CAPITOLO V.
LA FLAGELLAZIONE.
Pena che s’infliggeva ai condannati a morte.— Particolarità circa i fasci ed i littori. — Numero e funzioni dei littori. — Diversi strumenti per la flagellazione. — Come venivano in diverse maniere impiegati secondo la qualità delle persone. — Episodio di S. Paolo e di Sila. Crudeltà romana nella flagellazione. — Uso regolato dalla legge presso gli Ebrei. — Il buon Ladrone flagellato secondo la legge dei Romani.
Gli alti magistrati romani erano sempre preceduti dai littori che portavano i fasci. Così si appellavano certi mazzi di verghe di pioppo, di frassino o salice lunghi circa un metro, legati insieme e sormontati da una scure. La composizione di questi fasci indica le due specie di pena, che nelle esecuzioni capitali erano inflitte al condannato: la flagellazione cioè, e la morte. Dal numero dei fasci conoscevasi la dignità del magistrato. I consoli ne avevano dodici; sei i Pretori, e ventiquattro il Dittatore. I littori erano mercenari addetti al servizio dei grandi magistrati. Diremo più innanzi d’onde erano tratti. Loro ufficio era 1.° di precedere i magistrati coi fasci, e di aprir loro il passo nella folla. Andavano essi non già alla rinfusa, o più insieme, ma ad uno ad uno in una sola linea: 2.° di flagellare i colpevoli: I, Lictor, adde plagas reo, et in eum lege age: « Va, o littore, flagella il colpevole, e su di lui esegui la legge, » Eraquesta la formula della sentenza: e appena che il magistrato 1’avea proferita, i Littori s’impadronivano del condannato, lo flagellavano, e se occorreva lo mettevano a morte colla scure. Il nome loro di Littori viene dal latino ligare, perché essi legavano le mani ed i piedi del condannato prima del supplizio. Come tutti i condannati a morte, Dima ebbe dapprima a subire la flagellazione. Cinque diversi istrumenti servivano all’uopo. Le verghe, virgæ, erano, come abbiamo già detto, dei rami flessibili della grossezza di un dito, e lunghi pressoché un metro. Noi le vediamo in uso ancor oggi nel Knout dei Russi, nella Schlague degli Alemanni, nel Rotin dei Cochincinesi. In Francia la flagellazione sotto il nome di frusta, fu in uso fino al cadere dello scorso secolo, e tuttavia si pratica nell’esercito Inglese. Per lungo tempo sui vascelli francesi quell’arnese che chiamasi la garcette ne ha conservata la tradizione. Le Cureggie, Loræ, erano strisce di cuoio tagliate in mezzo, e talvolta armate di piombo. La frusta, o staffile, Flagra, o il suo diminutivo Flagello, era composto di sottili corde annodate all’estremità. Era questo, sebbene di più forme, l’istrumento di correzione del padre nella sua famiglia, del maestro nella sua scuola, e del Littore nei tribunali. Le Mazze, o bastoni, Fustes: queste prendevano il nome di Scorpiones scorpioni, quando erano bastoni nodosi, perchè illividivano e laceravano al tempo stesso. Li vediamo spesso adoperati sulla persona dei Martiri. – I Nervi: erano essi nervi di bue, comunemente armati di piombo all’estremità. Si vede bene che per torturare i colpevoli, e troppo spesso anche gli innocenti, gli antichi, e segnatamente i Romani, avevano un copioso arsenale. Questi svariati strumenti di supplizio non erano già sempre messi tutti in uso. Variavano secondo la condizione del condannato, o secondo la disposizione del magistrato. Il meno ignobile erano le verghe, e si adoperavano con gli uomini liberi. Legalmente non potevasi in verun caso battere con esse un cittadino romano. Parecchie leggi, e segnatamente la legge Porcia e la Sempronia, espressamente il vietavano, e guai a chi avesse osato violarle. Da ciò lo spavento dei Magistrati di Filippi, quando seppero che S. Paolo, fatto da essi flagellare, era cittadino romano. Ricordiamo di passaggio questo episodio della vita del grande Apostolo, per mostrare anche una volta la concordanza della storia sacra con la profana. Nelle loro corse apostoliche, Paolo e Sila erano giunti a Filippi. Questa città della Macedonia, celebre per la decisiva battaglia, nella quale da Ottavio furon vinti e disfatti Bruto e Cassio repubblicani, contava tra i suoi abitanti un certo numero di Ebrei. Andando i due apostoli alla Sinagoga, una giovane Pitonessa li seguiva gridando: « Costoro son i servi dell’altissimo Dio, e vi annunziano la via della salute. » Paolo impietosito a lei si volge, e ne caccia lo spirito maligno. Ma i padroni di quella giovane, perdendo così la speranza del loro guadagno, prendono Paolo e Sila, o li conducono innanzi ai Magistrati, accusandoli come perturbatori della pubblica quiete. I Magistrati senza altro esame li fan battere con le verghe, e gettare in prigione. Sul far della mezzanotte, Paolo e Sila oravano; quando ad un tratto tremò la terra, e spontanee si schiusero le porte della prigione. Il carceriere spaventato e convertito, pregava i due apostoli a profittare della loro libertà; e condottili nella sua abitazione, si recò a render conto dell’avvenuto ai magistrati. Costoro avendo insieme deliberato, mandarono un littore a dirgli che desse pure la libertà ai due prigionieri. Il carceriere ne fa avvisato Paolo; ma il grande Apostolo, « E che? rispose; costoro han fatto pubblicamente flagellare noi cittadini romani senza pure ascoltarci, e ci han messi ai ferri; ed ora vogliono farci evadere segretamente? Ciò non sarà mai. Che eglino stessi vengano qua e ci rendano liberi. » Recatasi dal littore una tale risposta, i Magistrati furono altamente commossi nell’udire che eglino avevano fatto flagellare dei Cittadini romani ; e tremanti e confusi si recarono a chieder loro perdono dell’offesa; essi medesimi li trassero dalla prigione, pregandoli ad abbandonare la città. Il che fecero i due apostoli, non senza aver prima pubblicamente usato della libertà visitando i fratelli. [Act., XVI, 12-39]. – La più ignominiosa delle flagellazioni era quella dello staffile o frusta. Questa era la pena propria degli schiavi, e dei rei più insigni per gravità di delitti, onde eransi resi indegni d’ogni dritto dell’uomo libero. E qui siamo portati a fare una riflessione, la cui luminosa chiarezza pone in evidenza la missione del Salvatore, e la dismisura dell’amor suo per l’umana creatura. Per redimere l’uomo schiavo, il Figlio di Dio, rivestitosi della forma di schiavo, subir volle la flagellazione propria degli schiavi. [Baron., an. 34, n- 38-84. Corn. a Lap., in Maith., XXVII, 26]. La durezza che caratterizza i Romani, si appalesa nella loro legislazione, come nei loro costumi. Presso questo popolo, troppo ammirato, il numero delle battiture nella flagellazione non era determinato dalla legge. Rimettevasi all’arbitrio del magistrato, ed anche spesso al capriccio crudele degli esecutori della giustizia. Quindi è che uno dei grandi loro giureconsulti, Ulpiano, altamente si duole, che buon numero di rei, benché non condannati a morte, soccombevano alla flagellazione. Non avveniva Io stesso presso i Giudei. Nella loro legislazione penale la misericordia non era disgiunta dalla severità. Col dimostrarsi Giudice, il Signore non dimentica mai che è Padre. La flagellazione non doveva mai oltrepassare il numero di quaranta colpi. Ecco il testo del sacro Codice, che ci mostra la differenza che passa tra una legislazione divina, e le leggi uscite dal cervello di umani legislatori. « Se vedranno che colui che ha peccato sia degno di essere battuto, lo faranno distendere per terra, e lo faranno battere in loro presenza. La quantità delle battiture sarà secondo la misura del peccato: con questo però, che non passino il numero di quaranta, affinchè non abbia a ritirarsi il tuo fratello lacerato sconciamente sotto i tuoi occhi. » [Deuter., xxv, 2, 3]. Per non esporsi a violare la legge, i Giudei si arrestavano al trigesimo nono colpo. Questa religiosa precisione ci spiega le parole di S. Paolo: « Cinque volte dai Giudei ricevei quaranta colpi meno uno: [Iudeis quinquies quadragenas, una minus accepi. – II. Cor.24.]. – Si sa che Nostro Signor Gesù Cristo condannato non dai Giudei, che avevan perduto il diritto di morte, ma da Pilato, depositario della sovrana potenza, fu flagellato secondo la legge romana, vale a dire che ricevé un numero indeterminato di percosse [« Divit ergo eis Pilatus: Accipite eum vos, et secundum legem vestram judicate eum. Dixerunt ergo ludaei: Nobis non licet interfìcere quemquam. » Joan., XVIII, 31]. – Rivelazioni particolari le fanno ascendere a più centinaia. Giudicati dalla medesima autorità, Dima ed il suo compagno subir dovettero il supplizio medesimo. Tuttavolta tra essi ed il Figlio di Dio vi fu probabilmente un divario, che ci proponiamo di spiegare nel seguente capitolo.
CAPITOLO VI.
LA FLAGELLAZIONE.
(Continuazione)
Momento della flagellazione; prima di condurre il condannato al supplizio, o nell’atto che ve lo conducevano. — Testimonianze degli antichi.— Come la flagellazione si eseguiva.— Flagellazione durante il tragitto dalla prigione al luogo del supplizio, la più usitata. — Numerosi esempi degli autori pagani.— Ministri della flagellazione. — Particolarità storiche sugli abitanti del Piceno e della Calabria. — Essi sposano il partito di Annibale .— Sono condannati dai Romani ad essere i corrieri ed i frustatori pubblici.— Testimonianze di Strabone, di Aulo Gellio e di Festo. — Da chi fu flagellato il buon Ladrone.
La flagellazione aveva luogo o prima che il condannato fosse condotto al supplizio, o mentre vi si conduceva: « aut ante deductionem, aut in ipsa deductione. » Nel primo caso subiva quella pena o nella prigione o nel pretorio, vale a dire nella sala, ove era stato giudicato il reo. Alle parole di rito: Fa, o littore, e flagella il colpevole, era questi spogliato delle sue vesti, gli venian legate le mani dietro al dorso, e le braccia e i piedi attaccavano ad un palo, o ad una colonna. In questa posizione, le percosse cadevano su tutte le parti del di lui corpo, facevano scorrere il sangue, e cadere a brani le carni. Tranne la colonna, rimpiazzata da quattro pali, l’orribile supplizio è ancora usato in Oriente; ed oh! quante volte, nei pretori della Concincina e del Tonchino lo ebbero a subire i nostri eroici missionari! L’uso di flagellare prima di avviarsi al supplizio era il più antico, ma al tempo di Nostro Signore, il meno praticato. Se ne incontrano parecchi esempi presso i Pagani. Per una o per altra ragione, l’antico uso della flagellazione venne preferito riguardo al Figliuolo di Dio. La colonna che servì al crudele supplizio conservasi a Roma nella Chiesa di Santa Prassede, eterno monumento dell’infinito amore del Redentore, e della gravità del vergognoso peccato. Non v’ha testo alcuno dal quale possiamo rilevare che i due ladroni fossero flagellati prima di andare al Calvario. Poiché la flagellazione era di rito nelle condanne a morte, e segnatamente nelle crocifissioni, pare che per essi avesse luogo nel tragitto. Del rimanente, come già si è detto, era questa la pratica più usata. Or ecco in qual modo, secondo gli autori pagani, eseguivasi questo supplizio, la cui ignominia uguagliava la crudeltà. Spogliavasi il reo di tutte le vesti, specialmente se trattavasi di uno schiavo, mille volte talora meno colpevole del suo padrone, la cui crudeltà lo condannava a simili torture: gli si attaccava la croce sulle spalle, e alcuni carnefici andando innanzi lo tiravano con corde, mentre altri lo seguivano armati di staffile, con cui lo percuotevano senza cessa fino al luogo del supplizio. Noteremo qui la perfetta concordanza dell’Evangelio con la storia profana. « Gesù, dice il sacro testo, s ‘incamminava al Calvario portando la sua croce, bajulans sibi crucem; » e tal era infatti l’uso generale. « Ogni condannato, ci assicurano gli autori pagani, dovea portar la sua croce. » I buoni Romani talora si compiacevano di allungare il tragitto, e dei compagni del povero schiavo servirsi come di strumenti della loro atroce barbarie. « Un illustre Romano, racconta Dionigi di Alicamasso, avendo condannato a morte uno dei suoi schiavi, ordinò ai compagni della schiavitù di lui di esserne eglino stessi i carnefici trascinandolo al supplizio; e perché più desse negli occhi il castigo, caricandolo di percosse, gli facessero traversare non solo il Fòro, ma tutte le vie più frequentate della città. Quei che Io conducevano, gli ebbero distese e attaccate ambo le mani alla croce, legandogliela al petto ed alle spalle, in guisa che i bracci della croce si stendessero fino alle palme delle mani di lui. Gli altri schiavi che lo seguivano a colpi di staffile intanto gli laceravano il corpo completamente nudo. » [Antiq. Rom., lib VII]. – Tito Livio e Cicerone raccontano fatti consimili senza una parola che esprima la pietà o il ribrezzo. « Roma, dice il primo, era al Circo; ed ecco che un padre di famiglia, prima che incominciassero i giuochi, fa traversare l’arena ad uno dei suoi schiavi col peso della croce sulle spalle, mentre in quell’atto subiva la flagellazione. » Pare che questo spettacolo doloroso fosse per i Romani un passatempo, perché essi volentieri ne facevano mostra al popolo. « Si conduceva, dice Cicerone, lo schiavo pel Circo, caricato della sua croce e lacerato dalle battiture. Arnobio aggiunge, che tal era l’uso comune. Bell’uso veramente, e ben degno di un popolo, veduto dal Profeta sotto la figura di bestia coi denti di acciaio! Se vogliamo adunque avere un’ idea della flagellazione dei due ladroni del Calvario, rappresentiamoci il sinistro corteggio avviato al luogo del supplizio. In mezzo a il una folla immensa di popolo che faceva ala a destra ed a sinistra della Via dolorosa, ecco venire innanzi le trombe che annunziavano l’arrivo dei condannati; e dopo quelle un araldo che proclamava i nomi e i delitti di essi; dietro a lui due uomini uno dei quali era Dima già vecchio, entrambi spogliati delle loro vesti, e carichi entrambi della loro croce attaccata alle spalle, colle mani stese fino air estremità delle braccia di essa croce, l’uno e l’ altro preceduti dai carnefici, che con funi li trascinavano, e dai manigoldi che senza tregua li flagellavano dal Pretorio di Pilato fino al Calvario, che è quanto dire per lo spazio di mille e trecento passi. Chi sa che un sì orribile supplizio, subito a fianco di Nostro Signore, non fosse per Dima il principio di un ritorno salutare sopra se stesso, e forse quel germe prezioso che era per svolgersi mirabilmente sulla vetta del Calvario! Checché ne sia, dobbiamo aggiungere che la condotta del nobile romano, che fece giustiziare il suo schiavo da altri schiavi, era un fatto eccezionale. Questo tristo ministero apparteneva ad altri. I romani avevano esecutori e frusta tori pubblici. Ma chi erano mai codesti uomini? e furono essi, rispetto a Nostro Signore e al Buon Ladrone, gli strumenti della giustizia romana? Sotto tre punti di vista, ci par degna di esame una tal questione. Dal punto di vista della storia generale, essa accenna a costumanze poco note dei popoli antichi. Dal punto di vista della storia particolare, ci svela una speciale circostanza del supplizio di Dima. E dal punto di vista religioso, tutto ciò che spetta al gran dramma del Calvario, è l’oggetto di una viva e nobile curiosità. Tutti conoscono la storia dei Gabaoniti. Questo piccolo popolo della terra di Canaan, vedendo come Giosuè per ordine di Dio trattava le vicine nazioni, pensò di sottrarsi a quella dura sorte. Riuniti in consiglio i seniori si appigliarono al seguente stratagemma. Presero dei commestibili, e caricarono sui loro asini dei sacelli vecchi, e degli otri di vino rotti e ricuciti, e dei calzari molto vecchi e rappezzati in segno di vecchiezza, e si vestirono di abiti molto usati: i pani eziandio ch’essi portavano pel viatico erano duri e sbriciolati. Si presentarono al generale degli Ebrei che era negli alloggiamenti a Galgala: e « Noi veniamo, gli dissero, da lontani paesi, attirati dalla fama delle tue imprese e bramosi di fare alleanza con te. Vedi: quando partimmo, i nostri pani erano caldi, e nuovi gli otri. Lo stesso era dei nostri calzari e dei nostri abiti, che ora sono rifiniti a causa del lungo e penoso viaggio. » Furono creduti, e si fece alleanza con essi. Ma tre giorni dopo la loro partenza, Giosuè venne a conoscere, che quei pretesi stranieri erano abitanti di un vicino paese: marciò contro essi, e prese di assalto la loro capitale Gabaon. Ma per rispetto alla fede giurata, risparmiò gli abitanti: e solamente per punirli dell’inganno condannò i Gabaoniti e tutti i loro discendenti a tagliare le legna, e portare l’acqua per servizio del popolo d’Israele [Gios. IX, 21]. – Questa tal condotta, che i diritti della guerra giustificano, fu dai romani imitata, quando Annibale vittorioso al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, invece di correre direttamente su Roma per la valle dell’Umbria, impadronir si volle delle contrade prossime al mare. Il suo fine era quello di essere a portata di ricevere prontamente e senza ostacolo, soccorsi da Cartagine. Gli abitanti del Piceno e delle Calabrie Picentini e Brutii furono i primi ad arrendersi ed a sposare la sua fortuna: ma cacciato che fu Annibale dall’Italia, i Romani con esemplare castigo punirono quei due popoli, che avevan dato l’esempio della defezione. Lasciamo la parola agli autori pagani. « Picenzia, dice Strabone, era la città capitale dei Picentini; ma questi ora son sparsi per la campagna. Cacciati della loro città dai Romani per punirli della loro alleanza con Annibale, furono esclusi dal servizio militare, e insieme coi loro discendenti condannati ad essere i cursori e i tabellari della repubblica » Più umiliante fu la punizione del Bruzii [ora sono gli abitanti della Calabria]. Essi furono condannati ad essere i littori dei grandi magistrati della repubblica, ed erano loro assegnate parecchie funzioni che erano proprie degli schiavi. La più ignominiosa era quella di essere i pubblici frustatori. « Catone, dice Aulo Gellio, biasimando Quinto Termo, lo rimproverava per aver detto: I Decemviri hanno mal preparato il mio desinar; il perché li fece spogliare dei loro vestimenti, e flagellare. I Bruzii flagellarono i Decemviri, ed il popolo ne fu testimonio. E chi può sopportare una simile ingiuria, un simile affronto, un tale marchio di schiavitù? » – Come gli abitanti del Piceno, i Bruzii furono esclusi dalla milizia romana, e per giunta di pena obbligati a provvedere di littori la repubblica. Giunti che erano dal loro paese, venivano messi a disposizione dei magistrati, che s’inviavano nelle provincie. Essi li seguivano come quei servi che nelle commedie eran chiamati Lorarii, o frustatori, perché legavano e flagellavano quelli che eran dati loro in mano per esser puniti. Appartenevano forse a questo popolo di flagellatori ufficiali coloro che flagellarono Nostro Signore, Dima, e il suo compagno? Il Baronio non osa affermarlo, e noi non saremo più di quel dotto cardinale facili ad asserirlo. Diremo solo, che un simile insulto già da gran tempo si getta in faccia ai Calabresi. Secondo il testo di Aulo Geliio, certo è che fino a qualche anno avanti Nostro Signore, i Bruzìi eseguivano quel vergognoso officio: ed è certo egualmente che Pilato aveva i suoi littori, e che questi si reclutavano nel paese dei Bruzii. Tal era la regola generale. Che poi più tardi ed in molti casi, i soldati ed anche altre persone fossero addetti a quell’odioso ministero, la testimonianza di Tertulliano non ce ne fa dubitare. Ma siccome nella storia della Passione, noi vediamo da un canto che Nostro Signore fu flagellato, come lo furono i due ladroni; e dall’altro che non si parla punto di soldati, che prendessero parte alla flagellazione propriamente detta, parrebbe che si potesse conchiudere, che di quella ignominiosa pena i Bruzii fossero gli esecutori. [Vedi Baron. An. 34. n. 83.-84].