DOMENICA XI dopo PENTECOSTE

Introitus
Ps LXVII:6-7; 36
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII:2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.
[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ. [Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.
[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV:1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]

Omelia XXIII.

“Ora vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato e che voi avete anche accettato, e nel quale state saldi e per il quale anche vi salverete, se lo ritenete nel modo che vi ho predicato, purché non abbiate creduto indarno. Perché prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto; come cioè Cristo è morto pei nostri peccati, secondo le Scritture, e come fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture: e come apparve a Cefa e poscia agli undici: quindi apparve a più di cinquecento fratelli, dei quali molti vivono tuttora e gli altri morirono. Poi apparve a Giacomo, poi agli Apostoli; finalmente all’ultimo di tutti, quasi ad aborto, apparve anche a me, che sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato apostolo perché ho perseguitata la Chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di Dio in me non fu sterile: anzi ho lavorato più di essi tutti: non già io, ma la grazia di Dio con me „ (I. Cor. c. XV, vers. 1-10).

Noi siamo siffatti, che sentiamo il bisogno vivissimo di mutare spesso le cose che ci stanno intorno, e le impressioni che riceviamo, anche belle e gradite. Un cibo, una bevanda, ancorché squisita, se è sempre quella, ci viene a noia: una armonia, una vista, una scena, ancorché incantevole, dopo un certo tempo, non ci interessa gran fatto. Noi abbiamo bisogno di variare le nostre impressioni per gustarne la bellezza: siamo simili alle api, che vanno di fiore in fiore, succhiando da ciascuno il miele e assaporandone sempre nuove dolcezze. I Libri sacri, massime del nuovo Testamento, sono come un immenso panorama, nel quale le scene variano mirabilmente: sono come un vastissimo prato, coperto d’una infinita varietà di fiori, una splendida mensa imbandita d’ogni sorta di cibi. La Chiesa ci spiega dinanzi questo panorama, ci mostra questo prato, ci introduce a questa mensa, ma pone ogni cura di variare le viste ed i fiori, di mutare i cibi, onde colla novità rendere più gradevoli le nostre impressioni. Perciò ogni Domenica la Chiesa ci mette innanzi qualche tratto nuovo, volete nell’Epistola, volete nel Vangelo: ora è un fiore colto in una delle quattordici lettere di S. Paolo, od in una di quelle di S. Pietro, di S. Giovanni o di S. Giacomo; ora ci dà a gustare una scena narrata in uno dei quattro Evangeli, e ci nutre col cibo sostanzioso delle sentenze di Gesù Cristo, che vi sono largamente disseminate. Così la novità delle cose eccita la nostra curiosità e tien desta la nostra attenzione, e la nostra curiosità eccitata e la nostra attenzione più vivamente destata trovano più gradito e più sostanzioso l’alimento della verità, che ci è offerta. – La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere e meditare i primi dieci versetti del capo XV della prima lettera ai Corinti, e servono di prefazione alla dottrina della risurrezione finale dei nostri corpi, che l’Apostolo ampiamente vi svolge. Io vi invito a considerare con me questa breve lezione della Epistola, con cui S. Paolo si apre destramente la via a spiegare il dogma fondamentale della futura nostra risurrezione. – È manifesto da questo capo XV di S. Paolo, che a Corinto, nella Chiesa fondata da lui stesso, vi erano alcuni, che negavano la risurrezione dei corpi o almeno ne dubitavano (vers. 12, 35), e muovevano difficoltà, che turbavano la fede dei semplici. Forse era il mal seme già sparso dagli eretici Imeneo e Pileto, riprovati da S. Paolo (II. Timot. II, 17, 18), e che si propagava come gangrena, a detta dello stesso Apostolo. Volendo egli pertanto porre in sodo questo articolo capitale della nostra fede, comincia dal ricordare ai Corinti ciò che loro aveva insegnato, cioè che Cristo era veramente risorto dai morti, e ne cita i testimoni, per conchiudere poi a suo luogo, che se Cristo era veramente risorto, Egli il capo dell’umanità, tutti sarebbero risorti. Udiamolo: ” Ora io vi rammento, o fratelli, il Vangelo, che vi ho predicato, che voi ancora avete accettato, nel quale v i mantenete saldi. „ Il Vangelo, che Paolo qui ricorda ai fedeli di Corinto, non è certamente il libro scritto, ma sì l’insegnamento evangelico, ossia la dottrina di Gesù Cristo: questa dottrina, egli Paolo, l’aveva annunziata, ed essi, i Corinti, l’avevano accolta: Accepìstis, non solo, ma in essa stavano saldi: In quo et statis. Doppio elogio, che l’Apostolo fa ai suoi Corinti, quello d’aver ricevuto il Vangelo e di perseverare in esso in mezzo ai pericoli ed alle persecuzioni, che d’ogni parte li circondavano e molestavano. Figliuoli! quel Vangelo che i Corinti avevano ricevuto adulti, noi l’abbiamo ricevuto ancor bambini, prima ancora di conoscerne il tesoro: i Corinti vi si tennero fermi; imitiamoli, conservando gelosamente e a qualunque costo questa santa eredità lasciataci dai nostri avi: In quo et statis. Pur troppo alcuni dei nostri cari fratelli, massime istruiti, colpa dei tempi e della scaltrezza dei nemici e della debolezza umana, hanno perduta la fede succhiata col latte tra le braccia della madre: deh! Che nessuno di voi la perda, ma la serbi intatta e viva, perché ad essa è legata la nostra speranza e la eterna nostra salvezza. – Seguitiamo S. Paolo. “Per questo Vangelo voi sarete salvi; „ ma a qual patto? ” Se lo tenete nel modo, con cui io ve l’ho predicato, „ risponde l’Apostolo. Non basta, o cari, avere la fede, ma bisogna averla e conservarla quale l’autore e consumatore della fede; ma egli ce la dà per mezzo della sua Chiesa, che ne è la depositaria ed interprete infallibile. Noi dunque dobbiamo ricevere e conservare questa fede secondo l’insegnamento della Chiesa: aggiungervi o levarne una sola sillaba sarebbe delitto, sarebbe sacrilegio. Nessuno può mutare una parola d’una sentenza pronunciata da un tribunale, che giudica secondo il codice e l’applica ai casi particolari, e se la mutasse sarebbe punito: similmente noi dobbiamo ricevere le sentenze della Chiesa, unica interprete infallibile del Vangelo. Teniamo dunque il Vangelo come ce lo porge la Chiesa, e allora non avremo creduto indarno: Nisì frustra credidistìs, giacché pretendere di piegare la fede, allargarla, restringerla, modificarla secondoché pare alla nostra corta intelligenza, è un sottoporre Dio a noi stessi, è un farci giudici della sua parola, è un distruggere la natura stessa della fede, e questa è inutile: Frustra credidistìs. In tal caso non crederemmo a Dio, ma a noi medesimi, e la fede sarebbe, non l’opera di Dio, ma sì l’opera nostra. Che cosa anzi tutto avete voi insegnato, o grande Apostolo, ai vostri Corinti? Qual fu il punto capitale del vostro Evangelo? Eccovelo: “Prima di tutto vi ho trasmesso quello, che anch’io ho ricevuto. „ La verità, sì la naturale, come la sovrannaturale, quella propria della ragione, come quella della fede, non è opera o fattura dell’uomo; se lo fosse, sarebbe in potere dell’uomo annientarla o mutarla: essa viene da Dio, da Dio solo, e l’uomo non può esserne che il mezzo o lo strumento di comunicazione, non mai la sorgente. Bene a ragione pertanto S. Paolo dice: Quelle verità, che io vi ho insegnate, non sono mie, non le traggo da me stesso, ma le ho ricevute anch’io, come voi le ricevete da me: Tradidi vobis in primis quod et accepi. E da chi le ha ricevute S. Paolo? Lo dice e lo ripete altrove; non dagli uomini, né per gli uomini, ma da Gesù Cristo. — E che cosa ricevette da Gesù Cristo? ” Che Gesù Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture. „ Non basta: ” Fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture. ,, In queste poche parole, come vedete, si contiene il compendio di tutta la fede cristiana, la morte di Gesù Cristo per i nostri peccati, la sua sepoltura, la sua risurrezione, in breve, il secondo mistero della fede, che ci insegna il Catechismo. È da notarsi quella espressione ripetuta due volte: “Secondo le Scritture: „ Secundum Scripturas, che la Chiesa volle conservata nel Simbolo, che si canta nella Messa. E perché questa espressione è con insistenza speciale inculcata? Le Scritture, delle quali parla in questo luogo l’Apostolo, non possono essere i libri del nuovo Testamento, che allora non esistevano che in minima proporzione, nè v’era ragione di citarli. Resta dunque che si alluda a quelli dell’antico Testamento, e v’era ben ragione di accennarvi. In quasi tutti i libri dell’antico Testamento si parla di Gesù Cristo, della sua venuta, della sua origine, della sua vita, della sua passione, morte e risurrezione, tantoché non è esagerazione il dire che tutta la vita di Cristo, prima che nei Vangeli, è scritta nei profeti. È questo un vero miracolo, una prova della divinità di Gesù Cristo, e perciò S. Paolo, inteso sempre a raffermare nella fede i suoi neofiti, ricordando la vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, ricorda eziandio che questa vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo era già stata predetta e descritta nei Libri santi, e così delle prove della divinità di Gesù forma un solo fascio, che vince ogni opposizione e schiaccia qualunque mente riottosa. Vedete, sembra dire l’Apostolo, il cumulo di miracoli operati da Cristo che tutti si incentrano nella risurrezione, sono più che bastevoli a mostrare chi Egli sia: eppure vi è un altro cumulo di miracoli, che si legano ai primi, ed è che questi miracoli furono tutti predetti, e se volete persuadervene pigliate in mano i libri del vecchio Testamento e ve li troverete descritti prima che avvenissero: Secundum Scripturas. – Scopo dell’Apostolo, come dicemmo, è di mostrare il dogma della risurrezione universale: per mostrare questo dogma, egli appella alla risurrezione di Cristo, predetta dai profeti. Ma questa risurrezione di Cristo è avvenuta? E certa? Si può provare? La risurrezione di Gesù Cristo è un miracolo, il sommo dei miracoli operati da Cristo, ed è insieme un fatto; un fatto che si può e si deve provare a punta di ragione. Ora i fatti come si provano? Indubbiamente coi testimoni; non c’è altra via. Come provate voi che Cristoforo Colombo abbia scoperto l’America e che Goffredo di Buglione abbia preso Gerusalemme? Colle testimonianze di quelli che videro od udirono quei fatti. Similmente nel caso nostro: se Cristo è veramente risorto noi lo sapremo da coloro che lo videro ed udirono risorto. Fuori dunque i testimoni degni di fede della risurrezione di Cristo. Paolo li accenna per sommi capi, e le sue parole sono come l’eco ed il sunto delle narrazioni evangeliche. “Gesù Cristo, dice S. Paolo, apparve a Cefa, cioè Pietro: „ Visus est Cephæ? È cosa che non deve passare inosservata: l’Apostolo, enumerando le principali apparizioni di Cristo, mette in primo luogo quella fatta a Pietro, avvenuta certamente il giorno stesso della risurrezione, come apparisce dal Vangelo di S. Luca (XXIV, 34), ancorché l’Evangelista non la descriva particolarmente (Senza dubbio la prima apparizione di Cristo risorto e dai Vangelisti narrata, fu fatta alle donne e alla Maddalena, andata al sepolcro in sul far del giorno, ma l’Apostolo la passa sotto silenzio e si restringe a quelle che ebbero gli Apostoli e: discepoli, e la ragione è manifesta). E perché porre in primo luogo l’apparizione di Pietro: Visus est Cephæ? La ragione vuolsi cercare, penso io, nella dignità di Pietro: egli era il capo degli Apostoli, la pietra fondamentale della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo, da Lui stesso ripetutamente designato come tale: la sua testimonianza era la maggiore, e perciò doveva andare innanzi a quella degli Apostoli tutti: è questo un indizio non dubbio del primato di S. Pietro, che l’Apostolo S. Paolo ci dà in questo luogo, e del quale si deve tener conto. Dopo l’apparizione di Pietro viene quella degli Apostoli uniti: Et post hoc undecim. Gesù apparve il giorno della risurrezione, a notte chiusa, ai dieci Apostoli raccolti in Gerusalemme: erano dieci, perché, oltre Giuda, il traditore, mancava Tommaso, come narra S. Luca (XXIV). Otto giorni appresso, ancora secondo il Vangelo di S. Luca Gesù apparve nuovamente agli Apostoli, ed a questa seconda apparizione di Gesù era presente S. Tommaso, ed a questa indubbiamente accenna S. Paolo, allorché dice: ” E poscia agli undici: „ Et post hoc undecim. Credo poi che l’Apostolo, accennando a questa seconda e più completa apparizione fatta a tutti gli Apostoli, in modo indiretto sì, ma certo, alludesse anche alla prima fatta ai dieci e registrata nello stesso Vangelo di S. Luca, che secondo alcuni, è quello che S. Paolo chiama Vangelo suo: Secundum Evangelium meum. Prosegue S. Paolo la sua enumerazione, e dice: ” Quindi apparve a più di cinquecento fratelli insieme: „ Deinde visus plus quam quingentis fratribus simul. La parola, insieme, usata da S. Paolo, non permette di considerare questi cinquecento e più testimoni come la somma totale di quelli, ai quali Gesù risuscitato apparve; qui evidentemente parlasi di una apparizione speciale, a cui erano presenti più di cinquecento persone. Non può essere quella della Ascensione, perché S. Luca (Atti Apost. c. I, vers. 15) afferma che questa avvenne sul monte degli Olivi, presso Gerusalemme e sembra che tutti quelli, i quali ne furono testimoni, si raccogliessero poi nel cenacolo, ed erano in numero di circa cento venti. Quale è dunque questa apparizione fatta a più di cinquecento persone insieme, molte delle quali, allorché S. Paolo scriveva la sua lettera, erano morte, ma alcune vivevano ancora? Dai Vangeli non apparisce né quando, né dove, né come avvenisse la grandiosa apparizione, ma secondo ogni verosimiglianza avvenne nella Galilea, dove Gesù Cristo stesso aveva comandato si radunassero e dove si sarebbe loro mostrato. ” Dite ai fratelli miei, che vadano in Galilea; là mi vedranno „ (Matt. XXVI, 10). – Checché sia del luogo e del tempo di questa apparizione, è indubitato, che oltre a cinquecento persone ne furono testimoni, che è ciò che più importa. S. Paolo continua la enumerazione: “Dopo apparve a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli .„ – Ignoriamo i particolari della apparizione fatta a Giacomo, che si crede sia il Minore e poi vescovo di Gerusalemme. L’apparizione poi che dicesi fatta agli Apostoli tutti si può considerare come il compendio o riassunto di tutte le altre narrate o indicate nei Vangeli. – “Finalmente, all’ultimo di tutti, come ad aborto, conchiude S. Paolo, apparve anche a me. „ Io pure, esclama il grande Apostolo, ho veduto Cristo risorto, là sulla via di Damasco; io, ultimo degli Apostoli, io aborto di Apostolo, perché chiamato a tanta dignità dopo gli altri e in modo affatto diverso dagli altri, io pure l’ho veduto Gesù risorto, io pure ne sono testimonio. — Qui la mente dell’Apostolo, com’era naturale, vola sulle memorie e sulle vicende del passato: ricorda ciò che fu e quel che è di presente, raffronta l’alta dignità di Apostolo, della quale è rivestito, e la sua vita e condotta prima della miracolosa sua vocazione, sente la propria indegnità e l’immenso beneficio della grazia ricevuta, e nell’impeto, non so ben dire della sua riconoscenza o del suo dolore, e più probabilmente dell’una e dell’altro, esce in questo grido sublime: “Perché io sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo! „ E perché, o vaso di elezione, vi chiamate minimo degli Apostoli, indegno d’essere Apostolo? Non avete voi lavorato come e più degli altri Apostoli? Non siete voi l’Apostolo dei Gentili? Non siete voi stato chiamato da Cristo stesso, e in un baleno da Lui trasformato meravigliosamente? Non avete portate le vostre catene dinanzi ai tribunali della terra per amore di Cristo, per Lui vergheggiato, per Lui lapidato? Migliaia e migliaia di Gentili, guadagnati a Cristo, non formano la corona e la gloria del vostro apostolato? Sì, tutto questo è vero, lo so, risponde l’incomparabile Apostolo; ma io ricordo d’aver perseguitato la Chiesa di Dio: Persecutus sum Ecclesiam Dei; il sangue di Stefano mi sta sempre dinanzi agli occhi: sono Apostolo di Cristo, ma prima fui suo persecutore e feroce persecutore: Persecutus sum supra modum, come scrive altrove: unico tra gli Apostoli fui persecutore della Chiesa prima d’essere Apostolo: ciò mi umilia, mi confonde, mi copre di vergogna, e mi fa sentire d’essere non solo l’ultimo degli Apostoli, ma indegno d’essere Apostolo. Questi due versetti, nella loro semplicità ed inarrivabile eloquenza, ci rivelano tutta la grand’anima dell’Apostolo, ce ne fanno vedere il fondo, e per poco ci strappano le lacrime. Ma torniamo all’argomento, che l’Apostolo sta svolgendo. Vuol provare, come dicemmo, la risurrezione futura dei nostri corpi; per provarla appella alla risurrezione gloriosa del corpo di Gesù Cristo, nostro capo e modello: e per provare il fatto della risurrezione di Gesù Cristo appella all’autorità dei testimoni, Pietro, Giacomo, gli undici Apostoli, tutti gli Apostoli, cinquecento persone, che lo videro, e infine produce la propria testimonianza. Qual serie, quale schiera di testimoni pel numero, per le qualità morali, per la costanza, per la varietà ed unanimità, per le conseguenze pari a questa! Un fatto qualunque attestato da due, tre, quattro persone oneste ed intelligenti e degne di fede genera in noi la certezza del fatto istesso per guisa, che non ci resta ombra di dubbio, e sulla loro testimonianza i tribunali pronunciano sentenze della più alta importanza, e tutti le trovano ragionevoli e giuste: il fatto della risurrezione di Gesù Cristo è affermato da tutti gli Apostoli e i discepoli: è affermato da oltre cinquecento persone, che protestano d’averlo veduto e toccato, d’aver mangiato con Lui e ricevuti i suoi comandi; è affermato dovunque, costantemente, sempre allo stesso modo, e a costo di esili, di carceri, di supplizi e della morte più atroce: chi mai potrebbe dubitarne? Se fosse possibile dubitare di tale e tanta testimonianza, sulla terra non vi sarebbe più un solo fatto, che si potesse dir certo; sarebbe forza dubitare d’ogni cosa. Voi vedete pertanto che il gran fatto della risurrezione di Gesù Cristo, base della nostra fede, riposa sul più incrollabile fondamento, che si possa desiderare, agli occhi stessi della ragione umana. Paolo aveva proclamato d’essere il minimo degli Apostoli, d’essere indegno di sì alta prerogativa: era il grido sincero della sua coscienza, era l’omaggio dovuto alla verità; ma l’umiltà è inseparabile dalla verità, anzi essa è verità, null’altro che verità. Io, per me, dice Paolo, non sono stato che un miserabile persecutore della Chiesa, e lo sarei tuttora; “ma per la grazia di Dio sono quel che sono; „ sono cioè apostolo di Gesù Cristo: Gratìa Dei sum id quod sum. E perché, o grande Apostolo, per la grazia di Dio siete quel che siete? Perché, risponde, la grazia di Dio in me non fu sterile. ., Non fu come un raggio di sole, che cade sopra un occhio chiuso, come un seme sparso sulla pietra, come un ramo innestato sopra un tronco disseccato. A questa grazia, colla quale Iddio mi chiamò senza alcun mio merito, anzi ad onta dei miei demeriti, io risposi, e risposi perché mi diede la grazia di rispondere e feci ogni suo volere. In altri termini, se sono uscito dalla cecità ebraica, ed ho abbracciato il Vangelo di Gesù Cristo, e fattone apostolo, lo devo anzi tutto alla grazia di Dio; ma non solo alla grazia di Dio, sebbene anche alla mia cooperazione. E questa la dottrina cattolica intorno ai rapporti della grazia divina e del nostro libero arbitrio, esposta da S. Paolo con una chiarezza e precisione, che non lascia nulla da desiderare. Dio previene con la sua grazia, illuminando la mente e movendo la volontà, e l’uomo lasciandosi illuminare e muovere e cooperando alla grazia coll’unire all’azione di questa la propria azione. Che cosa sono le opere buone e sante del cristiano? Sono il risultato dell’azione divina, mercé della grazia e dell’azione umana, mercé del concorso della volontà nostra, insieme unite ed armonizzanti. – Badiamo, o cari, che la grazia di Dio non fa mai difetto, come nel seme non fa difetto il principio vitale; ma che questo rimane sterile se la terra, che lo riceve, non è preparata e non risponde. Che non rimanga giammai sterile questo germe della grazia, che Dio ci largisce, onde possiamo dire con S. Paolo: Gratia ejus in me vacua non fuit! L’Apostolo conchiude il suo dire che la grazia di Dio in lui non solo non fu sterile ma fu ricca di opere, a talché, soggiunge: “Ho faticato più di tutti gli Apostoli: „ Abundantius illìs omnibus laboravi. Santa franchezza e mirabile audacia questa del nostro Paolo! Protesta d’essere l’ultimo degli Apostoli, indegno di chiamarsi Apostolo, non Apostolo, ma aborto di Apostolo, e poi non esita a dichiarare di aver fatto più di tutti gli altri Apostoli. Parrebbe una contraddizione manifesta, ed è una lampante verità: egli è veramente l’uno e l’altro, secondochè consideriamo in lui ciò che era da sé, prima dell’opera della grazia e ciò che fu poi dopo l’opera trasformatrice della grazia. E poiché gli parve, che l’aver detto: “Ho faticato più degli altri Apostoli, „ potesse sonare millanteria, quasi fosse opera tutta sua, spiega stupendamente l’espressione, soggiungendo: “Non io, ma sì la grazia di Dio con me: „ Non ego autem. sed gratia Dei mecum. Le opere del mio apostolato sono grandi, maggiori di quelle dei miei fratelli, che mi precedettero; voi le vedete e le vede il mondo tutto; ma esse non sono esclusivamente mie; sono mie e della grazia di Dio, che mi prevenne, mi avvalorò e le condusse a termine. È la stessa verità sopra accennata è  qui ribadita con una frase brevissima e insieme chiarissima: “La grazia di Dio con me. „ – Tenete saldi, o dilettissimi, questi due gran capi di dottrina cattolica, qui stabiliti dall’Apostolo, vale a dire, la necessità della grazia di Dio e la cooperazione della libera nostra volontà per fare il bene ed operare la nostra salvezza eterna; questi due elementi, queste due forze insieme unite portano le anime nostre alle altezze de cieli e le depongono in seno a Dio; separate, le lasciano povere e nude su questa misera terra, anzi le lasciano cadere negli abissi di eterna dannazione. Il far sì che siano o congiunte o separate dipende da noi, onde se bene si guarda la salute eterna o l’eterna perdizione è nelle nostre mani, perché è sempre in nostro potere usare o non usare della grazia divina a tutti e sempre più che bastevolmente offerta.

Graduale
Ps XXVII:7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.
[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja [A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX:2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum.
R. Gloria tibi, Domine!
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venitper Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.


Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Marco VII, 31-37]

-Lingua oscena-

E perché Gesù Cristo per dar la favella a un muto tanti adopra modi inusitati, e riti misteriosi? Udite, è S. Marco che nel Vangelo della corrente Domenica ci narra come il divin Signore a guarire quel muto si lasciò prima pregare da molti, “deprecabantur eum”: indi lo trasse fuor della turba in disparte, poscia gli pose le dita nelle orecchie, in seguito con poca saliva tratta dalla sua bocca gli toccò la lingua, e alzati gli occhi al cielo, alzò un sospiro, e finalmente in tuono imperioso pronunziò una parola siriaca “Ephetà”, apritevi, ed ecco sull’istante aperte le sue orecchie, e sciolta la sua lingua per modo che felicemente parlava: “Loquebatur recte”. E perché, io ripeto, tanti adopera il Redentore segni misteriosi e insolite maniere? Non eran queste a guarirlo assolutamente necessarie, dice qui un saggio Spositore (Cardin. Cajet.): senza di queste aveva pure risanati infermi, risuscitati morti o col solo tocco della sua mano, o col semplice suono della sua voce. Ecco, se io ben mi avviso, la vera cagione. – Si trattava di dare l’uso della lingua ad un muto: la lingua suole essere strumento di mille peccati, e perciò bisognava, dirò così, consacrarla con mistiche significazioni, e colla saliva dell’Uomo-Dio. Anche verso di noi furono nel nostro Battesimo dalla Chiesa praticati quasi tutti i riti, che Gesù adoperò a riguardo dell’odierno mutolo, e con tutto ciò qual uso abbiamo fatto della nostra lingua? Quante volte l’abbiamo contaminata colle mormorazioni, e colle oscene parole? Delle prime già vi parlai in altra Spiegazione. – Ora mi desidero un fuoco di santo zelo per scagliarmi contro le lingue oscene; la onde passo a dimostrarvi quanto male fa a sé stesso, tanto nell’ordine civile, quanto nel morale, l’impuro parlatore.

I. Il peccato della disonestà è un vizio così infamante, un mostro così abominevole, che ama le tenebre, cerca nascondigli, esige segreti, egli è una colpa così vergognosa, che per nasconderne i turpi effetti si ricorre talvolta a micidiali bevande, anzi che sopravvivere allo scoprimento d’un fallo di questa sorta, si elegge la morte. Ora l’osceno parlatore viene coll’impura sua lingua a scoprire, e ad infamare sé stesso. Non bada è vero alla sua onta, alla sua infamia, ma per sé ne copre, e svela senza riflettere l’interna infezione del suo cuore impuro. È detto evangelico, e la ragione e l’esperienza lo confermano, che la lingua parla dall’abbondanza del cuore, “ex abundantia cordis os loquìtur (Matth. XII, 34); onde per quella relazione tanto fisica quanto morale, che passa tra il cuore e la lingua, ne segue che scopre la lingua l’interne qualità l’intime disposizioni dell’animo buono o malvagio. Fuori la lingua, dice il medico all’infermo, e dalla lingua sporca, nera, immonda, argomenta l’interno malore. – Domandiamo ai Teologi se sia temerario giudizio il pensare di alcuno, che fa sovente laidi discorsi, o vomita spesso disoneste parole, il pensare, dissi che abbia corrotto e marcio il cuore, e ci risponderanno che non è né giudizio temerario e né pur giudizio, ma bensì una giusta necessaria conseguenza derivata da una certa premessa, o pure una evidente cognizione della causa per mezzo del suo effetto, come chi dicesse: “fumus, ergo ìgnis”; così lingua oscena, dunque anima oscena. –  Infatti se la lingua d’un oriuolo [cucù] segna le ore fuor di regola, se l’oriuolo stesso batte l’ore a sproposito, non si può dire che l’interno movimento delle ruote non sia guasto e sconnesso? Se un vaso esala dalla bocca un fetore intollerabile, dovrem dire che sia pieno d’acqua odorifera? Se un tale per tosse frequente, sputa marcia e sangue corrotto, chi potrà dire o credere che abbia sani i polmoni/? È questo il primo male che cagiona a sé stesso l’impuro parlatore, si qualifica per un impudico sfacciato, per uomo carnale, incivile, spregevole, da cui fuggono come da una puzzolente cloaca le oneste persone, meno quelle che com’esso lui son avvezze allo stesso linguaggio. Ma questo è un’ombra di male in paragone degli altri eccessi di cui fa reo, per il suo immondo e scandaloso parlare.

II. Il Re Profeta rassomiglia una di queste bocche immodeste ad un’aperta sepoltura piena di verminosi e fetenti cadaveri, “sepulchrum patens est guttur eorum” (Ps. V, 11). È avvenuto talora che all’alzarsi la lapide d’un sepolcro, per l’esalazione di quell’aria fetida, pestifera, sono caduti morti tutt’i circostanti. Così suole avvenire qualora una bocca immonda s’apre in oscene parole, restano per lo più infetti, avvelenati e morti nell’anima tutti gli ascoltanti. “Sepulchrum patens est guttur eorum”. Or chi può calcolare la strage di tanti innocenti, e la spiritual morte di quegl’incauti, che con piacere ascoltano, o non correggono, o non s’allontanano con orrore da quelle bocche infernali? Tutte quest’anime ferite ed uccise son tutte a carico del sordido e pessimo ciarlatore. Con questo di più che le oscene parole, le favole disoneste, i turpi racconti, i motti allusivi, gli equivoci maliziosi, le sporche buffonerie con gusto s’imparano, si ripetono, come malvagie sementi, passano di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, e con diabolica fecondità crescono e si moltiplicano all’infinito. Ecco in effetti quel che asserisce l’Apostolo S. Giacomo: la lingua scorretta è un fuoco d’inferno, “lingua ignis est inflammata a gehenna” (Jacob. III, 6). Una sola scintilla di questo fuoco tartareo basta ad eccitare un incendio immenso, che incenerisca un numero sterminato di mille anime e mille. “Ecce quantus ignis quam magnam sìleum intendit” (V, 7). Ma di questo incendio divoratore, che forse non s’estinguerà mai più, tutta sarà la colpa della lingua oscena. Dirò di più, dirò cosa che a prima giunta sembrerà strana. Può darsi il caso che un parlatore osceno pecchi tuttavia, ancorché confinato col corpo in un sepolcro, e coll’anima nell’inferno. Non è mio questo sentimento, ma del gran Padre S. Agostino, il quale parlando dell’empio eresiarca Ario, già morto e dannato, dice che pur pecca e ancor va peccando, “Arius adhuc peccat”; pecca nei suoi pervertiti seguaci, pecca per l’eresie da esso sparse e seminate, che in tanti incauti pullulano e si riproducono; laonde tutti questi tristi germogli attribuirsi debbono alla velenosa radice, come effetti della causa primiera; e perciò in un senso ancorché Ario sia “in terimino”, nell’eterna dannazione, ove non v’è più luogo a merito o a demerito, pure per le conseguenze funeste a lui imputate in origine, si può dire che ancor pecca. “Arius adhuc peccat”. Già forse mi preveniste nell’applicazione dell’esempio. Un uomo di lingua impura, già incenerito nella tomba, già sepolto nell’abisso, pecca ancora per la zizzania sparsa dalle sue turpi parole, per la peste uscita dalla lorda sua bocca, con cui ha infette tante anime, peste che forse si propagherà fino alla consumazione de’ secoli. – Possibile!? Dirà qui alcuno di voi, possibile un male sì grande, anzi una serie di tanti mali! “Io pronunzio, è vero, qualche sconcia parola, qualche motto allusivo, ma così per ischerzo a muovere il riso, ben lontano dal prevedere, molto meno dal voler tanta rovina”. Lo so, e lo dice nei Proverbi lo Spirito Santo, che lo stolto, cioè il peccatore, fa il male come per riso e per trastullo, quasi per risus et stultus operatur scelus (Prov. I, 23); ma quella turpe facezia, quella ridicola maliziosa parola è un cancro micidiale, dice l’Apostolo, che dall’orecchio passa al pensiero, dal pensiero si attacca al cuore, e fa nell’anima una piaga insanabile, “sermo eorum ut cancer serpit (ad. Tim. II, 17). Scolpatevi ora col pretesto di dire per burla e per scherzo, la vostra scusa accrescerà la vostra colpa. Non trovate voi dunque altro modo di ricreare lo spirito, che ridendo a danno dell’anima vostra, e delle anime altrui che costano tutto il sangue preziosissimo di Gesù Cristo? Sarà dunque minore l’oltraggio fatto alla sua Divina Maestà, perché lo fate per giuoco per sollazzo? Scusereste voi i Giudei quando per burla schernivano il divin Redentore, e con finte adorazioni Lo acclamarono Re da beffe e da teatro? Voi ne fate altrettanto; ma udite le proteste e le minacce di un Dio vilipeso. Voi ridete oltraggiandomi, voi mi oltraggiate ridendo, anch’Io quando sarete tra le fauci di morte nelle angustie estreme della vostra agonia, anch’Io mi riderò di voi: “Ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo” (Prov. I, 26). – “Ma noi, soggiungono altri, noi senza malizia alcuna e senza riflessione ci lasciamo uscire di bocca certe parole veramente poco oneste, ma non si bada, la lingua scorre, siamo avvezzi così, bisogna compatire.” – A questo passo vi voleva S. Giovanni Crisostomo per farvi tornar in gola le vostre discolpe, frivole insieme, ed aggravanti il vostro reato. – Un ladro (dice egli in una delle sue Spiegazioni al popolo di Antiochia) un ladro non è così folle da dire al giudice: “Signore perdonate o almeno compatite il mio fallo, io sono assuefatto a rubare che non mi posso astenere”; sarebbe per tale scusa più severamente punito. “Cur non praetendit fur consuetudinem, ut a supplicio liberetur (Rom. XII)? Ecco l’esempio che vi condanna. L’abito malvagio non diminuisce, anzi aggrava la colpa. Si forma quest’abito dagli atti ripetuti, continuati, per i quali la rea consuetudine passa in seconda natura. Da ciò ne segue, che sebbene vi cadan di bocca parole scorrette senz’avvedersene, in forza dell’abito cattivo da voi contratto, siete più rei per inveterata malizia, come d’accordo parlano i Teologi. – E pur non è ancor questo il colmo dei mali che cagiona a sé stessa una lingua oscena. Il colmo dei mali suoi, lasciatemi così esprimere, si è lo scrivere colle sue sozze parole sulla propria fronte il carattere della sua riprovazione. Per poco che uno sia versato nelle divine Scritture sa che figura dei predestinati fu Giacobbe, e immagine dei presciti Esaù. Ora Giacobbe, sebbene nascosto sotto le spoglie del fratello, e sotto le pelli del capretto, fu dal cieco padre riconosciuto alla voce: “Vox quidem, vox Jacob est” (Gen XXVII, 22). Per simil modo sebbene il mistero della predestinazione sia recondito ed inscrutabile, pure da certi contrassegni si può averne una cognizione capace a darcene una probabile e quasi certa congettura. Uno di questi chiari e forti segni è la lingua. Volete sapere se sarete predestinato o reprobo? parlate ch’io vi vegga: “Loquere ut videam”. Dal canto si conoscono gli uccelli, dal linguaggio gli uomini delle diverse nazioni. Aveva un bel dire S. Pietro là nel pretorio, e confermare col giuramento le sue proteste, che l’ancella più che a lui, credeva al suo linguaggio: “tu sei Galileo, gli diceva, il tuo parlare ti scopre per quel che sei”: “Loquela tua manifestum te facit” (Matth. XXVI, 73). Parlate orsù voi, se volete che io argomenti se sarete nel numero dei reprobi o dei predestinati. Voi avete una lingua pessima, laida, immonda, un vocabolario di termini nefandi? Ohimè, voi vi assomigliate ai dannati, voi sarete con essi abitatori dell’inferno. Laggiù si bestemmia, si maledice, si parla e si parlerà sempre male. Voi, come mi giova sperare, avete una lingua modesta, un parlar da buon cristiano, vi servite della lingua, come l’odierno muto risanato, a parlar rettamente, a lodare Dio, a edificare il prossimo? Consolatevi, voi sarete cittadini del cielo. Lassù quei beati comprensori hanno sempre in bocca le glorie dell’Altissimo: “Exaltationes Dei in gutture eorum (Ps. CXLIX). Aspiriamo colla purità delle nostre lingue, ad esser loro consoci.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.
[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta
Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

Communio
Prov III:9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.
[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio
Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

UN MEZZO DI SALVEZZA SUGGERITO DA FATIMA

UN MEZZO DI SALVEZZA

SUGGERITO DA FATIMA

[Attualità di Fatima, Città della Pieve, 1953]

  Chi legge la storia delle Apparizioni di Fatima non può non restare colpito dall’insistenza, con la quale la Beata Vergine raccomanda ai tre Pastorelli, e per essi a tutti i cristiani, la recita quotidiana del Santo Rosario. La Madre di Dio sei volte si mostra a Lucia, Giacinta e Francesco e tutte e sei le volte termina il suo colloquio con i fortunati Fanciulli con la raccomandazione della recita del Rosario, come di cosa graditissima al Suo Cuore Immacolato e come strumento adatto a ottenere la conversione dei peccatori, la pace del mondo e il trionfo della Chiesa. – Sinceramente, non potremmo attenderci una più alta autorevole ratifica di questa devozione, che la tradizione fa risalire a S. Domenico.

TESTIMONIANZA DELLA STORIA

Documenti diretti e precisi, in base ai quali si possa incontestabilmente provare che S. Domenico sia l’autore del Rosario, non ce ne sono. Tuttavia la tradizione non è priva di fondamento e può vantare il consenso di molti Pontefici, cioè di:

Alessandro VI (« lllius qui» del 13 giugno 1495),

Leone X (« Pastoris Æterni» del 6 ottobre 1520),

Pio V (« Consueverunt » del 17 settembre 1569),

Gregorio XIII (« Monet Apostolus » del 1° aprile 1573)„

Sisto V (« Dum ineffabilia » del 30 gennaio 1586),

Gregorio XIV (« Apostolicæ, servitutis » del 25 settembre 1591),

Clemente VIII (« Cura Beatus Dominicus » del 22 novembre 1592) ,

Alessandro VII (« Cum sicut accepimus » del 15 novembre 1657, e dell’ll maggio 1663. ),

Clemente IX (« Cum sicut accepimus » dell’ll marzo 1669),

Clemente X (« Cum sicut accepimus» del 7 febbraio 1676),

Innocenzo XI (« Cum sicut accepimus» del 17 febbraio 1683),

Benedetto XIII (« Cum sicut accepimus» del 19 gennaio 1726

                e « Pretiosus » del 26 maggio 1727),

Benedetto XIV (« Cum sicut accepimus» del 17 dicembre 1753),

Clemente XIII (« Cum sicut accepimus » del 21 agosto 1767),

Clemente XIV (« Ex poni Nobis » del 9 novembre 1770 e «Cum

                 sicut accepimus » del 4 settembre 1774),

Pio VI (« Cum sicut accepimus» del 26 aprile 1786),

Pio VII (« Ad augendam fidelium » del 16 febbraio 1808),

Pio IX ( « Postquam Deo manente» del 12 aprile 1867;

             « Egregiis sui Ordinis » del 3 dicembre 1869 e

             « Proditum est » dell’8 febbraio 1875),

Leone XIII (In quasi tutti i documenti dedicati al Rosario),

Benedetto XV (Lettera «In cœtu sodalium » del 29 ottobre 1916 ed

                 Enciclica «Fausto appetente» del 29 giugno 1921) e

Pio XI (Lettera « Inclytam ac perillustrem » del 6 marzo 1934 ed

               Enciclica « Ingravescentibus » del 15 settembre 1937).

Papa Sisto IV (Ea quæ ex fidelium » del 12 maggio 1479) afferma che la pratica del Rosario anticamente era diffusa nelle diverse parti del mondo, e che, caduta in disuso, era stata da qualche tempo ripristinata. Era stato un domenicano, Alano de la Roche, a risuscitare la devozione del Rosario, e dotato come era di una grande facondia e di una eminente santità di vita, aveva saputo suscitare un immenso entusiasmo nelle Fiandre, nella Bretagna e nell’Olanda. Tanto era l’affollamento nelle Chiese domenicane per la recita del Rosario, che i Parroci se ne allarmarono, vedendo non più frequentare le loro Chiese. I Pontefici tuttavia dichiararono il Rosario « rito di pregare pio e devoto » (Sisto IV, ibid.), « metodo di preghiera facile e accessibile a tutti » (Pio V: « Consueverunt » del 17 settembre 1569), « piissimo modo di pregare » (Gregorio XIII: «Monet Apostolus » del 1° giugno 1573), che S. Domenico istituì per ispirazione del Signore (Alessandro VI: « Illìus qui» del 13 giugno 1495: Sisto V: «Dum ineffabilia » del 30 gennaio 1586: Clemente VIII: « Cum Beatus Dominicus » del 22 novembre 1593 e Pio IX: « Postquam Deo manente » del 12 aprile 1867). Non solo; ma molti Papi hanno dichiarato il Rosario potente arma contro le eresie e i vizi (Pio V: «Consueverunt» del 17 settembre 1569: Pio IX: « Postquam Deo manente » del 12 aprile 1867; « Egregiis sui Ordinis » del 3 dicembre 1869; Leone XIII: in quasi tutte le Encicliche e i documenti sul Rosario); presidio e difesa contro tutti i nemici; mezzo efficace di santificazione (Pio IX: «Præsidium opportunissimum praesentibus malis » (Lettera « Proditum est » dell’8 febbraio 1875). Clemente VII (« Etsi temporalium » dell’8 maggio 1534) non esita ad asserire che per il Rosario tanto i chierici che i laici, come gli uomini così le donne sono giunti a tanto fervore che Dio e la Beata Vergine li hanno voluti ricompensare non solo con grazie abbondanti, ma anche con moltissimi miracoli e portenti. S. Pio V proclama che i fedeli accesi dalle meditazioni e infiammati dalle preghiere del Rosario si sono sentiti spiritualmente trasformati (« Consueverunt » del 17 settembre 1569). E’ bello notare che non solo i Papi dei secoli passati, ma anche i Pontefici dei nuovi tempi hanno solennemente attestato l’efficacia soprannaturale del Rosario per la santificazione delle anime, per la repressione delle eresie e dei vizi, e per la pacificazione del mondo. Non possiamo non tener conto di queste testimonianze, che vengono dai supremi Maestri della fede e con gioia constatiamo la perfetta concordanza del pensiero tradizionale dei Vicari di Cristo con il Messaggio rosariano di Fatima.Certamente la parola dei Pontefici Romani non ha bisogno di essere confermata da interventi soprannaturali, almeno per i cattolici, ai qual i basta la promessa che Gesù un giorno fece a Pietro: « Qualunque cosa tu avrai legato in terra, sarà legato anche nel cielo; e qualunque cosa tu avrai sciolto in terra, sarà sciolto anche in cielo » (Matt. XVI, 19); nondimeno un intervento soprannaturale varrà sempre a rinforzare la fede dei deboli e dissipare le dubbiezze degli incerti. Così a Lourdes la Beata Vergine, proclamandosi l’Immacolata Concezione, confermò non il dogma, che era stato definito quattro anni prima, ma la fede soggettiva dei cristiani. Non altrimenti a Fatima per la devozione del Santo Rosario e per la sua potenzialità in ordine al bene delle anime e della società. Chi vorrà fare il sordo alla voce del Papa, ascolti almeno il monito e l’esortazione della Madre Celeste.La storia del Rosario, confusa e frammentaria fino a metà del secolo XV, può vantare una documentazione certa e solida da quando il Beato Alano si fece ripristinatore di questa devozione e da quando il grande Papa francescano, Sisto IV, con bolla del 30 maggio 1478 « Pastoris æterni », approvando la confraternita « de Rosario Beatæ Virginis Mariæ nuncupata », eretta nella Chiesa dei Domenicani di Colonia, lo introdusse ufficialmente nella Chiesa.La Divina Provvidenza aveva riservato all’Ordine Domenicano il privilegio singolare di suscitare una simile devozione e di propagandarla con incredibile zelo nel mondo; ma aveva anche riservato all’Ordine di S. Francesco il privilegio grande di presentarlo alla Chiesa con l’autorità di un Papa, tratto dal suo seno. Da allora il Rosario, come dirà in seguito Leone XIII («Octobri mense» del 22 settembre 1891), è divenuto la tessera della fede. Il vero cristiano lo si riconosce più facilmente dalla corona del Rosario, che porta in tasca, che da qualsiasi altra manifestazione esterna.

SALTERIO MARIANO

La più completa ed esatta definizione del Rosario ce la dà il Breviario, nella quinta lezione della festa della Madonna del Rosario. « II Rosario o Salterio è una sacra formula di pregare Iddio in onore della Beata Maria; mediante la quale, in quindici decadi di Salutazione angelica, intermezzate da un Pater, si contemplano con pie meditazioni i quindici principali misteri della Redenzione umana » (« Est autem Rosarium sive Psalterium, sacra quædam formula precandi Deum in honorem Beatæ Mariæ: qua per quindecim salutationis angelicæ decades interiecta singulis Oratione Dominica, quindecim præcipua Redemptionis humanæ mysteria piis meditationihus percensentur »).Orazione vocale e orazione mentale insieme: qui è l’essenza del Rosario. Per la verità, benché sia assodato che la meditazione dei misteri fosse in uso fin dai tempi almeno del Beato Alano, tuttavia, salvo errore, nei documenti pontifici la prima volta ne è fatta menzione nella bolla di S. Pio V, « Consueverunt » del 17 Settembre 1569. Il contesto fa comprendere che essa fosse già praticata dai Rosarianti; ma è la prima volta, ripeto, che l’autorità suprema della Chiesa dichiara che la meditazione dei misteri fa parte integrante del Rosario. Si dovrà giungere nondimeno a Benedetto XIII (Decr. della S. C. delle Indulgenze del 13 agosto 1726) per sapere che la meditazione dei misteri è necessaria per lucrare le indulgenze annesse a questa devozione, benché lo stesso Pontefice dichiari (Ibid. e Costituzione Apostolica « Pretiosus » del 26 maggio 1727) anche che i fedeli, che per la loro ignoranza non sapessero meditare i misteri della vita del Redentore, possano egualmente guadagnare le sante indulgenze, meditando i Novissimi od altre pie cose. L a S. C. delle Indulgenze confermò la disposizione di Benedetto XIII in un Rescritto del 1 Luglio 1839. Leone XIII nella Costituzione Apostolica « Ubi primum » del 2 Ottobre 1898, dice che agli Ascritti alla Confraternita del Rosario è imposto l’obbligo di recitare nel corso della settimana il Rosario « cum quindecim mysteriorum meditatione». E’ chiaro dunque che per aversi il vero Rosario debbono concorrere questi due elementi: la recita delle Ave Maria e dei Pater e la meditazione dei misteri. – L’uso della corona è necessario perché si abbia il Rosario? Rispondiamo subito di no! La corona è semplicemente uno strumento adottato per rendere più ordinata e regolare la recita del Rosario. Essa oggi è divenuta il simbolo di questa devozione mariana e la Vergine Santa tanto a Lourdes che a Fatima è apparsa tenendo in mano la corona. L’uso di contare i Pater e le Ave con dei grani infilati nello spago è antecedente all’istituzione del Rosario. I Rosarianti lo adottarono fin dagli inizi, tanto è vero che, come rileviamo da una Bolla di Innocenzo VIII del 26 Febbraio 1491 e da un’altra di Alessandro VI del 13 giugno 1495, la Confraternita del Rosario era chiamata anche « de Capelleto », dal francese « chapelet », corrispondente all’italiano « corona ». Più tardi fu annessa l’indulgenza alla corona stessa; onde oggi dobbiamo distinguere le indulgenze, di cui è arricchito il Rosario come tale, dalle indulgenze legate alla corona. Per lucrare le prime non occorre l’uso della corona, benedetta o no; mentre usandosi la corona benedetta da cui ne abbia facoltà, si guadagneranno in più le indulgenze che i Sommi Pontefici hanno voluto annettere al pio strumento.

SCUOLA DI SAPIENZA

Abbiamo riportato sopra la testimonianza altissima di alcuni Papi circa gli effetti di santità, che la devozione del Rosario produce nelle anime. Addentrarsi in una profonda analisi sul valore spirituale di questa regina delle devozioni mariane è compito del teologo. Noi, senza la pretesa di fare una trattazione esauriente, ci sentiamo in dovere di esaminare questo lato, d’altronde importantissimo, del Rosario. Affermiamo innanzi tutto che il Rosario è una scuola, in cui è Maestra Maria, la Madre di Dio. Maria insegna che punto di arrivo di ognuno che tende alla perfezione è l’amore di Dio. Amare Dio con tutte le nostre forze, ecco il termine di ogni nostra attività interiore ed esteriore. Il punto di partenza è la fuga del peccato, la repressione delle passioni disordinate, la mortificazione dei sensi. Man mano che l’anima si scosta dalle cose terrene, avanzerà nella conoscenza e nel desiderio di possedere le cose celesti, fino a raggiungere quella perfetta unione con Dio, in cui solo l’uomo può trovare la sua pace e il suo riposo. S. Tommaso ha scritto: « Hoc præcipue in oratione petendum est, ut Deo uniamur » (Summ. Theol. II II. q. 83, a. 1, ad 2). Pregando col Rosario è Maria che ci guida, quasi tenendoci per mano, a Dio, e c’insegna come dobbiamo unirci a Lui e con la sua intercessione ci ottiene la grazia dell’unione. L’a nima si unisce a Dio mediante la carità, da cui sgorgano i doni dello Spirito Santo. Tra i doni dello Spirito Santo quello che più direttamente unisce l’anima a Dio è, secondo S. Tommaso (Ib. q. 45, a. 3. ad 1), l a Sapienza, che, secondo lo stesso Dottore (Ib. q. 9, a. 2) è « cognitio divinarum rerum ». Questo altissimo dono innanzi tutto eleva l’anima alla contemplazione delle verità della fede e poi muove gli affetti del cuore. « Per sapientiam dirigitur et hominis intellectus et hominis affectus » (Ib. I II, q. 68, a. 4, ad. 5); onde essa è insieme speculativa e pratica (Ib. II II, q. 45, a. 3).Ho creduto necessario premettere questi brevissimi elementi sul dono della Sapienza, per poter affermare che intanto la recita del Rosario ha così potente influenza in ordine alla santificazione delle anime e, conseguentemente, alla loro unione con Dio, in quanto è nel Rosario che il dono della Sapienza esercita la sua dolce e penetrante azione.Per spiegare questa mia asserzione, debbo rifarmi ancora una volta alla dottrina dell’Angelico Dottore. Sappiamo da S. Luca come la Beata Vergine conservasse nel suo cuore il ricordo degli avvenimenti, che distinsero la nascita di Gesù e la Sua infanzia. Due volte S. Luca rende a Maria questa preziosa testimonianza. Difatti l’Evangelista, dopo di aver narrato l’adorazione dei pastori a Betlemme, soggiunge: « Maria autem conservabat omnia verba hæc, conferens in corde suo » (II, 19). Più sotto, raccontato lo smarrimento di Gesù e il suo ritrovamento nel tempio, chiude : « Et Mater eius conservabat omnia verba hæc in corde suo » (II, 51) . Nella prima testimonianza, c’è quel « conferens in corde suo », che è di un valore incalcolabile. Esso ci dice come Maria dei misteri dell’Infanzia del Suo Figlio Divino facesse continua meditazione. E’ il Rosario in embrione! Da questo particolare S. Tommaso deduce che nella S. Vergine ci fu in modo eminente il dono della Sapienza. Scrive il S. Dottore: « Non c’è alcun dubbio che la Beata Vergine abbia ricevuto in modo eccellente il dono della sapienza, di cui ebbe l’uso nella contemplazione, secondo che scrive Luca: « Maria autem conservabat omnia verba hæc conferens in corde suo » ( Ib. III, q. 27, a. 5, ad 3). E’ evidente che, secondo S. Tommaso, la Vergine Santissima esercitò il dono della sapienza, meditando e contemplando i misteri della vita di Gesù. Possiamo ragionevolmente ritenere che Maria per tutta la sua vita abbia concentrato le sue meditazioni su questi soggetti, a Lei carissimi, sia perché riguardavano Gesù, sia perché in molti di essi. Ella medesima aveva avuto una parte non trascurabile. Alla luce della fede e della teologia noi crediamo alla decisiva importanza dei doni dello Spirito Santo in ordine alla elevazione e alla santificazione delle anime. Riteniamo che questi divini doni — e sopratutto il primo — hanno modo di svolgere la loro azione segreta, lenta e costante nelle anime che, alla scuola di Maria, contemplano i misteri della nostra Redenzione. L’esperienza del mistero sacerdotale spesso ci ha dato la consolazione di trovarci di fronte ad anime dotate di grandi virtù cristiane; anime che in mezzo al turbinìo delle passioni giovanili, hanno saputo conservare pura e intatta la loro fede, o che, dopo un più o meno lungo periodo di sbandamento, hanno ritrovato la « diritta via » e si sono avviate verso la santità. Con gioia abbiamo constatato sempre che due elementi sono stati decisivi per queste anime: la Comunione frequente e la recita quotidiana del Rosario. Abbiamo conosciuto anche anime semplici, illetterate, eppure dotate di un profondo senso di penetrazione nelle cose della Religione. Nel Rosario avevano trovato la fonte della loro sapienza! – Acutamente Leone XIII ha avvicinato il Rosario alla Somma Teologica, lodando i Domenicani che con queste due istituzioni hanno operato grandi cose « ad salutem et doctrìnam chrìstiani populi » (Lettera al maestro Gen. O. P. del 20 sett. 1892).

SEGRETO DI VITTORIA

Mi viene alla mente la profonda sentenza di S. Agostino: – Qui recte novit orare, recte novit vìvere – (In Ps. CXVIII.). Di qui inferisco che colui che prega col Rosario, prega bene; onde è impossibile che non viva bene. D’altronde il dono della Sapienza, che, sulle orme dell’Angelico Dottore, ho ammesso pure prevalentemente operante nell’anima di chi recita il Rosario, secondo lo stesso Dottore — l’ho citato sopra — è insieme speculativo e pratico e dirige non solo l’intelletto, ma anche l’affetto dell’uomo. – E come potrà vivere nel peccato, chi assiduamente medita sulla vita di Gesù Cristo e della Sua Madre Santissima? I misteri gaudiosi susciteranno nel cuore del cristiano il disprezzo dei beni terreni e accenderanno il desiderio dei celesti; i misteri dolorosi indurranno alla nausea e alla fuga dei più vili piaceri, infondendo la gioia del più delicato rispetto al proprio corpo, in quanto è, come dice S. Paolo, « tempio dello Spirito Santo » (1 Cor. III, 16-17; VI, 19); in ultimo, i misteri gloriosi, sollevando la mente alla visione dei trionfi immortali di Gesù e Maria, faranno comprendere il beneficio del dolore e delle lacrime e l’inanità di quella gloria mondana, che è come « eco di tromba, che si perde a valle » (Carducci, La Chiesa di Polenta).Si sa come l’uomo è continuamente insidiato dalle tre tentazioni, che lo stesso Figlio di Dio volle sperimentare nel deserto, benché senza il minimo pericolo per Lui e che l’apostolo S. Giovanni ha indicato e identificato nella concupiscenza degli occhi, nella concupiscenza della carne e nella superbia della vita (1 Giov. II, 16). E simili tentazioni se vincono gli individui assaliranno anche le collettività, perché la collettività non è altro che la raccolta di più individui, i quali, se saranno buoni, costituiranno una collettività buona, se cattivi, cattiva.Geneticamente abbiamo prima l’individuo, poi la famiglia, poi la nazione, poi l’umanità tutta. Risanare l’individuo è il primo passo verso quel rinnovamento della società, che tutti invocano, perché a tutti appare necessario e urgente, se si vuole ancora salvare il nostro patrimonio di millenaria civiltà.Il Rosario, come abbiamo visto, potrà giovare molto al risanamento e al rinnovamento degli individui, attraverso i quali farà giungere i suoi benefici effetti alla collettività. Per questa ragione i Papi di oggi, come quelli del 400 o 500, fanno appello al Rosario come a mezzo di salute, e la Vergine Maria, come a Lourdes così a Fatima, indica nel Rosario l’arma per vincere i nemici della Chiesa e dell’umanità. I profani, i cristiani deboli, i nemici, forse ci accuseranno di semplicismo, se in tanto sfoggio di erudizione moderna, in tanto apparato di potenza, in tanto tramestio di politici, diplomatici, giuristi e studiosi di problemi atomici, noi, con serenità di spirito, docili alle esortazioni dei Pontefici e accogliendo il Messaggio Mariano di Fatima, ci appigliamo a quell’umile e fragile tavola di salvezza, che è il Rosario. « Questa è la vittoria sul mondo, la nostra fede » (1 Giov. V, 4), ammonisce l’Apostolo S. Giovanni e noi crediamo a questa parola, perché viene da Dio, e perché è stata collaudata da venti secoli di storia. La fede viene alimentata stupendamente dal Rosario; onde non può mancare la vittoria a chi sa sgranare questa benedetta corona, col cuore sollevato a Dio e lo sguardo fisso in Colei, che è l’aiuto dei cristiani. Nella storia del Rosario leggo che si attribuiscono a questa devozione ben ventotto grandi vittorie contro i nemici armati della fede e della civiltà cristiana, tra cui le più famose sono quelladi Muret contro gli Aìbigesi nel 1212 e quella di Lepanto contro i Turchi nel 1571. Ma chi potrà contare le vittorie riportate dal Rosario contro i nemici dottrinali della Chiesa? Quante eresie compresse, quanti scismi sanati, quanta miscredenza eliminata! – Contro l’invadenza del neo paganesimo, si chiami nazismo o si chiami comunismo, i due ultimi Papi ripetutamente hanno indicato nel Rosario l’arma di vittoria e la rocca di salvezza. Pio XI emanò una enciclica il 29 settembre 1937, e Pio XII, felicemente regnante, ne emanò un’altra il 15 Settembre 1951, senza ricordare tutte le esortazioni, che questo grande Pontefice, a voce, nei Suoi sapienti discorsi, indirizza alle varie categorie di fedeli, che si recano a venerarlo da tutte le parti del mondo. – Come rispondono i cattolici alla voce dei Papi e al Messaggio di Maria?

LA CONFRATERNITA DEL ROSARIO E LE SUE PROPAGGINI

Il Rosario ha una particolare organizzazione che ha giovato molto alla sua diffusione e al suo incremento. –  Prima, in ordine di tempo e in ordine d’importanza, è la CONFRATERNITA. Essa è antichissima. La bolla di Sisto IV del 1478, che sopra abbiamo citata, ha lo scopo di confermare e arricchire di favori spirituali la Confraternita del Rosario, stabilita nella Chiesa dei Domenicani di Colonia. Da Sisto IV a Leone XIII non c’è Pontefice che non abbia largito nuove indulgenze alle Confraternite, o non ne abbia confermate le già concesse. – A ridare vita e spirito a questa Confraternita Leone XIII dedicò la sua enciclica Rosariana « Lætitiæ sanctæ » del 1893 e le diede nuova sistemazione con la Costituzione Apostolica « Ubi primum » del 2 Ottobre 1898. – L’erezione canonica di questa Confraternita, fin dai tempi di Pio V, è riservata al Generale dei Domenicani. I Confratelli assumono l’obbligo particolare di recitare il Rosario intero ogni settimana. Quanti degli odierni Ascritti alle Confraternite del Rosario conoscono questo dovere e quanti, conoscendolo, lo adempiano? Non credo di esagerare, asserendo che la Confraternita del Rosario è la più ricca d’indulgenze e di favori spirituali. Perché e stata sempre la più favorita dai Vicari di Gesù Cristo (L’elenco delle Indulgenze e dei favori spirituali concessi dalla S. Sede alla Confraternita del Rosario è stato recentemente (2 gennaio 1953) aggiornato e approvato dalla S. C. dei Riti (Cfr. Analecta S.O.P., vol. XXXI, 1953, pag. 39 ss.). E’ da augurarsi che sacerdoti e laici veramente cattolici vogliano adoperarsi a ricondurre le Confraternite del Rosario al loro vero spirito, che non è certamente quello di organizzare accompagnamenti funebri e commerciare in loculi cimiteriali. Tornando alle origini, le Confraternite risponderanno in pieno agli appelli dei Romani Pontefici e attueranno il pio desiderio della Madre celeste. Appendice nobile e veramente operante della Confraternita è il cosiddetto ROSARIO PERPETUO, chiamato da Leone XIII « pulcherrima in Sanctissimam Matrem pietatis manifestatio » (Encicl. « Augustissimæ Virginis » del 12 settembre 1897).Istitutore del Rosario Perpetuo, secondo le maggiori probabilità storiche, sarebbe stato il ven. Timoteo Ricci (+1643), domenicano fiorentino. Questa pia pratica consiste nella recita ininterrotta del Rosario, fatta dagli Ascritti ad un’ora per ciascuno determinata, di giorno e di notte, in modo che non vi sia mai un istante nella Chiesa, in cui non si elevi al trono di Maria il profumo di queste mistiche rose, fiorenti nel cuore dei suoi figli migliori. – Nato nel 1635, il Rosario Perpetuo si diffuse con prodigiosa rapidità e Papa Alessandro VII nel 1656 concesse l’indigenza plenaria ai fedeli, che praticassero l’Ora del Rosario Perpetuo, indulgenza in seguito rinnovata e confermata dai Pontefici Clemente X (« Ad augendam » del 17 febbraio 1676), Innocenzo XI (Lettera del 17 febbraio 1683), Clemente XI: ((53) Lettera del 14 novembre 1710), Innocenzo XIII (Lettera del 3 agosto 1723.), Clemente XII (Lettera del 20 maggio 1737) , Pio VI (Lettera del 17 dicembre 1779, e del 13 maggio 1786) , e Pio VII (Lettera del 16 febbrai.. I808).Con la Rivoluzione Francese e con i sovvertimenti sociali e politici, che ne seguirono, il Rosario Perpetuo decadde, ma Pio IX, con breve apostolico del 12 Aprile 1867 « Postquam monente Deo », lo ripristinò, arricchendolo di nuove Indulgenze. Per quanto mi risulta, il titolo di Rosario Perpetuo ufficialmente in un documento pontificio viene usato la prima volta da Pio IX, nel Breve or ora citato.Dal 1867 la pratica del Rosario Perpetuo ha reclutato milioni di fedeli, che in tutto il mondo, senza interruzione, sgranano ai piedi di Maria la loro corona. Leone XIII volle onorare del Suo grande nome l’Associazione del Rosario Perpetuo, obbligandosi a tenere la Sua Ora di Guardia dalle 10 alle 11 di sera in ciascun primo giorno del mese. Un’altra appendice della Confraternita del Rosario è il così detto ROSARIO VIVENTE. Ne fu Autrice, verso l’anno 1826, la signorina Paolina Maria Jaricot, di Lione. Il Rosario Vivente è un’Associazione in cui gli Ascritti vengono divisi in gruppi di quindici; ogni gruppo è presieduto da uno Zelatore o Zelatrice. che ha il compito di assegnare, al principio del mese, uno dei quindici misteri a ciascun Ascritto. Questi si obbliga a recitare ogni giorno una posta di Rosario, meditando il mistero assegnatogli. In tal modo la recita quotidiana del Rosario intero diviene un atto della collettività, cioè del Gruppo. Il Rosario Vivente ebbe una diffusione rapidissima, diremmo prodigiosa. Dopo appena sei anni di vita, fu approvato e raccomandato da Papa Gregorio XVI (Costit. Ap. « Benedicentes Domino» del 27 gennaio 1832), che lo arricchì di sante indulgenze e che dopo quel primo atto, onorò l’istituzione di ben altri quattro importanti documenti (Lettera ai RR. Betemps di Lione e Marduel di Parigi , del 2 febbraio 1832; Lettera al R. Betemps, del 13 aprile 1833; Lettera a Paolina Maria Jaricot, Fondatrice del Rosario Vivente, del 13 aprile 1833; Lettera alla medesima, del 21 febbraio 1835), volti a esaltare e incoraggiare la nuova forma di questa devozione mariana. Pio IX, seguendo le orme del Suo venerabile Predecessore, accordò anche lui la sua alta protezione a questo nuovo germoglio del Rosario, confermando le indulgenze di Gregorio XVI (Lettera Apost. del 12 agosto 1862) e mettendo l’Associazione sotto la giurisdizione dell’Ordine Domenicano (Cost. Apost. « Quod iure hereditario » del 17 agosto 1877), a cui per diritto ereditario, riconosciutogli dai Sommi Pontefici, spetta regolare e dirigere la propaganda del Rosario, sotto qualunque forma. Una pagina simpatica nella storia del Rosario Vivente l’ha scritta e la scrive tuttora la bianca Legione dei Piccoli Rosarianti, sorta nel 1904 in Francia, trapiantata nel 1909 in Italia e ormai diffusa i n tutto il mondo cattolico. Questa « puerile decus », che graziosamente circonda il trono della Regina degli Angeli, ha avuto il suo particolare altissimo riconoscimento dalla Sede Apostolica, quando Benedetto X V , con decreto della Suprema Sacra Congregazione del S. Ufficio – Sezione Indulgenze – del 18 Marzo 1915, concedeva ai Fanciulli della Bianca Legione indulgenze particolari, oltre quelle di cui gode il Rosario Vivente (Analeeta S. O. Fratrum Prædicatorum, 1915. pag. 61).

PRATICHE ROSARIANE

In connessione con la devozione del Rosario accenneremo a qualche pia pratica, sorta nella Chiesa. Innanzi tutto ricordiamo la preparazione che i fedeli sogliono fare alla festa del Rosario con i così detti QUINDICI SABATI. Quindici, perché tale è il numero dei misteri rosariani, e Sabati, perché si sa che fin dal medio evo questo giorno fu dedicato in modo particolare al culto della Beata Vergine, poiché, tra le altre ragioni addotte da Umberto de Romanis ( De Vita Regulari, voi. II, pag. 72, a cura del P. Berthier, 1888), « in sabbato completum est opus creationis sive naturæ: in ipsa (Maria) vero completum est opus recreationis, sive gratiæ ». – L’origine dei XV Sabati risale al secolo XVII, cioè alla vittoria riportata dal re di Francia Luigi XIII a La Rochelle, contro gli Ugonotti. I primi a praticare questo pio Esercizio, stando alle più accreditate notizie giunte fino a noi, furono i Domenicani di Tolosa, imitati ben presto dai Domenicani di tutto il mondo e quindi dal Clero secolare e regolare indistintamente. Ha dato molto incremento a questa devozione la propaganda del Servo di Dio Bartolo Longo. L a S. Sede accordò subito il suo favore ai XV Sabati, concedento molte indulgenze. Allo stato attuale, è concessa l’indulgenza plenaria per ciascun Sabato, purché il fedele si confessi, si comunichi e reciti almeno una terza parte del Rosario. Inoltre, per comodità dei cristiani, al posto dei XV Sabati si possono fare altrettante Domeniche, alle stesse condizioni e con gli stessi benefici spirituali; in ultimo il pio Esercizio dei XV Sabati lo si può fare in qualunque tempo dell’anno, e perciò non esclusivamente in preparazione alla festa del Rosario (Cfr. Preces et Pia Opera inlulgentiis ditata, edita dalla S. Penitenzieria Apostolica, al n. 362). Un’altra pia pratica, tanto raccomandata dai Sommi Pontefici, è quella del mese di OTTOBRE DEDICATO ALLA MADONNA DEL ROSARIO. Ad iniziare questo pio Esercizio furono i domenicani, in ricordo della battaglia di Lepanto, che avvenne il 7 Ottobre 1571. Fino a Pio IX nessuna speciale indulgenza era stata concessa ai fedeli che lo praticassero. Questo Pontefice, accogliendo una supplica del P. Giuseppe Moran, domenicano spagnolo, nel 1868 concesse l’indulgenza di sette anni e sette quarantene ai fedeli, per ogni volta che assistessero alla funzione del mese di Ottobre in onore della Madonna del Rosario, e plenaria alla fine del mese per quanti avessero seguito la pia pratica per l’intero mese. Leone XIII, con l’enciclica « Supremi Apostolatus » del 1° Settembre 1883, estese l’obbligo del mese di Ottobre alle chiese parrocchiali della Cristianità, obbligo che confermò l’anno seguente con l’enciclica « Superiore Anno » del 30 Agosto 1884. Un decreto della S. C. delle Indulgenze, del 31 Agosto 1885, fissa le norme del mese di Ottobre e ne determina i favori spirituali, che sono tuttora vigenti, per quanto l’obbligo delle funzioni da tenersi nelle Parrocchie sia cessato dopo la conclusione dei Patti Lateranensi, essendo venuto a mancare il motivo principale, che aveva indotto Papa Leone XIII a ordinare la pratica del mese di Ottobre. Un’altra pia pratica del Rosario è la solenne Processione, che le Confraternite dovrebbero fare nella prima domenica di Ottobre, a ricordo della vittoria di Lepanto. I Domenicani, per privilegio apostolico (Benedetto XIII « In supremo» del 1° aprile 1725 e « Pretiosus » del 26 maggio 1727; Clemente XII « Cum sicut accepimus » del 10 aprile 1733), possono fare la processione in detto giorno « ingrediendo limites cuiuscumque parochiæ, ordinarli licentia minime requisita et absque licentia Parochi » (Benedetto XIII. ibid). Papa Leone XIII annette molta importanza a questa « Processione » e nelle Sue encicliche « Supremi Apostolatus » e « Superiore Anno », più volte ricordate, esorta i fedeli a intervenire a un simile atto di pietà mariana, con spirito di preghiera e di penitenza. Abbiamo brevemente ricordato le Istituzioni Rosariane, che sono sorte nella Chiesa, da  quando il Rosario si è diffuso tra i fedeli (Per più ampie notizie, vedere l’eccellente opera del P. Ludovico Fanfani O.P. « De Rosario B. M. Virginis » (Marietti, 1930). Anche oggi, possiamo ammetterlo con certezza, sono milioni di anime, sparse in ogni parte della terra, che quotidianamente recitano il Rosario, per il trionfo della Chiesa, per la conversione dei peccatori, per la pace del mondo, per il benessere di tutta l’umanità. – Né i tempi nuovi, pur essendo saturi di miscredenza e di scetticismo, hanno affievolito l’ardore della preghiera rosariana, che anzi potremmo affermare, l’hanno incrementata, suggerendo forme nuove, più adatte all’indole e alle esigenze del secolo XX, e aumentandone, per conseguenza, l’efficacia spirituale e sociale.

TROVATE ROSARIANE

Anche la pietà ha le sue industrie, cioè quei ritrovati ingegnosi, che servono a far penetrare in un ambiente meno preparato o in un cuore refrattario, un raggio di fede, un alito di speranza e una scintilla di carità. La Sapienza di Dio che, secondo l’affermazione della Scrittura (Prov. VIII, 31), si diverte nel mondo — ludens in orbe terrarum — ispira Essa stessa queste industrie, che spesso ottengono degli effetti strabilianti. Pio IX (Bolla « Ineffabilis » dell’8 dicembre 1854) asserisce che molto opportunamente i Santi Padri applicano a Maria quanto dai Libri Santi viene detto della Sapienza. Onde le parole sopra riportate — « ludens in orbe terrarum » — le possiamo anche intendere, sia pure con senso accomodatizio, come riferentisi alla Madre di Dio. Anche Maria « si diverte nel mondo », mettendo in azione l’intelligenza e il cuore dei Suoi devoti.  Assistiamo a un consolante spettacolo, cioè a una ripresa rosariana generale nel mondo cattolico in conseguenza della diffusione del Messaggio recato da Maria a Fatima. Ovunque sorgono anime generose — anche in ambienti che ci sembrano negati e chiusi ermeticamente al soffio divino — che si dedicano alla propaganda di questa devozione mariana e collaborano attivamente con la Gerarchia della Chiesa.Parlerò in ultimo della Crociata del Rosario; ora voglio segnalare alcune « specialità » rosariane, che dimostrano lo spirito di adattamento alle esigenze dei nostri tempi, che distingue la devozione del Rosario. Quasi tutte queste « specialità » rappresentano un meraviglioso effetto della Crociata del Rosario, la quale ha infervorato tanti cuori di amore per la Madonna e sappiamo che l’amore ha una genialità tutta sua nell’escogitare mezzi e forme, intesi ad appagare i bisogni del cuore. Accenno a qualche iniziativa, che mi sembra più meritevole di rilievo. – Il Rosario radiofonico o radiotrasmesso è iniziativa dell’americano P. Patrizio Peyton. Ha avuto uno straordinario successo e ora ha acquistato un carattere internazionale. In parecchi paesi del mondo il Rosario ogni giorno viene radiotrasmesso. Gli Stati Uniti sono al primo posto, la Spagna al secondo. Diamo il posto d’onore all’America del Nord, perché in quella grande nazione sono ben 230 le Stazioni Radio che trasmettono il Rosario e di esse 100 lo trasmettono quotidianamente. E’ significativo che il P. Peyton i primi e i migliori collaboratori per questa Sua Crociata li abbia cercati e trovati a Hollywood, nell’ambiente più mondano che si possa immaginare. Scherzi della Madonna! Quanto al Rosario radiotrasmesso l’Italia forse occupa uno degli ultimi posti; ma già è in azione un’armata azzurra, che promuove petizioni e raccoglie firme per ottenere dalla R. A. I. la trasmissione quotidiana e sistematica del Rosario. Il P. Peyton ha inviato in Italia un’Ambasciatrice di Maria, la grande artista Miss Kety, per preparare i nostri artisti alle trasmissioni mariane radiofoniche. Auguriamo a Miss Kety il più lusinghiero successo della sua missione. – Come auguriamo ai promotori della iniziativa di riuscire nel bel tentativo di dotare il Santuario di Pompei di una Radio mariana, di una Radio che funzioni solo per lanciare alle quattro parti del mondo messaggi mariani, cioè messaggi di carità e di pace. C’è anche un Rosario telefonico, in vigore nella cattolica Spagna fin dal 1935. Quando fu lanciata l’idea del Rosario per telefono nella Patria di S. Domenico, ben 60 Centri telefonici aderirono. I telefonisti spagnoli s’impegnarono alla recita del Rosario per linea, quotidianamente, di buon mattino, alle ore 4,45, per non essere di disturbo agli utenti. In America, sempre feconda di trovate curiose, anche nel campo della pietà, è stato inventato in questi ultimi tempi nientemeno che il Rosario a orologeria. Se c’è un ordigno di morte a orologeria, perché non ci dev’essere con lo stesso sistema un congegno di vita e di salute, quale è il Rosario? così avrà ragionato il Sig. Damon M. Doherty di St. Cloud nel Minnesota. Non solo la necessità, ma anche l’amore aguzza l’ingegno! E d ecco il Sig. Doherty prendere un disco e sopra annotarci i quindici misteri del Rosario e disporvi in giro una corona autentica, piantare al centro due lancette, una delle quali segna i misteri e l’altra i grani della corona. C’è una suoneria, che dà il segnale alla fine di ogni decade. Tutto funziona… come un orologio. Nel centro del disco si possono leggere queste parole: « prega per la pace ». Un simile congegno è stato approvato dall’Autorità Ecclesiastica e può essere utile a chi vuol recitare il Rosario durante il lavoro. Tuttavia perché chi usasse questo sistema — e penso che esso potrebbe riuscire comodo, per es.: agli autisti — possa lucrare le indulgenze annesse alla corona, deve tenere indosso, in qualunque modo, la stessa corona, giusta il Decreto della S. Penitenzieria del 9 Novembre 1933. – Un buon autista ogni giorno in macchina recita il suo Rosario, assegnando una posta per ogni sosta e meditando sui misteri. E pare che gli affari gli vadano bene. E’ il Rosario in macchina o in veicolo! Quanti autisti e quanti vetturini possono imitare l’esempio di questo loro collega, attirando su di sé le benedizioni e lo sguardo compiacente della celeste Madre! Una curiosità rosariana? Eccola! A Birmingham in Inghilterra, durante la recente Crociata del Rosario, predicata dal celebre P. Peyton, fu benedetta una corona di 15 poste, lunga 6 metri. Essa era destinata alla Famiglia Poole, composta di padre, madre e 12 figli. In tal modo la numerosa famiglia potrà recitare il Rosario insieme con una sola corona, della quale ciascun membro reggerà una parte. Potrei continuare nella narrazione di simili spigolature, come potrei aggiungere episodi altamente significativi di quel fervore e di quell’entusiasmo, con cui i buoni cristiani hanno accolto il pressante invito della Vergine di Fatima a recitare ogni giorno il santo Rosario. Per suscitare tanto entusiastico fervore la Madonna ha dato vita alla cosi detta CROCIATA DEL ROSARIO.

LA CROCIATA DEL ROSARIO

E ‘ ora che diciamo una parola di questa bellissima e utilissima iniziativa. L’ideatore e l’iniziatore della Crociata del Rosario fu il domenicano belga P. Luca Hellemans, che organizzò la prima Crociata nel 1939, proprio alla vigilia della seconda grande guerra. In seguito il P. Hellemans, rimasto minorato a causa di un incidente automobilistico, fu sostituto nella direzione della Crociata per il Belgio dal P. Giacinto Berghmans, che ha saputo dare all’opera del suo confratello sviluppi meravigliosi. La Crociata ben presto valicò i confini del piccolo Belgio e si estese prima alla Francia, poi al restante delle nazioni europee, quindi passò l’oceano e negli Stati Uniti, nel Canada, nelle Repubbliche dell’America Latina, nelle Filippine, nell’Australia, finanche in alcune regioni dell’Estremo Oriente, essa oggi è in atto, accolta con immenso favore dall’Episcopato, dal Clero, dalle popolazioni cattoliche e anche dalle non cattoliche. Quasi ovunque la Crociata del Rosario è diretta dai Domenicani, i quali però hanno trovato dei collaboratori preziosi in sacerdoti del Clero Secolare e Regolare, tutti affratellati nell’amore e nello zelo della gloria di Colei, che è la Madre e la Regina di tutti i sacerdoti. In America il più grande, fervente e geniale collaboratore della Crociata del Rosario è il famoso P. Peyton, che non è un domenicano, ma un Religioso della Congregazione della S. Croce, che ha creato il Rosario alla radio. In Italia a capo della Crociata c’è il P. Marcello Vanni O. P., il quale dirige tutto il lavoro dei suoi trenta Confratelli Domenicani e lo organizza nelle varie diocesi secondo le richieste dei Vescovi Nel 1952 ha fatto rumore la Crociata del Rosario in Inghilterra, voluta da S. E m . il Card. Griffin, predicata dal P. Peyton e onorata da una lettera del Sommo Pontefice. L’augusto documento è di importanza eccezionale, perché con esso la Crociata del Rosario riceve il crisma dell’ufficialità, se così posso esprimermi. Il Santo Padre, dopo di aver ricordato quanto bisogno vi sia di pregare « nel presente momento, in cui una pericolosa forma di materialismo tende a minare i rapporti degli uomini col loro Creatore, e con i loro simili, e a distruggere la santità della famiglia », proclama che nessuna preghiera è più efficace di quella che si fa in comune, e tra le preghiere collettive, nessuna è più semplice e più fruttuosa del Rosario in famiglia. La Crociata dell’Inghi1terra ha avuto vasta eco nel mondo cattolico, per la forma spettacolare che ha assunto, dato l’entusiasmo con cui l’accolsero i cattolici inglesi. E non solo i cattolici; finanche gli anglicani furono presi dal fuoco. A Birmingham fu lo stesso Rettore della Chiesa Anglicana che esortò i suoi fedeli ad andare a sentire le prediche del P. Peyton. Si calcolano a 400.000 i cattolici inglesi che hanno risposto all’appello del P. Peyton. La definizione della Crociata del Rosario ce la dà il P. Vanni : « E’ un Movimento spirituale di preghiere, penitenze e predicazioni, che si propone di contribuire alla restaurazione in senso cristiano della nostra società, attraverso il ristabilimento del Rosario nelle famiglie e in tutte le comunità (Istituti, Ospedali, Prigioni, ecc.) (P. Marcello Vanni, 0. P., La Crociata del Rosario.). Essa ha lo scopo precipuo di propagare la recita quotidiana del Rosario non tanto come forma privata e personale di devozione mariana, ma sopratutto come preghiera collettiva, e non solamente nelle Chiese e nelle Comunità Religiose, ma anche ovunque si trovi una collettività, sia pure embrionale, cioè nelle famiglie, negli ospedali, nelle carceri ecc. Se la preghiera del Rosario ha per se stessa un’efficacia tutta sua, aumenterà questa sua efficacia, quando sarà fatta in comune, perché Nostro Signore Gesù Cristo ha detto: « Io vi dico: che se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo nel domandarmi una qualsiasi cosa, sarà loro accordata dal Padre mio che è nei cieli. Di fatti dove saranno raccolti due o tre ne1 mio Nome, ivi sono Io, in mezzo ad essi » (Matth. XVIII, 19-20). San Tommaso commenta e spiega: « Impossibile est enim preces multorum non exaudiri, si ex multis orationibus fìat quasi una » (In. Matth., XIX). E io penso che quando la famiglia o la comunità si raccoglie per recitare il Rosario, Maria, invisibile, ma reale sia lì, come uno della famiglia o del1a comunità a recitare il Rosario, come lo recitò a Lourdes con Bernardetta, come nel Cenacolo pregò con gli Apostoli (Atti, 1, 14). E potrà non essere esaudita la preghiera, che Maria fa sua e presenta al Suo Figlio Divino? La Crociata proponendosi come suo fine principe quello di riportare la recita quotidiana del Rosario nelle famiglie e nelle comunità, innanzi tutto asseconda una volontà precisa dei Sommi Pontefici. Leone XIII (Enciclica « Fidentem piumque » del 20 settembre 1896 e vari altri Documenti), PioXI (Lettera al Maestro Gen. O. P. « Inclytam ac perillustrem » del 6 marzo 1934 ed Enc. «Ingravescentibus » del 29 settembre 1937.) e Pio XII (Discorso agli Sposi dell’8 ottobre 1941, Encicl. « Ingruentium » del 15 settembre 1951 e vari altri Documenti), per ricordare solo gli ultimi Pontefici, che maggiormente lo hanno raccomandato, hanno ripetutamente e caldamente propugnato il ritorno del Rosario in seno alla famiglia. Poi la Crociata dà compimento al desiderio della Vergine SS. a Fatima, ove, come abbiamo ricordato al principio, Essa ha così vivamente raccomandato la recita del Rosario. In ultimo la Crociata varrà a riportare i costumi dei cristiani sulla scia del Vangelo, eleverà il livello morale e spirituale della Società e salverà il mondo dai tremendi castighi, che si merita per la sua apostasia da Dio (Ricordiamo qui, almeno in una nota, la magnifica  iniziativa di Mons. Fulton J. Sheen, che va sotto il nome di « Crociata mondiale del Rosario Missionario ». Inaugurata nel 1950, essa ha l’intento di far pregare per la pace del mondo e per la conversione di tutti gli uomini, in particolare degli infedeli. Il Rosario si compone di cinque decine di colore diverso, rappresentanti i cinque Continenti: la decina verde l’Africa, la rossa il Continente americano, la bianca l’Europa (in questa decina si prega anche per il Sommo Pontefice, il Bianco Padre, che da Roma veglia sul mondo …), l’azzurra l’Oceania, la gialla l’Asia. – Tre Ave Marie finali vengono dette per i Missionari del mondo. « Quando il Rosario è finito — osserva graziosamente Mons. Fulton Sheen — si è circumnavigato il globo, abbracciando tutti i continenti, tutto il popolo in preghiera». Il Card. Fumasoni Biondi aggiunge: « è una ingegnosa maniera di dare alle persone una coscienza missionaria »). – In America e altrove è stato lanciato questo slogan: il Rosario è più potente della bomba atomica! Così è e così sarà. La modesta fionda del giovinetto Davide non fu più forte della spada, della lancia e dello scudo del gigante Golia (I Reg. 17, 39)? La fionda del pastorello era dotata di una forza divina. Il Rosario è munito anch’esso della forza di Dio, di cui dispone Maria, la Donna Forte per eccellenza (Cant. VI, 3, e 9), terribile come un esercito schierato (Cant. VI, 3, e 9). E noi ci appiglieremo a questa forza e l’useremo per salvare le anime nostre, per salvare la società e il mondo. Non dubitiamo della vittoria. Dio è con noi, e con noi è Maria!

+ fr. Reginaldo G. M. Addazi O. P.

[Arcivescovo di Trani, Nazareth e Barletta]