIONE

Dedica di questa Istoria al secolo decimonono. — Ragioni di questa  dedica. — Il secolo decimonono trova nel buon Ladrone il suo  modello. — Colpevole al pari di lui, come lui può e deve pen­tirs i.— La sua conversione è la soluzione unica di tutti i  problemi sociali. — Risposta alle difficolta. — Utilità di questa  Istoria: essa rivela molti fatti curiosi, dimenticati o poco noti: — Dessa unisce la Storia evangelica con la Storia profana: —  apre l’anima ai più nobili sentimenti, l’ammirazione e l’ amore; — ed è un preservativo o un rimedio possente contro lo  scoraggiamento e la disperazione.

I.

Io amo i Santi che non furono sempre santi. Se  parrà strana una tal propensione; è ella forse degna  di biasimo ? Un illustre dottore della Chiesa la spiega  e la giustifica con queste parole: « Noi comprendiamo,  dice s. Ambrogio,  l’utilità dei peccati de’ santi, ed il  perché la Provvidenza li permise. Destinati a servirci  di modello, è bene per noi che abbiano alcuna volta  errato. Se non ostante le insidie di che sovrabbonda il  cammin della vita, non avessero eglino mai messo il  piè in fallo percorrendolo, noi ci perderemmo d’animo,  e deboli come ne siamo, ci sentiremmo tentati a crederli di una natura superiore alla nostra e quasi divina,  soggetta a fallire peccando. Persuadendoci di essere di altra inferiore natura,  un tal concetto ci distoglierebbe da una imitazione  riguardata come impossibile. Quindi è che la grazia di Dio ha lasciato anche a loro sentire un po’ la propria debolezza, affinché la loro vita fosse per noi un modello  di accessibile imitazione, ed i loro atti fossero una doppia  lezione di fedeltà e di penitenza. Il perché, quando io  leggo le loro cadute, vedo che parteciparono della mia  debolezza, e ravvisandoli non esenti da infermità,  prendo fiducia di poter correre dietro ai loro passi » [S. Ambrogio, In prior. Davidis apolog., cap. II.]

II.

Or ecco la storia di un gran peccatore, divenuto un  gran santo. Essa  è  dedicata ad un gran peccatore, che ha il più urgente bisogno di divenire un gran santo. Il secolo decimonono è il nome di questo gran peccatore. Nel colpevole illustre richiamato alla sua memoria, gran peccatore, gran ladro e gran santo, il secolo deci­monono riconoscerà esattamente quello che egli è, e  quel che deve essere. – Il dire di questo secolo che è un gran peccatore  ed un gran ladro, al pari di quello del Calvario, non  è un calunniarlo. Il dire che dee pentirsi, e pentirsi senza ulteriore  indugio, egli è un mostrargli la sola via di salute, che  gli resta. – Il dire che può pentirsi, egli è un ridestare in esso la fiducia ed incoraggiare i suoi sforzi. Uopo è stabilire queste tre proposizioni per giustificare la dedica di questa storia, e dimostrarne la convenienza  e l’utilità.

III.

1.° Dire del secolo decimonono che è un gran peccatore, e come quello del Calvario, un gran Ladro,  non è un calunniarlo. — Un secolo si caratterizza non già per i fatti ch’esso presenta, ma sì per lo spirito generale che lo  distingue. Questo spirito si rivela nelle idee dominanti  in fatto di politica e di religione. Alla loro volta codeste idee hanno la loro espressione nella condotta dei governi,  nelle istituzioni, nelle leggi, nei pubblici costumi e nelle  occupazioni e passatempi preferiti, nei libri e nei gior­nali che godono del favor popolare. In una parola, un  secolo si caratterizza per l’insieme delle sue aspira­zioni e tendenze intellettuali, religiose e sociali. – Che in questo secolo vi abbiano delle individualità  più o meno numerose, non partecipanti al general mo­vimento, e che queste diano segno della loro indipen­denza, con atti isolati o collettivi in opposizione allo spirito dominante, non perciò il secolo conserva meno il carattere che lo distingue, e per il quale si è in diritto  di definirlo. Ciò sia detto per mostrare che noi siamo ben lontani dal voler sminuire e molto meno negare il  bene che oggigiorno si fa, pur sostenendo il nostro giu­dizio sul secolo decimonono considerato nel suo insieme. Veniamo alle prove. Qual è mai lo spirito del secolo decimonono? È desso cattolico, o no ? Per farne retto ed imparziale  giudizio, non è da prendersi in esame presso una sola  nazione. Ragion vuole che, nelle loro generali manifestazioni, siano considerate tutte le nazioni almeno dell’Occidente. – È forse lo spirito cattolico che regna nella Russia,  nella Prussia, nella Svezia, nella Danimarca, nell’Inghilterra, in tutti i paesi protestanti e scismatici, vale  a dire per lo meno, nella metà dell’Europa? E qual è lo spirito che domina nelle nazioni, che diconsi ancora  cattoliche, Francia, Spagna, Austria, Portogallo, Italia?  Come nazioni tendono esse al Cattolicesimo, o alla parte  opposta? Cosa puerile sarebbe il discutere una siffatta  questione: il solo proporla è lo stesso che risolverla.

IV.

Or il secolo decimonono faccia il suo esame di co­scienza. V’ha una legge, la più santa di tutte le leggi,  e madre di tutte le leggi degne di questo nome; una  legge discesa dal cielo e data da Colui, innanzi al quale deve curvarsi ogni fronte, star muto ogni labbro, pie­garsi ogni ginocchio; una legge che ha la sanzione di  ricompense e pene temporali ed eterne; una legge,  della quale il battesimo rende l’osservanza ben più  rigorosa pei popoli cristiani, che per le nazioni infedeli. Questa legge, che si compone di dieci articoli, si chia­ma il  Decalogo. – Or di questi dieci articoli, qual è quello che il  secolo decimonono osservi sul serio, e secondo lo spirito  del divino legislatore, in Russia, in Francia, in Italia e presso le altre nazioni d’Europa? O piuttosto qual è quella nazione che, da nord a mezzogiorno non li violi tutti apertamente ed ostinatamente? Egli è doloroso a dirsi; ma al veder la condotta del secolo decimonono, non si può mettere in dubbio che per esso Iddio è non un so qual vecchio re quasi detronizzato, i cui consigli, le cui prescrizioni, i cui divieti, le cui promesse e minacce, oggetto d’indifferenza per gli uni, e di scherno per gli altri, non pesano più sulla vita delle nazioni, come nazioni, di quello che sul piatto di una bilancia una leggerissima piuma. – Dove trovate voi la parte di Dio nella, politica dei e, nei discorsi e negli atti officiali dei governi? Si potrà nominare un solo uomo di stato veramente cristiano in tutta la moderna Europa? Il secolo decimonono non fa ora dei codici nei quali non si rincontra una sola volta il nome di Dio? Qual secolo anche pagano, ha mai proferito e lasciato proferire tante bestemmie contro quel nome adorabile, e contro tutto ciò, che Egli adombra della sua divina maestà? Tranne quella della spada, qual potenza è sacra per esso? E son tuttavia sacri per esso i giorni riserbati al riposo? E qual’è l’andazzo dei pubblici costumi? Depositaria della divina autorità e ministra delle sue leggi, la Chiesa è ella pel secolo decimonono l’oggetto di un’esemplare venerazione? Promotrice e guardiana della vera civiltà, riceve forse la Chiesa il ben meritato omaggio di una positiva riconoscenza, e di un filiale attaccamento?

V.

Se non ché, la violazione audacissima della più  santa delle leggi non è già la più grande iniquità del secolo decimonono. V’ha una differenza enorme tra la  reità d’un figlio, che disobbedisce al padre, riconoscen­do pur sempre la paterna autorità, e quella di un figlio,  che non solo trasgredisce i paterni comandi, ma nega  ancora la paterna autorità. E di questa reità è imputabile il secolo decimonono. Non contento di ribellarsi a Dio ed alla sua Chiesa  disconosce la loro autorità: « Io sono norma e regola a me medesimo, così nel pensare, nel discorrere e  nell’operare. Che bisogno ho io di Gesù Cristo e della  sua Chiesa? Qual’uopo ho del Papa? Combattere la  loro tirannica autorità è mio buon diritto; scuoterne il giogo è mia gloria, e liberarne la umanità egli è aprire ad essa un’èra di libertà, di progresso e di felicità. » Ed  ecco per chi vuole intenderlo il perpetuo ritornello del secolo decimonono in tutta la sua estensione, e l’ultima  parola del suo modo di pensare più o meno officiale. – Quindi ciò che per  l’addietro non era mai avvenuto,  i titoli dei suoi pubblici fogli sono:  Il Libero Pensiero, La Morale Indipendente, e pur anche l’Àteo.

VI.

Di là proviene ancora il tutto nuovo carattere del  male all’epoca nostra. In tutti i tempi v ’ebbero degli errori; ma la legale riconoscenza dei dritti dell’errore  nelle nazioni cattoliche, ch’è quanto dire la patente  concessa ai falsi monetarii della verità di batter falsa  moneta pubblicamente; ma società formate in piena  luce col fine palese di tener lontano come un malefico  il Cristianesimo dalla culla del bambino, dal capezzale  del moribondo, e se sia possibile, di  soffocarlo nel fango; ecco ciò che nel secolo decimonono solamente si è ve­duto avverarsi. – Del pari in tutti i tempi v’ebbero delitti e misfatti  contro la proprietà ed i buoni costumi; ma l’apologia  del furto e della disonestà, e con essa la glorificazione  del suicidio, ecco altresì quel che non si ritrova, col  lascia-passare delle opinioni, se non nel secolo decimonono. Finalmente in tutti i tempi vi furono tumulti e  ribellioni contro le legittime potestà; ma la teoria della rivoluzione e del regicidio, anzi la consacrazione del principio dell’uno e dell’altra, con la proclamazione  legale della sovranità dell’uomo, ecco ciò che invano si cercherebbe fuorché nel secolo decimonono. Nega­zione dell’autorità divina e della coscienza umana, si  è questo il distintivo carattere della sua perversità. A giudizio di ogni spirito imparziale, essa è ben al  di sopra di quella dei secoli precedenti. « Chi può senza fremere risovvenirsi (diceva il conte de Maistre) del  frenetico fanatismo del sedicesimo secolo, e delle spa­ventevoli scene di che fece spettacolo al mondo! Qual furore sopratutto contro la Santa Sede! Noi tuttora  arrossiamo per la natura umana, leggendo nelle storie del tempo le sacrileghe ingiurie vomitale da quei novatori villani contro la romana gerarchia. « Nessuno dei nemici della fede si è mai ingannato. Tutti, battendosi contro Dio, si battono invano; ma tutti sanno ove bisogna battere. Ciò che v’ha di più  notevole si è, che a misura che i secoli passano, gli  attacchi contro l’edificio cattolico si fan sempre più  poderosi, di maniera che, sempre dicendo:  Non si può andar più, oltre, si rimane sempre ingannati. » [Du Pape, t. II, p. 271.] E di  tal verità è prova evidentissima il nostro secolo.

VII.

Il decimonono secolo è dunque un gran peccatore;,  ma soprattutto un gran Ladro.  La borsa o la vita era  stata fin qui la parola del ladro di pubblica strada. — La borsa e la vita è la parola del secolo decimonono. Di  due specie sono i beni dell’uomo, i beni del corpo, e  i beni dell’anima. Beni del corpo, la borsa; beni dell’anima, la vita. Il ladro di pubblica strada prende la  borsa e lascia la vita; il secolo decimonono prende la  borsa e la vita. – Esso prende la borsa. Non è ancora compito un  secolo che la Chiesa Cattolica era la più ricca proprie­taria del mondo. La Francia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia ed una parte notabile dell’Alemagna erano  coperte di proprietà della Chiesa. Essa oggigiorno non ha più nulla di proprio, e se alcuna cosa le rimane, è per la precaria tolleranza degli spogliatori quali  son sempre disposti, come pur confessano,  a stendervi l’avida mano. – In questo stesso momento l’Italia finisce di vendere  i beni della Chiesa; e gran mercé di Dio se al Capo  augusto di quella ricchissima Chiesa rimane un angolo di terra indipendente su cui riposare il capo. E questo piccolo possesso, oppugnato da mille sofisti, e sempre  minacciato dalle armi degli invasori, uopo è difenderlo a costo del più puro sangue, senza potersi ripromettere che lo sarà sempre con fortunato successo. Certo giam­mai il furto sacrilego fu praticato in simile proporzione  e con sì sfacciata impudenza!

VIII.

Uno è il diritto di proprietà, ed è ugualmente sacro nella persona del prete come in quella di qualsiasi uomo del secolo. Violatore di questo diritto nell’ ordine reli­gioso, il secolo decimonono non poteva a lungo rispet­tarlo nell’ordine sociale. E con quale impassibilità non ha esso spogliato Re e Principi di sangue reale! La storia conta già più di  sessanta troni rovesciati da esso. E ben superiore è il numero dei re e delle regine, dei principi e delle prin­cipesche famiglie spogliate dei loro diritti ereditari, e della loro personale fortuna, espulsi, esiliati; di sovrani  divenuti vassalli, ed erranti per le diverse contrade dell’Europa, cercando un’ospitalità che non sempre  vien loro accordata. – Non parliamo delle provincie ingiustamente invase,  né delle nazionalità soppresse, né delle mostruose tasse  imposte ai vinti a profitto dei loro depredatori. Notiamo  soltanto che a tutte queste ingiustizie, a tutti questi  furti a mano armata, il secolo decimonono impresse il proprio suggello della sua perversità. Col suo più mellifluo tuono di voce, esso li chiama annessioni, risultati inevitabili delle aspirazioni dei popoli, conseguenza le­gittima del nuovo diritto.

IX.

Come il torrente che scende dalla montagna e si  precipita nella valle che copre di arena e di fango e  che devasta; così il furto esercitato nelle alte regioni  è disceso negli ordini inferiori della società. Tra tutti gli altri, il secolo decimonono è il secolo delle subite  scandalose fortune; scandalose per la loro rapidità,  scandalose per la loro enormità, scandalose per i mezzi adoperati a farne acquisto. Per quanto poco iniziato uno sia di ciò che avviene, e non potrebbonsi nelle diverse carriere amministrative,  industriali, commerciali, finanziarie indicar persone,  che quindici o venti anni addietro potevano dirsi poveri,  e che ora posseggono un patrimonio di milioni? Come  persuadersi che questi rapidi acquisti di ricchezze siano  esclusivo frutto di onesto lavoro, il prodotto legittimo  di un’ industria, o di mezzi non condannevoli né avanti  a Dio né avanti agli uomini? Fin qui l’opinion pubblica  si ricusa di crederlo.

X.

E che pensare poi della giustizia del secolo decimonono nelle transazioni commerciali ed anche nelle  ordinarie relazioni di compra e vendita? È stato detto  già: di tutte le scienze moderne, quella che ha progre­dito più è la scienza del rubare. Pare che la chimica  non sia stata inventata per altro, che per falsificare  più abilmente i prodotti dell’industria, e fino le sostanze  alimentari. Se dobbiamo credere alle rimostranze, ai lamenti  che sentiamo farsi per ogni dove, ed ai processi che  del continuo si tengono nei tribunali, vi han pochi, i  quali possano dire: « Son certo che il vino che io bevo non è punto adulterato, e che sostanze nocive non v’hanno nel pane ch’io mangio, nell’olio che mi fa lume. – « Io sono egualmente sicuro che non v’ha cotone  in quella stoffa ch’io compro, perché la credo di refe,  di seta, o di lana, e che non v’è frode nella fabbri­cazione degli oggetti che acquisto per mio uso, e che  ognuno rifugge dall’ingannarmi sulla misura e sul peso,  e dal vendermi per buone delle merci danneggiate, o d’infima qualità. – « In fine io ho la certezza che nella mia casa non  v’ha frode alcuna, e che né i miei domestici, né i miei  operai, né tampoco i sarti o le sarte mi rubino in modo  alcuno, e che se talvolta vi ha furto, la è cosa ben rara  e seguita sempre da un sincero pentimento, e da una  giusta riparazione. »

XI.

Ma ciò non è tutto. Posseduto da uno sfrenato amore della ricchezza, il secolo decimonono ha posto in voga due cose, che ad ogni istante compromettono la giu­stizia, cioè, il ciarlatanismo e la concorrenza illimitata. Di che mai dal principio alla fine dell’anno, son ripiene  le ultime pagine dei giornali ? Di annunzii. E le canto­nate delle città di che sono tappezzate? Di avvisi  stampati di ogni colore e di ogni dimensione. E questi annunzii ed avvisi che dicono mai? Essi  dicono che, in virtù di novelli processi e di condizioni eccezionalmente fortunate, si vende a buon mercato,  e tale da non credersi, tutto ciò che v’ha di meglio, e di più bella apparenza in fatto di tessuti o di derrate d’ogni genere. Voi correte a comprare, e siete rubato. Essi dicono che sì scoprirono talune preparazioni medicinali di tanta efficacia da guarire le malattie più ribelli ad ogni rimedio. Voi comprate e siete rubato. Essi dicono che si è formata una società con un capitale di più milioni per dar vita ad una industria, il cui successo è talmente sicuro, che oltre l’interesse della loro moneta gli azionisti riceveranno ricchi divi­dendi. Sedotti dall’esca del guadagno, rassicurati dai nomi che figurano nel manifesto, i gonzi accorrono, e ne dividono la sorte. – Il ricco, l’artigiano, il domestico recano, chi le sue  rendite, chi i suoi risparmi, e chi il suo salario; e per accrescere il numero dei creduli, nei primi anni gli interessi sono regolarmente pagati. Vi si aggiunge pur anco un dividendo, che peraltro resta ad aumento del capitale sociale; e ben tosto non vi han più né inte­ressi, né dividendi, né capitale; tutto è perduto. In questa specie di furti, il secolo decimonono può vantarsi  di portare la palma su tutti.

XII.

E non meno a tutti gli altri secoli va esso innanzi  per la novella invenzione che dicesi concorrenza illi­mitata. Come applicazione della libertà rivoluzionaria, la concorrenza illimitata ha per iscopo di produrre più che uno può al miglior mercato possibile; e chi non vede in essa una permanente tentazione di frode e di furto? Il mio vicino vende a tal prezzo gli stessi pro­dotti ch’ io vendo ; acquista credito, e la sua concor­renza cagiona la mia rovina, e m’impedisce di far fortuna. È dunque necessario ch’io venda a più basso prezzo di lui. Ma se impiego le stesse materie, se fo uso dello stesso metodo di fabbricazione usato finora, il prezzo di fattura rimarrà sempre Io stesso così per me, come per lui, e gli avventori continueranno a preferirlo. Come dunque eludere la difficoltà ? Alterando le ma­terie prime con la mescolanza di altre affini e di minor costo, e ponendo minor cura nella fabbricazione: in una  parola rubando.

XIII.

Il seguente fatto riassume tutte queste specie di falsificazioni nate dalla concorrenza illimitata. Regnava il Buon Luigi Filippo, e i Deputati della Gironda domandavano  la riduzione della imposta sui vini. Con una patetica esposizione rappresentavano la misera condizione dell’industria vinicola, e particolarmente le gravezze insop­portabili, che pesavano sulla loro provincia. Un deputato di non so qual’altro dipartimento dirigendosi all’ora­tore, gridò dicendo: « Io domando, come voi, non sola­mente la riduzione, ma la soppressione del diritto fiscale sul vino, se voi potrete provarmi che in commercio vi ha un solo ettolitro di vino di Bordò che sia pretto e vero Bordò, » Si tacque allora il deputato della Gironda, la camera rise, e la domanda fu rigettata. più furto, ma è abilità, saper fare. A forza di raggiri indefinibili, sappiate procurarvi cento mila lire di rendita, e voi certamente avrete la riputazione di uomo abile. Abbiatene due cento mila, e sarete un grand’uomo, al quale saranno accessibili tutte le sale di ricevimento aristocratiche. – Senza che gli sia pur passato pel capo di farlo im­prigionare come un nemico dell’umana società, o di separarlo da essa come un pazzo della più pericolosa natura, il decimonono secolo ha inteso un sofista proclamare questa massima: La proprietà è il furto.

XV.

È tale l’aberrazione del senso morale, che a pre­venire i tremendi effetti di un siffatto principio, uomini di stato stimaronsi obbligati a pubblicare dei volumi per confutarlo. I loro sforzi furon essi coronati di buon successo? Mi è lecito dubitarne. Dopo come per l’in­nanzi, grandi furti ebbero luogo, poche o nessune restituzioni. Al tempo istesso, il socialismo minaccia la società. E che sono mai il socialismo, il comunismo, il dritto al lavoro, la democrazia universale, la grande repub­blica mazziniana, la rivoluzione in una parola, se non il furto eretto a principio? Incoraggiata dagli uni, glorificata dagli altri, più o meno ben accolta da quanti non son cattolici di vecchia data, la rivoluzione può, per le future sue rapine, come per le sue passate ingiustizie, contare su quel decreto d’indennità, al quale il secolo decimonono ha dato corsoe valore: È un fatto compiuto.Ed ecco nell’ordine materiale accennate alcune delle attinenze del secolo decimonono col principio della giu­stizia. Ora vediamo quali sono esse nell’ordine morale.

XVI.

Per colpevole che e’ sia, il furto della borsa può passare per un peccato da nulla in confronto col furto della vita. La verità è la vita dell’uomo, è il suo pane,  il suo vino, l’aria sua respirabile; è il suo padre e la sua madre, come già fu detto nelle lingue orientali. La verità è la sua fede, la sua speranza, la sua consola­zione; è la bussola che dirige l’esistenza, e la forza  che dà lena a portarne il peso. La verità è lo scudo  che protegge l’onore, la innocenza, la forza nelle in­certezze dello spirito, contro gli smoderati desideri del  cuore, e contro le insidie e le lusinghe del mondo. – Il più reo pertanto di tutti i furti sì è quello della  verità. Spogliandone quell’essere, da un canto sì misero, che si chiama uomo, egli è un renderlo cieco, e con­dannarlo a brancolare nel vuoto; egli è un farlo zim­bello d’ogni fantasma, e sospingerlo barbaramente di  precipizio in precipizio; egli è un cangiarlo in bestia immonda alternativamente e crudele, in fino a che, torturato da dubbi, perda ogni lume di ragione; o che  stanco di una vita senza norma e senza scopo, invochi il nulla e ponga fine ai suoi giorni.

XVII.

Il decimonono secolo è egli reo di un simile furto?  E n’è egli veramente reo più che ogni altro secolo? Non si ha che aprir gli occhi per rispondere a simili  interrogazioni. Che sono mai quei milioni di scritti cat­tivi, opuscoli, libri, giornali, canzoni, farse, opere tea­trali, romanzi, incisioni, stampe di ogni formato ed anche del più basso prezzo, che ogni sera, dal principio alla fine dell’anno, partono da tutte le capitali d’Europa, se non bande di ladroni, che in tutti i luoghi abitati, e fin nei più umili villaggi, vanno a pervertire le menti, a profanare i cuori, ad assassinare le anime? Al giovine han tolto il rispetto alla paterna autorità, alla donzella il pudore, al ricco la pietà, al povero la rassegnazione, a tutti il sentimento cristiano, la vita soprannaturale, e con essa ogni conforto nel presente,  ogni speranza nell’avvenire; inestimabili tesori com­perati al prezzo del sangue di un Dio, e deposti col Battesimo nel cuore del cristiano.

XVIII.

E che sia cosi, il fatto non può revocarsi in dubbio.  Agli ottimisti più dichiarati esso rivelasi per lo stra­ripamento della vita materiale. Come ai tempi che pre­cedendo il diluvio, l’uomo del nostro secolo, perduta la vita dello spirito è fatto carne, ed i movimenti del suo cuore invece di sollevarsi in alto, vanno abbas­sandosi. Soggiogare la materia, sorprendere i segreti della materia, manipolare e trasfigurar la materia, glorifi­carsi nella materia; consumar tutta la vita nei godi­menti della materia; nulla vedere, nulla desiderare e nulla ammettere fuori della materia; sprezzare, deri­dere, calunniare, perseguitare coloro che gli propongono  altra cosa che la materia: ecco 1’uomo qual è fatto dai  ladroni della verità. – A tutti questi ladroni mille volte più rei di quelli  che forzano gli scrigni, il secolo decimonono lascia  libero il campo. Essi sono i suoi veri figli, e s’ispirano  del suo spirito e realizzano il suo pensiero. Al punto di vista morale egualmente che al punto di vista ma­teriale, dire che il secolo decimonono è un ladro, ed un gran ladre, non è dunque un calunniarlo.

XIX.

2.°  Il dir poi che esso deve pentirsi, e pentirsi al più presto,  è un indicargli la sola via di salute che gli ri­manga. — Ripetere che la situazione dell’Europa è grave, estremamente grave; che la presente società è  malata e seriamente malata; che nell’antico mondo,  come nel nuovo, fermentano elementi di dissoluzione universale: egli è questo un esprimere delle verità triviali; tanto son esse ora conosciute. Indarno i piaggiatori non cessano di cullare colle loro lodi il secolo decimonono. « La tua educazione è perfetta, gli dicono, e tu hai bene di che vantarti al  paragone dei secoli precedenti. Tu sei abbastanza forte per avanzarti nella via del progresso. Giammai non fu  il mondo più illuminato, più libero e prosperoso. Giam­mai le grandi nazioni dell’Europa non furono gover­nate con maggior sapienza, e maggior gloria. Le agitazioni che provi, non sono che superficiali: nè mai  l’edifìcio sociale riposò sopra più solide basi. » – Ma il secolo decimonono non è perciò completamente  rassicurato. Un segreto istinto lo avverte, non essere egli nell’ordine, e tutto ciò che è fuor dell’ordine non può  durare. L’ordine porta seco la pace, e la pace non si trova in alcun luogo. Vero è che in questo momento tutte le parole dei re suonano pace; ma tutte le loro  braccia fanno apparecchi di guerra. Per ogni dove da  un giorno all’ altro la guerra minaccia di venire ai fatti. Di qui ha origine quel sentimento sconosciuto  nelle epoche regolarmente costituite, la paura. – Il secolo decimonono prende di assalto città stimate  inespugnabili; ed ha paura. Con un pugno di soldati riporta lontane e strepitose vittorie su potenti nemici; ed ha paura. Sei milioni di baionette vegliano a ras­sicurarlo; ed ha paura. Esso domina gli elementi, sop­prime le distanze, moltiplica le meraviglie della sua industria; ed ha paura. L’oro cola in gran copia dalle sue mani; nei suoi vestimenti la seta ha preso luogo  della rustica stoffa di lana; la natura tutta quanta è fatta tributaria del suo lusso; la sua vita è somigliante al festino di Baldassarre; ed ha paura. Le nazioni te­mono delle nazioni: i re dei popoli: i popoli dei re. La società ha paura del presente ed ancora più dell’avvenire: e troppo generale è questo sentimento per non dover essere ben fondato.

XX.

Perché mai il secolo decimonono ha tanta paura? Noi lo abbiamo già detto: egli è perché sente bene di non essere nell’ordine. E perché non è esso nell’or­dine? Perché è reo di peccato, e di gravissimo pec­cato. Il suo capitale delitto è quello di essere in piena insurrezione contro Dio, re e legislatore supremo, e contro la Chiesa depositaria dei diritti di Dio, ed organo delle sue volontà. – « Dappoiché non vogliono conciliarsi collo spirito che mi anima, né accettare un ordine sociale che mi è a grado, né approvare la libertà, la civiltà, il pro­gresso, com’io l’intendo, Iddio e la Chiesa facciano i fatti loro; io più non voglio che su di me abbiano  influenza ed impero. Io saprò ben vivere e prosperare senza di essi, lungi da essi e, loro malgrado: Nolumus hunc regnare super nos. » Tal’è senza che si possa negare, il grido d’insensata ribellione, che tutte riassume le generali aspira­zioni del secolo decimonono. Noi la diciamo insensata e ben a ragione. Questo secolo pretende di vivere e  prosperare volgendo le spalle al Cristianesimo ed alla Chiesa. Ma tra associati, la separazione esige la liquidazione.  Che dunque il Cristianesimo e la Chiesa riprendano, e  ne hanno bene di diritto, tutto quello che han dato al secolo decimonono, e che gli danno tutto giorno e a tutte le ore, di lumi, di credenze, di costumi, di principii sociali, di libertà, di utili istituzioni, di rispetto al principio di autorità e di proprietà; e vedremo  quello che rimarrà al secolo decimonono. La insurrezione dell’uomo intanto non vale a de­tronizzare Iddio. L’orgoglio di un vermicciolo non  istrappa la folgore dalla mano dell’Onnipotente. Come  la calamita attira il ferro, così il peccato attira il castigo. Checché si faccia per divagarsi e vivere spen­sierato, il secolo decimonono comprende una tale ine­sorabile attrazione; e quindi è che ha paura. Come mai sottrarsi al castigo e sostituire la fiducia alla paura? Per trovare la soluzione del definitivo  problema, mille pensatori si affaticano e studiano. Ogni giorno gli uomini di differenti partiti recano il loro progetto di scampo e di salvezza. Gli uni si fan cam­pioni dell’assolutismo, e combattono la democrazia ed il sistema costituzionale. Gli altri esaltano la pura de­mocrazia, e mostrano i pericoli dell’ assolutismo, e l’inefficacia del regime costituzionale. Molti levano alle stelle il regime costituzionale, ed hanno in orrore la democrazia al pari dell’assolutismo. E quei che sono  indifferenti sulla forma dei governi, si confidano di ri­generare l’Europa, per virtù dell’industria, della pub­blica istruzione e della materiale prosperità. – Quindi a mille a mille le teorie economiche, po­litiche e sociali; ed assolute affermazioni, e negazioni  assolute. Quindi molte e nobili intelligenze che consu­mano le loro forze in una sterile agitazione. Quindi insomma, quella gran guerra dell’ignoranza, – Magnum inscientiæ bellum, di cui dice la Scrittura, che non lascia  nelle anime se non dubbi, stanchezza e sconforto, e nelle società vani conati, e prove, e riprove eterne. Babele certamente non fu teatro di una maggiore con­fusione d’idee e di linguaggio. Il secolo decimonono ha dato ragione a tutte le  opinioni. L’una dopo l’altra ha fatto saggio di tutte le svariate forme di governo. L’industria è divenuta la sua vita, l’istruzione la sua più sollecita cura, il benessere materiale il suo Nome; ma non perciò è  guarito.

XXI

Dopo tante inutili esperienze, tante contraddittorie  soluzioni, il cattolico osa pur esso proporre la sua, e perché non usare anch’egli di un diritto che ognuno  si arroga? Per lui non è questo solamente un diritto, ma un dovere, poiché nel comune pericolo ogni uomo è soldato. A differenza di tutte le altre, la soluzione del cat­tolico non è un palliativo, nè un’utopia. Non è il parto  di una mente umana, ma è proposta da Quello stesso,  che fece sanabili tutte le nazioni. Essa è unica, e Iddio non ne conosce altra. Essa è quella, che da sei mila anni invariabilmente propone  alle genti, trascinate all’orlo del precipizio dalle loro iniquità. Tutte le volte che essa fu abbracciata, i problemi sociali più complicati e difficili furono risoluti all’istante; svanirono i pericoli, restaurato fu l’ordine, e la pace tornò a discendere sulla terra. Essa è forzata, perché radicale: ed è radicale perché sola ripone ogni cosa al suo posto: Dìo in alto e l’ uomo a basso. Né è soltanto radicale. Legislatore e padre, Iddio volle che fosse pur facile, e la espresse in una sola parola: PENTIMENTO.

XXII.

Se dunque il secolo decimonono riconoscendo di aver forviato, risolve di rientrare nel buon sentiero e pentirsi, ei sarà salvo; altrimenti no; mille volte no. E si prenda ben sul serio la cosa; non si tratta qui, come diranno sicuramente certuni, di una soluzione mistica, totalmente estranea alla scienza politica e sociale, e conseguentemente di una soluzione di poca importanza rispetto alle cose di questo mondo. In vero così la discorrono coloro che han nome di sapienti, ma che non hanno la scienza, la quale procede dalla verità e conduce alla verità èVani enim sani omnes homines, in quibus non subest scientia Dei. Sap. XIII 1]: uomini presuntuosi che non dubitano di nulla perché non si accorgono di nulla, buoni soltanto a traviare i popoli colle loro utopie; e la cui vista, disse già s. Agostino, non va al di là del loro naso. Il vero si è che questa soluzione è talmente politica, talmente sociale, talmente decisiva nelle cose di questo mondo, che senza di essa tutte le soluzioni, tutti gli espedienti non han dato, né potranno dare mai alcun durevole risultato. Senza di essa, certamente potrete reprimere una sommossa come a Parigi nelle giornate di giugno 1848; ma ciò è reprimere una manifestazione della rivoluzione, ma non un vincere la rivoluzione. Potrete battere Garibaldi sulla via che conduce a  Roma, come avvenne a Mentana nel 1867, ma questo è arrestare nella sua marcia un figlio della rivoluzione, non già vincere la rivoluzione. Come or ora fece il Corpo Legislativo Francese, potrete con un voto solenne confermare la conserva­zione di quel che rimane al santo Padre dell’antico  suo stato; ma ciò è sospendere l’adempimento dei voti  della rivoluzione, non un vincere la rivoluzione. Tutti questi atti ed altri della medesima specie son  tanto meno vittorie, in quanto che i sedicenti nemici della rivoluzione cadono nella più manifesta contraddi­zione. Se eglino con una mano si oppongono alla rivo­luzione, coll’altra le somministrano giornalmente no­vello vigore. E che altro mai si fa pubblicando e lasciando del continuo pubblicare, in tutte le lingue, le dottrine della rivoluzione in fatto di religione, di politica e di filosofia, non che di storia e di letteratura? Pretendete di tener saldo e conservare l’edificio, e lo lasciate minare! Volete raffrenare l’impeto del torrente, e ne accrescete le forze! Un fatto si distrugge con un altro; ma la rivolu­zione non è un fatto. La rivoluzione è un principio, una potenza morale, un’idea: e le idee non si uccidono a colpi di fucile. Queste non possono esser vinte che da idee contrarie. L’idea rivoluzionaria è l’uomo in  alto, e Dio in basso. Quindi la rivoluzione non sarà mai vinta, che quando si tornerà a riporre Dio in alto, e l’uomo in basso. E Dio non può essere posto in alto e l’uomo in basso che dal pentimento.

XXIII.

Giudichi imparzialmente di ciò lo stesso secolo de­cimonono. Alla presente situazione, sì piena di pericoli e d’incertezze, non v’hanno che due soluzioni, e due  solamente, la rivoluzionaria e la cattolica. Nella sua ultima formula, la soluzione rivoluzionaria  è il rovesciamento completo dell’ordine religioso e  sociale stabilito dal Cristianesimo; rovesciamento se­guito dalla barbarie assoluta, e quel che è peggio, dalla barbarie letterata, e forse dall’una e dall’altra:  perocché sarà l’uomo posto in alto, e  Dio in basso in  tutte le cose. – Nella sua ultima formula, la soluzione cattolica è  la restaurazione universale dell’ordine religioso e so­ciale; restaurazione seguita da un’ èra di pace e di prosperità, perocché sarà Dio ricollocato in alto e 1’uomo in basso. Ora il primo, indispensabile elemento della soluzione cattolica è il  pentimento. Così, e solamente così possono essere risoluti, nell’interesse dei governanti e dei governati i minacciosi problemi che ci incalzano: tra questi ricorderemo so­lamente la gran questione del momento: la Questione  Romana. Al punto in cui si trova attualmente la questione  romana sfida la sagacia di tutti i diplomatici e di tutti  i congressi. Ond’è che solo il pentimento delle nazioni  può risolverla. Sol esso può far rientrare nelle anime dei re e dei popoli il sentimento protettore della de­bolezza oppressa, ed il religioso rispetto dell’altrui  proprietà. Solo per conseguenza può esso emendare la commessa ingiustizia. Solo esso può, intorno agli stati della Chiesa resi al legittimo possessore, rialzare la barriera di venerazione e di amore, che sì lungo tempo conservò intero e tranquillo il dominio temporale della Santa Sede, e con la sovranità temporale assicurò la  indipendenza necessaria all’oracolo del supremo capo  della vera Chiesa di Dio. – Non bisogna farsi illusione; il voto pronunziato dalla nostra Camera Legislativa il 5 dicembre 1867 non  risolve punto la questione romana. Esso non è che un  primo passo nella buona via, e speriamo che non sia l’ultimo: altrimenti lo  statu quo quale ci si promette,  sarebbe sotto ogni aspetto, una cosa ben deplorabile. Dal punto di vista politico, sarebbe esso per la Fran­cia una incancellabile vergogna. Con qual diritto gli  Italiani si sono impadroniti delle più importanti provincie della Santa Sede? Calpestando la firma posta  dalla Francia alle stipulazioni di Villafranca ed al trat­tato di Zurigo; stipulazioni e trattato che nel modo più solenne garantivano la inviolabile integrità degli Stati della Chiesa, e ciò che accresce la gravità dell’insulto la si è che nelle provincie usurpate si ritrova la dote, che la figlia primogenita della Chiesa, la Francia,  ebbe già costituita alla sua Madre. – E la Francia, la quale non avrebbe che a parlare  per essere obbedita, soffrirà senza far motto simili  oltraggi? Ma allora che diventa il nostro onor nazio­nale? Chi mai vorrà fidarsi più della nostra parola?  Rovinare una nazione nei suoi materiali interessi, è  un danno che può ripararsi: rovinarla moralmente,  egli è un fallo irreparabile. Dal punto di vista religioso, per una parte sarebbe lo stesso che consacrare l’ingiustizia, e sullo spoglio sacrilego dei due terzi del patrimonio Pontificio far valere l’iniqua teorica del fatto compiuto. E dall’altra  parte ridurre il Sommo Pontefice al possesso del lembo di terra che gli rimane, sarebbe un condannarlo alla mendicità. Si vedrebbe, diciamolo pur francamente,  l’applicazione del programma di quel libercolo di trista memoria:  Il Papa ed il Congresso. Lo che sarebbe  lasciare al Papa il Vaticano, il suo cameriere, il suo cuoco,  ed il suo giardino con qualche jugero di terra  di più. E che altro mai sarebbe questo se non proprio il trionfo della rivoluzione? Si passino pure in rivista tutte le questioni di un ordine più o meno elevato, che or tengono l’Europa in una irrimediabile agitazione, e si arriverà sempre alla  medesima necessaria, inevitabile soluzione; il  pentimento. Del rimanente tal’è, in diversi termini, l’assioma di geometria sociale, contenuto nel famoso detto:  La ri­voluzione incominciala con la proclamazione dei diritti dell’uomo, non finirà che con la restaurazione dei diritti di Dio. Deh! possa finalmente il secolo decimonono prender  sul serio il suo partito; e chiudendo l’orecchio a chi  vuole addormentarlo adulandolo, ed agli utopisti che lo fan traviare, provvedere alla propria salvezza, rien­trando nelle condizioni di vitalità divinamente prescritte  alle nazioni!

XXIV.

3.°Il dire che può esso pentirsi, egli è un ridestare in lui la fiducia ed un incoraggiarne gli sforzi. – Qui si affaccia l’obbiezione prevista fin dal prin­cipio, e della quale, quanto altri, sentiamo tutta la forza. « Domandare che il secolo decimonono si penta, è un tentar l’impossibile; lo sperarlo sarebbe follia.  La proposta soluzione altro dunque non è che un’utopia. » Una parola in risposta. Più volte nel corso della sua esistenza, il popolo Ebreo si pentì: si pentirono pur essi i Niniviti, e una gran parte del mondo pagano si pentì all’annunzio  della verità evangelica: più tardi tutte le nazioni, venute successivamente alla fede, si pentirono. Perché dunque il secolo decimonono non potrebbe far ciò che  tante altre generazioni han potuto? Gli mancano forse motivi e mezzi per compiere un atto sì salutare? Noi Io sappiamo purtroppo: ciò che ad esso manca è la volontà. Questa manca ai governanti ed ai gover­nati: manca ai doviziosi e ai negozianti: manca alla  maggior parte di coloro che formano lo spirito pubblico, scienziati, giornalisti, uomini di lettere; e manca alle  masse, grossolanamente ignoranti, e stupidamente in­credule. Pure mancherà essa lor sempre? Ben doloroso sa­rebbe il pensarlo. Fin qui senza dubbio, il decimonono  secolo si è mostrato ribelle alla voce di Dio ed alla  voce della Chiesa, che non si rimasero di chiamarlo al  pentimento. A più riprese, la Chiesa gli ha parlato per  bocca del più mansueto dei Pontefici; e Iddio gli ha pur  esso parlato col doppio linguaggio dei benefici, e dei castighi. – Dopo l’eccezionale benefìcio di una pace di quarant’anni, di che esso non volle profittare, vennero eccita­menti di una specie diversa. Per non farne una lunga enumerazione, l’anno scorso (ciò che non era mai av­venuto) tutti i flagelli di Dio ad una volta piombarono sul mondo. La peste negli uomini e negli animali; la misteriosa malattia delle uve, dei pomi di terra, della  canna di zucchero e dei vegetali; la fame, la guerra, i terremoti; lo straripamento dei fiumi, e la invasione degli insetti voraci. Fuvvi giammai avvertimento più chiaro e più solenne?

XXV.

Malgrado l’immenso danno, il pubblico benessere non fu seriamente alterato, ed il secolo decimonono, rimasto sordo alla voce della Provvidenza, nulla ha cangiato nelle sue sciagurate abitudini; ma non è esausto il calice dell’ira divina. Fino a che non fu colpito dalla giustizia umana, istrumento della giustizia divina, il Ladrone del Cal­vario proseguì la sua vita di delitti e di brigantaggio; egli non pensava a pentirsi. Ma inchiodato che fu sulla croce, fu tu tt’altro. Nelle strette del dolore, ed in faccia  alla morte, torno in sé; ascoltò la sua coscienza, si  pentì, e fu salvo. Lasciate che l’angelo della giustizia versi fino alla  feccia sul mondo ribelle il calice dell’ira divina. Senza un pronto pentimento, come quello di Ninive, quel calice sarà senza fallo versato. Tal si raccoglie qual si semina: e sì nell’ordine morale, come nel fìsico, questa legge è del pari inflessibile. Allorché dunque pel secolo decimonono sarà venuto  il momento di raccogliere quel che ha seminato di dot­trine sovversive intorno alla religione, alla società, alla proprietà, alla famiglia; e seminato a piene mani ogni giorno su tutta la faccia dell’Europa, non ostante i gridi di allarme di tutti gli uomini sensati, verranno allora i mietitori, e saranno quali si fecero. Sciami di  selvaggi civilizzati, che arruolati in mille tenebrose sètte, si mostreranno in pieno giorno, e faran sentire al mondo spaventato ciò che siano le moltitudini am­maestrate a non creder nulla, fuorché alle disordinate passioni. – Infiammati di un odio senza freno e lungamente contenuto, i novelli barbari faranno quel che già fecero i barbari di altra età. Strumenti della divina giustizia,  come già Nabucco a Gerusalemme, Attila nelle Gallie, Genserico a Roma, quando avranno compita la loro  trista missione, incendiato, saccheggiato, massacrato e dispersa questa civiltà corrotta e corruttrice, che il mondo cristiano affascina e desola, come desolò già il mondo pagano; quando finalmente oppresso dal socia­lismo e dalla barbarie, il secolo decimonono sarà stremato di forze e di coraggio, allora, ci giova sperarlo, griderà: Misericordia! Esso imiterà il modello che la divina provvidenza pare aver fatto per lui, e del quale quest’opera gli ri­chiama la consolante memoria. A solo fine di rialzar l’animo depresso dei più disperati peccatori e dei più cor­rotti secoli (dicono i padri della Chiesa), il Redentore del mondo volle coronare la sua vita con questo splen­dido esempio di misericordia.

XXVI.

E perché il secolo decimonono non vorrà farne suo pro? La scuola della sventura è per eccellenza la scuola della virtù e del ravvedimento. Non con altro mezzo che con la croce il Figlio di Dio ha salvato il mondo, e sulla croce soltanto si salvano le anime e i popoli. Senza dubbio il nostro secolo è un gran peccatore, e quel che è peggio un peccatore indurito. Ma se la voce delle sue iniquità grida vendetta, vi ha un’altra voce che grida misericordia: e come Iddio vuol perdonare, sempre avviene così. E qual’è mai la voce che domanda grazia pel secolo decimonono? La è la voce delle opere cattoliche per ogni dove moltiplicate, per ogni dove animate di novella attività; pie associazioni di carità, pellegrinaggi pubblici, ordini religiosi, apostolato della donna, propagazione della fede e missioni alle più remote parti del mondo. Ella è la voce di tutta quanta la Chiesa, che proclamando il domma dell’Immacolata Concezione di Maria, obbliga in certo modo la Regina degli Angeli a far prova della sua gran potenza; la Madre delle misericordie a disarmare lo sdegno di Dio; l’Èva novella a schiacciare anche una volta la testa del serpente. Ella è la voce degli eroici sacrifici, lo spettacolo dei quali impone l’ammirazione, e rivela tesori dj fede, riposti in cuori di venti anni. La è la voce del sangue il più puro generosamente versato per la causa di Dio e della Chiesa. La è la voce della lunga agonia dell’immortale Pio IX calunniato, tradito, spogliato e perseguitato come il suo divino maestro, e mansueto come Lui. – E chi può dire quanto pesino sulle divine bilance tante lacrime, tante preghiere, tante elemosine, tanti sacrifici, tante opere sante generosamente effettuale, e tante sofferenze accettate con la coraggiosa rassegnazione dei martiri? Quel che noi sappiamo si è che in questo solamente è fondata la speranza del secolo decimonono.

XXVII.

Gli verrà obbiettato. « L’opera vostra non conseguirà il suo intento. Il secolo decimonono è un essere collet­tivo. P arlare ad esso è parlare a tutti in generale: e parlare a tutti in generale, egli è lo stesso che non parlare ad alcuno. Predicazione nel deserto, vano rumore di cembalo risonante, tal sarà la vostra parola. Che val dunque cotesto libro? Quale importanza può avere?  In un secolo come il nostro, dove mai troverà lettori? »

XXVIII.

A che val questo libro? Senza dubbio il secolo decimonono è un essere collettivo; ma l’essere collettivo  si compone d’individualità. E queste hanno orecchie  per sentire, una coscienza per giudicare, e mente e cuore per volere. Arrivando ad esse la parola, indiriz­zata a tutti, si individua e può diventare efficace. Del  rimanente, tal è la condizione di ogni parola pubblica,  scritta o parlata; e potrà dirsi che sia del tutto inutile? Oggi pure, come sempre, la parola è quella che governa  il mondo.

XXIX

Riflettiamo poi che per esercitare una potente in­fluenza, non è necessario che la parola s’impadronisca  di tutti, e neppur di un gran numero al tempo stesso. – Nel bene, come nel male, le rivoluzioni furono sempre il fatto delle minorità. Dodici apostoli rivoluzionarono il mondo. In ciascuno dei diciotto secoli trascorsi si son veduti poveri Missionari levare in rivoluzione cristia­namente intere popolazioni. Il medesimo avviene delle rivoluzioni in senso opposto. Anche oggidì, qualunque sia la grandezza del male, datemi dodici Re, sinceramente convertiti come uomini e come Re; meno ancora; quanti giusti si richiedevano per salvar Sodoma; e non dubitate, avverranno cose maravigliose. Oltre la naturale tendenza ad imitare i  grandi, i popoli del secolo decimonono, bisogna render  loro questa giustizia, son malvagi meno dei loro governi.

XXX.

« Ma i Re non si convertiranno. In luogo di farsi e chiamarsi, come Costantino,  Vescovi al di fuori o come Carlo Magno, i Servitori di Gesù Cristo e i  Sergenti della Chiesa, dimenticheranno sempre più a quali con­dizioni venne lor confidato il potere. Perdendo affatto l’istinto della propria conservazione, eglino e i popoli andranno incontro a inevitabili catastrofi. A che dunque gioverà questo libro? » – Nel pubblicar questa storia, noi prendemmo di mira il bene generale ed il bene particolare. Inutile, a vostro giudizio, pel primo fine, lo sarà pure del tutto pel  secondo? Indicare il solo rimedio ai mali che tanto ci gravano, e alle calamità che ne minacciano; eccitare lo zelo di alcune sante vittime le cui lacrime ed espiazioni possono  far piegare dal lato della misericordia la divina bilancia:  sarà dunque nulla? Far conoscere in tutte le sue parti una meraviglia incomparabilmente più bella che tutti i capo-lavori  dell’Esposizione universale: sarà dunque nulla? – « Se è egli ben fatto, dice la Scrittura, di tener  nascosti i segreti dei Re, è cosa lodevole di rivelare e  annunziare le opere di Dio. » [Tob., XII, 7]. – Or tra tutti i prodigi  della sua destra, havvene uno che sia tanto degno di esser tramandato di generazione in generazione, e cono­sciuto fino all’estremità della terra, quanto quello della conversione del Buon Ladrone? Trarre il mondo dal nulla con una parola, egli è un miracolo dell’Onnipotenza. Con altra parola far di una pietra un figlio di Abramo, egli è un miracolo più grande ancora. Ma di un veterano del delitto, di un  masnadiero già sospeso al patibolo, sul quale espia tutta una vita di furti e di opere di sangue, farne in men ch’io noi dico, un Apostolo, un evangelista, un santo canonizzato ancor vivo, è tale un prodigio che tuttii  secoli non videro il simile, e che nel suo genere supera  tutti gli altri.

XXXI.

« Qual’ importanza può egli aver questo libro? » Non tutti quelli che san leggere sono associati ai perniciosi giornali, grandi o piccoli, né fan loro pasto dei romanzi. Se un troppo gran numero si contenta di mangiar paglia e fieno, ven’ha, grazie al cielo, pur molti di quelli, che conservano gusti più puri, e che vogliono un nutrimento più sano. Sarà forse senza importanza offrire ad essi un ali­mento, che risponda ai loro nobili istinti? Sarà senza importanza forse soddisfare una legittima  curiosità, rilevando delle circostanze, il cui interesse è proporzionato alla grandezza eccezionale del fatto a cui  si attengono? Sarà egli senza importanza, specialmente oggigiorno,  mantenere o risvegliare nelle anime i sentimenti che  le nobilitano e le santificano: l’ammirazione, la confi­denza, l’amore? E non solamente risvegliarli, ma con lo spettacolo di un sublime modello, elevarli al più alto grado di potenza? Sarà senza interesse per tante vittime dello scorag­giamento e della disperazione, trovare nel buon Ladrone la risposta perentoria ai loro dubbi, la calma delle loro  agitazioni di spirito, la guarigione dei loro sinistri pen­sieri, ed una protezione potente presso il Padre delle misericordie?

XXXII.

« In un secolo come il nostro, dove troverà esso lettori? » Egli è pur troppo vero, che il secolo decimonono,  più che ogni altro, è affascinato dalla vanità delle cose mondane e periture. Ciò nondimeno si con­tano ancora nobili intelligenze e dei nobili cuori, i quali vivono altra vita che quella dei sensi. A motivo appunto  dell’atmosfera di piombo, che col suo peso li soffoca, queste anime sentono più costante e più vivo il bisogno di respirare un aer puro, di conoscere ed ammirare  tutt’altra cosa che la materia e le sue manipolazioni,  di sperare ed amare ben altra cosa che pane e sensuali soddisfazioni. E tali saranno i lettori di questo libro.

XXXIII.

Il fatto cui n arra ha luogo nelle regioni superiori  del mondo morale, del quale fa rilevare le sorprendenti  realtà. Due elementi prodigiosamente combinati l’hanno  prodotto: la grazia di Dio nella pienezza della sua effi­cacia e nella rapidità della sua azione; e la cooperazione  dell’uomo in tutta l’energia della sua fede. Contemplandolo, abbiamo sotto gli occhi uno spettacolo che  rende l’anima estatica e ne esalta l’ammirazione. Sommariamente ricordato nell’Evangelio, questo fatto unico e più bello a considerarsi che la stessa  creazione del mondo, fu accompagnato da circostanze generalmente poco conosciute e nondimeno, per più  rapporti, di un serio interesse. Queste da un canto aprono dei nuovi orizzonti allo studio dell’antichità;  dall’altro canto, rannodando la storia sacra alla profana, rischiarano il sacro testo, raffermano la fede del cri­stiano, e danno una smentita di più a chi non presta  piena fede al racconto evangelico. Il metterle in rilievo è, fra gli altri, intento di quest’opera.

XXXIV.

Ingolfarsi nelle cose materiali, e per naturale con­seguenza, la ignoranza del mondo morale, delle sue leggi e delle sue magnificenze, non è la sola piaga del1’epoca nostra. Altre ve ne hanno vive non meno, e che di giorno in giorno tendono a dilatarsi: e da que­ste non son esenti gli stessi cristiani. Per gli uni par­liamo dell’indebolimento della fede; per gli altri del  manco di fiducia nella misericordia di Dio. – Questa fede, la quale se raggiungesse la grandezza  di un granello di senapa varrebbe a traslocar le mon­tagne; questa fede che nella persona dei primi cristiani  vinse l’intero mondo, e nei loro discendenti potrebbe  rigenerarlo; questa fede che dà ali alla preghiera, la conduce fino al trono di Dio, e ve la mantiene fino a  che l’Altissimo l’abbia esaudita; fede che in ogni tempo ha operato un sì gran numero di strepitose conversioni,  ed ottenuto contro ogni speranza, tanti insigni favori,  questa fede, nelle grandi masse, va pur troppo visi­bilmente mancando.

XXXV.

Ora come ravvivarla? Col mezzo di grandi e luminosi esempi, « Come il fuoco, dice un antico autore, non è mai così necessario quanto nel rigore dei più ge­lidi inverni; così gli esempi di grandi e luminose virtù non son mai più utili ed opportuni, che quando il mondo è pieno di grandi vizi. Ed ancorché questi esempi non siano di persone viventi, ma di già morte da tanti se­coli; ciò nondimeno, come le reliquie dei loro corpi, benché ridotti in polvere, hanno ancora una virtù di­vina da far miracoli, e le loro stesse immagini valgono talvolta, per la divina grazia, ad operare la conver­sione dei peccatori; così la storia della loro vita è una delle più preziose reliquie che di loro ci rimangono, e l’immagine della bellezza della loro anima, la quale è immortale, può ben tirare le benedizioni del Signore  nello spirito e nel cuore dei lettori, per la virtù che  lo Spirito Santo ha impressa in quelle antiche e mira­bili fatture della sua grazia, e per la potenza dell’intercessione di quei gran santi a pro di coloro che li invocano leggendo la loro vita. E queste parole non bastano a dimostrare l’utilità della storia del buon Ladrone? Se havvi un più grande  esempio di fede e di tutti gli effetti della sincera fede;  l’amor di Dio, il disprezzo del rispetto umano, il co­raggio a tutta prova, certo i Padri della Chiesa nol  conobbero. E farlo rivivere, non è forse apprestare un rimedio di grande efficacia ad una delle più gravi in­fermità del secolo nostro?

XXXVI.

Veniamo alla diffidenza della misericordia di Dio. Questa infelice disposizione, che in molte anime altronde fedeli costituisce come il fondo della lor vita, ne forma  anche il tormento e il pericolo. Vedendo in Dio più un  giudice severo che un padre misericordioso, essa fa trovar duro e pesante un giogo dall’istesso Nostro Si­gnore dichiarato soave e leggero; offusca la pietà, frange l’energia del bene, e ingenera il tedio e lo sco­raggiamento. – Ben fortunate le sue vittime se non le conduce alla finale disperazione dopo aver abbandonato il freno a tutte le loro passioni. O non è dessa sanabile, o la guarigione di questa terribile malattia è nella storia che noi prendiamo a narrare. Dopo aver veduto spa­lancarsi la porta del cielo ad un ladro insigne, chi po­trebbe più disperare? Quis hic desperet, sperante ladrone!

XXXVII

A coloro poi che sotto qualsiasi forma di condotta  avessero avuto la disgrazia d’imitarne la vita, il Buon Ladrone insegna imitarlo nella sua morte. – Sia pur  gravata di delitti e d’iniquità la vostra coscienza (egli lor dice) e presso al termine la vostra vita, un istante di sincero pentimento basta per chiudervi le porte dell’inferno ed aprirvi quelle del cielo. Ricordatevi soltanto che Quegli che ha promesso il perdono, non ha già pro­messo il domani. Profittate adunque dei giorno che ancor vi rimane. Bentosto verrà la notte e non avrete più tempo a pentirvi. » – L’istoria del Buon Ladrone non è solamente un in­coraggiamento per i più gran peccatori, ma è pur anche un punto di appoggio pel sacerdote, il quale è chiamato ad assistere al peccatore moribondo negli Ergastoli, nelle Prigioni, negli Ospedali, nel tugurio del povero, e troppo spesso ancora nel palazzo del ricco. Quanto mai gli bisogna contare sui tesori dell’infinita miseri­cordia di Dio! Potrà egli vederla brillare di una luce più  rassicurante, che nella conversione di Disma crocifisso? Render popolare questa mirabile conversione, egli è un secondare i disegni pietosi del Padre delle misericordie, del Dio d’ogni consolazione. Egli è un prevenire  la disperazione, non già un incoraggiare al male; pe­rocché sul Calvario, presso la Croce a destra v’è pur la croce a sinistra. Egli è uno stimolo non già al di­sprezzo, ma all’amore di un Dio, la cui paterna bontà, come la giustizia, confonde la ragione umana. Possa quest’opera contribuire a formare in coloro  che la leggeranno, disposizioni conformi alle intenzioni mille volte adorabili di Colui che venne a cercare e salvare, senz’alcuna eccezione, quei che si erano per­duti. « Venit enim Filius hominis quærere et salvum facere quod perierat [Luc. XIX, 10] ».