IL PAPA

Il Papa

[Giacomo Bertetti: “Il Sacerdote Predicatore”- S.E.I. ED. Torino, 1919)

.1. Chi è il Papa. — 2. Il nostro dovere.

1.- CHI È IL PAPA. — Il Papa non è un angelo:… è un uomo composto come noi d’anima e di corpo;… nato come noi col peccato originale,… sottoposto come noi alle conseguenze del peccato originale,… può come noi peccare, e peccare anche gravemente;… è Pietro … Ma quel Dio che elegge le cose stolte del mondo per confondere i sapienti, e le cose deboli del mondo per confondere le forti, e le ignobili cose del mondo e le spregevoli e quelle che non sono per distruggere quelle che sono, affinché nessuna carne si dia vanto innanzi a lui » (la Cor., 1, 27 – 29) , ha fatto di Pietro la pietra fondamentale della Chiesa; .., «.Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei; e a te darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai legato sopra la terra sarà legata anche nei cieli, e qualunque cosa avrai sciolto sopra la terra, sarà sciolta anche nei cieli » (MATTH. , 16, 18, 19) Una casa non può sussistere senza fondamenta:… e così per volontà di Dio non potrebbe sussistere la Chiesa senza il Papa, che n’è la pietra fondamentale… Tutt’i fedeli sono parti di quella Chiesa ch’è fondata su Pietro, finché rimangono uniti col Papa; … ove se ne scostassero, cesserebbero di far parte della Chiesa… Lontani dal Papa, s’è lontani dai Sacramenti, lontani dalla grazia santificante, lontani dalla verità, lontani dalla salvezza eterna… A Pietro soltanto Gesù diede il potere supremo di pascere gli agnelli e le pecorelle del mistico ovile (JOAN. , XII, 15-17,);… e chiunque ci si presentasse a parlarci di Dio e delle cose celesti, senza essere mandato dal Papa, lo dovremmo riguardare come un ladro e come un assassino dell’anima; … « In verità, in verità vi dico: chi non entra nell’ovile per la porta, ma vi sale per altra parte, è ladro e assassino » ( JOAN., X, 1). Nel mistero dell’Incarnazione la natura divina e la natura umana furono riunite in una sola persona;… nell’opera della santificazione la persona umana e le persone divine si uniscono in una sola natura, poiché Dio per mezzo di Gesù Cristo « fece a noi dono di grandissime e preziose promesse, affinchè per queste diventaste partecipi nella divina natura » (2a PETR., 1, 4 ) … E questa partecipazione della divina natura proviene in noi dalla spirituale unione con Cristo (la Cor., VI, 15; Ephes., III, 17; V, 30);… dall’adozione in figli di Dio (JOAN., 1, 12; 1a JOAN., IV, 7); … dall’abitazione dello Spirito Santo in noi (la Cor., III, 16, 17);… dall’imitazione della bontà e della santità di Dio (Ephes., V, 8)… — Ma al Papa, e al Papa soltanto, è stata concessa una partecipazione tutta speciale della divina natura, a beneficio di tutt’i fedeli;… la partecipazione dell’eterna verità, per cui, quando in materia di fede e di costumi ammaestra tutta la Chiesa, qual supremo suo pastore e dottore, dandone un giudizio definitivo, gode di quella medesima infallibilità, di cui Cristo volle adorna la Chiesa… Pietra fondamentale della Chiesa, principio d’unità e di fermezza del mistico edificio e pastore supremo dell’ovile di Cristo, deve sostenere quel regno ch’è anzitutto regno di verità e congregazione di credenti; deve somministrare il pascolo d’eterna salute al gregge; deve con sicura mano esercitare il potere delle somme chiavi, mettendo la terra in diretta comunicazione col cielo… Dell’infallibile magistero di Pietro abbiamo l’esplicita, formale e assoluta promessa di Gesù Cristo: « Simone, Simone, ecco che satana va in cerca di voi per vagliarvi, come si fa del grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno: e tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli» (Luc., XXII, 31, 32).

2.- IL NOSTRO DOVERE. -— Se il Papa è la pietra fondamentale della Chiesa, se è il Pastore dei Pastori, se è il Vicario di Gesù Cristo, se è il Maestro infallibile, se fuori di lui non si può aver salute, dobbiamo starcene con lui strettamente uniti, per la vita e per la morte… Dobbiamo dirgli con le opere ciò che Pietro disse a Gesù, quando Gesù disse ai dodici apostoli: « Volete forse andarvene anche voi? » — « Signore, a chi andremo noi? tu hai parole di vita eterna» (JOAN. ,VII, 68, 69)… Consideriamo qual sarebbe la nostra angustia, se il Signore ci avesse lasciati in questo mondo pieno d’errori e d’iniquità senza un Capo visibile della Chiesa, il quale fa conservare intemerato il deposito della fede?… come faremmo ad accertarci d’essere sulla via della salute? … come faremmo ad accertarci se siano veramente pastori quei che ci predicano Dio e la sua legge, e se per essi debbonsi veramente applicare quelle parole: « Chi ascolta voi ascolta me; e chi disprezza voi disprezza me; e chi disprezza me, disprezza chi m’ha mandato »? (Luc,, X, 16) –

Dobbiamo al Papa il più grande rispetto, come la più grande autorità dopo Dio … Se i semplici sacerdoti « debbono essere per noi a ragione non solo più formidabili dei potenti e dei sovrani, ma ancora più venerandi dei nostri padri, perché questi ci hanno generato dal sangue e dalla volontà della carne, mentre quelli sono per noi autori del nascimento da Dio, della beata rigenerazione, della vera libertà e dell’adozione secondo la grazia» (S. Giov. CRIS., De sacerd., 3), che sarà del Sommo Pontefice, da cui unicamente deriva la potestà dell’ordine e della giurisdizione sovra gli altri sacerdoti?… — Rispettiamo il Santo Padre, … il Padre della nostra vita spirituale … Non tocca ai figli il giudicare i difetti e le mancanze del padre, anche quando paressero evidenti e inescusabili … tocca ai figli stendere sul padre quel velo di carità che pur siamo obbligati a stendere su qualsiasi nostro fratello:… facendo altrimenti saremmo maledetti da Dio (Gen.., IX, 25)… Che dire poi di coloro che prestano cieca fede alle maligne dicerie sparse intorno ai Papi da uomini senza timor di Dio, da uomini venduti ai nemici della Chiesa?… Che dire di coloro che sono soliti a leggere senza alcun rimorso di coscienza libri e giornali spiranti odio e disprezzo contro il Papa?

Dobbiamo obbedire al Papa... È la più grande autorità di questa terra;., gli stessi sovrani sono soggetti alla sua spirituale giurisdizione;… e chiunque non obbedisce al Papa, non obbedisce a Gesù Cristo, non obbedisce a Dio … Se l’Apostolo, parlandoci dell’ubbidienza che dobbiamo prestare alle autorità secolari, ebbe a scrivere: « Ogni anima sia soggetta alle podestà superiori; poiché non c’è podestà se non da Dio, e quelle che ci sono, son da Dio ordinate: e perciò chi s’oppone alla podestà, resiste all’ordinazione di Dio; e quei che resistono, si comprano la dannazione » (Rom., XIII, 1, 2), quanto maggior obbedienza non dobbiamo noi prestare al Vicario di Gesù Cristo! … — Ubbidiamo al Papa, non solo nelle cose di fede, ma anche nelle cose di semplice disciplina;… chi non gli ubbidisce nelle cose di fede è un eretico, uno scomunicato;… ma chi non gli ubbidisce nelle cose disciplinari, è pur sempre un ribelle, un figlio indocile e cattivo; … e all’inferno si può andare non solo per i peccati commessi contro la fede, ma anche per i peccati commessi contro qualsiasi altra virtù… —- Ubbidiamo al Papa, accettando con filiale sottomissione gli ordini ch’ei ci comunica mediante i Vescovi, i parroci, i sacerdoti;… pretendere che il Papa parli singolarmente a ciascuno di noi sarebbe stoltezza, e superbia inaudita l’interpretare la volontà del Papa dalle ciance degl’increduli e dei cattivi  cristiani, piuttosto che dalla voce dei legittimi pastori… — Ubbidiamo al Papa non solo con l’ubbidienza dell’opera, facendo ciò che ci viene comandato;… non solo con l’ubbidienza della volontà, conformandola a quella del Papa; … ma anche con l’ubbidienza dell’intelletto, conformando il nostro giudizio con quello del Papa, in modo da ritenere come cosa migliore di qualsiasi altra ciò che il Papa ci comanda… Basta un po’ d’umiltà e un po’ di fede per raggiungere quest’ubbidienza intera e perfetta, … considerando che il Papa si trova in un luogo molto più elevato di quello in cui ci troviamo noi, per giudicare quello che meglio si convenga alla gloria di Dio e alla salute delle anime.

Dobbiamo amare il PapaAnzitutto con la nostra perfetta ubbidienza: … un padre sa d’essere amato sinceramente dai figli, quando li vede docili ai suoi voleri; … allora spariscono per lui le difficoltà e le amarezze, e nell’obbedienza dei figli trova il più caro compenso e la più forte spinta nel continuare a sacrificarsi per loro:… « Siate ubbidienti ai vostri superiori e siate loro soggetti (poiché essi vigilano, come dovendo rendere conto delle anime vostre), affinché ciò facciano con gaudio e non sospirando » (Hebr., XIII, 17)… Quanto deve il Papa sospirare non solo per la guerra mossagli dai nemici, ma ancora per la pervicacia di molti figli, i quali fìngono di non udire e di non comprendere ciò ch’egli prescrive per il loro vantaggio!… —- Amiamo il Papa, pregando per lui e secondo le sue sante intenzioni; … soccorrendo la sua augusta povertà;… favorendo le opere buone da lui raccomandate;… difendendolo contro le ingiurie e le calunnie dei tristi … — Amiamo il Papa, prendendo viva parte alle sue gioie e a’ suoi dolori;… le gioie e i dolori del Papa son gioie e dolori di tutta la Chiesa;… chi ne rimanesse insensibile, chi ne facesse conto come di cosa estranea, chi non considerasse come suoi gl’interessi del Papa, denoterebbe d’essere indegno del nome cristiano, della grazia di Dio e della gloria eterna… «Se un membro soffre, soffrono insieme tutt’i membri; e se un membro gode, godono insieme tutti gli altri: ora voi siete corpo di Cristo e membri uniti a membro » (la Cor., XII, 26, 27); … un membro che non gode o non Soffre quando gode o soffre il capo, non è più un membro vivo, ma è un membro morto …

[Oggi ancor di più, abbiamo il dovere di amare il Santo Padre, ben visibile ma esiliato ed impedito nel suo legittimo ufficio pastorale e magisteriale, perseguitato insieme alla gerarchia apostolica della Chiesa “eclissata”, anch’essa in esilio e sparsa sui 5 continenti, irriso da apostati, eretici, scismatici di ogni risma aderenti a ridicole ed illegittime chiesuole e ad immaginari monasteri, da atei e settari di ogni razza ed obbedienza, da idolatri ed adoratori del baphomet-lucifero. Terribile deve essere il suo Getsemani, abbandonato e sofferente in ogni attimo della sua vita, in costante pericolo ma fiducioso sempre perché assistito dalla grazia divina che giammai permetterà che le porte dell’inferno prevalgano sulla Chiesa di Cristo e sulla sua “Pietra”, pietra sulla quale è fondato l’intero edificio divino voluto dal Padre ed eretto dal Figlio Gesù-Cristo sul Golgota. A noi “pusillus grex” il compito arduo ma ineludibile di pregare e sostenere, come ognuno può, secondo i propri mezzi e possibilità, il Vicario di Cristo in questo momento cruciale per la storia della Chiesa e dell’umanità intera – ndr.-].

  Successori di San Pietro:

San Pietro m. 67
San Lino 67-76
San Anacleto I 76-88
San Clemente I 88-97
San Evaristo 97-105
San Alessandro I 105-115
San Sisto I 115-125
San Telesforo 125-136
San Igino 136-140
San Pio I 140-155
San Aniceto 155-166
San Sotero 166-175
San Eleuterio 175-189
San Vittore I 189-199
San Zefirino 199-217
San Callisto I 217-222
San Urbano I 222-230
San Ponziano 230-235
San Antero 235-236
San Fabiano 236-250
San Cornelio 251-253
San Lucio I 253-254
San Stefano I 254-257
San Sisto II 257-258
San Dionisio 260-268
San Felice I 269-274
San Eutichiano 275-283
San Caio 283-296
San Marcellino 296-304
San Marcello I 308-309
San Eusebio 309(310)
San Milziade 311-314
San Silvestro I 314-335
San Marco 336
San Giulio I 337-352
Liberio 352-366
San Damaso I 366-383
San Siricio384-399
San Anastasio I 399-401
San Innocenzo I 401-417
San Zosimo 417-418
San Bonifacio I 418-422

San Celestino I 422-432
San Sisto III 432-440
San Leone Magno  440-461
San Ilario 461-468
San Simplicio 468-483
San Felice III 483-492
San Gelasio I 492-496
Anastasio II 496-498
San Simmaco 498-514
San Ormisda 514-523
San Giovanni I 523-526
San Felice IV 526-530
Bonifacio II 530-532
Giovanni II 533-535
San Agapito I 535-536
San Silverio 536-537
Vigilio 537-555
Pelagio I 556-561
Giovanni III 561-574
Benedetto I 575-579
Pelagio II 579-590
San Gregorio Magno 590-604
Sabiniano 604-606
Bonifacio III 607
San Bonifacio IV 608-615
San Deusdedit(Adeodato I) 615-618
Bonifacio V 619-625
Onorio I 625-638
Severino 640
Giovanni IV 640-642
Teodoro I 642-649
San Martino I 649-655
San Eugenio I 655-657
San Vitaliano 657-672
Adeodato (II) 672-676
Dono 676-678
San Agato 678-681
San Leone II 682-683
San Benedetto II 684-685
Giovanni V 685-686
Conone 686-687
San Sergio I 687-701
Giovanni VI 701-705
Giovanni VII 705-707
Sisinnio 708

Constantino 708-715
San Gregorio II 715-731
San Gregorio III 731-741
San Zaccaria 741-752
Stefano II 752
Stefano III 752-757
San Paolo I 757-767
Stefano IV 767-772
Adriano I 772-795
San Leone III 795-816
Stefano V 816-817
San Pasquale I 817-824
Eugenio II 824-827
Valentino 827
Gregorio IV 827-844
Sergio II 844-847
San Leone IV 847-855
Benedetto III 855-858
San Niccolò Magno 858-867
Adriano II 867-872
Giovanni VIII 872-882
Marino I 882-884
San Adriano III 884-885
Stefano VI 885-891
Formoso 891-896
Bonifacio VI 896
Stefano VII 896-897
Romano 897
Teodoro II 897
Giovanni IX 898-900
Benedetto IV 900-903
Leone V 903
Sergio III 904-911
Anastasio III 911-913
Lando 913-914
Giovanni X 914-928
Leone VI 928
Stefano VIII 929-931
Giovanni XI 931-935
Leone VII 936-939
Stefano IX 939-942
Marino II 942-946
Agapito II 946-955
Giovanni XII 955-963
Leone VIII 963-964
Benedetto V 964
Giovanni XIII 965-972
BenedettoVI 973-974
Benedetto VII 974-983
Giovanni XIV 983-984
Giovanni XV 985-996
Gregorio V 996-999
Silvestro II 999-1003
Giovanni XVII 1003
Giovanni XVIII 1003-1009
Sergio IV 1009-1012
Benedetto VIII 1012-1024
Giovanni XIX 1024-1032
Benedetto IX 1032-1045
Silvestro III 1045
Benedetto IX 1045
Gregorio VI 1045-1046
Clemente II 1046-1047
Benedetto IX 1047-1048
Damaso II 1048
San Leone IX 1049-1054
Vittorio II 1055-1057
Stefano X 1057-1058
Niccolò II 1058-1061
Alessandro II 1061-1073
San Gregorio VII 1073-1085
Beato Vittore III 1086-1087
Beato Urbano II 1088-1099
Pasquale II 1099-1118
Gelasio II 1118-1119
Callisto II 1119-1124
Onorio II 1124-1130
Innocenzo II 1130-1143
Celestino II 1143-1144
Lucio II 1144-1145
Beato Eugenio III 1145-1153
Anastasio IV 1153-1154
Adriano IV 1154-1159
Alessandro III 1159-1181
Lucio III 1181-1185
Urbano III 1185-1187
Gregorio VIII 1187

Clemente III 1187-1191
Celestino III 1191-1198
Innocenzo III 1198-1216
Onorio III 1216-1227
Gregorio IX 1227-1241
Celestino IV 1241
Innocenzo IV 1243-1254
Alessandro IV 1254-1261
Urbano IV 1261-1264
Clemente IV 1265-1268
Beato Gregorio X 1271-1276
Beato Innocenzo V 1276
Adriano V 1276
Giovanni XXI 1276-1277
Niccolò III 1277-1280
Martino IV 1281-1285
Onorio IV 1285-1287
Niccolò IV 1288-1292
San Celestino V 1294
Bonifacio VIII 1294-1303
Beato Benedetto XI 1303-1304
Clemente V 1305-1314
Giovanni XXII 1316-1334
Benedetto XII 1334-1342
Clemente VI 1342-1352
Innocenzo VI 1352-1362
Beato Urbano V 1362-1370
Gregorio XI 1370-1378
Urbano VI 1378-1389
Bonifacio IX 1389-1404
Innocenzo VII 1406-1406
Gregorio XII 1406-1415
Martino V 1417-1431
Eugenio IV 1431-1447
Niccolò V 1447-1455
Callisto III 1445-1458
Pio II 1458-1464
Paolo II 1464-1471
Sisto IV 1471-1484
Innocenzo VIII 1484-1492
Alessandro VI 1492-1503
Pio III 1503

Giulio II 1503-1513
Leone X 1513-1521
Adriano VI 1522-1523
Clemente VII 1523-1534
Paolo III 1534-1549
Giulio III 1550-1555
Marcello II 1555
Paolo IV 1555-1559
Pio IV 1559-1565
San Pio V 1566-1572
Gregorio XIII 1572-1585
Sisto V 1585-1590
Urbano VII 1590
Gregorio XIV 1590-1591
Innocenzo IX 1591
Clemente VIII 1592-1605
Leone XI 1605
Paolo V 1605-1621
Gregorio XV 1621-1623
Urbano VIII 1623-1644
Innocenzo X 1644-1655
Alessandro VII 1655-1667
Clemente IX 1667-1669
Clemente X 1670-1676
Beato  Innocenzo XI 1676-1689
Alessandro VIII 1689-1691
Innocenzo XII 1691-1700
Clemente XI 1700-1721
Innocenzo XIII 1721-1724
Benedetto XIII 1724-1730
Clemente XII 1730-1740
Benedetto XIV 1740-1758
Clemente XIII 1758-1769
Clemente XIV 1769-1774
Pio VI 1775-1799
Pio VII 1800-1823
Leone XII 1823-1829
Pio VIII 1829-1830
Gregorio XVI 1831-1846
Venerabile Pio IX 1846-1878
Leone XIII 1878-1903
San Pio X 1903-1914
Benedetto XV 1914-1922
Pio XI 1922-1939
Pio XII 1939-1958
Gregorio XVII 1958-1989
Gregorio XVIII 1991-Vivente

(Nota sul Papato in Esilio):

Il Cardinal Camerlengo di Gregorio XVII annunciò il Conclave il 3 giugno 1990: legalmente convocato questo si svolse a Roma il 2 Maggio del 1991 – Gregorio XVIII fu eletto il 3 Maggio del 1991.

Preghiere per il Santo Padre

-652-

Oremus prò Pontifice nostro (Gregorio).

R.. Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra, et non tradat eum in animam inimicorum eius  [Ps. XL] (ex Brev. Rom.).

Pater, Ave.

Indulgentia trium annorum [tre anni]. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, precibus quotidie per integrum mensem devote recitatis  (S. C. Indulg., 26 nov. 1876; S. Pæn. Ap., 12 oct. 1931).

-653-

Oratio

O Signore, noi siamo milioni di credenti, che ci prostriamo ai tuoi piedi e ti preghiamo che Tu salvi, protegga e conservi lungamente il Sommo Pontefice, padre della grande società delle anime e pure padre nostro. In questo giorno, come in tutti gli altri, anche per noi egli prega, offrendo a te con fervore santo l’Ostia d’amore e di pace. Ebbene, volgiti, o Signore, con occhio pietoso anche a noi, che quasi dimentichi di noi stessi preghiamo ora soprattutto per lui. Unisci le nostre orazioni con le sue e ricevile nel seno della tua infinita misericordia, come profumo soavissimo della carità viva ed efficace, onde i figliuoli sono nella Chiesa uniti al padre. Tutto ciò ch’egli ti chiede oggi, anche noi te lo chiediamo con lui. – Se egli piange o si rallegra o spera o si offre vittima di carità per il suo popolo, noi vogliamo essere con lui; desideriamo anzi che la voce delle anime nostre si confonda con la sua. Deh! per pietà fa’ Tu, o Signore, che neppure uno solo di noi sia lontano dalla sua mente e dal suo cuore nell’ora in cui egli prega e offre a te il Sacrificio del tuo benedetto Figliuolo. E nel momento in cui il nostro veneratissimo Pontefice, tenendo tra le sue mani il Corpo stesso di Gesù Cristo, dirà al popolo sul Calice di benedizioni queste parole: « La pace del Signore sia sempre con voi», Tu fa’, o Signore, che la pace tua dolcissima discenda con una efficacia nuova e visibile nel cuore nostro ed in tutte le nazioni. Amen.

Indulgentia quingentorum (500 giorni) dierum semel in die (Leo XIII, Audientia 8 maii 1896; S. Pæn. Ap., 18 ian. 1934).

654

Oratio

Deus omnium fidelium pastor et rector, famulum tuum (Gregorium)., quem pastorem Ecclesiæ tuæ praeesse voluisti, propitius respice; da ei, quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest, proficere; ut ad vitam, una cum grege sibi credito, perveniat sempiternam. Per Christum Dominum nostrum. Amen (ex Mìssali Rom.):

Indulgentia trìum annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo devota orationis recitatio, quotidie peracta, in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

655

Oratio

Omnipotens sempiterne Deus, miserere famulo tuo Pontifici nostro (Gregorio)., et dirige eum secundum tuam clementiam in viam salutis æternæ: ut, te donante, tibi placita cupiat et tota virtute perficiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen. (ex Rit. Rom.).

Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem oratio pia mente recitata fuerit (S. Pæn. Ap., 10 mart. 1935).

 

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (4), capp. V e VI

CAPITOLO V.

LA FLAGELLAZIONE.

Pena che s’infliggeva ai condannati a morte.— Particolarità circa i fasci ed i littori. — Numero e funzioni dei littori. — Diversi strumenti per la flagellazione. — Come venivano in diverse maniere impiegati secondo la qualità delle persone. — Episodio di S. Paolo e di Sila. Crudeltà romana nella flagellazione. — Uso regolato dalla legge presso gli Ebrei. — Il buon Ladrone flagellato secondo la legge dei Romani.

Gli alti magistrati romani erano sempre preceduti dai littori che portavano i fasci. Così si appellavano certi mazzi di verghe di pioppo, di frassino o salice lunghi circa un metro, legati insieme e sormontati da una scure. La composizione di questi fasci indica le due specie di pena, che nelle esecuzioni capitali erano inflitte al condannato: la flagellazione cioè, e la morte. Dal numero dei fasci conoscevasi la dignità del magistrato. I consoli ne avevano dodici; sei i Pretori, e ventiquattro il Dittatore. I littori erano mercenari addetti al servizio dei grandi magistrati. Diremo più innanzi d’onde erano tratti. Loro ufficio era 1.° di precedere i magistrati coi fasci, e di aprir loro il passo nella folla. Andavano essi non già alla rinfusa, o più insieme, ma ad uno ad uno in una sola linea: 2.° di flagellare i colpevoli: I, Lictor, adde plagas reo, et in eum lege age: « Va, o littore, flagella il colpevole, e su di lui esegui la legge, » Eraquesta la formula della sentenza: e appena che il magistrato 1’avea proferita, i Littori s’impadronivano del condannato, lo flagellavano, e se occorreva lo mettevano a morte colla scure. Il nome loro di Littori viene dal latino ligare, perché essi legavano le mani ed i piedi del condannato prima del supplizio. Come tutti i condannati a morte, Dima ebbe dapprima a subire la flagellazione. Cinque diversi istrumenti servivano all’uopo. Le verghe, virgæ, erano, come abbiamo già detto, dei rami flessibili della grossezza di un dito, e lunghi pressoché un metro. Noi le vediamo in uso ancor oggi nel Knout dei Russi, nella Schlague degli Alemanni, nel Rotin dei Cochincinesi. In Francia la flagellazione sotto il nome di frusta, fu in uso fino al cadere dello scorso secolo, e tuttavia si pratica nell’esercito Inglese. Per lungo tempo sui vascelli francesi quell’arnese che chiamasi la garcette ne ha conservata la tradizione. Le Cureggie, Loræ, erano strisce di cuoio tagliate in mezzo, e talvolta armate di piombo. La frusta, o staffile, Flagra, o il suo diminutivo Flagello, era composto di sottili corde annodate all’estremità. Era questo, sebbene di più forme, l’istrumento di correzione del padre nella sua famiglia, del maestro nella sua scuola, e del Littore nei tribunali. Le Mazze, o bastoni, Fustes: queste prendevano il nome di Scorpiones scorpioni, quando erano bastoni nodosi, perchè illividivano e laceravano al tempo stesso. Li vediamo spesso adoperati sulla persona dei Martiri. – I Nervi: erano essi nervi di bue, comunemente armati di piombo all’estremità. Si vede bene che per torturare i colpevoli, e troppo spesso anche gli innocenti, gli antichi, e segnatamente i Romani, avevano un copioso arsenale. Questi svariati strumenti di supplizio non erano già sempre messi tutti in uso. Variavano secondo la condizione del condannato, o secondo la disposizione del magistrato. Il meno ignobile erano le verghe, e si adoperavano con gli uomini liberi. Legalmente non potevasi in verun caso battere con esse un cittadino romano. Parecchie leggi, e segnatamente la legge Porcia e la Sempronia, espressamente il vietavano, e guai a chi avesse osato violarle. Da ciò lo spavento dei Magistrati di Filippi, quando seppero che S. Paolo, fatto da essi flagellare, era cittadino romano. Ricordiamo di passaggio questo episodio della vita del grande Apostolo, per mostrare anche una volta la concordanza della storia sacra con la profana. Nelle loro corse apostoliche, Paolo e Sila erano giunti a Filippi. Questa città della Macedonia, celebre per la decisiva battaglia, nella quale da Ottavio furon vinti e disfatti Bruto e Cassio repubblicani, contava tra i suoi abitanti un certo numero di Ebrei. Andando i due apostoli alla Sinagoga, una giovane Pitonessa li seguiva gridando: « Costoro son i servi dell’altissimo Dio, e vi annunziano la via della salute. » Paolo impietosito a lei si volge, e ne caccia lo spirito maligno. Ma i padroni di quella giovane, perdendo così la speranza del loro guadagno, prendono Paolo e Sila, o li conducono innanzi ai Magistrati, accusandoli come perturbatori della pubblica quiete. I Magistrati senza altro esame li fan battere con le verghe, e gettare in prigione. Sul far della mezzanotte, Paolo e Sila oravano; quando ad un tratto tremò la terra, e spontanee si schiusero le porte della prigione. Il carceriere spaventato e convertito, pregava i due apostoli a profittare della loro libertà; e condottili nella sua abitazione, si recò a render conto dell’avvenuto ai magistrati. Costoro avendo insieme deliberato, mandarono un littore a dirgli che desse pure la libertà ai due prigionieri. Il carceriere ne fa avvisato Paolo; ma il grande Apostolo, « E che? rispose; costoro han fatto pubblicamente flagellare noi cittadini romani senza pure ascoltarci, e ci han messi ai ferri; ed ora vogliono farci evadere segretamente? Ciò non sarà mai. Che eglino stessi vengano qua e ci rendano liberi. » Recatasi dal littore una tale risposta, i Magistrati furono altamente commossi nell’udire che eglino avevano fatto flagellare dei Cittadini romani ; e tremanti e confusi si recarono a chieder loro perdono dell’offesa; essi medesimi li trassero dalla prigione, pregandoli ad abbandonare la città. Il che fecero i due apostoli, non senza aver prima pubblicamente usato della libertà visitando i fratelli. [Act., XVI, 12-39]. – La più ignominiosa delle flagellazioni era quella dello staffile o frusta. Questa era la pena propria degli schiavi, e dei rei più insigni per gravità di delitti, onde eransi resi indegni d’ogni dritto dell’uomo libero. E qui siamo portati a fare una riflessione, la cui luminosa chiarezza pone in evidenza la missione del Salvatore, e la dismisura dell’amor suo per l’umana creatura. Per redimere l’uomo schiavo, il Figlio di Dio, rivestitosi della forma di schiavo, subir volle la flagellazione propria degli schiavi. [Baron., an. 34, n- 38-84. Corn. a Lap., in Maith., XXVII, 26]. La durezza che caratterizza i Romani, si appalesa nella loro legislazione, come nei loro costumi. Presso questo popolo, troppo ammirato, il numero delle battiture nella flagellazione non era determinato dalla legge. Rimettevasi all’arbitrio del magistrato, ed anche spesso al capriccio crudele degli esecutori della giustizia. Quindi è che uno dei grandi loro giureconsulti, Ulpiano, altamente si duole, che buon numero di rei, benché non condannati a morte, soccombevano alla flagellazione. Non avveniva Io stesso presso i Giudei. Nella loro legislazione penale la misericordia non era disgiunta dalla severità. Col dimostrarsi Giudice, il Signore non dimentica mai che è Padre. La flagellazione non doveva mai oltrepassare il numero di quaranta colpi. Ecco il testo del sacro Codice, che ci mostra la differenza che passa tra una legislazione divina, e le leggi uscite dal cervello di umani legislatori. « Se vedranno che colui che ha peccato sia degno di essere battuto, lo faranno distendere per terra, e lo faranno battere in loro presenza. La quantità delle battiture sarà secondo la misura del peccato: con questo però, che non passino il numero di quaranta, affinchè non abbia a ritirarsi il tuo fratello lacerato sconciamente sotto i tuoi occhi. » [Deuter., xxv, 2, 3].  Per non esporsi a violare la legge, i Giudei si arrestavano al trigesimo nono colpo. Questa religiosa precisione ci spiega le parole di S. Paolo: « Cinque volte dai Giudei ricevei quaranta colpi meno uno: [Iudeis quinquies quadragenas, una minus accepi. – II. Cor.24.]. – Si sa che Nostro Signor Gesù Cristo condannato non dai Giudei, che avevan perduto il diritto di morte, ma da Pilato, depositario della sovrana potenza, fu flagellato secondo la legge romana, vale a dire che ricevé un numero indeterminato di percosse [« Divit ergo eis Pilatus: Accipite eum vos, et secundum legem vestram judicate eum. Dixerunt ergo ludaei: Nobis non licet interfìcere quemquam. » Joan., XVIII, 31]. – Rivelazioni particolari le fanno ascendere a più centinaia. Giudicati dalla medesima autorità, Dima ed il suo compagno subir dovettero il supplizio medesimo. Tuttavolta tra essi ed il Figlio di Dio vi fu probabilmente un divario, che ci proponiamo di spiegare nel seguente capitolo.

CAPITOLO VI.

LA FLAGELLAZIONE.

(Continuazione)

Momento della flagellazione; prima di condurre il condannato al supplizio, o nell’atto che ve lo conducevano. — Testimonianze degli antichi.— Come la flagellazione si eseguiva.— Flagellazione durante il tragitto dalla prigione al luogo del supplizio, la più usitata. — Numerosi esempi degli autori pagani.— Ministri della flagellazione. — Particolarità storiche sugli abitanti del Piceno e della Calabria. — Essi sposano il partito di Annibale .— Sono condannati dai Romani ad essere i corrieri ed i frustatori pubblici.— Testimonianze di Strabone, di Aulo Gellio e di Festo. — Da chi fu flagellato il buon Ladrone.

La flagellazione aveva luogo o prima che il condannato fosse condotto al supplizio, o mentre vi si conduceva: « aut ante deductionem, aut in ipsa deductione. » Nel primo caso subiva quella pena o nella prigione o nel pretorio, vale a dire nella sala, ove era stato giudicato il reo. Alle parole di rito: Fa, o littore, e flagella il colpevole, era questi spogliato delle sue vesti, gli venian legate le mani dietro al dorso, e le braccia e i piedi attaccavano ad un palo, o ad una colonna. In questa posizione, le percosse cadevano su tutte le parti del di lui corpo, facevano scorrere il sangue, e cadere a brani le carni. Tranne la colonna, rimpiazzata da quattro pali, l’orribile supplizio è ancora usato in Oriente; ed oh! quante volte, nei pretori della Concincina e del Tonchino lo ebbero a subire i nostri eroici missionari! L’uso di flagellare prima di avviarsi al supplizio era il più antico, ma al tempo di Nostro Signore, il meno praticato. Se ne incontrano parecchi esempi presso i Pagani. Per una o per altra ragione, l’antico uso della flagellazione venne preferito riguardo al Figliuolo di Dio. La colonna che servì al crudele supplizio conservasi a Roma nella Chiesa di Santa Prassede, eterno monumento dell’infinito amore del Redentore, e della gravità del vergognoso peccato. Non v’ha testo alcuno dal quale possiamo rilevare che i due ladroni fossero flagellati prima di andare al Calvario. Poiché la flagellazione era di rito nelle condanne a morte, e segnatamente nelle crocifissioni, pare che per essi avesse luogo nel tragitto. Del rimanente, come già si è detto, era questa la pratica più usata. Or ecco in qual modo, secondo gli autori pagani, eseguivasi questo supplizio, la cui ignominia uguagliava la crudeltà. Spogliavasi il reo di tutte le vesti, specialmente se trattavasi di uno schiavo, mille volte talora meno colpevole del suo padrone, la cui crudeltà lo condannava a simili torture: gli si attaccava la croce sulle spalle, e alcuni carnefici andando innanzi lo tiravano con corde, mentre altri lo seguivano armati di staffile, con cui lo percuotevano senza cessa fino al luogo del supplizio. Noteremo qui la perfetta concordanza dell’Evangelio con la storia profana. « Gesù, dice il sacro testo, s ‘incamminava al Calvario portando la sua croce, bajulans sibi crucem; » e tal era infatti l’uso generale. « Ogni condannato, ci assicurano gli autori pagani, dovea portar la sua croce. » I buoni Romani talora si compiacevano di allungare il tragitto, e dei compagni del povero schiavo servirsi come di strumenti della loro atroce barbarie. « Un illustre Romano, racconta Dionigi di Alicamasso, avendo condannato a morte uno dei suoi schiavi, ordinò ai compagni della schiavitù di lui di esserne eglino stessi i carnefici trascinandolo al supplizio; e perché più desse negli occhi il castigo, caricandolo di percosse, gli facessero traversare non solo il Fòro, ma tutte le vie più frequentate della città. Quei che Io conducevano, gli ebbero distese e attaccate ambo le mani alla croce, legandogliela al petto ed alle spalle, in guisa che i bracci della croce si stendessero fino alle palme delle mani di lui. Gli altri schiavi che lo seguivano a colpi di staffile intanto gli laceravano il corpo completamente nudo. » [Antiq. Rom., lib VII]. –  Tito Livio e Cicerone raccontano fatti consimili senza una parola che esprima la pietà o il ribrezzo. « Roma, dice il primo, era al Circo; ed ecco che un padre di famiglia, prima che incominciassero i giuochi, fa traversare l’arena ad uno dei suoi schiavi col peso della croce sulle spalle, mentre in quell’atto subiva la flagellazione. » Pare che questo spettacolo doloroso fosse per i Romani un passatempo, perché essi volentieri ne facevano mostra al popolo. « Si conduceva, dice Cicerone, lo schiavo pel Circo, caricato della sua croce e lacerato dalle battiture. Arnobio aggiunge, che tal era l’uso comune. Bell’uso veramente, e ben degno di un popolo, veduto dal Profeta sotto la figura di bestia coi denti di acciaio! Se vogliamo adunque avere un’ idea della flagellazione dei due ladroni del Calvario, rappresentiamoci il sinistro corteggio avviato al luogo del supplizio. In mezzo a il una folla immensa di popolo che faceva ala a destra ed a sinistra della Via dolorosa, ecco venire innanzi le trombe che annunziavano l’arrivo dei condannati; e dopo quelle un araldo che proclamava i nomi e i delitti di essi; dietro a lui due uomini uno dei quali era Dima già vecchio, entrambi spogliati delle loro vesti, e carichi entrambi della loro croce attaccata alle spalle, colle mani stese fino air estremità delle braccia di essa croce, l’uno e l’ altro preceduti dai carnefici, che con funi li trascinavano, e dai manigoldi che senza tregua li flagellavano dal Pretorio di Pilato fino al Calvario, che è quanto dire per lo spazio di mille e trecento passi. Chi sa che un sì orribile supplizio, subito a fianco di Nostro Signore, non fosse per Dima il principio di un ritorno salutare sopra se stesso, e forse quel germe prezioso che era per svolgersi mirabilmente sulla vetta del Calvario! Checché ne sia, dobbiamo aggiungere che la condotta del nobile romano, che fece giustiziare il suo schiavo da altri schiavi, era un fatto eccezionale. Questo tristo ministero apparteneva ad altri. I romani avevano esecutori e frusta tori pubblici. Ma chi erano mai codesti uomini? e furono essi, rispetto a Nostro Signore e al Buon Ladrone, gli strumenti della giustizia romana? Sotto tre punti di vista, ci par degna di esame una tal questione. Dal punto di vista della storia generale, essa accenna a costumanze poco note dei popoli antichi. Dal punto di vista della storia particolare, ci svela una speciale circostanza del supplizio di Dima. E dal punto di vista religioso, tutto ciò che spetta al gran dramma del Calvario, è l’oggetto di una viva e nobile curiosità. Tutti conoscono la storia dei Gabaoniti. Questo piccolo popolo della terra di Canaan, vedendo come Giosuè per ordine di Dio trattava le vicine nazioni, pensò di sottrarsi a quella dura sorte. Riuniti in consiglio i seniori si appigliarono al seguente stratagemma. Presero dei commestibili, e caricarono sui loro asini dei sacelli vecchi, e degli otri di vino rotti e ricuciti, e dei calzari molto vecchi e rappezzati in segno di vecchiezza, e si vestirono di abiti molto usati: i pani eziandio ch’essi portavano pel viatico erano duri e sbriciolati. Si presentarono al generale degli Ebrei che era negli alloggiamenti a Galgala: e « Noi veniamo, gli dissero, da lontani paesi, attirati dalla fama delle tue imprese e bramosi di fare alleanza con te. Vedi: quando partimmo, i nostri pani erano caldi, e nuovi gli otri. Lo stesso era dei nostri calzari e dei nostri abiti, che ora sono rifiniti a causa del lungo e penoso viaggio. » Furono creduti, e si fece alleanza con essi. Ma tre giorni dopo la loro partenza, Giosuè venne a conoscere, che quei pretesi stranieri erano abitanti di un vicino paese: marciò contro essi, e prese di assalto la loro capitale Gabaon. Ma per rispetto alla fede giurata, risparmiò gli abitanti: e solamente per punirli dell’inganno condannò i Gabaoniti e tutti i loro discendenti a tagliare le legna, e portare l’acqua per servizio del popolo d’Israele [Gios. IX, 21]. – Questa tal condotta, che i diritti della guerra giustificano, fu dai romani imitata, quando Annibale vittorioso al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, invece di correre direttamente su Roma per la valle dell’Umbria, impadronir si volle delle contrade prossime al mare. Il suo fine era quello di essere a portata di ricevere prontamente e senza ostacolo, soccorsi da Cartagine. Gli abitanti del Piceno e delle Calabrie Picentini e Brutii furono i primi ad arrendersi ed a sposare la sua fortuna: ma cacciato che fu Annibale dall’Italia, i Romani con esemplare castigo punirono quei due popoli, che avevan dato l’esempio della defezione. Lasciamo la parola agli autori pagani. « Picenzia, dice Strabone, era la città capitale dei Picentini; ma questi ora son sparsi per la campagna. Cacciati della loro città dai Romani per punirli della loro alleanza con Annibale, furono esclusi dal servizio militare, e insieme coi loro discendenti condannati ad essere i cursori e i tabellari della repubblica » Più umiliante fu la punizione del Bruzii [ora sono gli abitanti della Calabria]. Essi furono condannati ad essere i littori dei grandi magistrati della repubblica, ed erano loro assegnate parecchie funzioni che erano proprie degli schiavi. La più ignominiosa era quella di essere i pubblici frustatori. « Catone, dice Aulo Gellio, biasimando Quinto Termo, lo rimproverava per aver detto: I Decemviri hanno mal preparato il mio desinar; il perché li fece spogliare dei loro vestimenti, e flagellare. I Bruzii flagellarono i Decemviri, ed il popolo ne fu testimonio. E chi può sopportare una simile ingiuria, un simile affronto, un tale marchio di schiavitù? » – Come gli abitanti del Piceno, i Bruzii furono esclusi dalla milizia romana, e per giunta di pena obbligati a provvedere di littori la repubblica. Giunti che erano dal loro paese, venivano messi a disposizione dei magistrati, che s’inviavano nelle provincie. Essi li seguivano come quei servi che nelle commedie eran chiamati Lorarii, o frustatori, perché legavano e flagellavano quelli che eran dati loro in mano per esser puniti. Appartenevano forse a questo popolo di flagellatori ufficiali coloro che flagellarono Nostro Signore, Dima, e il suo compagno? Il Baronio non osa affermarlo, e noi non saremo più di quel dotto cardinale facili ad asserirlo. Diremo solo, che un simile insulto già da gran tempo si getta in faccia ai Calabresi. Secondo il testo di Aulo Geliio, certo è che fino a qualche anno avanti Nostro Signore, i Bruzìi eseguivano quel vergognoso officio: ed è certo egualmente che Pilato aveva i suoi littori, e che questi si reclutavano nel paese dei Bruzii. Tal era la regola generale. Che poi più tardi ed in molti casi, i soldati ed anche altre persone fossero addetti a quell’odioso ministero, la testimonianza di Tertulliano non ce ne fa dubitare. Ma siccome nella storia della Passione, noi vediamo da un canto che Nostro Signore fu flagellato, come lo furono i due ladroni; e dall’altro che non si parla punto di soldati, che prendessero parte alla flagellazione propriamente detta, parrebbe che si potesse conchiudere, che di quella ignominiosa pena i Bruzii fossero gli esecutori. [Vedi Baron. An. 34. n. 83.-84].

 

 

GLI ULTIMI GIORNI DI PIO VI

I PAPI IN ESILIO

[cioè i “veri” Papi, quelli che, secondo i demenziali tesisti ed i sedevacantisti acefali, sono … Papi “occulti” e che quindi … non hanno neppure l’ombra della cattolicità!]

GLI ULTIMI GIORNI DI PIO VI

[J.-J. Gaume, Catechismo di perseveranza, vol. III – Torino 1881]

Ma non bastava all’empietà di aver scemato la santa tribù; per annientare il sacerdozio, s’accinse a farne perire il Capo supremo. Possenti armate marciano per l’Italia, entrano a Roma, e s’impadroniscono ben tosto del venerabile Pontefice Pio VI. Uno scellerato entra nel palazzo del Papa, ritenuto in camera da una grave indisposizione, gli significa che non è più Re di Roma, ma che però la repubblica francese vuole assegnargli una pensione: « Io non ho mestieri di pensione, gli risponde dignitosamente il vicario di Gesù Cristo, un semplice bastone invece del pastorale basta alla mia qualità di pontefice: e basta un rozzo saio a chi deve spirare sulla cenere e sotto povere lane. Io adoro la mano dell’Onnipossente che punisce il pastore per le colpe del suo gregge; voi potete tutto sul mio corpo, ma l’anima mia è superiore ai vostri attacchi; voi potete distruggere le abitazioni dei vivi, ed anche le tombe dei trapassati, ma non distrarrete già la nostra santa Religione; essa sussisterà dopo di voi, dopo di me, siccome ha sussistito prima di noi, e si perpetuerà sino alla fine dei secoli ». Quegli a cui il Pontefice volgeva queste parole cosi nobili era un calvinista: nell’uscire, comanda al prelato che si trovava nell’anticamera del Papa, di andargli dire di preparasi a partire da Roma e che èra mestieri che l’indomani alle sei del mattino il Papa fosse in viaggio. Ma vedendo che il Prelato esitava ad incaricarsi della crudele ambasciata, entra egli stesso e notifica il fiero ordine a  Pio VI, che non poté frenarsi dal rispondere: « Io sono vecchio di ottantun anno, e sono stato cosi male questi due ultimi mesi, che mi credevo giunto agli estremi, ed ora appena comincio a riavermi. Del restò, io non posso abbandonare il mio popolo, né i miei doveri; lo voglio morir qui », a che il repubblicano rispose aspramente: «Voi morrete egualmente bene altrove: e se non posso determinarvi a partire, si adopreranno del mezzi di rigore per costringervi ». Quando fu uscito, il Papa si affrettò di andare a rianimare le sue forze ai piedi del crocifisso in una camera vicina, e ritornò poscia dicendo a coloro che lo servivano: « Dio lo vuole; prepariamoci a soffrire tutto ciò che ci destina la Provvidenza». – La notte dal 19 al 20 febbraio del 1798 vennero per toglierlo dal Vaticano. Pio VI volle prima ascoltare la santa Messa, che fu celebrata nella sua camera. Ma i soldati impazienti si sdegnano delle lentézze del sacerdote che offre il santo Sacrificio; e temendo che il popolò si sollevi contro di loro vogliono che Sua Santità sia fuori di Roma prima del crepuscolo; e con nuove bestemmie minacciano di trascinar fuori il Pontefice prima che la Messa sia terminata. Era infatti appena finita, due ore prima del giorno, che lo strappano dalla sua abitazione; ma siccome, a motivo della grave sua età, della sua debolezza e della paralisi che faceva notevoli progressi, non poteva camminare che a lenti passi, soprattutto nel discendere la scala del Vaticano, i satelliti furono arditi di sollecitarlo con parole, ed anche più brutalmente per affrettare il suo passo. – Finalmente, chiuso il Pontefice in una carrozza dei suoi domestici, io si trascinò precipitosamente. Già il 22 febbraio, giunto presso il lago di Bolsena, s’incontra in alcuni preti francesi che là si trovavano errando travestiti per la loro sicurezza chi da mendicante, e chi da soldato, con abiti che alcuni pietosi militari francesi loro avevano prestato. Allora più non ascoltando che il sentimento della riconoscenza e della fede, uno di loro si avvicina al momento della fermata. Pio VI, che lo conosceva, e conservava anche in mezzo ai suoi dolori la santa gioia rdi un’anima pura gli disse sorridendo. «Vi siete voi dunque fatto soldato?—Santo Padre, gli rispose, noi lo siamo tutti, e lo saremo sempre di Gesù Cristo, e di Pio VI. — Ma a quale stato siete voi ridotti? — È nostra gloria di essere al vostro séguito. — Ma dove andate voi? — Che volete, santo Padre, la pecorella segue le tracce del pastore; e se non possiamo sempre seguirvi, voi sarete sempre accompagnato dai nostri voti per la vostra conservazione. — Ebbene conservate là vostra forza ed il vostro coraggio. — Si, beatissimo Padre, noi ne abbiamo un sì grande esempio dinanzi agli occhi, che saremmo ben colpevoli, se non l’imitassimo ». La carrozza parte, ed il Papa è tolto ai loro omaggi; essa lo depone il 29 febbraio a Siena nel convento degli Agostiniani, dove dimora fino al 25 maggio. – Quivi può respirare alquanto, e l’uno dei sacerdoti ch’egli aveva lasciato a Bolsena, quegli che aveva avuto la fortuna di parlargli, è ammesso alla sua presenza. E siccome si mostrava inquieto pei suoi patimenti: « Io soffro, gli rispose il Padre con le parole di san Paolo, ma non sono però abbattuto: — Patiar, sed non confundor ». Questo sacerdote invidiata la sorte di monsignor Marotti, che in qualità di segretario per le lettere latine, non si separava più dal santo Padre; e lo paragonava a san  uhGerolamo incaricato già di somigliante uffizio presso del Papa  Damaso, perseguitate anch’esso per la fede: « Si, rispose Pio VI con la più commovente umiltà, ma il Papa Damaso era veramente un santo, ed io non sono che un povero peccatore. » – La facoltà che aveva il Papa di comunicare con i suoi sudditi, e soprattutto il timore che si volesse da alcuni approfittare della vicinanza del mare per procurargli l’evasione, più ancora che non un terremoto successo, decisero i sospettosi persecutori a trasportarlo in un convento di Certosini a poca distanza da Firenze. Siccome le persone pie sapevano ch’egli era sfornito di sussidi pecuniari, e che i suoi tiranni esigevano inoltre che pagasse le spese del suo viaggio, gli offrirono gualche somma. Il suo cuore fu sommamente commosso di queste offerte di cui la Religione aveva destato la genèrosità; ma egli godeva del pari di poterne far senza, attesoché la munificenza dei sovrani d’Europa aveva creduto esser dovuto alla sua dignità di sovrano il provvedere a tutti i suoi bisogni. Fra gli omaggi di questo genere che ricevette allora, uno ve n’ebbe il quale sta a riguardo del donatore, come dell’oggetto, formava un contrasto troppo forte colla barbara condotta dei nostri rivoluzionari per non arrecargli qualche consolazione. Questo dono consisteva in un calice d’argento colla sua patena; il quale aveva sul piede le armi della Francia da un lato, e dall’altro una piccola croce. Esso gli era mandato dal bey di Tunisi con queste parole: « Santissimo Padre, questi malvagi francesi che vi hanno tutto rapito, non vi lasciarono senza dubbio un calice, ed io vi prego di gradire quello che io mi reco a dovere e ad onore di offrirvi ». Chi non direbbe che le ceneri di san Cipriano esalassero allora un prodigioso profumo di cattolicità, sulle coste di Cartagine, e che gli Arabi più non venivano che dalle rive della Senna? Il Direttorio allarmato dall’affetto che ispirava Pio VI e dall’irruzione delle truppe austriache in Italia, mandò ordine di tradurlo in Francia. Ma intanto già la Sua paralisi faceva spaventosi progressi, ed egli soffriva moltissimo specialmente a motivo dei vescicanti richiesti dalla malattia, allorché, senza punto badare ai suoi mali, gli agenti francesi io tolsero bruscamente dalla Certosa per condurlo a dormire di là da Firenze in un albergo, d’Onde l’indomani lo si fece partire prima dei giorno. Qual nuovo supplizio pel Santo Pontefice di traversare, durante i quattro mesi che gli rimanevano di viaggio, tante città e villaggi agitati dalla febbre rivoluzionaria, ove s’innalza da ogni, parte l’albero infame della rivolta e dell’empietà; ove quasi ogni fronte ne porta il triplice colore, e quasi ogni voce ne profferisce furibonda le orrende bestemmie. Che cibi e che riposi sono mai quelli che gli si lascerà prendere nelle cattive fermate, che si fanno per riposare i trenta dragoni col loro comandante, alla cui guardia è affidatone doloroso tragitto? – Confessiamo nullameno che arrivando a Parma fu alquanto confortato dai rispettosi riguardi del comandante francese di quella città, il quale non ascoltando che il suo cuore, meritò dai Sommo Pontefice un ben lusinghiero contrassegno di riconoscenza. Intanto la salute del papa peggiorava ogni giorno più: e pareva che non si avesse potuto aver la barbarie di trascinarlo più oltre: allorché, a metà della notte, il capitano della sua scorta venne ad intimargli l’ordine di partire fra quattr’ore. Quest’ordine concepito nei termini più minacciosi, non era che l’effetto di un falso allarme dell’avvicinarsi degli Austriaci, da cui si temeva venisse liberato. – Il Santo Padre, che punto non se lo aspettava, oppose la deplorabile sua situazione all’obbligo di partire. Si chiamano i medici per dirne il loro parere, ed obbligati dal capitano repubblicano di alzare le coperte da letto per mostrargli ignudo quel corpo venerabile ammaccato e lacero dai vescicanti, dichiarano che il Pontefice corre rischio di spirar per istrada se viene di bel nuovo esposto alle fatiche del viaggio. L’ufficiale esce allora per pochi istanti e ritorna dicendo tirannicamente: « Bisogna che il Papa parta. vivo o morto ». – Difatti al mattino per tempissimo il santo vecchio fu messo in viaggio per Torino: sperava esso che quivi almeno sarebbe finito il suo viaggio, e che vi troverebbe convenevole albergo; ma quando si vide rilegato in cittadella, alzando gli occhi e le mani al cielo: « io andrò, disse, adorando i divini voleri, ovunque vorranno condurmi ». – Il posdomani a tre ore dopo mezzanotte lo fecero partire per Susa, e per trasportare di là delle Alpi l’augusto vegliardo che fino allora non si era potuto mettere in carrozza o farnelo discendere se non coll’aiuto di una seggiola pieghevole fatta di cuoio e di cinghie, lo si mette sopra di una specie di portantina, che non era altro che una grossolana barella. Ai prelati, siccome alle altre persone del suo seguito, vennero destinati dei muli per salire su per quei greppi. La comitiva viene diretta verso il terribile passaggio del Monginevra, ed il Santo Padre è portato sulla montagna. Per lo spazio di quattr’ore egli cammina sospeso sopra stretti sentieri tra un muro di undici piedi di neve e fra spaventevoli precipizi. Alcuni ussari piemontesi gli fanno offrire le loro pellicce per ripararlo dal freddo insopportabile che regna ancora in quella elevata regione; ma i mali della terra ornai non potevano più nulla su quell’anima celeste: esso li ringrazia dicendo: « Io non soffro punto, e punto non temo: la mano del Signore mi protegge sensibilmente tra tanti pericoli. Su via, miei figli, miei amici, coraggio! mettiamo la nostra fiducia in Dio ». – Con questi sentimenti egli già aveva messo il piede sulla terra francese. Dopo oltre sett’ore di sì penoso tragitto, arrivava finalmente a Brianzone dopo il mezzodì del 30 aprile, giorno di martedì. – Oh come questo grande Pontefice, insensibile al dolore, non fu sorpreso del pari che confortato al vedersi venire incontro tanti cittadini, che guidati dalla fede, in mezzo al più santo entusiasmo gli davano i più splendidi contrassegni di una sincera pietà! Essi meritarono di sentire per i primi questa esclamazione del Pontefice: In verità, io vi dico, che non ho trovato tanta fede in Israello! – Venne alloggiato all’ospedale, in una stretta ed incomoda stanza, vietandogli di affacciarsi alla sola finestra che avesse, e dichiarandogli ch’egli è in ostaggio per la repubblica. Ben tosto gli si fanno sentire altri crepacuori col togliergli la maggior parte dei suoi e mandarli come ostaggi a Grenoble. Presso il Santo Padre più non resta che il suo confessore il P. Fantini, col suo fedele aiutante di camera, chiamato Morelli: ma la sua rassegnazione è sempre uguale. Senonché le vittorie degli Austriaci in Italia ispirando al Direttorio il timore che venissero a rapire il Papa anche a Brianzone, ordinano che egli venga pure trasportato a Grenoble. Ed il Vicario di Gesù Cristo vi viene condotto in un modesto calesse a due posti, avendo ai suoi fianchi i due soli consolatori che gli furono lasciati. – Gli omaggi resigli dalla pietà dei Grenoblesi durante i tre giorni ch’ebbero la sorte di possederlo sono superiori ad ogni espressione; vollero tutti accompagnarlo allorché lo si fece partire per Valenza, dove giunse il 14 di luglio. All’avvicinarsi a guasta città, il Santo Padre vide, siccome aveva ariste lunghesso tutto il cammino, una moltitudine di fedeli accalcati e bramosi di domandargli la sua benedizione: ammirabile e confortevole contrasto con quei feroci repubblicani, che un anno prima in questo giorno anniversario del primo funesto trionfo della rivoluzione, avevano arso con molti altri ritratti, anche quello di Pio VI nella stessa Valenza! Il Pontefice fu alloggiato in casa del Governatore, il cui giardino sovrasta alle rive del Rodano, ma questa casa, chiusa essendo nella cittadella, l’amministrazione centrale del dipartimento della Dròme, che sedeva nella città dichiarò con atto solenne che il Papa si trovava in arresto. Quindi impose alle persone del suo seguito di nulla fare e di nulla dire al di fuori che potesse avere sembiante di pietà; venne interdetta ogni comunicazione tra il terrazzo del castello e quel del convento dei Francescani, ov’erano racchiusi trentadue sacerdoti fedeli, molti dei quali avevano provato la beneficenza del Papa durante il loro soggiorno di carcerazione in Italia. Da parte loro, essi ricevettero la più rigorosa proibizione di farsi avanti per procurar di vedere il loro augusto e santo benefattore, a cui fu perfino vietato di uscire dal ricinto del giardino per timore, come si diceva, che non eccitasse dei tumulti e degli attruppamenti. Nessuno poté giungere sino a lui senza un permesso in iscritto, di cui l’amministrazione si mostrò molto avara. – Intanto il Direttorio della repubblica francese era divenuto più moderato, dacché dei cinque suoi membri i tre singolarmente accaniti contro il Papa erano stati costretti a cedere il loro posto ad uomini più umani. Non si vedeva dunque più dominare nè Treilhard, nè Merlin (de Donai), né specialmente quel Laréveillère Lépaux, il quale con mezzi violenti e con salariare adepti tra i più abbietti rivoluzionari pretendeva stabilire l’assurda sua religione, col nome di Teofilantropia e che consisteva solamente nel far vista di amare Dio e gli uomini. Il Direttorio ricomposto in tal modo non inviava a ciascuno dei Commissari, che aveva in tutte le amministrazioni, se non se ordini e istruzioni pacifiche. Quegli, che apparteneva all’amministrazione della Dròme, giubilò di non riceverne delle contrarie ai sentimenti di rispetto, di cui lo avevano penetrato le virtù, l’età e la triste situazione del Pontefice; ma tutti gli altri amministratori, tranne un solo, conservando lo spirito e l’odio anticattolico di Laréveillère prevalsero sul Commissario di Parigi e continuarono a tormentare progressivamente Pio VI, fino a che egli discese nel sepolcro. – I rapidi progressi delle armate austriache e russe in Italia le avevano condotte quasi alla sommità della catena meridionale delle Alpi; il Direttorio spaventato credeva vederle calare sopra Valenza, onde la paura insinuandogli idee crudeli, comandò che il Papa fosse trasferito a Dijon; « ben inteso però, aggiunse egli, che il viaggio sia fatto a sue spese ». Proibiva anche espressamente di fermarsi a Lione, città rinomata per la sua zelante devozione alla santa Sede; ma quando l’ordine arrivò, l’ostacolo che le infermità del Santo Padre opponevano a tale traslazione si faceva insormontabile, ed egli stesso non più dubitò di esser giunto al suo fine. Alla vista del sepolcro, che si schiudeva davanti a lui, quella pastorale sollecitudine per tutte le Chiese, dalla quale era stato sempre animato, si spiegò più viva ed intensa. – In quel momento stesso in cui i suoi molti dolori lo avvertivano della morte vicina: « I miei patimenti fisici, ei disse, nulla sono in confronto delle angustie del mio cuore… i Cardinali, i Vescovi dispersi…! Roma, il mio popolo…! la Chiesa, ah! la Chiesa… ecco ciò che giorno e notte mi tormenta. In quale stato sono io per lasciarla! » Ei passa quasi le intere giornate a pregare; e nella notte si ode recitare dei salmi e farne fervorose applicazioni allo stato in cui si trova. Il 2° agosto incomincia a soffrire vomiti strazianti e altri accessi non meno violenti, che annunziano aver la paralisi attaccati gl’intestini. Ei fa chiamare il suo confessore, ed il giorno seguente è destinato ad amministrargli il santo viatico. Pio VI volendo riceverlo con tutte le prove di rispetto e di adorazione di cui si sente capace, chiede di essere aiutato ad uscire dal letto, e di esser vestito della sua sottana, del rocchetto , della mantellina e della stola. Rammaricandosi amaramente di non potersi inginocchiare, acconsente a comunicarsi seduto sopra una poltrona. La santa Eucaristia essendogli recata dall’Arcivescovo di Corinto, questo Prelato crede di dover domandargli prima di tutto nel presentargli il corpo di Gesù Cristo, s’ei perdona ai propri nemici: « Oh, si, con tutto il cuore, con tutto il cuore » risponde il Pontefice alzando gli occhi al cielo, e riportandoli sopra un crocifisso che ha in mano. Il suo maestro di cappella legge ad alta voce la professione di fede segnata nel Pontificato, e Pio VI, come se ricevesse dalla medesima forza novella, manifesta la propria adesione anche meglio che con le parole, poiché pone una mano sopra i santi Evangeli, e l’altra sul petto. Finalmente si comunica in maniera angelica, e tutti gli assistenti vivamente commossi si struggono in lacrime. Il giorno di poi alle otto di mattina l’Arcivescovo di Corinto giudica di non differire più oltre ad amministrargli il sacramento dei moribondi, e il Santo Padre accompagna la preghiera di ciascun’unzione con una pietà commovente. Dopo un’ora di raccoglimento, egli detta e forma un codicillo, col quale dà alcune disposizioni particolari a favore di quei che lo servono, e ne affida l’esecuzione al medesimo Arcivescovo, cui egli incarica inoltre di presiedere alle clausole del suo testamento, riguardanti il luogo e le circostanze della sua sepoltura. – Sciolto da ogni cura estranea alla salute dell’anima sua, più non si occupa che di offrire a Dio il sacrificio della sua vita, e le sue frequentissime aspirazioni non esprimono fuorché la impazienza di trovarsi unito a Gesù Cristo; Nell’intervallo ei recita i salmi Miserare mei e De profundis clamavi ad te, Domine. Spesso ripete quei versetti dell’inno Ambrosiano, sì efficace per mantenere la sua fiducia in Dio: Te ergo, quæsumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redimisti; « Noi dunque, ve ne preghiamo, o Signore, accorrete in aiuto dei vostri servi, che avete comprati col vostro prezioso sangue ». –  In te, Domine, speravi, non confundat in æternum; « O mio Dio, poiché ho in Voi riposta la mia speranza, io non andrò confuso nell’eternità ». Sono sì ardenti e si continue le sue preghiere in tutto il restante della giornata, che si crede necessario raccomandargli di moderare il suo fervore, per tema che la sua malattia s’inacerbisca; e realmente ha terminato di estenuare le sue forze, ma gli lascia la testa libera e tutta la sua cognizione. Ei ne profitta per porgere affettuosamente una mano paterna a tutti quelli del suo seguito, che attorniano il suo letto, e prendendo loro la mano la stringe teneramente per esprimere quanto è sensibile al loro attaccamento e grato alle loro premure. Verso mezza notte più certi sintomi annunziano a lui non meno che agli astanti, esser egli prossimo ad esalare l’estremo fiato. L’arcivescovo si mette a recitare le preci degli agonizzanti, e Pio VI, che vuol tenergli dietro con una devozione affettuosa e unirsi a lui di proposito deliberato, gli accenna di pronunziare adagio. Ripetendo interiormente ciascuna parola, ei ne aspira in certo modo i pensieri. Le preci proseguivano quando il santo Pontefice depose tranquillamente l’anima sua nel seno di Dio, ad un’ora e venticinque minuti dopo la mezza notte del 29 agosto 1799, in età di ottantun anni, otto mesi e due giorni. – Non mai la morte di un Pontefice destò negli animi si forte perturbazione, e forse giammai nessun Papa nell’abbandonare questa terra di esilio non ricevé altrettanti tributi di dolore, di amore e di venerazione. In Italia, in Spagna, in Germania, in Francia stessa, da per tutto infine, Pio VI fu benedetto e magnificato come un martire; in Pietroburgo ed in Londra si udirono gli elogi di quel sommo; e inoltre, fra i protestanti, strepitose conversioni furono il frutto di questa morte gloriosa. La stessa città di Ginevra rimase commossa, e uno dei suoi cittadini più illustri scriveva queste notevoli parole: « Il cattolico romano si vanterà della vittoria memorabile, che il suo Capo ha riportato sopra l’empietà, e il cristiano delle altre comunioni vedrà chiaramente ove la vera Chiesa risiede. Tante tribolazioni riserbate ai soli pastori della Chiesa romana gli mostreranno, che le altre Religioni, i cui ministri non ingenerano sospetto negli apostoli dell’empietà e della incredulità, non sono sicure, e che l’errore, quando il vizio fraternizza palesemente con lei, non deve punto sedurre. Ecco quali saranno, io spero, i frutti degli attentati commessi contro il Papa in vita e dopo la sua morte! » – La grande vittima era immolata; i flutti dell’empietà, che fino allora avevano traboccato dilatando le loro devastazioni, erano, come quei dell’Oceano, pervenuti al limite segnato dalla mano divina. Già si preparava il trionfo della Chiesa per mezzo della elezione miracolosa di un nuovo Pontefice, e la giustificazione della Provvidenza incominciava dal castigo dei colpevoli. – La Francia ha osato dire all’Agnello dominatore: Non vogliamo che tu regni sopra di noi; gli uomini si sono abbeverati del sangue dei martiri; ora la mano di Dio si aggrava sopra la Francia e sopra i persecutori. – È sorto uno spaventevole uragano; la Francia ne è commossa fino dai fondamenti; monumenti, ricchezze, città, cittadini, tutto perisce: per dieci anni la storia del regno, già cristianissimo e ora ribelle a Gesù Cristo, è scritta colla punta di una spada intinta nel sangue. Non mai le generazioni furono spettatrici di avvenimenti cosi funesti. I grandi malvagi, che avevano spinta la Francia alla rivolta, non sfuggirono ai colpi della divina vendetta; l’uno è divorato dai cani; l’altro muore di miseria; quasi tutti periscono sul patibolo [Dei Presidenti della Convenzione nazionale in numero di sessanta tre, sedici furono ghigliottinati, tre si uccisero, otto furono deportati, sei condannati a perpetuo carcere, quattro impazzirono e morirono a Bicétre, due soli scansarono ogni condanna]. –  Colui che alla crudeltà aveva unita la sacrilega derisione, Collot d’Herbois, atterrisce gli stessi negri per la spaventevole sua morte. Eccone in succinto la storia; ecco un avviso ai persecutori! Collot d’Herbois, empio forsennato e rivoluzionario esaltato, era intimamente collegato con Robespierre, che secondò negli abominevoli suoi progetti. Fu esso il principale autore dei massacri di Lione; e spedito in quella sventurata città nel 1793, vi fece perire per mano del carnefice, colla fucilazione o colla mitraglia, mille seicento vittime, il cui solo delitto era di aver voluto scuotere il giogo della tirannia. Ma il braccio del Signore non indugiò ad aggravarsi sopra di lui; la Convenzione temendo di opporsi alta pubblica opinione, che si era fortemente pronunziata contro quell’empio, ordinò il suo arresto il 2 marzo 1795, e quindi la sua deportazione alla Cayenne, ove era aborrito non solo dai bianchi ma anche dai negri, che nel loro linguaggio lo chiamavano il carnefice della Religione degli uomini. – « Confinato colà, cosi narra di lui un testimone oculare, egli gridava talvolta: lo sono punito, l’abbandono in cui io vivo è un inferno. Frattanto è assalito da una febbre infiammatoria che lo divora, sicché chiama in suo soccorso Dio e la Santa Vergine. Un soldato, al quale egli aveva predicato l’ateismo, gli domanda perché se ne facesse beffe pochi mesi prima: Oh! amico mio, ei rispose, la mia bocca ingannava il mio cuorl Poi soggiungeva : Dio mio, poss’io àncora sperar perdono? Mandatemi un consolatore, mandatemi qualcuno che distolga il mio sguardo dal braciere che mi consuma; mio Dio, concedetemi la calma! Era cosi tremendo lo spettacolo degli ultimi suoi momenti, che dovettero collocarlo separato da tutti; e mentre cercavano un sacerdote, egli spirò il 7 giugno 1797 con gli occhi semiapertì, con le membra stravolte, e vomitando in copia sangue e bava. I Negri, che avevano fretta di andare ad un ballo, non lo seppellirono che a fior di terra, a tal che il suo cadavere servi di pasto ai porci ed ai corvi! » [Simile in terra sarà la fine di coloro che costringono l’attuale Santo Padre all’esilio: i falsi pontefici marrani, i falsi prelati ingannatori delle anime riscattate da Gesù Cristo con il proprio sangue, il codazzo di sostenitori, imbonitori, inculcatori dell’errore e dell’apostasia, i servi della sinagoga di satana e del mundialismo nachita … ma cosa sarà questo in confronto al castigo eterno che li aspetta, se non si pentono?  Miserere Domine, miserere –ndr.-]

 

 

 

Padroni (I due) – Dio e il demonio.

Padroni (I due) – Dio e il demonio.

[G. Bertetti: Il sacerdote predicatore; S.E.I. Torino, 1920]

1.- Come si presentano a noi. — 2. I patti che ci propongono. — 3.  La mercede. – 4. Bisogna scegliere fra i due padroni.

1.- COME SI PRESENTANO A NOI. Son due padroni secondo il nostro modo di parlare; … ma in realtà si tratta d’un solo padrone vero, assoluto, Creatore e Signore del cielo e della terra; … Creatore e Signore; anche di colui che nella, sua stolta superbia sognò di sedersi al suo fianco … Dio solo può far tutto ciò che Egli vuole …, il diavolo può unicamente fare ciò che Dio gli permette, e non più là.,. Dio permette al diavolo di tentarci al male, ma lo lascia incatenare da un fanciullo e da una vecchierella con un segno di croce, … Dio permeate al diavolo che a’accompagni con lui alla conquista delle anime, ma a patto che se n’esca « innanzi ai piedi di lui » [Habac. III, 5], come un cane,… come una scimmia che cerca d’imitare le opere di Dio, facendo per il male ciò che Dio, fa per il bene.., Dio non si lascia vedere quaggiù faccia a faccia per non opprimerci, con lo splendore della sua maestà:… non si lascia vedere il demonio per non mettere schifo ed orrore con la sua bruttezza… Dio ci si presenta con le sue celesti inspirazioni; il demonio con le sue infernali suggestioni… Dio ci si presenta fatto uomo nella Persona adorabile di Gesù Cristo, il demonio, non potendo farsi uomo, perché Dio solo può creare un corpo e un’anima, ci si presenta con le seduzioni delle ricchezze e dei falsi godimenti della vita lui che in lingua siriaca si chiama mammona, ci si presenta in forma di mammona, che nella stessa lingua vuol dire ricchezza …

2.- I PATTI CHE CI PROPONGONO. – Gesù invita con la persuasione col più grande rispetto della libertà umana a seguirlo, dicendo: chi vuole venire dietro di me venga per amore, non per, forza; chi non vuole è libero di lasciarmi e di passare dalla parte del nemico, troverà però sempre aperte le braccia dalla mia misericordia, finché egli sarà in vita …  Il diavolo adopera la più odiosa delle prepotenze, cercando di conquistare anime o per amore o per forza, e perseguitando ferocemente chi non gli porge ascolto….. – Gesù dice»: Chi vuol venire dietro di me, rinneghi stesso; rinunci alla sua volontà, per fare quella di Dio; rinunci alla sua matura corrotta, per rigenerarsi, alla vita della grazia.. Il demonio eccita l’uomo a scapricciarsi in tutto quel che, gli piace, irretendolo; col pretesto d’un’apparente libertà nella più obbrobriosa delle schiavitù, nella schiavitù del vizio… – Gesù disse: chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce … non la croce pesantissima portata da Gesù, da Maria, dagli eroi della Santità, la croce assegnata da Dio secondo le forze d’ognuno, la croce sopportata con l’aiuto di Dio e in unione con Gesù Cristo… Il demonio non ci parla di croci, ci parla solo di godimenti; ma la croce, se non si porta spontaneamente sulle spalle, si trascina legata ai piedi dalla catena della nostra misera condizione di mortali … – Gesù dice: Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » (MATTH., XVI, 24);… seguirlo in tutto e per tutto, amando il Signore-Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua e con tutto il tuo spirito e con tutto il tuo potere (MATTH., XII, 30)… Il demonio si contenta di un posticino nel nostro cuore, come si contenta di un posticino nel nostro sangue, quel veleno che ci dovrà portar la morte…..

3.- LA RICOMPENSA: — Gesù non s’impegna, di dare quaggiù come ricompensa né ricchezze, né onori, né salute, che si riserva di dare o non dare come gli piace e a chi gli piace … Ma neppure il demonio s’impegna a tanto, perché ricchezze, onori e salute non sono in sua balia, sicché possa disporre a suo talento oltre la permissione di Dio … Ricchezze, onori e salute possono esser possedute da uomini buoni e d’uomini cattivi, come di uomini buoni e d’uomini cattivi possono esser retaggio la povertà, l’abiezione, le infermità… – Gesù ci dà per ricompensa in questa vita la fede, cioè il possesso di verità sovrannaturali e consolantissime, che ci rischiarano fra il buio che circonda … il demonio da il dubbio, l’incertezza, l’errore, le tenebre … Gesù ci dà la speranza, ossia la possibilità di riguardarci non solò come ospiti e forestieri, ma come concittadini dei santi é della stessa famiglia di Dio;… il demonio dà lo sconforto e la disperazione… Gesù ci dà il suo santo amore che ci trasforma e ci fa partecipi della stessa natura divitaa;… il demonio da l’odio, lo spirito di distruzione, la morte di ogni nobile affetto. Gesù ci da la preghiera, il demonio, la bestemmia … “Gesù ci dà se stesso in corpo, anima e divinità nell’Eucaristia; …. il demonio si pasce delle sue vittime … – Le consolazioni che Gesù dona agli eletti in questa vita sono un saggio delle consolazioni ineffabili che prepara per loro nell’eternità;… i tormenti che il demonio già infligge qui ai reprobi dovrebbe a costoro fare aprire gli occhi sull’eterno castigo che li attende; se il demonio non avesse attutito la mente ed il cuore per non falciar loro comprendere in quale sciagurata condizione si trovino…..

4. – BISOGNA SCEGLIERE TRA I DUE PADRONI. – Bisogna scegliere tre Dio e il demonio … o l’uno o l’altro … questo è l’invito che ci fa il Signore … invece il demonio ci lascia nell’illusione che si possa servire a lui e a Dio nello stesso tempo, poiché sa benissimo che Dio è “geloso” e non vuole altri dei (Es. XX, 3-5) al suo fianco … o tutto o niente … perciò gli omaggi a Dio da un cuore che vuole dividersi tra Lui ed il demonio, non sono da Lui accettati , ma respinti con sdegno….!  – Il demonio c’inganna, ma Dio ci parla chiaro: « Nessuno può servire a due padroni: poiché o odierà l’uno e amerà l’altro; o sarà affezionato all’uno e disprezzerà l’altro » (MATTH., VI, 24);… «non si può servire nel medesimo tempo alla virtù e al vizio; alle cose celesti e alle cose mondane, allo spirito e alla carne, a Dio e al diavolo,perchè ci tirano a sentimenti che esigono cose contrarie; che se all’uno s’obbedisce, è giocoforza che si disobbedisca all’altro» (S. Giov. CRIS . , hom. 12 in Matth.)…. –  Ma chi di noi vorrebbe anche in minima parte servire il diavolo? Chi di noi s’indurrebbe a prostrarsi innanzi a quell’immondo, foss’anche per avere tutt’i regni della terra?… Ebbene, Dio non si contenta che ci asteniamo dal servire direttamente il diavolo, ci proibisce di servirlo anche indirettamente… Serve al diavolo, chi serve alle ricchezze di cui si giova il diavolo per tentarci e per sedurci; si prostra innanzi al diavolo chi si prostra innanzi alle ricchézze (Matth. VI24)… Amar pertanto le ricchezze e amar Dio per se stesso, amar quelle o Questo come fine ultimo, di modo che si serva fedelmente nel tempo stesso all’uno e alle altre, è cosa inconciliabile e assolutamente impossibile  … O Dio o le ricchezze, scegliamo, o far servire a Dio le ricchezze e tutti gli altri beni terreni ricevendone da Dio in cambio il possesso dei beni sovrannaturali ed eterni …  o ridurci schiavi delle ricchezze fugaci e degli altri miserabili godimenti mondani, ricevendone in cambio dal demonio il rimorso della coscienza, l’indurimento del cuore, l’impenitenza finale, la dannazione eterna.

 

 

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: ANNUS QUI HUNC

Questa lettera enciclica mette in rilievo la cura che il Santo Padre voleva fosse posta sia nella decorosa decenza dei luoghi santi, in particolare ove si celebravano i Santi Misteri, sia nella devozione della recita del Santo Ufficio da parte dei chierici. Ma la parte più straordinaria si rileva nella accurata analisi della musica sacra e del canto sacro, analisi compiuta con somma perizia e maestria degna di un colto maestro di cappella. Infatti questo documento resta poi la base di tutti i riferimenti magisteriali successivi inerenti l’argomento della musica sacra, come ad esempio la “Musicæ sacræ” del 1955 di S. S. Pio XII. I modernisti attuali della setta del “novus ordo” dovrebbero impallidire e vergognarsi del neopaganesimo musicale introdotto nei sacri luoghi [sacri … un tempo, in verità], al ritmo di rockettari chiassosi e strampalati, che suonano [si fa per dire, naturalmente …] di strumenti elettrici, percussioni sciamaniche e tribali, dei più sofisticati karaoke ed elucubrazioni vocali degne di messe nere o consimili [ma tanto la messa del baphomet lucifero è proprio tale, e quindi essi giustamente non si meravigliano … anzi vi partecipano sull’onda di danze suadenti e lascive … il trionfo del kitch oltretutto!]. Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio sulla satanità del “novus ordo”, lo fugherebbe immediatamente entrando in queste moderne “discoteche-sale da ballo” costruite da avveniristici architetti, approvati con entusiasmo dalle finte autorità religiose, ove al ritmo frenetico di chitarroni elettrici [il più delle volte male accordati da approssimativi Jimmy Hendrix in erba], o di batteristi alla Tony Esposito [mi perdoni il percussionista partenopeo se lo tiro in ballo, ma è giusto per far comprendere meglio l’andazzo del novus ordo!] si accompagnano, nelle sfacciataggine più macabra dei finti chierici, dei riti che di sacro non hanno più nemmeno le candele, adulterate anch’esse, non più di cera d’api ma di sintetica paraffina! – Leggere la lettera di S. S. Benedetto XIV serve a farsi un’idea di cosa era e di cosa dovrà essere nuovamente la musica sacra, sconosciuta alla stragrande maggioranza non solo dei giovani, ma anche di quelli che si avvicinano oramai all’età vetusta, quando la falsa chiesa dell’uomo, parodia della Chiesa Cattolica e tragica anticamera del noachismo talmudico, sarà dal Nostro Signore Gesù Cristo distrutta con il soffio della sua bocca, secondo la profezia di San Paolo ai Cristiani di Tessalonica. Cominciamo allora a ripulire i condotti uditivi dalle orribili immondezze vocali e sonore accumulate nelle pseudo-celebrazioni sacrileghe e blasfeme del novus ordo con la lettura delle parole di Papa Lambertini, augurandoci quanto prima di innalzare a Dio il nostro spirito con canti liturgici gregoriani e con il suono maestoso dell’organo a canne suonato da un maestro vero dell’arte musicale sacra, magari un redivivo C. Frank o un novello Camille Saint Saens, o un emulo di Max Reger! Chissà?! … nel Vangelo il divin Maestro ci ha promesso: chiedete e vi sarà concesso …. E torneremo ai tempi felici del: “Confitemini Domino in cithara; in psalterio decem chordarum psallite illi. Cantate ei canticum novum; bene psallite ei in vociferazione…” [Ps XXXII].

Benedetto XIV

Costituzione Apostolica

Annus qui hunc

vertentem annum insequitur, ut  Fræternitas Tua cognitum …

Terminato l’anno in corso, quello che verrà – come Ella ben sa – sarà l’anno del Giubileo, detto Anno Santo. Essendo – per somma misericordia di Dio – terminata la guerra e fatta la pace fra i Principi belligeranti, si può sperare che sarà grande il concorso dei forestieri e dei pellegrini di tutte le nazioni, anche delle più lontane, a questa nostra Città di Roma. Noi di vero cuore preghiamo e facciamo pregare Iddio, affinché tutti coloro che verranno conseguano il frutto spirituale delle sante Indulgenze, e Noi faremo tutto ciò che è in Nostro potere perché ciò si verifichi. Desideriamo inoltre che tutti coloro che vengono a Roma, ne ripartano non scandalizzati, ma pieni di edificazione per quanto avranno veduto non solo in Roma, ma anche in tutte le Città dello Stato Pontificio attraverso le quali sarà loro convenuto passare, sia nel venire come nel ritornare alle loro patrie. – Per quanto si riferisce a Roma, Noi abbiamo già preso alcune misure, né si tralascerà di prenderne altre. Abbiamo bisogno del Suo zelo e della Sua sperimentata attenzione per ciò che appartiene alla Città e Diocesi da Lei lodevolmente governate. Se Ella Ci darà, come speriamo, l’aiuto necessario, non solo si conseguirà il fine da Noi desiderato, cioè che i forestieri partano edificati e non scandalizzati di Noi, ma ne deriverà un altro buon effetto, cioè che le cose da Noi ordinate e da Lei eseguite, determineranno una buona disciplina non solo nell’Anno Santo, ma per molto tempo avvenire. Si ripeterà ciò che appunto accade nelle Sue Visite Pastorali; l’esperienza dimostra che i visitati, essendo imminente la Visita, fanno alcune cose, correggono alcuni difetti per non essere ripresi da Lei, e per non restare esposti alle dovute pene; il bene fatto in occasione della visita dura anche nel tempo successivo.

1. Ma venendo al particolare, la prima cosa che Le raccomandiamo è che le Chiese si presentino in buono stato, pulite, monde e provviste di sacri arredi; ci vuole poco a capire che se i forestieri vedessero le Chiese delle Città e Diocesi dello Stato Ecclesiastico in cattive condizioni, sporche o sprovviste di sacri arredi, o provviste di arredi laceri e degni d’essere sospesi, ritornerebbero ai loro paesi pieni di orrore e indignati. Teniamo a sottolineare che non parliamo della sontuosità e della magnificenza dei sacri Templi, né della preziosità delle sacre suppellettili, sapendo anche Noi che non si possono avere dappertutto. Abbiamo parlato della decenza e della pulizia che a nessuno è lecito trascurare, essendo la decenza e la pulizia compatibili con la povertà. Tra gli altri mali da cui è afflitta la Chiesa di Dio, anche di questo si doleva il Venerabile Cardinale Bellarmino, quando diceva: “Passo sotto silenzio ciò che si vede in certi luoghi: i vasi sacri ed i paramenti che si adoperano nella celebrazione dei Misteri sono spregevoli e sporchi, e del tutto indegni di essere adoperati nei tremendi Misteri. Può darsi che coloro che adoperano questi oggetti siano poveri; ciò è possibile, ma se non è possibile avere arredi preziosi, si abbia almeno cura che tali arredi siano puliti e decorosi“. Benedetto XIII, di santa memoria e Nostro benefattore, che tanto ha travagliato nel corso della sua vita per la retta disciplina e per la decenza nelle Chiese, era solito portare come esempio le Chiese dei Padri Cappuccini, povere di somma povertà e pulite di grandissima pulizia. Il Dresselio al tomo 17 delle sue opere stampate a Monaco, nel trattato intitolato Gazophylacium Christi (§ 2, cap. 2, p. 153), così scrive: “La prima e più importante cosa che si deve curare nelle Chiese è la pulizia. Non solo vi debbono essere gli arredi necessari al culto, ma bisogna anche che essi, per quanto è possibile, siano estremamente puliti“. Con tutta ragione egli inveisce contro coloro che hanno le loro case ben fornite e lasciano le Chiese e gli Altari nello stato miserabile in cui si vedono: “Vi sono alcuni che hanno case assolutamente infruttuose e adorne di tutto, ma nelle loro Chiese e nelle loro Cappelle tutto è squallido; gli Altari sono disadorni e ricoperti da tovaglie cenciose e luride; in tutto il resto regnano confusione e squallore” (Dresselio, Gazophylacium Christi, § 2, cap. 2). – Il grande dottore della Chiesa San Girolamo, nella sua lettera a Demetriade si mostrò assai indifferente sul fatto che le Chiese fossero povere o ricche: “Che altri edifichino Chiese, ne rivestano le pareti con lastre di marmo, vi elevino delle colonne maestose, indorino i loro capitelli, non sentenzio su tali preziosi ornamenti; che ornino le porte con avorio ed argento e rivestano di pietre preziose gli Altari dorati io non biasimo e non impedisco. Ciascuno abbondi nel proprio sentimento: è meglio fare così che custodire con avarizia le ricchezze accumulate“. Invece dichiarò apertamente di stimare la pulizia delle Chiese quando con somme lodi celebrò Nepoziano che era sempre stato attento a tener pulite le Chiese e gli Altari, come si legge nell’epitaffio dello stesso Nepoziano che il Santo scrisse ad Eliodoro: “Egli si adoperava con grande sollecitudine affinché l’Altare fosse nitido, le pareti non fossero ricoperte di fuliggine, i pavimenti fossero tersi, il portinaio fosse sempre presente all’ingresso; le porte fossero sempre provviste di tende, la sagrestia fosse pulita, i vasi sacri lucenti e in tutte le cerimonie non mancasse nulla. Non trascurava nessun dovere, né piccolo né grande“. Certamente si deve provvedere con grande cura e diligenza che non succeda, con disonore dell’Ordine Ecclesiastico, ciò che il suddetto cardinale Bellarmino racconta essere accaduto a lui: “Io – dice – trovandomi una volta in viaggio fui ospitato presso un nobile Vescovo assai ricco; vidi il suo palazzo risplendente di vasi d’argento e la mensa ricoperta dei cibi più squisiti. Anche tutto il resto era nitido e le tovaglie erano soavemente profumate. Ma il giorno dopo, essendo disceso di buon mattino nella Chiesa attigua al palazzo per celebrare le sacre funzioni, trovai un assoluto contrasto: tutto era spregevole e ripugnante, tanto che dovetti farmi violenza per arrischiarmi a celebrare i divini Misteri in un simile luogo e con simile apparato“.

2. La seconda cosa sulla quale richiamiamo la Sua attenzione riguarda le Ore Canoniche, siano esse cantate o recitate nel Coro secondo la pratica di ciascuna Chiesa, con la dovuta diligenza, da parte di coloro che ad esse sono obbligati. Infatti non c’è niente di più avvilente e pernicioso per la disciplina Ecclesiastica che entrare nelle Chiese e vedere e sentire le Ore Canoniche cantate o recitate nel Coro con strapazzo. Ella ben conosce l’obbligo che hanno i Canonici e gli addetti al servizio delle Chiese Metropolitane, Cattedrali o Collegiate, di cantare ogni giorno le Ore Canoniche nel Coro, e che a quest’obbligo non si soddisfa se non si adempie al tutto con assoluta devozione. – Il Sommo Pontefice Innocenzo III nel Concilio Lateranense (riferito nel capitolo Dolentes, de celebratione Missarum) parla del suddetto obbligo nei seguenti termini: “Noi ordiniamo rigorosamente, in virtù di obbedienza, di celebrare l’Ufficio Divino, tanto di notte quanto di giorno, per quanto sarà possibile, con diligenza e devozione. (La Chiesa, spiegando la parola studiose – con diligenza – soggiunge che essa si riferisce alla esatta e completa pronuncia delle parole; e quanto al termine devote – con devozione – annota che esso si riferisce al fervore dell’animo). – Il Nostro Predecessore Clemente V durante il Concilio Viennese, nella sua Costituzione che si trova tra le Clementine e che comincia con la parola Gravi, sotto il titolo De celebratione Missarum parla con lo stesso linguaggio: “Nelle Chiese Cattedrali, Regolari e Collegiate si tenga la salmodia alle ore stabilite, e con devozione“. – Il Concilio di Trento, trattando degli obblighi dei Canonici Secolari, dice: “Si faccia a tutti obbligo d’intervenire agli Uffici, di persona e non per mezzo di sostituti; di assistere e di servire il Vescovo quando celebra o compie qualche altra funzione pontificale; e infine di lodare il nome di Dio con inni e cantici, con riverenza, chiarezza e devozione, e ciò nel Coro istituito per la salmodia” (Conc. Trid., sess. 24, cap. 12, De reformatione). Dal che deriva che si deve vigilare con molta attenzione affinché il canto non sia precipitoso: o più affrettato del conveniente; le pause siano fatte nei punti indicati; una parte del Coro non incominci il versetto del Salmo se l’altra parte non ha terminato il proprio. Ecco le precise parole del Concilio di Saumur dell’anno 1253: “Nec prius Psalmi una pars Chori versiculum incipiat, quam ex altera praecedentes Psalmi, et versiculi finiantur“. – Infine, il canto deve essere eseguito con voci unisone ed il Coro deve essere diretto da persona esperta nel canto Ecclesiastico (chiamato canto piano o fermo). Questo è quel canto per regolare il quale e disporlo secondo i canoni dell’arte musicale tanto faticò San Gregorio il Grande, Nostro Predecessore, come attesta Giovanni Diacono nella Vita di lui (libro 2, cap. 7). Al che non sarebbe difficile aggiungere molte belle notizie ricavate dalla erudizione Ecclesiastica sull’origine del canto Ecclesiastico, sulla Scuola dei Cantori e sul Primicerio che ad essa presiedeva; ma lasciando da parte ciò che sembra meno utile, ritorniamo al punto da cui Ci siamo un poco allontanati, per proseguire l’argomento iniziato. Questo canto è quello che eccita le anime dei fedeli alla devozione e alla pietà; è pure quello che, se eseguito nelle Chiese di Dio secondo le regole ed il decoro, è ascoltato più volentieri dagli uomini devoti e, a ragione, è preferito al canto detto figurato. I Monaci appresero questo canto dai Preti Secolari come ben riferisce Giacomo Eveillon: “Il virtuosismo di ogni armonia musicale diventa ridicolo alle devote orecchie, se paragonato al canto piano e della semplice salmodia, qualora questa sia bene eseguita. Perciò oggi il popolo fedele diserta le Chiese Collegiate e Parrocchiali e corre volentieri e avidamente alle Chiese dei Monaci, i quali, avendo la pietà come maestra del culto divino, salmodiano santamente con moderazione e – come già disse il Principe dei Salmisti – con sapienza; servono al loro Signore, come a Signore e come a Dio, con somma riverenza. Ciò deve certamente tornare a vergogna delle Chiese più importanti e maggiori, dalle quali i Monaci hanno appreso l’arte e la regola di cantare e di salmodiare” (G. Eveillon, De recta ratione psallendi, cap. 9, art. 9). È per questo che il sacro Concilio di Trento, che non trascurò nulla di quanto poteva contribuire alla riforma del Clero, dove tratta della fondazione dei seminari, fra le altre cose che si devono insegnare ai seminaristi include anche il canto: “Perché siano meglio formati nella disciplina Ecclesiastica, portino sempre la tonsura e l’abito Ecclesiastico appena li abbiano ricevuti; studino le regole della grammatica, del canto, del computo Ecclesiastico e delle altre buone arti” (Conc. Trid., sess. 23, ca. 18, De Reformatione).

3. La terza cosa di cui Noi dobbiamo avvertire Lei, è che il canto musicale, che oggi si è introdotto nelle chiese e che, comunemente, è accompagnato dall’armonia dell’organo e di altri strumenti, sia eseguito in modo tale da non apparire profano, mondano o teatrale. L’uso dell’organo e degli altri strumenti musicali, non è ancora accolto in tutto il mondo cristiano. Infatti (senza parlare dei Ruteni di Rito Greco, che, secondo la testimonianza del Padre Le Brun, in Explication Miss. (tomo 2, p. 215 pubblicato nel 1749), non hanno nelle loro chiese né l’organo, né altri strumenti musicali), la Nostra Cappella Pontificia, come tutti sanno, pur ammettendo il canto musicale, a condizione che sia grave, decente e devoto, non ha mai ammesso però l’organo, come fa notare anche il Padre Mabillon, dicendo: “Nella domenica della Trinità abbiamo assistito alla Cappella Pontificia, come è chiamata, ecc. In queste cerimonie non si fa uso alcuno di organi musicali, ma soltanto la musica vocale, di ritmo grave, è ammessa col canto piano” (Mabillon, Museo Italico, tomo 1, p. 47, § 17). – Il Grancolas riferisce che anche ai nostri giorni vi sono in Francia delle Chiese insigni che non adoperano nelle funzioni sacre né l’organo, né il canto figurato: “Vi sono tuttavia anche oggi insigni Chiese della Gallia che ignorano l’uso degli organi e della musica” (Grancolas, Commentario storico del Breviario Romano, cap. 17). – L’illustre Chiesa di Lione, sempre contraria alle novità, seguendo fino ai nostri giorni l’esempio della Cappella Pontificia, non ha mai voluto introdurre l’uso dell’organo: “Da ciò che si è detto, consta che gli strumenti musicali non furono ammessi né fin dal principio né in tutti i luoghi. Infatti, anche ora, a Roma, nella Cappella del Sommo Pontefice, gli Uffici solenni si celebrano sempre senza strumenti, e la Chiesa di Lione, che ignora le innovazioni, ha sempre rifiutato l’organo, ed al presente ancora non lo ha accolto“. Queste sono parole del Cardinale Bona nel suo trattato De Divina Psalmodia (cap. 17, § 2, n. 5). – Stando così le cose, ciascuno può facilmente immaginare quale opinione si faranno di noi i pellegrini appartenenti a regioni dove non si adoperano gli strumenti musicali, e che, venendo da noi e nelle nostre città, ne udranno nelle chiese il suono, come si fa nei teatri ed in altri luoghi profani. Certamente vi verranno anche degli stranieri appartenenti a regioni ove, nelle chiese, si usano il canto e gli strumenti musicali, come avviene in alcune nostre regioni; ma, se questi uomini sono persone sagge ed animate da vera pietà, certamente si sentiranno delusi di non trovare nel canto e nella musica delle nostre Chiese il rimedio che desideravano applicare per guarire il male che imperversa a casa loro. Infatti, lasciando da parte la disputa che vede gli avversari divisi in due campi (quelli che condannano e detestano nelle Chiese l’uso del canto e degli strumenti musicali, e, dall’altra parte, quelli che lo approvano e lo lodano), non vi è certamente nessuno che non desideri una certa differenziazione tra il canto Ecclesiastico e le teatrali melodie, e che non riconosca che l’uso del canto teatrale e profano non deve tollerarsi nelle Chiese.

4. Abbiamo detto che vi sono alcuni che hanno riprovato ed altri che riprovano l’uso nelle Chiese del canto armonico con strumenti musicali. Il principe di costoro può in qualche modo essere considerato l’Abate Elredo, coetaneo e discepolo di San Bernardo, che nel libro 2 della sua opera intitolata Speculum Charitatis, così scrive: “Da dove provengono, malgrado siano cessati i tipi e le figure, donde vengono nelle Chiese tanti organi, tanti cembali? A che, di grazia, quel soffio terribile che esce dai mantici e che esprime piuttosto il fragore del tuono che non la soavità del canto? A che quella contrazione e spezzettamento della voce? Questi canta con accompagnamento, quell’altro canta da solo, un terzo canta in tono più alto, un quarto infine divide qualche nota media e la tronca” (cap. 23, tomo 23, della Biblioteca dei Padri, a p. 118). – Noi non Ci impegneremo ad affermare che, al tempo di S. Tommaso d’Aquino, non vi fosse in qualche Chiesa l’uso del canto musicale accompagnato dai musicali strumenti. Si può però affermare che tale usanza non esisteva nelle Chiese conosciute dal Santo Dottore; e perciò sembra che egli non fosse favorevole a questo genere di canto. Trattando infatti la questione nella Somma teologica (2, 2, quest. 91, art. 2) “se nelle lodi divine si debba usare il canto“, risponde di sì. Ma alla quarta obiezione, da lui formulata, che la Chiesa non suole usare nelle lodi divine strumenti musicali, come la cetra e l’arpa, per non sembrare voler giudaizzare – in base a quanto si legge nel Salmo: “Confitemini Domino in cythara, in psalterio decem chordarum psallite illi; Celebrate il Signore sulla cetra, a lui salmeggiate con arpa da dieci corde” – egli risponde: “Questi strumenti musicali eccitano il piacere piuttosto che disporre interiormente alla pietà; nell’Antico Testamento sono stati adoperati perché il popolo era più grossolano e carnale, ed occorreva allettarlo per mezzo di questi strumenti, come con promesse terrene“. Aggiunge inoltre che gli strumenti, nell’Antico Testamento, avevano valore di tipi o prefigurazioni di certe realtà: “Anche perché questi strumenti materiali raffiguravano altre cose“. – Del Sommo Pontefice Marcello II, ci è stato tramandato dalla storia che aveva deciso di abolire la musica nelle Chiese, riducendo il canto Ecclesiastico al canto fermo. Questo si può vedere leggendo la Vita di detto Pontefice, scritta da Pietro Polidori, testé defunto, e già Beneficiato della Basilica di San Pietro, e uomo noto fra i letterati. – Ai nostri giorni, abbiamo veduto che il Cardinale Tomasi, uomo di grande virtù, insigne liturgista, non volle il suono musicale, nella sua Chiesa titolare di San Martino ai Monti, il giorno della festa di questo Santo, in onore del quale quella Chiesa è dedicata. Non volle musica né alla Messa né ai Vespri, ma ordinò che nelle funzioni sacre si usasse il canto piano, come si costuma fare dai Religiosi.

5. Abbiamo detto che vi sono alcuni che approvano l’impiego del canto musicale ed il suono degli strumenti negli Uffici Divini. Infatti nello stesso secolo in cui visse il lodato Abate Elredo, fu celebre anche Giovanni Sariberiense, Vescovo di Chartres, il quale nel suo Policratius (libro 1, cap. 6) fa l’elogio della musica strumentale, e del canto vocale accompagnato da strumenti: “Per elevare i costumi e trascinare gli animi verso il culto del Signore, in una sana giocondità, i Santi Padri stimarono bene doversi ricorrere non soltanto al concento di uomini, ma anche all’armonia degli strumenti: purché ciò si facesse in modo che servisse ad unire di più al Signore e ad accrescere il rispetto per la Chiesa. Sant’Antonino nella sua Somma non rigetta l’impiego del canto figurato nei Divini Uffici: “Il canto fermo, nei Divini Uffici, è stato stabilito dai Santi Dottori, da Gregorio il Grande, da Ambrogio, e da altri. Chi abbia introdotto il canto a più voci negli Uffici Ecclesiastici, io lo ignoro. Questo canto sembra piuttosto fatto per solleticare le orecchie che per alimentare la devozione, ancorché una mente devota possa ricavare frutto anche ascoltando questo canto” (parte 3, tit. 8, cap. 4, par. 12). Ed un poco più avanti, ammette nei Divini Uffici non solamente l’organo, ma anche altri strumenti musicali: “Il suono degli organi e degli altri strumenti cominciò ad essere usato con frutto, nella lode di Dio, dal Profeta Davide“. – Il Pontefice Marcello II aveva certamente deciso di bandire dalle Chiese il canto in musica e gli strumenti musicali, ma Giovanni Pier Luigi da Palestrina, Maestro di Cappella della Basilica Vaticana, compose un canto musicale, da usarsi nelle sante Messe solenni, con un’arte così eccellente da muovere gli uomini alla devozione ed al raccoglimento. Il Sommo Pontefice udì questo canto ad una Messa, alla quale presenziava, e mutò parere, recedendo da quanto aveva già divisato di fare. Ne fanno fede antichi documenti citati da Andrea Adami nella Prefazione storica delle Osservazioni sulla Cappella Pontificia (p. 11). – Nel Concilio di Trento si era stabilito di eliminare la musica dalle Chiese, ma l’imperatore Ferdinando avendo, per mezzo dei suoi legati, annunziato che il canto musicale, o figurato, serviva di incitamento alla devozione per i fedeli e favoriva la pietà, si mitigò il Decreto già preparato; ed ora questo decreto si trova nella sessione 22, al titolo: De observandis et evitandis in celebratione Missae. Con esso sono state escluse dai sacri Templi solo quelle musiche in cui, “sia nel suono sia nel canto, si mescola alcunché di lascivo o di impuro“. – Il fatto è riferito da Grancolas nel suo lodato Commentario (p. 56), e dal Cardinale Pallavicino nella Storia del Concilio (libro 22, cap. 5, n. 14). – Certamente Scrittori Ecclesiastici di gran nome seguono di buon grado la stessa sentenza. Il venerabile Cardinale Bellarmino nel tomo 4 delle sue Controversie, al libro 1 De bonis operibus in particulari, 17, in fine, insegna che deve essere mantenuto nelle Chiese l’uso degli organi, ma che non devono essere facilmente ammessi altri strumenti musicali: “Da ciò ne viene che, come l’organo si deve conservare nelle Chiese per riguardo ai deboli, così non devono essere introdotti alla leggera altri strumenti“. – Anche il Cardinale Gaetano è di questo parere, e nella sua Somma, alla voce organum, così scrive: “L’uso dell’organo, sebbene per la Chiesa costituisca una novità – perciò la Chiesa Romana fino ad ora non ne fa uso alla presenza del Pontefice –, è però lecito avuto riguardo ai fedeli ancora carnali ed imperfetti“. – Il venerabile Cardinale Baronio, all’anno 60 di Cristo [dei suoi Annali], così scrive: ” In verità nessuno potrà con ragione disapprovare che dopo molti secoli si sia introdotto l’uso nella Chiesa degli organi, strumenti formati da canne di diversa grandezza assieme unite“.- Cardinale Bona, nel De Divina Psalmodia, cap. 17, trattando degli organi suonati nelle Chiese, dice: “Non bisogna condannare un uso moderato di essi, ecc. Il suono dell’organo reca letizia agli animi tristi degli uomini, e richiama alla giocondità della celeste Città, scuote i pigri, ricrea i diligenti, provoca i giusti all’amore, richiama i peccatori a penitenza“. – Il Suarez (tomo 2 De Religione, al libro 4 De Horis Canonicis, cap. 8, n. 5) fa rilevare che la parola organo non indica soltanto quel particolare strumento musicale che oggi si suole ordinariamente chiamare organo – il che prima di lui fu avvertito da Sant’Isidoro nel libro 2 Originum, cap. 20: “La parola organo indica in generale tutti gli strumenti musicali” –; dicendo che l’organo può essere usato nelle Chiese, s’intende che possono essere usati altri strumenti musicali. – Silvio (tomo 3 delle sue Opere sulla 2, 2 di San Tommaso, quest. 91, art. 2) non rigetta dalle Chiese il canto armonico o figurato: “Perciò deve essere grandemente curato il canto Ecclesiastico, sia quello detto piano, o gregoriano, che è propriamente canto Ecclesiastico, sia quello introdotto dopo nella Chiesa, e che si chiama canto figurato o armonico. E poco più avanti dice ancora: “Tuttavia, essendosi, dopo molti secoli, accolto l’uso di accompagnare gli Uffici Ecclesiastici con strumenti musicali, ciò non deve essere disapprovato“. – Il Bellotte, nel libro De Ritibus Ecclesiae Laudunensis (p. 209, n. 8), dopo aver a lungo e minuziosamente parlato degli strumenti musicali, che si suonano alle volte nei Divini Offici; e, dopo aver dimostrato che anticamente questi strumenti non si usavano nelle Chiese, ritiene che la cagione di tale antica usanza e diversa consuetudine, debba riporsi nella necessità che spingeva allora i Cristiani a stare lontani, il più possibile, dai riti profani dei pagani, i quali, nei teatri, nei festini, nei sacrifizi, usavano strumenti musicali. – “Perciò, dice il Bellotte, non si deve vedere una sconvenienza negli strumenti musicali stessi, se la Chiesa ha fatto uso di cantori in musica e di musicali strumenti soltanto negli ultimi secoli. Il motivo sta solo nel fatto che i pagani usavano simili strumenti musicali per scopi turpi e immorali, appunto nei teatri, nei conviti e nei sacrifizi“. – Il Persico, nel suo trattato De Divino et Ecclesiastico Officio (al dubbio 5, n. 7) così scrive del canto figurato nelle Chiese: “In secondo luogo dico: ancorché nel canto organico, o figurato, possano introdursi molti abusi – come suole d’altronde avvenire in tutte le altre cerimonie Ecclesiastiche – , esso tuttavia è di per sé lecito, e per nessun motivo vietato, quando viene eseguito in maniera regolata, devota e decente. – Al dubbio 6, numero 3, sostiene che “l’uso ormai universale di suonare l’organo e altri strumenti musicali, durante i Divini Uffici, è un uso lodevole, e molto utile per elevare alla contemplazione di Dio gli animi delle persone imperfette“. – L’uso del canto armonico, o figurato, e degli strumenti musicali, sia nelle Messe, come nei Vespri e in altre funzioni di Chiesa, è ora talmente esteso, da essere giunto anche nel Paraguay. – Essendo quei novelli fedeli americani dotati di straordinaria propensione ed abilità al canto musicale ed al suono dei musicali strumenti, tanto da imparare con tutta facilità ciò che riguarda l’arte musicale, i Missionari si servono di questa tendenza per avvicinarli alla Fede Cristiana, mediante pie e devote canzoni. Così che, al presente, non vi è più quasi nessun divario, sia nel canto come nel suono, tra le Messe ed i Vespri di casa nostra con quelle delle suddette regioni. Ciò riferisce l’Abate Muratori, riportando relazioni degne di fede, nella sua opera: Descrizione delle Missioni del Paraguay (cap. 12).

6. Abbiamo pure detto che non c’è alcuno che non condanni il canto teatrale nelle Chiese, e che non desideri una differenziazione tra il canto sacro della Chiesa e il canto profano delle scene. Celebre è il testo di S. Girolamo, riferito nel Canone Cantantes: “Cantando e salmeggiando nei vostri cuori al Signore. Ascoltino questo gli adolescenti; lo ascoltino coloro che hanno nella Chiesa il dovere di salmeggiare. Non basta cantare ad onore di Dio con il suono della voce, ma bensì è necessario unirvi il cuore. Né alla moda degli attori teatrali occorre spalmare la gola e le labbra di soave unguento affinché nella Chiesa si sentano melodie e canti teatrali” (distinzione 92). – L’autorità di S. Girolamo fu abusivamente invocata da coloro che, con troppa audacia, volevano rimuovere dalle Chiese ogni sorta di canto. Ma S. Tommaso, nel luogo già citato, così risponde, alla seconda obiezione ricavata dal detto testo di S. Girolamo: “Riguardo alla seconda obiezione, occorre notare che S. Girolamo non condanna il canto, ma riprende coloro che nelle Chiese cantano come canterebbero in un teatro. – San Nicezio, nel libro De Psalmodiae bono (cap. 3, nel tomo 1 dello Spicilegio), così descrive il canto che deve adoperarsi nelle Chiese: “Si usi un suono ed un canto di salmodia che siano conformi alla santità della Religione, e non piuttosto espressioni del canto tragico; che vi faccia apparire veri cristiani, e non piuttosto riecheggi suoni teatrali; che vi induca alla compunzione dei peccati“. – I Padri del Concilio di Toledo (riuniti nell’anno 1566, nell’azione 3, al cap. 11 del tomo 10 della Collezione dei Concilii dell’Arduino), dopo aver molto parlato della qualità del canto da usarsi nelle Chiese, così concludono: “ Bisogna assolutamente evitare che il suono musicale porti nel canto delle divine lodi qualche cosa di teatrale; o che evochi profani amori, e gesta guerresche, come suole fare la musica classica.– Non mancano numerosi e dotti scrittori, che severamente condannano la paziente tolleranza, nelle Chiese, del suono e del canto teatrali, e domandano che simile abuso venga tolto dalle Chiese. – Si consultino il Casadio (De veteribus sacris Christianorum ritibus, cap. 34) e l’Abate Lodovico Antonio Muratori (Antiqua Romana Liturgia tomo I; dissertazione De rebus liturgicis, cap. 22, in fine). – E per terminare il Nostro dire su questo argomento, ossia dell’abuso dei teatrali concerti nelle Chiese (che è cosa per sé evidente e che non richiede parole per dimostrarla), basterà accennare che tutti quelli che Noi abbiamo sopra citati, come favorevoli al canto figurato ed all’uso degli strumenti musicali nelle Chiese, chiaramente dicono ed attestano di aver sempre nei loro scritti inteso e voluto escludere quel canto e quel suono propri i dei palcoscenici e dei teatri. Canto e suono che essi, come gli altri, condannano e deprecano. Quando si professavano favorevoli al canto ed al suono, sempre intesero un canto ed un suono adatto alle Chiese, e che eccita il popolo a devozione. Questa loro intenzione ognuno può conoscere leggendo i loro scritti.

7. Stabilito che, essendo già introdotta la consuetudine del canto armonico o figurato e degli strumenti musicali negli Uffici Ecclesiastici, se ne condanna soltanto l’abuso; il Bingamo (Delle Origini Ecclesiastiche, tomo 6, libro 14, par. 16), benché sia autore eterodosso, concorda; ne consegue che bisogna diligentemente studiare quale sia il retto uso e quale l’abuso. – Riconosciamo che per fare Noi bene quanto Ci siamo proposto, avremmo bisogno della perizia musicale di cui erano adorni alcuni dei Nostri santi e illustri Predecessori, quali Gregorio il Grande, Leone II, Leone IX e Vittore III. Noi però non abbiamo avuto né il tempo e né l’occasione di imparare la musica. Tuttavia Ci accontenteremo di dire alcune cose ricavate dalle Costituzioni dei Nostri Predecessori, e dagli scritti di uomini virtuosi e dotti. – Per procedere però con ordine, parleremo prima di tutto ciò che si deve cantare nelle Chiese. Poi parleremo del modo e del metodo che si deve tenere nel canto. Infine parleremo degli strumenti musicali adatti alle Chiese, e che devono essere suonati nei sacri Templi.

8. Guglielmo Durando, che visse sotto il Pontificato di Nicolò III, nel suo trattato De modo Generalis Concili i celebrandi (cap. 19), apertamente riprova l’uso, allora frequente, di quelle cantilene dette mottetti: “Sembra assai opportuno togliere dalla Chiesa quel canto non devoto e disordinato dei mottetti e di altre cose simili. In seguito il Pontefice Giovanni XXII, Nostro Predecessore, promulgò la sua Decretale, che comincia con le parole Docta Sanctorum e che si trova tra le Extravaganti comuni, al titolo De vita et honestate Clericorum. In questa sua Decretale, il Papa si mostra contrario al canto dei mottetti in lingua volgare: “Talora v’inseriscono mottetti in lingua volgare. – I Teologi hanno fatto oggetto d’indagine siffatto genere di cantilene o mottetti che solitamente si cantano nelle Chiese. Uno di essi, il Paludano (Sentenze, libro IV, dist. 15, q. 5, art. 2), ritenne il canto dei mottetti una specie di canto teatrale, e riprende coloro che ne fanno uso: “coloro, cioè, che nelle solennità cantano i mottetti, poiché il canto (nelle Chiese) non deve essere simile a quello delle tragedie. – Il Suarez (De Religione, tomo 2, libro 4; De Horis Canonicis, cap. 13, n. 16) sembra favorevole al canto dei mottetti, ancorché essi siano stati scritti in lingua volgare, purché siano seri e devoti. A provare quanto asserisce adduce il costume e l’uso di alcune Chiese governate da sapienti prelati, che non condannano queste cantilene o modulati carmi. Aggiunge inoltre che, nei primi tempi della Chiesa, ogni fedele cantava nel tempio quei pii e devoti inni che egli stesso aveva composti; e che tale antica consuetudine serve, in certo modo, ad approvare l’uso dei mottetti. – Prevedendo l’obiezione che gli si può muovere, che da simili canti modulati, chiamati mottetti, rimane interrotta la salmodia ecclesiastica, ad essa così risponde: “Questa interruzione, o pausa, che per questo fatto viene a stabilirsi tra le parti di un’Ora (canonica), non è da condannarsi. Questa parte dell’ufficiatura rimane moralmente non interrotta, a causa della devozione che questo canto stesso si propone di eccitare. Così questo canto può essere considerato come una preparazione all’ufficiatura che segue, e come una solenne e degna conclusione dell’ufficiatura precedente, e come un ornamento di tutta l’Ora. – Il Sommo Pontefice Alessandro VII, nell’anno 1657, emanò una Costituzione, che comincia con le parole Piae sollicitudinis, e che è la trentaseiesima tra le Costituzioni di questo Pontefice. In tale documento il Papa comanda di non cantare, nel tempo dei Divini Uffici, e nel tempo in cui nelle Chiese è esposto il Sacramento dell’Eucaristia alla pubblica venerazione dei fedeli, nessun canto che non sia formato da parole desunte dal Breviario o dal Messale Romano. Questi canti possono essere desunti dall’ufficiatura propria o comune della solennità di ciascun giorno, o della festa del Santo; questi brani possono pure essere tolti dalla Sacra Scrittura o dalle opere dei Santi Padri, ma prima devono essere sottoposti alla revisione ed all’approvazione della Sacra Congregazione dei Riti. – Da questa Costituzione pontificia appare, senza alcun dubbio, che il canto dei mottetti, composti seguendo le norme prescritte dallo stesso Alessandro VII, Nostro Predecessore, e riveduti ed approvati dalla Sacra Congregazione dei Riti, fu dichiarato legittimo. Questa Costituzione di Alessandro VII fu confermata dal Venerabile Servo di Dio Innocenzo XI, in un suo Decreto del 3 dicembre 1678. – Essendo però sorto qualche dubbio sul significato e sulla interpretazione della Costituzione di Alessandro e del Decreto di Innocenzo XI, il Nostro Predecessore di felice memoria Innocenzo XII, emise, in data 20 agosto 1692, un nuovo Decreto, che è il settantaseiesimo del suo Bollario. Questo decreto, dissipando la confusione causata dalle diversità di interpretazioni, e illuminando tutta la questione, proibì in genere il canto di ogni cantilena o mottetto. Nelle sante Messe solenni permise soltanto, oltre al canto del Gloria e del Simbolo, di poter cantare l’Introito, il Graduale e l’Offertorio. Nei Vespri non ammise nessun cambiamento, neppure minimo, nelle Antifone che si dicono all’inizio e alla fine di ogni Salmo. – Inoltre volle e comandò che i cantori musici seguissero in tutto le regole del Coro e che con esso si conformassero perfettamente. E siccome nel Coro non è permesso aggiungere qualche cosa all’Ufficio o alla Messa, così proibì pure questo ai musici, e soltanto permise di prendere dall’Ufficio e dalla Messa della solennità del Santissimo Sacramento del Corpo del Signore – ossia dagli inni di San Tommaso o dalle antifone, o da altri brani passati nel Breviario dal Messale Romano – qualche strofa o mottetto, senza cambiarne le parole, e di poterli cantare, al fine di eccitare la devozione nei fedeli, durante l’elevazione della sacra Ostia, o quando è esposta alla venerazione ed all’adorazione del pubblico.

9. Dopo avere con una legge regolato l’uso delle canzoncine, o delle strofe cantate o mottetti, bisogna ammettere che si era già fatto molto per rimuovere dalle Chiese i canti teatrali, ma occorre pure confessare che ciò non era sufficiente per raggiungere lo scopo desiderato. – Era ancora possibile, e troppo ancora ciò si fa con Nostro dispiacere, cantare tutte le parti che è lecito e che si sogliono cantare nelle Messe e nei Vespri, come è stato su riferito (ossia il Gloria, il Simbolo, l’Introito, il Graduale, l’Offertorio e tutto il resto), ma cantarle alla maniera teatrale e con strepito da palcoscenico. – Il grande vescovo Guglielmo Lindano, nella sua Panoplia Evangelica, al libro 4, cap. 78, non è contrario al canto musicale nelle Chiese, ma disapprova le molte ripetizioni, e le confusioni delle voci, e propone che nelle Chiese si adoperi una musica adatta alle cose che si cantano: “So bene, dice egli, che alcuni giudicano più conveniente conservare la musica, con strumenti e musici. Darei volentieri il mio consenso a costoro, qualora avvenisse, nello stesso tempo, la sostituzione del metodo, attualmente in vigore ovunque nelle Chiese, con un metodo più serio, più aderente alle cose, e, se non più vicino alla pronunzia che alla melodia, almeno sia più adattato alle cose che si cantano e più in armonia con esse“. – Il Dresselio, nella sua opera Rhetorica caelestis (libro I, cap. 5), scrive opportunamente in proposito: “Qui, o musicisti, sia detto con vostra pace, prevale ora nelle Chiese un genere di cantare che è nuovo, ma eccentrico, spezzettato, ballabile, e certamente poco religioso; più adatto al teatro ed al ballo che non al Tempio. Si cerca l’artifizio e si perde il primiero desiderio di pregare e di cantare. Abbiamo cura di destare la curiosità, ma in realtà trascuriamo la pietà. Che è infatti questo nuovo e danzante modo di cantare se non una commedia, in cui i cantori si mutano in attori? Essi si esibiscono: ora uno da solo, ora in due, ora tutti assieme, e dialogano tra di loro col canto; poi nuovamente uno domina solo, e poco dopo gli altri lo seguono. – Uno scrittore moderno, Benedetto Girolamo Feijo o, Maestro Generale dell’Ordine di San Benedetto in Spagna, nel Theatrum criticum universale, discorso 14, basandosi sulla perizia e sulla conoscenza delle note musicali, indica il metodo da seguirsi per ottenere composizioni musicali per le Chiese, del tutto diverse dai concerti musicali dei teatri. – Ma Noi qui Ci contenteremo di ricordare – tenendo presenti le prescrizioni dei Sacri Concili e le sentenze di Scrittori autorevoli – che il canto musicale dei teatri viene fatto in modo (come Ci fu riferito) che il pubblico presente, ascoltando i canti musicali ne riporti diletto, e goda degli artifizi della musica, si esalti per la melodia, per la musica in se stessa; provi piacere per la soavità delle varie voci, senza percepire, il più delle volte, l’esatto significato delle parole. Non cosi invece deve essere nel canto Ecclesiastico; anzi in questo si deve avere di mira l’opposto. – Nel canto Ecclesiastico si deve badare innanzi tutto ad ottenere una audizione perfetta e facile delle parole. Nelle Chiese, infatti, la musica è accolta per elevare le menti degli uomini a Dio, come insegna Sant’Isidoro nel libro I del De Ecclesiasticis Officiis, al cap. 5: “Si usa dalla Chiesa salmeggiare e cantare soavi melodie per indurre più facilmente gli animi alla compunzione“; ciò non può ottenersi se non s’intendono le parole. – Il Concilio di Cambrai (tenuto nel 1565, al titolo 6, cap. 4, tomo 10, p. 582 della Collezione di Arduino) così prescrive: “Del resto ciò che si deve cantare in coro è destinato ad istruire; lo si canti perciò in modo da essere capito dalla mente. – Nel Concilio di Colonia (riunito nel 1536, al cap. 12 del De officiis privatis) si legge quanto segue: “In alcune Chiese si giunse a commettere l’abuso di omettere o di abbreviare, per favorire l’armonia del canto e del suono, quello che era più importante. E la parte più importante è costituita appunto dalla recita delle parole dei Profeti, degli Apostoli, od Epistola, del Simbolo della fede, del Prefazio o azione di ringraziamento e dell’Orazione del Signore. Per la loro importanza, questi testi devono essere, come tutti gli altri, cantati in modo chiarissimo e intelligibile. – Nel primo Concilio di Milano (tenuto nell’anno 1565, nella parte 2, n. 51 della Collezione di Arduino, p. 687) si legge: “Negli Uffici Divini, e in generale nelle Chiese, non si devono cantare o suonare cose profane; le cose sacre poi devono essere cantate senza languide flessioni di voce, senza suoni più gutturali che labiali; mai si deve usare un tono di canto passionale. Il canto ed il suono siano seri, devoti, chiari, adatti alla casa di Dio e confacenti con le divine lodi; fatti in modo che coloro che ascoltano capiscano le parole e siano mossi a devozione“. – Sulla materia qui trattata esistono parole assai gravi dei Padri convenuti nell’anno 1566 al Concilio di Toledo (Azione 3, cap. 2, p. 1164 della Collezione di Arduino): “Siccome tutto ciò che si canta nelle Chiese per lodare Dio, deve essere cantato in modo da favorire, per quanto è possibile, l’istruzione dei fedeli, e deve essere un mezzo per regolare la pietà e la devozione e per spronare le menti degli uditori fedeli a prestare a Dio il culto, e a desiderare le cose celesti; stiano in guardia i Vescovi, che mentre ammettono nel coro musicale la pratica di variazioni melodiche in cui le voci si mescolano secondo ordini diversi, le parole dei salmi e delle altre parti che sogliono cantarsi, non rimangano incomprese e soffocate da uno strepito disordinato. I Vescovi coltivino invece una musica così detta organica, che permetta di capire le parole di quelle parti che si cantano, e gli animi degli uditori siano portati a lodare Dio più dalla pronunzia delle parole che da curiosi gorgheggi. – Ciò giustifica i lamenti espressi dal Vescovo Lindano nel testo citato (Panoplia Evangelica): “Ai nostri giorni, il canto dei musici è piuttosto fatto per distogliere, sviare, allontanare gli animi degli uditori, che non per eccitarli a pietà e a desideri celesti. Ricordo infatti di aver partecipato qualche volta alle divine lodi, di aver prestato grande attenzione mentre si cantava per riuscire a capire le parole, ma non riuscì ad intenderne neppure una sola. Tutto era un groviglio di sillabe ripetute, di voci confuse; il senso rimaneva sommerso da ciò che, più che canto, era un clamore assordante, un boato scomposto. – Ciò dimostra quanto saggio fosse il desiderio, e quanto prudente sia l’esortazione con la quale Dresselio, pure nell’opera citata (Rethorica caelestis) esorta i musici alla devozione: “Fate rivivere, ve ne supplico, qualche cosa almeno del primiero fervore religioso nella musica sacra. Se voi avete a cuore, se desiderate l’onore divino, adoperatevi per questo, faticate per questo scopo: affinché cioè le parole che si cantano siano pure comprese. Che mi giova sentire nel Tempio varietà di suoni, profusione di voci, se a tutto ciò manca un’anima, se non riesco a comprendere il significato e le parole, che il canto dovrebbe invece instillarmi?” – Ciò finalmente giustifica la risposta data dal Cardinale Domenico Capranica al Sommo Pontefice Nicolò V, dopo aver assistito ad una sacra funzione ed alla Divina Ufficiatura, eseguite in canto musicale, in modo però che non si poterono udire le parole. Il Pontefice chiese al Cardinale che cosa ne pensasse di simile musica; la risposta che il Cardinale diede si può leggere presso Poggio, nella Vita di questo Cardinale edita dal Baluzio, nella Miscellanea (libro 3, § 18, p. 289). – Il grande Padre Agostino racconta di se stesso che sentendo cantare soavemente gli inni nella Chiesa, piangeva dirottamente: “Quanto piansi tra gl’inni ed i cantici tuoi, vivamente commosso alle voci della tua Chiesa soavemente echeggiante! Quelle voci si riversavano nei miei orecchi, stillava la verità tua nel mio cuore, e da essa mi veniva fervore. Di qui provenivano sentimenti di devozione, e scorrevano lacrime, e mi facevano del bene!” (Confessioni, libro 9, cap. 6). Ma poi essendogli venuto lo scrupolo del gran diletto che provava sentendo cantare gli inni nelle Chiese, quasi fosse un’offesa a Dio, e portandolo la severità a disapprovare il detto canto, ritornò però al primo pensiero di approvarlo, perché il suo animo si commuoveva, non per l’armonia solamente, ma per le parole che l’armonia accompagnava, come apertamente egli dichiarò (Confessioni, libro 10, cap. 33). – Piangeva perciò Agostino di devota tenerezza, sentendo cantare nelle Chiese le sacre lodi, e ben intendendo le parole accompagnate dal canto. Piangerebbe forse ancora oggi, se sentisse qualcheduna delle musiche delle Chiese, ma non piangerebbe per devozione, ma per dolore di sentire bensì il canto, ma di non intenderne le parole.

10. Fin qui abbiamo parlato del canto musicale; ora dobbiamo parlare del suono dell’organo musicale, e degli altri strumenti, il cui uso, come abbiamo detto sopra, è ammesso in alcune Chiese. È pure necessario trattare del suono, perché se il canto non deve essere teatrale, altrettanto deve dirsi del suono. Gli Ebrei non avevano bisogno di questa indagine, ossia di stabilire differenze fra il canto nel Tempio e il canto profano nei teatri. Infatti dalle Sacre Scritture si desume che il canto ed il suono degli strumenti musicali erano in uso nel Tempio, ma non nei teatri, come fa notare ottimamente il Calmet nella sua dissertazione sopra la musica degli Ebrei. – Noi abbiamo bisogno di fissare dei limiti tra il canto ed il suono di Chiesa, e quelli dei teatri. Noi dobbiamo definire la diversità tra i due, perché oggi il canto figurato, o armonico, con il suono degli strumenti, si adopera tanto nei teatri come nelle Chiese. – Avendo già a lungo parlato del canto, rimane ora da parlare anche del suono. E per discorrere con ordine, tratteremo prima degli strumenti musicali, che possono essere tollerati nelle Chiese; in secondo luogo parleremo del suono di quegli strumenti che si suole accompagnare al canto; in terzo luogo parleremo del suono separato dal canto, ossia della sinfonia strumentale.

11. Quanto agli strumenti, che possono tollerarsi nelle Chiese, il sopra citato Benedetto Girolamo Feijo o, nel citato discorso (Theatrum criticum universale, discorso 14, par. 11, n. 43) ammette gli organi e altri strumenti, ma vorrebbe escludere le lire tetracorde (violini), perché l’archetto fa emettere alle corde suoni armoniosi, ma troppo acuti, che eccitano in noi piuttosto ilarità puerile, che non composta venerazione per i sacri misteri, e raccoglimento. – Il Bauldry (Manuale nelle sacre cerimonie, § I, cap. 8, n. 14) non vorrebbe nelle Chiese, con l’organo pneumatico, che le trombe o gli strumenti a fiato o pneumatici: “Non si suonino, con l’organo, altri strumenti musicali all’infuori delle trombe, flauti o cornette. Al contrario, i Padri del Primo Concilio Provinciale di Milano, tenuto sotto San Carlo Borromeo, nel titolo De Musica et Cantoribus, bandiscono dalle Chiese gli strumenti a fiato: “Nella Chiesa vi sia solo l’organo; si escludano i flauti, le cornette e ogni altro strumento musicale. – Noi non abbiamo omesso di richiedere il consiglio di uomini prudenti e di insigni Maestri di musica. In conformità del loro parere, Ella, venerabile Fratello procurerà che nelle sue Chiese, se in esse vi è l’uso di suonare gli strumenti musicali, con l’organo, siano ammessi soltanto quegli strumenti che hanno il compito di rafforzare e sostenere la voce dei cantori, come sono la cetra, il tetracordo maggiore e minore, il fagotto, la viola, il violino. Escluderà invece i timpani, i corni da caccia, le trombe, gli oboe, i flauti, i flautini, le arpe, i mandolini e simili strumenti, che rendono la musica teatrale.

12. Sul modo poi di usare quegli strumenti che si possono ammettere nella musica sacra, ammoniamo soltanto che essi vengano usati esclusivamente per sostenere il canto delle parole, affinché vieppiù il senso di esse si imprima nella mente degli uditori, e gli animi dei fedeli vengano eccitati alla contemplazione delle cose spirituali, e siano spronati ad amare di più Dio e le cose divine. Il Valenza, parlando dell’utilità della musica e degli strumenti musicali, giustamente dice: “Servono a ravvivare il proprio e l’altrui fervore, specialmente dei rozzi, che spesso sono deboli, e devono essere portati al gusto delle realtà spirituali, non solo a mezzo del canto vocale, ma anche con il suono dell’organo, e di musicali strumenti” (nel tomo 3 sulla 2, 2 di San Tommaso, disp. 6, quest. 9). – Se però gli strumenti suonano in continuazione, e solo qualche volta si chetano, come si usa oggi, per lasciare tempo agli uditori di sentire le armoniche modulazioni, le vibranti puntate delle voci, volgarmente chiamati i trilli; se, per il rimanente, non fanno altro che opprimere e seppellire le voci del coro, e il senso delle parole, allora l’uso degli strumenti non raggiunge lo scopo voluto, diventa inutile, anzi rimane proibito ed interdetto. – Il Pontefice Giovanni XXII, nella citata sua Extravagante Docta Sanctorum, fra gli abusi della musica mette il seguente, che esprime con queste parole: “Spezzettare la melodia con rantoli” ossia con singulti, come spiega Carlo Dufresne nel suo Glossario: questo nome indica quelle concise modulazioni, volgarmente dette trilli. – Il grande Vescovo Lindano, nel luogo citato, inveisce contro l’abuso di coprire, con il suono degli strumenti, le parole dei cantori: “Il clamore delle trombe, lo stridore dei corni, e altro vario fracasso, nulla viene omesso di ciò che può rendere incomprese le parole che si cantano, oscurarle, seppellirne il significato. – Il pio e dotto Cardinale Bona, nel più volte lodato trattato De Divina Psalmodia (cap. 17, § 2, n. 5), così scrive in proposito: “Prima di terminare, darò un avvertimento ai cantori di Chiesa: non facciano servire ad una illecita passione ciò che i Santi Padri hanno ordinato ad aiutare la devozione. Il suono deve essere eseguito in modo grave e moderato, da non assorbire tutte le facoltà dell’anima, ma da lasciare la maggior parte dell’attenzione per comprendere il significato di quello che si canta, e per i sentimenti di pietà“.

13. Infine, per ciò che riguarda le sinfonie, dove il loro uso è già introdotto, potranno tollerarsi, purché siano serie, e non rechino, a causa della loro lunghezza, noia o grave incomodo a quelli che sono nel Coro, o che funzionano all’Altare, nei Vespri e nelle Messe. Di queste sinfonie parla il Suarez: “Da ciò si comprende che, di per sé, non è da condannarsi l’uso di intercalare agli Uffici Divini il suono dell’organo senza canto, adoperando solo con soavità la musica degli strumenti, come succede qualche volta durante la Messa solenne, o nelle Ore Canoniche, tra i Salmi. In questi casi tale suono non è parte dell’Ufficio, e ridonda a solennità ed a venerazione dell’Ufficio stesso ed a elevazione degli spiriti dei fedeli, affinché più facilmente si muovano a devozione o vi si dispongano. Ancorché però nessun canto vocale si associ a questo suono, occorre che detto suono sia grave e adatto a eccitare la devozione” (Suarez, De Religione, libro 4, cap. 13, n. 7). – Non si deve però qui tacere essere cosa assai sconveniente e da non più tollerarsi, che in alcuni giorni dell’anno si tengano sinfonie sontuose e rumorose, si tengano canti musicali nei Templi, del tutto sconvenienti ai Sacri Misteri che la Chiesa in quel dato tempo propone alla venerazione dei fedeli. – Lo zelo di cui era animato, spinse il più volte nominato Maestro Generale dell’Ordine di San Benedetto in Spagna a protestare nel citato discorso (Theatrum criticum universale, discorso 14, § 9) contro le arie ed i recitativi, ohimè!, troppo usati nel cantare le Lamentazioni del Profeta Geremia, la cui recita è dalla Chiesa prescritta nei giorni della Settimana Santa, e nelle quali ora si piange la distruzione della Città di Gerusalemme ad opera dei Caldei, ora la desolazione del mondo ad opera dei peccati, ora l’afflizione della Chiesa militante nelle persecuzioni, ora le angustie del nostro Redentore nei suoi dolori. – Mentre sedeva sulla Cattedra Apostolica il Nostro santo Predecessore Pio V, la Chiesa di Lucca era governata da Alessandro, Vescovo zelantissimo della disciplina Ecclesiastica. Egli aveva osservato che, durante la Settimana Santa, si facevano nelle Chiese dei concerti solennissimi con numerosi cantori e suono di strumenti svariati. Ciò non era per nulla intonato al clima di mestizia delle sacre funzioni che si celebrano in quei giorni. Ad udire tali concerti accorreva una numerosissima avida folla di uomini e di donne, e succedevano peccati e scandali gravi. Il Vescovo con un suo editto proibì questi concerti nella Settimana Santa e nei tre giorni seguenti la Pasqua. Siccome alcuni, esenti dalla giurisdizione episcopale, pretendevano di non essere tenuti ad obbedire al Vescovo, costui deferì la questione al Sommo Pontefice Pio V, il quale rispose con un Breve, in data 4 aprile 1571. – Il Papa deplora la cecità delle menti umane e degli uomini carnali, che non solo nei giorni sacri, ma specialmente in quelli stabiliti dalla Chiesa in modo speciale per venerare la memoria della passione di Cristo Signore, messa da parte la pietà, e la sincera purità della mente, si lascino trasportare dai piaceri del mondo, e si abbandonino in balìa e si lascino dominare dalle passioni. “Questo – dice poi – deve essere sempre evitato, in ogni periodo sacro, ma deve essere evitato in modo tutto speciale in quel periodo di tempo fissato dalla Chiesa per commemorare la passione del Signore. In tale tempo invece massimamente conviene che tutti i Cristiani rivolgano la loro mente alla contemplazione di così grande ed eccelso beneficio fatto a noi dal Nostro Redentore, e che si tengano liberi ed immuni da ogni impurità di cuore e di sensi. – Riferisce poi l’abuso introdotto nella Chiesa di Lucca di fare scelta nella Settimana Santa di bravi musici, e di radunare ogni sorta di strumenti per tenere solenni concerti musicali. Dice al Vescovo: “Recentemente, con grande Nostro dispiacere, abbiamo saputo che in codesta Città, ove eserciti l’ufficio di Vescovo, vi è un abuso assai detestabile, di tenere cioè concerti nelle Chiese, durante la Settimana Santa, con la riunione di scelti cantori e di ogni genere di strumenti. A questi concerti, più che non ai Divini Uffici, accorre una folla di giovani di ambo i sessi, attrattavi da una vera passione, e l’esperienza ha dimostrato che si commettono gravi peccati e che avvengono dei non meno gravi scandali“. – Infine loda l’ordine del Vescovo, e, basandosi sui decreti del sacrosanto Concilio di Trento, dichiara che questo ordine si estende ed obbliga anche le Chiese che si dicono esenti dall’autorità dell’Ordinario, per privilegio apostolico o per qualsiasi altra ragione. – Nel Concilio Romano (tenutosi da poco tempo a Roma, nell’anno 1726, al titolo 15, n. 6) si leggono vari decreti sopra l’uso del canto musicale e degli strumenti, durante l’Avvento, nelle Domeniche di Quaresima, e durante le esequie dei defunti. Ci basti avervi accennato. –

14. Ci ricordiamo aver letto che l’Imperatore Carlo Magno, essendosi proposto di ridurre a regole di arte il canto Ecclesiastico, che nelle Chiese della Gallia era allora eseguito in maniera disordinata e rozza, chiedesse al Pontefice Adriano I l’invio da Roma di persone istruite nella musica di chiesa. Questi inviati facilmente introdussero nel Regno delle Gallie il Canto Romano, come ognuno può venire a sapere leggendo la notizia presso Paolo Diacono (Vita di San Gregorio, libro 2, cap. 9); presso Rodolfo de Tongres (De Canonum observantia, prop. 12); presso Sant’Antonino (Summa Historica, parte 2, tit. 12, cap. 3). Il Monaco d’Angoulême (Vita di Carlo Magno, cap. 8), racconta inoltre che i cantori giunti da Roma insegnarono nelle Gallie anche l’arte di suonare l’organo musicale, che era stato introdotto nel regno delle Gallie sotto il re Pipino. – Essendo costume e regola generale che la città di Roma debba precedere, con l’esempio e l’insegnamento, tutte le altre Città, in ciò che concerne i Riti Sacri e le altre cose Ecclesiastiche: anche la storia lo conferma, così come lo conferma quanto Noi ora abbiamo narrato di Carlo Magno, che volendo introdurre il canto Ecclesiastico nel suo Regno, lo fece venire da Roma come dalla sua propria sede. – Questo fatto Ci spinge pressantemente e Ci stimola a fare sparire del tutto e tutti gli abusi che si fossero introdotti nel canto Ecclesiastico, e che Noi sopra abbiamo condannati; a farli sparire da ogni Chiesa, se fosse possibile, ma in modo speciale dalle Chiese della Città di Roma. – E come Noi non lasciamo di dare gli ordini necessari ed opportuni al Nostro Cardinale Vicario in Roma, cosi lei, Venerabile Fratello, non lasci di pubblicare, se è necessario, editti e leggi, che siano in armonia con questa Nostra Lettera circolare, e che regolino il canto Ecclesiastico in base alle disposizioni prescritte e stabilite nella presente Nostra Lettera, affinché si dia finalmente inizio alla riforma della musica ecclesiastica. – Questa riforma fu già ardentemente desiderata e sospirata da moltissimi, tanto che, già cento anni fa Giovanni Battista Doni, patrizio fiorentino, scriveva in un suo trattato, De Praestantia Musicae veteris (libro I, p. 49): “Le cose stanno ora a questo punto, che non si trova nessuno che stabilisca una legge severa che proibisca questo canto quasi effeminato e molle, che si è introdotto ovunque; nessuno che veda la necessità di imporre una disciplina a queste melodie affettate, prolisse e spesso aride; nessuno infine che non sia convinto che i giorni di festa solenni, e gli edifici sacri perderebbero celebrità e non sarebbero più frequentati se non rimbombassero per canti molli e spesso poco decorosi, e per la gran confusione di voci e di suoni in gara tra di loro“.

15. Abbiamo detto “se ve ne sia bisogno“, sapendo Noi molto bene che, nello Stato Ecclesiastico, vi sono alcune Città nelle quali vi è bisogno di riformare la musica delle Chiese; e vi sono invece altre Città che non hanno questo bisogno. – Temiamo però, e ne siamo vivamente preoccupati, che in alcune Città, le Chiese e i sacri Altari abbiano bisogno di una necessaria pulizia e del necessario addobbo. In molte Chiese cattedrali e collegiate il canto corale avrà bisogno di essere riformato, e bene, secondo le regole che Noi abbiamo più sopra date. -Se nella Sua Diocesi è necessario, bisogna che Ella metta tutta la diligenza e sollecitudine possibili, per correggere tali abusi. – Volesse il Cielo che in tutte le Diocesi del Nostro Stato i Sacerdoti celebrassero il sacrosanto Sacrifizio della Messa con quel devoto estrinseco decoro, che è dovuto! Che ogni Sacerdote si presentasse in pubblico vestito con l’abito da prete; e, nel decente vestito del corpo, anche con quei modi di fare, con quella modestia e con tutto quel decoro proprio di un Ecclesiastico! – Su questo argomento Noi non aggiungeremo qui altro, avendone già trattato diffusamente nella Nostra Notificazione XIV (§ 4 e 6, libro 2 edizione italiana, che è la XXXIV nella edizione latina), e nella Notificazione IV (tomo 4, edizione italiana, che è la LXXI nella edizione latina): ad esse rimandiamo quanti sono solleciti della disciplina Ecclesiastica. – Terminiamo spronando il Suo zelo sacerdotale ricordandole che non vi è cosa che si manifesti di più agli uomini se le Chiese sono mal guidate e mal governate dai Vescovi, quanto il vedere i Sacerdoti celebrare le sacre funzioni facendo male od omettendo le cerimonie Ecclesiastiche, portando vestiti indecenti, o non adatti assolutamente alla sacerdotale dignità, eseguendo ogni cosa con precipitazione e negligenza. – Queste cose cadono sotto gli sguardi di tutti, si offrono al giudizio sia degli abitanti del luogo come a quello dei forestieri. Scandalizzano specialmente coloro che provengono da regioni dove i Sacerdoti portano abiti convenienti, e celebrano la Messa con la dovuta devozione. – Il pio e dotto Cardinale Bellarmino, non senza lacrime si lamentava: “È pure causa di grande pianto che i sacrosanti Misteri siano trattati in modo così indecoroso, per l’incuria e l’empietà di alcuni Sacerdoti. Costoro che così fanno dimostrano di non credere che la Maestà del Signore è presente. Così alcuni celebrano Messa senza spirito, senza affetto, senza timore e tremore, con una precipitazione incredibile! Agiscono come se non credessero alla presenza di Cristo Signore, e come se non credessero che Cristo Signore li vede. – Dopo alcune altre considerazioni, il Cardinale Bellarmino prosegue: “So che vi sono, nella Chiesa di Dio, molti ottimi e religiosissimi Sacerdoti, che celebrano i Divini Misteri con cuore puro, e con paramenti pulitissimi. Per questo tutti devono render grazie a Dio. Ma anche ve ne sono che muovono al pianto, e non sono pochi, il cui esteriore sordido manifesta le turpitudini e l’impurità della loro anima“. – Noi intanto L’abbracciamo, o Venerabile Fratello, nella carità di Cristo, ed impartiamo, di gran cuore, a Lei ed al Gregge alle Sue cure affidato, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 19 febbraio 1749, anno nono del Nostro Pontificato.

 

DOMENICA XII dopo PENTECOSTE

Introitus
LXIX:2-3
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam. [O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]
Ps LXIX:4
Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.
[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam. [O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, de cujus múnere venit, ut tibi a fidélibus tuis digne et laudabíliter serviátur: tríbue, quǽsumus, nobis; ut ad promissiónes tuas sine offensióne currámus.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, poiché dalla tua grazia proviene che i tuoi fedeli Ti servano degnamente e lodevolmente, concedici, Te ne preghiamo, di correre, senza ostacoli, verso i beni da Te promessi.]


Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III:4-9.

Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

OMELIA I

 [Mons. Bonomelli: Omelie, Vol. III, Torino 1898; Omelia XXV]

“Tal fiducia noi abbiamo per Cristo presso Dio, non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, come da noi; ma l’attitudine nostra è da Dio, il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non della lettera, ma sì dello spirito; perché la lettera uccide e lo spirito vivifica. Che se il ministero della morte, scolpito in lettere sopra le pietre, fu glorioso, a talché i figli d’Israele non potevano fissare il volto di Mose per lo splendore passeggero del suo volto, quanto non sarà egli più glorioso il ministero dello spirito? E veramente se il ministero della condanna fu glorioso, quanto più sarà ricco di gloria il ministero della giustificazione? „ (II. Corinti, 4-9). –

Questi sei versetti noi leggiamo nella Epistola della Messa odierna, e sono tolti dal capo terzo della seconda di S. Paolo ai Corinti. Questa seconda lettera di S. Paolo ai fedeli della Chiesa di Corinto si può considerare come una appendice ed una continuazione della prima, ed una parte non piccola di essa va in difesa personale della sua condotta e del suo apostolato, alternando destramente le lodi ed i rimproveri, i consigli ed i comandi. Dopo aver condonata la pena inflitta allo scandaloso da lui scomunicato nella prima lettera ed esortato i fedeli ad accoglierlo benignamente ed accennati gli incrementi della fede, S. Paolo parla di se stesso, afferma la propria fedeltà nel ministero apostolico, protestando di non lodare se stesso, perché i Corinti stessi colla loro fede erano la sua più bella giustificazione, la lettera più eloquente, che tutti potevano leggere a sua difesa. Qui comincia il brano sopra riportato, che dobbiamo meditare insieme e che non è privo di interesse. Vi piaccia seguirmi colla vostra solita attenzione. – Ve lo dissi più volte, commentando le lettere di S, Paolo, ch’egli dal dì della sua conversione fino alla sua morte, fu sempre fatto segno di feroci persecuzioni: queste gli venivano dai pagani e più ancora dagli Ebrei ostinati, che lo consideravano come un apostata e un traditore. E non era tutto: contro di lui erano pieni di diffidenza, di mal animo e peggio non pochi Cristiani, passati dalla legge di Mose a quella del Vangelo: essi dubitavano della purezza della sua dottrina, lo mettevano in mala voce, come un nemico di Mosè, un novatore, un falso apostolo, in opposizione con gli altri Apostoli, e ponevano grave inciampo alla sua predicazione. Questi sospetti ingiuriosissimi, queste accuse e calunnie, questa incessante guerra di coloro, ch’egli chiama falsi fratelli, affliggevano profondamente la sua grand’anima, e più volte amaramente se ne lagna, come in questa lettera. È un prezioso ammaestramento e conforto per quegli uomini e non pochi, che dai tempi dell’Apostolo furono e sono nella Chiesa, hanno la coscienza di essere suoi figli e suoi ministri fedeli, e non possono cessare le male lingue dei malevoli e degli ignoranti, che li designano come erranti, come prevaricatori o di dubbia fede. Non sarebbe facile trovare un santo solo, massime dei più illustri e posti in alto per l’ufficio, o per l’ingegno, o per le opere, che non abbia sofferto contraddizioni ed anche vessazioni da Cristiani cattolici buoni e talvolta santi. Chi ignora ciò che Origene, S. Giovanni Grisostomo, S. Cirillo di Gerusalemme, S. Cesario, S. Ignazio di Lojola, S. Giuseppe di Calasanzio, S. Francesco di Sales, S. Alfonso de’ Liguori patirono da persone pie e da Uomini santi! È Dio che lo permette per purificare i suoi servi, per tenerli nella umiltà, e certo non vi è dolore più acuto del sentirsi combattuti dai buoni e tenuti in conto di erranti. Quelli che si trovano in questo caso nella vita dell’Apostolo Paolo hanno un conforto ed un modello sicuro da imitare. Ora veniamo al commento della nostra Epistola.

“Noi, così S. Paolo, non alteriamo la parola di Dio, come fanno molti, ma con schiettezza parliamo, in Cristo, come mandati da Dio ed alla sua presenza „ (C. II, 17)… ” e tale fiducia abbiamo per Cristo presso Dio, „ cioè abbiamo ferma ed intima convinzione e persuasione, per la grazia di Gesù Cristo, d’essere sinceri e fedeli annunziatori della divina parola, checché altri possa pensare e dire. E questa attitudine e fedeltà nell’esercizio dell’apostolico ministero, della quale la Chiesa fondata in Corinto è una prova, a chi si deve ascrivere? Di chi ne è il merito? È forse opera tua, frutto delle tue forze naturali, o grande Apostolo? No, no, risponde subito il Dottore delle genti, e con una frase ammirabile riconferma la dottrina cattolica intorno alla gratuità della grazia. Uditela: “Non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, ma la nostra attitudine è da Dio. „ E dottrina di fede, o cari, che senza l’aiuto della grazia divina noi non possiamo fare nulla che meriti la vita eterna: svolgiamo alquanto più largamente questa verità. – Dio Creatore ci ha dato il corpo coi suoi sensi e l’anima colla sua intelligenza e volontà libera, e tutte le cose esterne necessarie od utili a conservare la vita e perfezionare l’essere nostra: tutti questi beni si dicono naturali e costituiscono quello che chiamiamo ordine naturale. Ora avevamo noi qualche diritto, qualche merito, perché Iddio ci creasse e ci elargisse i doni della natura? Nessun diritto, nessun merito, benché minimo: basti dire che non esistevamo nemmeno e perciò nulla potevamo fare. É coi doni della natura, con l’uso della nostra intelligenza, volontà e libertà, con le opere proprie delle sole nostre forze possiamo noi, o cari, meritare la grazia divina, anche nella minima misura? No, mai. La natura colle sue opere non può meritare se non ciò che è naturale, non mai ciò che è sovrannaturale. Ditemi: l’albero selvatico potrà esso mai produrre altri frutti che selvatici? No, per fermo. Volete che produca frutti domestici, copiosi, dolci a gustarsi? Innestatelo e li avrete. Il somigliante accade della nostra natura: abbandonata a sé non da che frutti selvatici, agresti, acerbi: fate che abbia la grazia divina, che la illumina, la eleva, la trasforma: eccovi i frutti di vita eterna. Come senza la natura non potevamo fare cosa alcuna nell’ordine naturale, non pensare, non volere, non operare; cosi senza la grazia non possiamone pensare, né volere, né operare in ordine alla vita eterna. L’occhio senza la luce può esso vedere cosa alcuna? Il campo senza il seme può produrre una sola spiga? Così noi senza la luce della grazia, senza il germe della grazia siamo al tutto impotenti a conoscere, amare e possedere Iddio come si deve. Questa è necessaria a principio, è necessaria a mezzo, è necessaria in fine, necessaria sempre. Prima di fare una cosa bisogna conoscerla, bisogna pensarla; senza conoscerla, senza pensarla è impossibile il farla, voi lo comprendete: dunque prima di amare e servire Iddio e praticare la virtù è necessario conoscere e pensare a Dio, conoscere e pensare la virtù, come è necessario il fondamento per fabbricare. Ebbene S. Paolo ci fa sapere che da noi, con le sole nostre forze non siamo capaci nemmeno d’un primo buon pensiero: Non quod suffieientes simus cogitare aliquid a nobis quasi a nobis; se lo siamo, lo siamo perché Dio con la sua grazia ce lo concede : Sed sufficientia nostra ex Deo est. Questa verità dovrebbe fiaccare il nostro orgoglio, farci sentire il nostro nulla e. costringerci a gettarci nelle braccia della divina misericordia, unica nostra speranza. Vedo io in me alcun bene, qualche virtù? Devo dire: Non è cosa mia, è dono, tutto e puro dono di Dio. S’Egli ritira il suo dono, la sua grazia, tutto si dilegua, ed io cado nell’abisso, come il sasso che la mano dell’uomo lascia cadere nel precipizio. – Seguitiamo l’Apostolo. Tutto ciò che ho, la dignità di Apostolo e l’attitudine ad adempirne le parti tutte, non è cosa, mia: è dono di Dio. scrive S. Paolo: dono di Dio, “il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non secondo la lettera, ma sì secondo lo spirito. „ Non vi è religione, né vera, né falsa, che non abbia il suo sacerdozio e i suoi ministri, come non vi è Stato, sia monarchico, sia repubblicano, che non abbia i suoi magistrati. Abbiamo il vecchio Testamento o il Mosaismo, e con esso abbiamo il suo sacerdozio e i suoi ministri: abbiamo il nuovo Testamento o il Cristianesimo, e con esso il nuovo sacerdozio e i nuovi ministri. E chiaro che il sacerdozio e i ministri della legge mosaica dovevano informarsi allo spirito di quella legge, come il sacerdozio ed i ministri della legge evangelica devono informarsi allo spirito di questa, precisamente come i magistrati civili si devono informare allo spirito della legge, della quale sono interpreti. S. Paolo dichiara, che Dio ha fatto di lui e dei suoi colleghi altrettanti ministri idonei del nuovo Testamento. – E qual è lo spirito del nuovo Testamento e per conseguenza dei suoi ministri? In che sta la differenza tra l’antico ed il nuovo Testamento, tra i ministri di quello e di questo? Eccovela scolpita in due parole con lo stile sì incisivo. dell’Apostolo: “Non secondo la lettera, ma secondo lo spirito: „ Non littera, sed spiritu. L’antica legge mosaica è la lettera, la nuova cristiana è lo spirito. Non era possibile ritrarre più al vivo l’indole dei due Testamenti. – Spieghiamola alquanto. La legge antica o mosaica rimaneva al di fuori dell’uomo, riguardava più il corpo che lo spirito; purificazioni continue del corpo, dei vasi sacri, offerte materiali, continui ed innumerevoli sacrifici, oblazioni, riti senza fine e minutissimi e sotto pene gravissime, e andate dicendo: erano tutti atti esterni, era tutto culto e tutta religione esterna principalmente, che dell’interno quel popolo ben poco si curava, anche perché ben poco ne capiva. La legge, nuova o cristiana va direttamente all’interno, riguarda principalmente lo spirito, esige la purezza del cuore, e senza rigettare, anzi imponendo anche il culto esterno, lo fa servire all’interno, vuole l’ossequio della mente e del cuore, inculca la rinnovazione dell’uomo interiore; insomma proclama, che Dio è spirito e che perciò Dio vuole adoratori in ispirito e verità. Ecco la differènza essenziale tra la legge mosaica e la cristiana. – Ma l’Apostolo chiarisce ancor meglio il suo pensiero con un’altra sentenza, soggiungendo: “Poiché la lettera uccide e lo spirito per contrario vivifica: „ Littera enim occidit, spiritus autem vivificai. Come mai si può dire che la lettera, cioè l’antica legge uccide, e lo spiritò, cioè la legge evangelica vivifica? Lo spiegano i Padri, e tra questi S. Agostino e S. Ambrogio. La legge antica o mosaica si contiene nei cinque libri di Mose, e più particolarmente nel libro del Levitico, che determina le leggi e le cerimonie sacre. Pigliatelo in mano, percorretelo, e voi troverete, che ogni trasgressione ha la sua pena e grave, e assai volte la pena di morte. Chi bestemmia, sia messo a morte: a chi lavora in sabato, la morte: a chi dice ingiuria ai genitori, la morte: a chi commette adulterio, la morte: al falso profeta, la morte, e via via di questo tenore: era, possiamo dirlo, una legge scritta col sangue, e necessaria per raffrenare quel popolo riottoso e di dura cervice. – Pigliate in mano il Vangelo: esso intima ai peccatori ostinati le pene della vita futura, anche eterne, ma neppure una sola volta la pena di morte nella vita presente. Il Vangelo vuole la conversione del peccatore e non la morte, si impone con la persuasione, non colla forza, a dir breve, è legge d’amore e non di timore, di figli, non di schiavi. – In queste due sentenze dell’Apostolo noi abbiamo messa in tutta la loro luce la natura della legge mosaica e della evangelica. Permettetemi una domanda, o dilettissimi. Certo la legge mosaica è cessata, è abrogata, ed a quella Gesù Cristo ha sostituita la sua, la evangelica: ma benché la legge mosaica, la legge della lettera, sia cessata ed abrogata, ditemi, è dessa cessata al tutto nella pratica tra i Cristiani? Duole il dirlo, ma bisogna confessarlo; essa è ancor viva in molti senzachè se ne accorgano. Tali sono coloro, che recitano molte e lunghe orazioni con le labbra e non si curano di accompagnarle con la mente e col cuore: tali sono coloro che osservano le astinenze dalle carni nei giorni stabiliti, che ascoltano la S. Messa la festa, che digiunano anche, ed hanno il cuore e la mente pieni di immondezze, opprimono i poveri, bestemmiano, rubano a man salva, odiano i fratelli, ne lacerano la fama e si reputano buoni Cristiani: tali sono coloro,, che vanno ai Sacramenti, anche frequentemente, e non fanno sforzo alcuno per reprimere le passioni e praticare la virtù, e credono d’aver fatto ogni loro dovere: quelli che abbondano in pratiche religiose, tridui, ottave, novene, benedizioni, prediche, pellegrinaggi e andate discorrendo, e si rifiutano al più lieve sacrificio. per vincere se stessi, per combattere l’amor proprio, per esercitare la carità, regina di tutte le virtù. La religione di costoro è la religione degli Ebrei, degli scribi, dei farisei, tante volte e con frasi sì roventi folgorata da Cristo: è religione tutta esterna, religione del corpo, non dello spirito, che riempie di superbia chi la pratica, tutte foglie e frasche inutili. Carissimi! guardiamoci da siffatta religione, e studiamoci di unire alle pratiche esterne, che sono la lettera, la fede, la speranza, la carità, che sono lo spirito, e allora vivremo. – Ripigliamo il nostro commento. In questi versetti S. Paolo istituisce un parallelo o confronto tra l’antica legge mosaica e la nuova legge cristiana, fra il sacerdozio di quella e il sacerdozio di questa, affine di mostrare la eccellenza del secondo sul primo, e prosegue: “se il ministero della morte, cioè la legge mosaica, sì terribile contro i suoi trasgressori, che spesso colpiva di morte; legge scritta materialmente sopra tavole di pietra, fu gloriosa, massime nel suo. promulgatore Mose, il quale scendendo dal Sinai ne riportò raggiante il volto, sicché il popolo d’Israele non poteva sostenerne la vista, legge ch’era pure destinata a scomparire: se quella legge, se quel ministero, dico, fu glorioso, quanto più gloriosa sarà la legge nuova, il nuovo ministero, che è tutto spirituale e che deve durare fino al termine dei secoli? E non è ancor pago l’Apostolo d’avere magnificato il ministero evangelico sopra il mosaico con sì gagliarde espressioni: egli, nel versetto che segue ed ultimo della nostra lezione, ritorna sulla stessa verità, e con altre parole la ribadisce, scrivendo: E veramente, se il ministero della condanna, cioè se la legge mosaica sì facile alla condanna, alle pene corporee, alla stessa morte, fu nondimeno grande e glorioso, quanto sarà più glorioso il ministero della nuova legge, che cancella i peccati, che giustifica i peccatori, che rigenera le anime e trasforma i figli degli uomini in figli di Dio ed eredi della sua gloria? In altri termini: il ministero dell’antica legge ebbe gran gloria, specialmente nella persona di Mosè, che vide Dio, udì la sua parola e ne riportò sfolgorante il volto: ebbe gran gloria, benché fosse sì severo contro i trasgressori, dovesse finire ed avesse in mira più che la purificazione delle anime quella dei corpi: sé tale fu quel ministero, quanto più glorioso deve essere questo della nuova legge, istituito da Gesù Cristo stesso, che non infligge pene materiali ai trasgressori, sì benigno, sì paterno, che durerà fino al termine dei secoli, e che è ordinato a santificare direttamente le anime? Ebbene: questo è il ministero mio, il ministero, che ho ricevuto, non dagli uomini, ma da Gesù Cristo stesso, e che io ho esercitato in mezzo a voi e continuerò ad esercitare finché abbia filo di vita, come implicitamente, ma chiaramente, innanzi S. Paolo protesta. In sostanza, in queste sentenze e nelle seguenti S. Paolo è tutto inteso a mettere in rilievo la sua dignità e il suo ufficio di apostolo della nuova legge sulla dignità ed ufficio dei ministri della legge antica. – A noi forse può sembrare alquanto strana questa condotta dell’Apostolo, e non ne comprendiamo tutta l’importanza e la necessità. Ma se ci trasportiamo ai suoi tempi; se consideriamo le lotte ch’egli doveva sostenere coi cristiani giudaizzanti, che volevano legare la legge evangelica alla mosaica e restringere il benefìcio della redenzione operata da Cristo ai soli figli d’Israele e chiudere le porte ai Gentili, noi comprenderemo la ragione di queste sì frequenti e sì gagliarde difese, che l’Apostolo fa del suo ministero. Si trattava, non della sua persona, ma della verità, dell’avvenire della Chiesa, che si voleva sottomessa alla Sinagoga, e l’Apostolo, che vedeva tutto il pericolo, leva la sua voce, non risparmia questi apostoli, che, ignoranti o perversi, col nome di Mosè in bocca, ponevano inciampo gravissimo alla fede e turbavano e confondevano le menti dei deboli. – Miei cari, una riflessione opportuna ai nostri tempi, ed ho finito. La Chiesa di Gesù Cristo, dai tempi di san Paolo a noi, ebbe sempre le sue prove e le sue lotte, e le avrà finché sarà sulla terra. Queste lotte variano secondo i tempi, i luoghi, le persone e le circostanze: ora sono intense e feroci, ora più lievi e più blande, ma non cessano mai, ed è nella natura delle cose che durano, e Gesù Cristo apertamente le predisse. L’ombra segue sempre il corpo e le infermità più o meno sono compagne dei sani e robusti; così l’errore cammina sempre a fianco della verità, la insidia e la combatte e gli apostoli di quello non danno mai tregua agli apostoli di questa. Vogliamo o non vogliamo, noi tutti siamo trascinati in questa lotta, che sì fieramente si combatte tra i seguaci dell’errore e quelli, della verità, tra gli apostoli del mondo e quelli di Gesù Cristo. Che fare, o dilettissimi? Noi, per uscirne vincitori, dobbiamo tener sempre fisso l’occhio sulle guide sicure, che ci dà la Chiesa, porgere l’orecchio docile alla loro parola e chiuderlo alla parola di quelli, che si vantano maestri, sì, ma non ci sono dati dalla Chiesa. – I fedeli, al tempo di S. Paolo, come rimasero fedeli alla verità ed al Vangelo di Gesù Cristo? Ascoltando e seguendo il grande Apostolo, che aveva ricevuto direttamente da Cristo la sua missione, e volgendo le spalle a quelli che pur venivano da Gerusalemme e si gloriavano d’essere maestri di verità. Forse saranno stati dotti e valenti, più dotti e più valenti, se volete, di S. Paolo, nelle lettere e nelle scienze umane, la cui parola, egli stesso lo confessa, era incolta e spregevole; ma non dimentichiamolo mai, o carissimi, perché il bisogno è grande anche al giorno d’oggi, la verità della fede non è congiunta per volere Cristo alla scienza, all’ingegno, ai doni naturali, ma è affidata a quelli che tengono la missione da Cristo stesso, ai vescovi in comunione col Vescovo dei vescovi, il Romano Pontefice. Se volete conservare con sicurezza il tesoro della fede in mezzo a questo turbine di opinioni e di dottrine, che mutano sì spesso, non ascoltate quelli che dicono: “Noi siamo con Paolo, e noi con Apollo, e noi con Pietro, e noi con Cristo, „ come si diceva ai tempi di Paolo stesso; ma ascoltate veramente Paolo e Apollo e Pietro, quelli cioè che nella Chiesa hanno l’ufficio di ammaestrarvi e guidarvi, e questi vi condurranno a Cristo, che è la verità stessa. Forse non mai, come al presente, fu sì necessaria l’ubbidienza ai pastori della Chiesa, che stanno uniti col Pastore supremo, perché forse non mai come al presente si cercò di sostituire alla sacra gerarchia l’opinione pubblica, all’autorità, che viene da Dio, l’ingegno e l’autorità umana, all’insegnamento dei pastori legittimi quello dei dottori privati! [Volentieri avrei aggiunto alla parola dei vescovi quella dei giornalisti, divenuti oggimai i maestri e le guide del popolo. Il giornalismo è una necessità nelle condizioni attuali: ma è un pericolo, e parlo del giornalismo che si dice cattolico. Talvolta senza che altri se ne avvedano il giornalismo cattolico (cioè quei preti o laici, che lo dirigono) si sostituisce al vescovo ed esercita una influenza pericolosa, sconvolgendo il principio gerarchico.]

Graduale
Ps XXXIII:2-3.
Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.
[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]
V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur. [La mia ànima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps LXXXVII:2
Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.
[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

.Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc X:23-37
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo?
At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

[In quel tempo: Disse Gesú ai suoi discepoli: Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete. Vi dico, infatti, che molti profeti e re vollero vedere le cose che vedete voi e non le videro, e udire le cose che udite voi e non le udirono. Ed ecco che un dottore della legge si alzò per tentare il Signore, e disse: Maestro, che debbo fare per ottenere la vita eterna? Gesú rispose: Che cosa è scritto nella legge? che cosa vi leggi? E quello: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua ànima, con tutte le tue forze, con tutta la tua mente: e il prossimo tuo come te stesso. E Gesú: Hai detto bene: fa questo e vivrai. Ma quegli, volendo giustificarsi, chiese a Gesú: E il prossimo mio chi è? Allora Gesú prese a dire: Un uomo, mentre discendeva da Gerusalemme a Gerico, si imbatté nei ladroni, che lo spogliarono e, feritolo, se ne andarono lasciandolo semivivo. Avvenne allora che un sacerdote discendesse per la stessa via: visto quell’uomo passò oltre. Similmente un levita, passato vicino e avendolo visto, si allontanò. Ma un samaritano, che era in viaggio, arrivò vicino a lui e, vistolo, ne ebbe compassione. Accostatosi, fasciò le ferite versandovi l’olio e il vino e, postolo sulla propria cavalcatura, lo condusse in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tratti fuori due denari, li dette all’albergatore, dicendo: Abbi cura di questi, e quanto spenderai in piú te lo rimborserò al mio ritorno. Chi di quei tre ti sembra che sia stato prossimo dell’uomo caduto nelle mani dei ladroni? Il dottore rispose: Colui che ebbe compassione. E Gesú gli disse: Vai e fai lo stesso anche tu.]

OMELIA

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Luca X, 23-33]

-Carità-

Di quella carità, ch’è il compimento della legge di quella carità necessaria per la vita eterna, il nostro divin Redentore ci presenta una viva immagine nell’odierno Vangelo. Udite: “Un cert’uomo faceva suo viaggio da Gerusalemme a Gerico, quando all’improvviso vien assalito da masnadieri che di tutto lo spogliano, e ignudo, ferito ed insanguinato lo lasciano semivivo sulla pubblica strada. Poco dopo il crudele assassinio arriva in quel luogo un sacerdote Ebreo, e sul misero impiagato lascia cadere un’occhiata indifferente, e prosegue il suo cammino. Passa indi un levita, e anch’egli appena lo degna di un freddo sguardo e tira avanti. Sopraggiunge finalmente un Samaritano, e veduto il dolente spettacolo, tocco in cuore da tenero senso di compassione, smonta di sella, si adopera intorno al misero languente, lava con vino le sue ferite, le medica con olio, le fascia con bende, l’adatta sul suo giumento, lo segue alla staffa, e lo conduce al più vicino albergo. Qui giunto, lo pone a letto, l’assiste nel resto del giorno, lo veglia la notte, e obbligato dopo a partire per i suoi affari, chiama l’albergatore, gli raccomanda l’infermo, gli mette in mano due monete di argento dicendogli: “provvedetelo di tutto il bisognevole, e se alcuna spesa sarà occorsa di più, al mio ritorno vi renderò soddisfatto.” Ecco un tratto di esimia carità operante, che non risparmia né fatica, né dispendio. È tale la carità dei moderni Cristiani? Se ben si considera, una gran parte di Cristiani ha una carità, che non è carità. A distinguere la vera dalla falsa carità, ci dà S. Paolo in mano la pietra del paragone in quelle sue parole: “Charitas non quaerit quæ sua sunt” (Ad Cor. I; XIII, 5). La carità non cerca il proprio interesse, e se lo cerca, non è più carità. Vediamo come vada intesa la dottrina del santo Apostolo, e di qual sorta sia la nostra carità. – Varie sono le specie di amore, con cui gli uomini si amano vicendevolmente. Amore di amicizia, amore di riconoscenza, amor di genio, amor di concupiscenza. Tutti questi amori non sono carità, perciocché hanno tutti per oggetto e per fondamento il proprio gusto, la propria soddisfazione, il proprio interesse. Oltre a ciò sono amori che non sono durevoli, amori che mancano al mancar del pascolo che li alimenta. Per l’opposto, la carità non cerca sé stessa, e non è soggetta a venir meno; “Charitas numquam excidit”. Io riscontro questi diversi amori in quei metalli, che componevano la statua veduta in sogno da Nabucco. Aveva questa il capo d’oro, il petto d’argento, il ventre di bronzo, le gambe di ferro, i piedi di terra; quando un picciolo sasso, staccatosi dal vicino monte, rotolando venne a dar nei piedi del gran simulacro; ed ecco sull’istante atterrata la statua, e quel che è più sorprendente, tutt’i metalli ridotti in minutissima polvere. Oro è l’amor di amicizia, argento l’amor di gratitudine, bronzo e ferro l’amor di genio, di naturale inclinazione o di altra bassa lega, terra finalmente e fango l’amor di concupiscenza; ma ad incenerir questi amori basta un sassolino, una parola, un motto mal inteso, un gesto mal interpretato, un sospetto, un dubbio, un geloso pensiero: dunque nessuno di questi amori appartiene alla carità, perché la carità ha per carattere di non venir mai meno: “Charitas numquam excidit”. – Di questa falsa carità abbiamo un esempio nel re Saul. Si vide appena comparire innanzi il pastorello Davide biondo nel crine, leggiadro nel volto e robusto nel corpo, tanto che piacque agli occhi suoi. Crebbe il suo genio per lui in sentir la sua abilità in suonar l’arpa: crebbe il suo amore in udire che era pronto a cimentarsi in singolar tenzone col temuto Golia. Bellezza, abilità, coraggio, legano il cuor del regnante ad amarlo: il suo amore fa che lo dissuada dal periglioso cimento, non consente che un inesperto garzone vada contro un gigante agguerrito, che fa spavento alle falangi di tutto Israele: e all’ascoltare che con mano inerme aveva strozzato alla foresta gli orsi ed i leoni, sempre più si aumenta il suo amore; ordina che sia vestito delle stesse sue reali armature: anzi egli di sua mano gli adatta l’elmo alla fronte, al petto l’usbergo. Che dite di tanta degnazione, di tanta benevolenza? Sospendete di grazia il vostro giudizio e la vostra risposta: ritorna Davide vincitor glorioso dalla valle di Teberinto, l’accolgono con canti e musicali strumenti le donzelle ebree, “re Saul, vanno esclamando, ha ucciso mille Filistei, Davide ne ha atterrati diecimila in un sol colpo”. Ohimè! Questa lode ferisce l’animo di Saul, produce un tarlo di gelosia, un verme d’invidia, per cui non lo guarda più di buon occhio. Questo è ancor poco, gli nega in sposa la promessa sua figlia: più, cerca che resti ucciso dall’armi dei Filistei; più ancora, tenta per ben due volte trafiggerlo con una lancia, e non riuscendogli il colpo lo perseguita apertamente come suo singolare nemico sulle più alte montagne. Ecco ove andò e terminare un amor geniale, sensibile, interessato. – Eh! Che la carità è un fuoco che non arde dell’altrui legna, un fuoco che non ha mistura di fumo, la carità è un fuoco tutto semplice, tutto puro che mai non ispegne le sue fiamme quand’anche le molte acque delle umane vicissitudini tentino estinguerlo: “Charitas numquam excidit”. – Questa carità è un amore, al dir dei Teologi, che può chiamarsi amor teologale, perché l’amor del prossimo non si distingue dall’amor di Dio. Questi due amori sono due fiamme, ma d’uno stesso fuoco: sono come le due pupille degli occhi nostri, che collo stesso moto si portano, si fissano ad un sol oggetto. Da ciò ne segue che amando noi il nostro prossimo per amore di Dio, amiamo Iddio nel prossimo, e il prossimo in Dio. Pura allora sarà la nostra carità per l’oggetto che è Dio, durevole per il fondamento che è lo stesso Dio; e siccome in ogni tempo, in ogni occasione siamo tenuti ad amare Iddio, così in ogni qualunque occorrenza dobbiamo amare il prossimo in Dio e per Dio, come immagine del medesimo Dio. – A far ciò meglio comprendere ai men colti, interrogo così: “L’immagine del santo Crocifisso è ella degna di venerazione?” Non vi è dubbio. “E qual ‘è più degno di adorazione: un Crocifisso fuso in oro o in argento, scolpito in legno o in avorio, impresso sulla seta o sulla carta?” Tanto, voi rispondete, la sua immagine in oro, come quella sulla semplice carta; poiché non è la preziosità del metallo o la viltà della materia che dà norma al nostro culto, ma il prototipo, ma la Persona che rappresenta, cioè l’Uomo Dio, Cristo Gesù nostro Redentore. Ottimamente. “Ora, io ripiglio, il nostro prossimo è non una morta, ma una viva immagine di Dio, sia dunque quest’immagine d’oro per il merito, sia d’argento per l’eccellenza, sia di legno per la bassezza, sia di carta per la leggerezza, è sempre immagine di Dio, e sempre degna di amore e di rispetto. Sia dunque il nostro prossimo per noi benevolo o maligno, sia per noi utile o nocivo, piacevole o disgustoso, favorevole o contrario, amico o nemico, egli è sempre immagine di Dio e, come tale in ogni tempo, in ogni avvenimento, meritevole del nostro amore”. – Amava Mosè il suo popolo, di cui era legislatore e condottiero: lo aveva a forza di portenti liberato dalla schiavitù in Egitto, pasciuto e dissetato nel deserto; e pure questo popolo beneficato, oltre il mormorare sovente della sua guida, giunse per fino un dì a dar di mano alle pietre per lapidarlo: e Mosè a tratti d’ingratitudine così mostruosa non cessava di corrispondere con un amore a tutte prove costante. Iddio, Iddio medesimo era così mal soddisfatto di quella gente di dura cervice e di cuore perverso, che voleva abbandonarla al suo furore. Che farà Mosè in vista di un Dio che prende le sue parti, che vuol castigare esemplarmente i suoi oltraggiatori? Che farà Mose? Lo chiedete a me? Chiedetelo al suo cuore acceso d’inestinguibile carità. Proteso innanzi l’Altissimo Lo prega a calmar la sua collera, a rimettere la spada della sua giustizia, a perdonare ai suoi offensori; e trovando in Dio resistenza, mirate a che partito ai appiglia la sua carità: come un che per soverchio amore delira, si abbandona ad una strana enfatica espressione e, “Signore, dice, se non volete perdonare al mio popolo, ingrato è vero e prevaricatore, scancellate il nome mio dal libro della vita”. Di questi sentimenti non è capace se non un cuore infiammato di arditissima carità, come dopo Mosè leggeremo dell’Apostolo Paolo, che per la salvezza dei suoi fratelli desiderava, se fosse stato spediente: “Anathema esse a Christo” (Rom. IX, 3). – A questo modello, Cristiani uditori, è lavorata e somigliante la nostra carità? Ohimè! Io temo, e non vorrei avere ragione di temerlo, io temo che la carità d’una gran parte de fedeli sia simile a quell’amore che comunemente si ha per un albero. Di grazia non vi offendete del paragone. Si ama un albero, o perché ci fa goder l’ombra delle sue fronde, o perché ci ricrea colla vaghezza dei suoi fiori, o perché ci pasce colla dolcezza dei suoi frutti. Ma se poi l’albero stesso inaridisce, quelli che più l’amavano sono i primi ad armarsi di scure, a tagliarlo a pezzi, a gettarlo al fuoco. Quel padre di famiglia era prima un albero, che accoglieva all’ombra delle sue fronde e figli e congiunti e amici e vicini; ora, o per vecchiezza  o per lunga infermità, o per occorse disavventure, ritrovasi come un albero secco, a cui tutti fan legna. Quella moglie finché, come la donna forte, con i suoi lavori, industrie, diligenze fu di sollievo e di vantaggio alla casa, era amata come una pianta fruttifera. Ora che da qualche tempo è confinata in un letto, si riguarda come un aggravio alla famiglia, come una pianta inaridita, a cui e marito e figli e domestici fan sentire i tagli delle loro lingue e dei mali loro trattamenti. Quella serva, finché robusta come una quercia, sostenne per lungo tempo le fatiche di casa e di campagna, era dai padroni ben vista e meglio trattata; ora che à consumata la sua gioventù e la sua vita, divenuta pianta vecchia ed inutile, si abbandona alle fiamme, si caccia fuori di casa, si ha cuore di vederla mendicare per città e finir poi allo spedale. – È forse questa la carità, di cui ci à dato comando ed esempio il nostro Redentore? A rivederci al suo tribunale! Quivi Egli ci domanderà conto rigorosissimo di questo precetto: “questo precetto, dirà Egli, Io l’ho chiamato mio singolarmente per farvi conoscere quanto mi preme che sia adempiuto: “Hoc est præceptum meum, ut diligatis invicem” (Jon. XIII, 12)”. Questo precetto Io l’ho chiamato nuovo, perché è l’apice della nuova legge e dell’evangelica perfezione; come l’avete voi osservato? Doveva osservarsi da voi a norma di quella carità di cui vi ho dato l’esempio: “Ut diligatis invicem sicut dilexi vos”. Io per amarvi non ho cercato in voi né merito, né bontà; vi ho anzi amati in attuale nimistà con Me, e col mio Padre, vi ho amati immondi per l’originale peccato, impiagati per tante colpe attuali, vi ho  amati sconoscenti, ingrati, offensori, nemici, e l’amor mio non è stato un affetto sterile ed ozioso, ma mi ha portato fino a dare per voi la vita, e tutto il sangue delle mie vene. Maggior carità nessuno può avere, che dar la vita per i suoi amici; or che sarà l’averla data per i suoi attuali nemici? Tale fu la mia carità, è questo l’esempio, la regola, la misura della vostra verso dei vostri fratelli”. Regge la vostra carità a questo confronto? Indegni! Amaste i vostri prossimi, ma in essi avete amato il vostro gusto, il vostro vantaggio, laonde in quelli amaste turpemente voi stessi. È stato simile il vostro amore a quel che aveste per il vostro cane che amaste, perché vi faceva carezze, perché vi seguiva alla caccia, perché vi custodiva la casa. Cessato il piacere e l’interesse, il vostro amore si è cambiato in indifferenza, in freddezza, sovente in corruccio e disprezzo, talvolta in odio e indignazione. Or che potete aspettarvi da me, se non i rigori della mia giustizia, come tralignanti dal mio esempio, come trasgressori del miti precetto?” A queste giustissime invettive quale risposta potremo noi dare, quale scusa addurre? – Deh preveniamo, Cristiani amatissimi, il colpo irreparabile d’una sentenza fatale al tremendo giudizio di Dio. Eviteremo questo colpo se la carità sarà diffusa nel nostro cuore, ma quella carità ch’è propria dei figli di Dio. Udite S. Giovanni l’evangelista, predicatore della carità, e ponderate bene le sue parole: “Dedit potestàtem filios Dei fieri” (Joan. I), avranno diritto ad essere computati figli di Dio tutti coloro che animati dalla fede nel santo suo nome adempiono i suoi precetti, “his qui credunt in nomine eius”, tutti coloro l’amor dei quali verso de’ prossimi non avrà per base né l’attenenza del sangue, né l’inclinazione della natura “non ex sanguinibus”; molto meno se sarà fondato sull’avvenenza, sul genio, sull’interesse, su qualche altra passione, cose tutte che, secondo le divine Scritture, vengono sotto il nome di carne, “neque ex voluntate carnis”; neppure sull’umana ragione o sulla mondana prudenza, “neque ex voluntate viri”; ma per soprannaturali motivi avrà Dio per fondamento, avrà per fine Iddio, Iddio, da Cui hanno la vita e la filiazione: “sed ex Deo nati sunt”. – La sola carità, concludo con S. Agostino, è il distintivo dei figli di Dio: “Sola dilectio discernitur inter filios Dei, et filios Diaboli(Ad Rom. VIII). Siate figli di Dio per una vera, pura, disinteressata carità, e sarete eredi del suo beato regno, “si filii, et haeredes”, che Dio vel conceda.

CREDO…

Offertorium
Orémus
Exod XXXII:11;13;14
Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel.
Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo. [Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta
Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Communio
Ps CIII:13; CIII:14-15
De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.
[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.
[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

 

Abbigliamento del Cristiano: Beata Umbelina

ABBIGLIATURA

[G. Bertetti: Il Sacerdote predicatore. S.E.I. Torino, 1921]

1. – Decadenza e abbrutimenti. — 2. Il lusso.- 3. La nudità. — 4. La moda dei Cristiani.

1.- DECADENZA E ABBRUTIMENTO. Da quando il Signore rivestì egli stesso con tuniche di pelli Adamo ed Eva dopo il peccato, venne agli uomini l’obbligo di coprirsi….. Le vestimenta devono esser per noi un continuo ricordo della caduta, della corruzione, della morte…. Semplice e modesto fu il vestire di Gesù, della Madonna, dei Santi….. sfarzoso e procace è il vestire ch’è oggi di moda Segno della decadenza d’un popolo è il lusso.., segno di abbrutimento la nudità..: questi due disordini si sono riuniti nelle mode odierne….. Anche nel tempio santo di Dio penetra talvolta questo abominio…..

2. IL LUSSO. — «Non ti gloriar mai nel tuo vestito » (Eccli. XI 4); « … quanto più splendida appare la donna agli occhi degli uomini, tanto più è dispregiata da Dio » (S. AMBROGIO); … « il lusso del vestire. indica la nudità dell’anima » (S .Giov. CRISOSTOMO)… « perché adornare il corpo e non adornar d’opere buone quell’anima che dagli uomini dovrà esser presentata a Dio in cielo? Perché disprezzar l’anima ed anteporre il corpo? enorme abuso è questo: che comandi chi dovrebbe servire e che serva chi dovrebbe comandare » (S. BERNARDO)… — E questi abbigliamenti sfarzosi «spesso son frutto d’infamia, e di delitto. Le superbe matrone romane si vantavano di portar indosso il patrimonio d’intere province depredate dai loro mariti…. di dove proviene il lusso sproporzionato addirittura alle modeste rendite familiari di certa gente?… E quelle madri che non hanno denari per procurare una cameretta e un letto ai bambini, ma sanno trovar il modo di mandar vestite le ragazze come altrettante reginette?

3. L A NUDITÀ. -Il santo Vescovo Nonno, nell’apprendere il vestire scandaloso di certa Pelagia, proruppe in pianto; domandatone del perché, rispose: « due pensieri m’affliggono; l’uno è la perdita di questa donna e di tante anime da lei sedotte; l’altro si è che io non cerco di piacer tanto a Dio, quanto costei di piacere agli uomini. » Le lacrime del santo Vescovo salvarono Pelagia, che si convertì e divennè santa anche lei. – Potessero le lacrime della Chiesa far rinsavire certe Palagie dei nostri giorni!… – Nè serve il dire che la moda vuol così… Prima della moda c’è il Vangelo…; anche per gli uomini c’è la moda di bestemmiare, di profanar le feste, di non far più pasqua; menate loro buona la scusa della moda? — E neppure si dica che se l’esterno è sfrontato, il cuore è puro…. Credo allo Spirito Santo che dice: « Il vestito, il riso, il portamento ci fanno conoscere chi uno sia» (Eccli. XIX, 27); non credo alle spampanate di certi poeti pagani, i quali si vantavano d’essere immacolati nella condotta e luridi nei versi; non c’è fumo senza fuoco! Ma poniamo pure che, nonostante l’abbigliatura immodesta, siate angeli di costumi … ed il male che fate commettere agli altri?.… e i pensieri, ed i desideri cattivi che suscitate? Il vizio trionfa di più per la l’ingenua galanteria delle donne oneste, che per la sfacciata provocazione delle donne perdute … si badi però che l’onestà voluta da Dio nella donna è qualcosa di molto superiore all’onestà secondo il moderno concetto pagano …

4. LA MODA DEI CRISTIANI. — Con ciò non si vuol dire che i semplici fedeli debbano vestire come i monaci… molto meno che debbano imitare le fogge da strapazzo di certi Santi, che ciò facevano per umiltà e mortificazione… chi vive in società ha il dovere di rendersi amabile e non ributtante … ci furono delle regine e delle principesse che vestirono riccamente e furano sante… le splendide vesti nascondevano però il cilicio … —Vestendo ognuno decorosamente secondo la sua condizione non si tralasci di portar indosso qualche segno di penitenza e di devozione: l’abitino del Carmine… quello del terz’ordine di S. Francesco… la medaglia della Madonna… il Crocifisso……

Leggiamo a proposito la storia della beata Umbelina, sorella di S. Bernardo [da Massini: Vita dei Santi; vol. VIII – Venezia, MDCCLXXVIII]

Beata UMBELINA.

Secolo XII.

Nella vita di S. Bernardo, e negli Annali Cisterciensi sono riportate le virtuose azioni di questa B. Sorella del Santo Abate.

1.- Umbelina sorella di S. Beranardo nacque circa l’anno 1092, e la B. Aletta sua madre, dopo averla offerta a Dio, subito nata, secondo il lodevole costume da lei tenuti in tutti i suoi parti, la nutrì col proprio latte e curò che fosse educata in una maniera, conveniente bensì alla sua nobile condizione, ma cristiana. Le ricordava frequentemente quella verità che stentano tanto a comprendere i Grandi del secolo, cioè: che è molto meglio l’esser povero ma caro a Dio, che l’esser ricco ma senza virtù; attesochè il principale fondamento della vera nobiltà e delle sole ricchezze consiste nell’amore di Dio e nell’esatta osservanza della sua santa Legge. Umbelina vide tutte quelle massime praticate dalla sua piissima madre, e si può credere che le avrebbe seguite ella se avesse avuto il vantaggio di esser istruita più lungo tempo da una sì saggia conduttrice. Ma Dio ritirò da questo mondo Aletta, mentre la sua figliuola era ancor fanciulla, onde i materni ricordi, che a cagione della tenera età poca impressione avevano fatta nel suo animo, si andarono insensibilmente cancellando e cederono il luogo all’amore del mondo, da cui si lasciò talmente signoreggiare che non pareva la sorella di San Bernardo e degli altri suoi virtuosi fratelli. Ma il momento in cui ella doveva imitarli non era ancora giunto; e Dio permise che vivesse qualche tempo secondo il mondo, non solo perché avesse poi occasione di maggiormente umiliarsi, ma anche perché provasse con la propria esperienza quanto siano vani e folli i piaceri mondani che appena giungono a soddisfare per un momento i sensi quando si prendono, e poi lasciano, quando sono passati, un lungo ed amaro rammarico e pentimento.

2- Umbelina, divenuta erede di un ricchissimo patrimonio, lasciatole dai suoi fratelli, che si erano tutti ritirati dal mondo e fatti monaci cistercensi, ad altro più non pensò che a godere del presente, poco o nessun pensiero prendendosi del futuro e dell’eternità. Si maritò con un giovane cavaliere che era stretto parente della duchessa di Lorena, e tutta si occupò nel soddisfare non tanto al genio del suo sposo, quanto alla propria inclinazione per la vanità. Così quella pecorella smarrita, che la misericordia del Signore aveva destinato di richiamare un giorno al suo ovile, andava inconsideratamente preparando a se stessa la materia di un gran pianto e di una lunga penitenza. Ella passò più anni in questa vita mondana e rilassata, e intanto S. Bernardo e gli altri fratelli, amareggiati per la sua mala condotta, facevano continue e ferventi oraziani a Dio per la sua conversione. Si degnò finalmente il Signore di esaudire le loro preghiere, inspirando ad Umbelina il desiderio di andare a rivedere i propri fratelli a Chiaravalle. Il lusso e lo sfarzo dell’abito e dell’equipaggio con cui ella comparve e si presentò alla porrà del monastero, non poteva essere uno spettacolo accetto e confacente a quel sacro luogo, che da tutte le parti spirava modestia e penitenza. Infatti S. Bernardo, avendo saputo che la sorella era venuta carica degli ornamenti del secolo e con un accompagnamento pomposo, si protestò dì averla in aborrimento e in orrore; e riguardandola come una rete tesa dal demonio in pregiudizio dell’anime, ricusò costantemente di abboccarsi con lei. Anche gli altri suoi fratelli, informati della sua venuta e del suo fasto, deplorando la sua cecità, non vollero in alcun modo vederla né parlarle. Ad un tale inaspettato rifiuto, Umbelina si riempì di tristezza e di confusione; tanto più che Andrea, uno dei suoi fratelli, che era più giovane di lei, essendosi accidentalmente trovato alla porta e non potendo sfuggire di parlarle, la riprese fortemente perché fosse venuta in quella maniera tanto contraria allo spirito e all’umiltà di Gesù Cristo; e trasportato dal suo zelo francamente le disse: Con tutti i vostri abiti preziosi che cosa siete voi, se non un sacco di lordura ben coperto? Umbelina pertanto prorompendo in un dirotto pianto, disse al fratello: lo son peccatrice, è vero, ma Gesù Cristo è morto per li peccatori. Per questo appunto io ricorro alle persone dabbene. Che Bernardo disprezzi il mio corpo, io l’intendo, ma non conviene ad un servo di Dio che disprezzi l’anima mia. Venga dunque, parli, comandi; e mi troverà pronta e disposta a far tutto ciò che vorrà.

3. – Riferito a Bernardo quel discorso, andò a trovarla con tatti gli altri fratelli, e dopo averle con dolcezza insieme e con forza parlato della necessità di fu penitenza, le diede utilissimi consigli intorno al metodo della nuova vita che doveva intraprendere; e perché essendo legata in matrimonio non poteva separarsi dal suo marito, il S. Abate le disse che doveva cominciare la riforma e la mutazione della vita dal riseccare affatto ogni superfluità e vanità, ogni sorta di lusso dalle sue vesti e dal suo treno, e dal privarsi di tutti i piaceri, i divertimenti profani del secolo. Le propose per modello da imitare, la vita, della. B. Aletta loro madre che, sebbene facoltosa e nobilissima, era però vissuta sempre con gran semplicità ed umiltà cristiana, e aveva mostrata una particolar avversione alle mode e ai passatempi mondani. Dopo averle dati questi ed altri salutari consigli, S. Bernardo si congedò dalla sua sorella e si ritirò a pregar Dio, acciocché si degnane d’imprimer bene nell’animo di lei tutte le verità che aveva in quei giorno ascoltate.

4. – Umbelina, tornata che fu alla propria casa, eseguì puntualissimamente tutto ciò che le aveva prescritto il S. Abate, e la sua conversione fu a tutti i suoi parenti e cittadini un oggetto di stupore insieme e di edificazione, poiché ciascuno ammirava una dama giovane, nobile e ricca, non distinguersi più dalle altre, se non per la modestia e costumatezza: digiunare frequentemente, orare, vegliare ed osservare un esatto ritiro. Suo marito, lungi dal contraddirla e opporsi a questo nuovo tenore di vita così diverso da quello che aveva tenuto per l’addietro, se ne mostrò contentissimo, e ne ringraziò, e benedisse il Signore; anzi due anni dopo la sua conversìone, liberandola affatto dal giogo maritale, consentì ch’ella si dedicasse interamente al servizio di Dio.

5. – Tostochè Umbelina si vide in quella libertà che tanto bramava, andò a ritirarsi nel monastero di Tulli, che era stato poco prima fondato per le donne per opera di S. Bernardo, e dopo aver ivi abbracciata e professata la vita religiosa, vi passò il resto dei suoi giorni in una continua penitenza. Per l’abbondanza delle grazie che il Signore Iddio si compiacque di spargere sopra di lei, giunse a tal grado di santità che divenne in breve tempo l’ammirazione di tutti quelli che la vedevano ed un soggetto di estrema gioia per S. Bernardo e per gli altri suoi fratelli. Passava sovente le intere notti in recitar Salmi e in meditare la Passione di Gesù Cristo; e quando si sentiva oppressa dal sonno, prendeva un poco di riposo, coricandosi sopra le nude tavole. Era sempre la prima agli esercizi della Comunità, e li faceva con tanto fervore, che edificava le più osservanti e stimolava insieme le più tepide ad imitarla. Visse così per lo spazio di diciassette anni, meritando con quella continua penitenza la corona di gloria, che è prometta a quelli che perseverano nel bene fino al fine. Nella ultima sua infermità accorgendosi le sue compagne che ella andava giornalmente perdendo le forze, e che si avvicinava alla sua morte, ne fecero avvertito S. Bernardo, il quale venne subito a visitarla, e dopo un lungo e tenero colloquio ch’ebbero insieme sopra la divina misericordia, di cui ella aveva provati in se stessa con tanta abbondanza gli effetti, nelle braccia di lui placidamente spirò nel1’anno 1141 della nostra salute, e cinquantesimo dell’età sua. Pare a prima vista eccessiva la durezza e severità con cui S. Bernardo trattò Umbelina, eppure ella fu il mezzo di cui il Signore si servi per umiliarla, compungerla, e convertirla. La carità, dice S. Agostino, usa il rigore e la severità quando lo crede opportuno in benefizio del prossimo, come il chirurgo adopra qualche volta il ferro ed il fuoco, per restituire la sanità all’infermo. Senza di un tal rigore forse Umbelina non avrebbe conosciuto il suo errore, né avrebbe rinunziato a quelle pompe e vanità, che il cieco mondo purtroppo crede innocenti. Quante vi sono anche ai giorni nostri, che menano una vita tutta mondana e tutta voluttuosa, e che non si fanno scrupolo di portare, come in trionfo, il fasto, l’orgoglio, la vanità e l’immodestia fino nel luogo santo e in faccia ai sacri altari. Sarebbe dunque per queste tali un effetto della divina misericordia, se qualche ministro di Dio mosso da quello spirito, da cui era animato S. Bernardo, facesse loro conoscere l’inganno in cui vivono e il pericolo, a cui espongono la loro eterna salute! Oltre l’esempio di un Santo sì illuminato, qual era S. Bernardo, basta leggere il capo terzo del Profeta Isaia per rimanere persuoso quanto dispiacciano al Signore i vani e preziosi abbigliamenti, il portamento altero ed immodesto, ed il lusso delle femmine alle quali per mezzo dello stesso Profeta, Iddio minaccia terribili castighi.

“Et dixit Dominus: Pro eo quod elevatæ sunt filiæ Sion, et ambulaverunt extento collo, et nutibus oculorum ibant, et plaudebant, ambulabant pedibus suis, et composito gradu incedebant; decalvabit Dominus verticem filiarum Sion, et Dominus crimen earum nudabit. In die illa auferet Dominus ornamentum calceamentum, et lunulas, et torques, et monilia, et armillas, et mitras, et discriminalia, et periscelidas, et murenulas, et olfactoriola, et inaures,  et annulos, et gemmas in fronte pendentes, et mutatoria, et palliola, et linteamina, et acus, et specula, et sindones, et vittas, et theristra. Et erit pro suavi odore foetor, et pro zona funiculus, et pro crispanti crine calvitium, et pro fascia pectorali cilicium.” [Is. III, 16-24] [Dice il Signore: “Poiché si sono insuperbite le figlie di Sion e procedono a collo teso, ammiccando con gli occhi, e camminano a piccoli passi facendo tintinnare gli anelli ai piedi, perciò il Signore renderà tignoso il cranio delle figlie di Sion, il Signore denuderà le loro tempie”. In quel giorno il Signore toglierà l’ornamento di fibbie, fermagli e lunette, orecchini, braccialetti, veli, bende, catenine ai piedi, cinture, boccette di profumi, amuleti, anelli, pendenti al naso, vesti preziose e mantelline, scialli, borsette, specchi, tuniche, cappelli e vestaglie. Invece di profumo ci sarà marciume, invece di cintura una corda, invece di ricci calvizie, invece di vesti eleganti uno stretto sacco, invece di bellezza bruciatura.]

S. GENESIO MARTIRE.

Non vi è altro Re, che Gesù Cristo. Questi è quello, che io adoro; e ancorché mi faceste soffrire mille morti, non cesserei mai di adorarlo. Tutti i tormenti non potranno mai togliermi Gesù Cristo dalla bocca, Gesù Cristo dal cuore”

GENESIO MARTIRE.

Secolo III.

[Raccolta di vite dei Santi – vol. VIII – Venezia 1778]

Gli Atti sinceri della mirabile conversione, e del martirio di S. Genesio si riportano nella Raccolta del Ruinart alla pag. 236. Dell’edizione di Verona.

1. La storia dei matririo di S. Genesio quantunque breve, è però assai edificante, e ci somministra un efficace motivo di ammirare sempre più e lodare l’infinita bontà di Dio, il quale alle volte si degna far uso della sua onnipotenza, con dispensare la sua grazia in una maniera insolita, e fuori delle regole ordinarie della sua provvidenza, come appunto avvenne nella conversione, e nel martirio di San Genesio, che si crede accaduto in Roma nel principio dell’Impero di Diocleziano verso l’anno 285. e si rileva da autentici monumenti nella seguente maniera

2. Era San Genesio un capo commediante, e così nemico dei Cristiani, che non poteva udirne neppure il nome senza accendersi di sdegno, e fremere di furore. Insultava tutti quelli, che vedeva mantenersi costanti, e fedeli a Gesù Cristo in mezzo ai tormenti; e non aveva potuto tollerare nemmeno i medesimi suoi parenti, che erano Cristiani. Per eccesso finalmente dell’odio suo contro la Religione cristiana, aveva procurato di prendere per mezzo forfè di qualche apostata, un’esatta informazione dei riti e delle sacre cerimonie, che la Chiesa praticava nel conferire il Battesimo, a quest’unico oggetto di profanare con le sue sacrileghe buffonerie quanto v’è di più santo nella cristiana Religione. Volle indi farne materia di divertimento all’Imperatore Diocleziano, e al popolo Romano, e beffeggiando in pubblico teatro gli augusti misteri del Cristianesimo».

3. Dopo aver dunque bene istruiti gli altri Attori suoi compagni di ciò che dovevano fare, egli comparve sul teatro contraffacendo uno, che fosse infermo, e richiese il Battesimo, ma con frasi ridicole, e proporzionate al luogo, in cui si trovava. Gli risposero i compagni col medesimo linguaggio, e si fecero venire nel teatro altri due istrioni, che facevano la figura l’uno di Prete, e l’altro d’esorcista. Ma che? In quello stesso momento egli fu toccato da Dio il quale operò invisibilmente e in maniera prodigiosa nel cuore di lui la sua conversione. Sembra, ch’egli avesse dovuto dichiararsi immantinente Cristiano, e procurare di ricevere il Battesimo dai ministri della Chiesa nelle solite forme, se avesse potuto, senza continuare la scena incominciata. Ma il Signor Iddio, le cui mire sono di gran lunga superiori alle nostre, volle condurlo per una via straordinaria, e mostrare la santità dei misteri della sua santa Religione, e confondere i suoi nemici con quei mezzi medesimi, con cui essi tentavano di beffeggiarla.

4. Il finto Prete adunque postosi a sedere vicino a Genesio: “A che, disse, figliuol mio, ci avete voi chiamati?” Ed ei rispose, ma con tutta serietà, e sincerità di cuore: “Io desidero dì ricevere la grazia di Gesù Cristo per rinascere in Lui ed esser liberato dalle iniquità, e dai peccati che mi opprimono”. Si praticarono indi le cerimonie, che sogliono premettersi al Battesimo, gli furono fatte le interrogazioni ordinarie, ed egli rispose davvero, e senza emulazione, che credeva tutto ciò, che gli veniva proposto. Finalmente fu battezzato, come si costuma nella Chiesa e nel medesimo tempo si vide discendere dal Cielo un Angelo tutto risplendente di luce, il quale avendo in mano un libro, in cui erano scritti tutti i peccati da lui commessi fino dall’infanzia, lo immerse in quella medesima acqua, in cui era battezzato, e gli fece poscia vedere, che i suoi peccati erano stati tutti da quel libro cancellati, e ch’egli era divenuto più candido della neve.

5. Terminata la funzione del Battesimo, rivestirono Genesio con abiti bianchi, com’era solita farsi dai Cristiani con i novelli battezzati; e poiché tutto ciò nel concetto degli spettatori passava per una buffoneria, si continuò la commedia, fintantoché vennero per ultimo altri Attori travediti da soldati, i quali arrestarono Genesio, come Cristiano, e lo condussero innanzi all’imperatore, contraffacendo essi gli atti e le maniere che praticavano i Gentili, quando presentavano qualche Cristiano al Tribunale degli Augusti. Ma Genesio allorché si trovò davanti a Diocleziano, manifestò francamente la visione che aveva avuta nell’atto di ricever il Battesimo, e protestò di desiderare ardentemente, che tutti riconoscessero, e confessassero, come egli faceva, essere Gesù Cristo il vero Dio, la vera luce, la vera bontà, e l’unico mediatore, per cui noi possiamo ottenere la remissione dei nostri peccati. Stupefatto Diocleziano, e oltremodo irritato per un tal discorso, lo fece tosto caricare di bastonate, e poi lo lasciò in mano di Plauziano, Prefetto del Pretorio, affinché a forza di tormenti lo costringesse a disdirli, e a rinunziare a Gesù Cristo. Plauziano lo fece stendere sull’eculeo, ove fu il «corpo del S. Martire straziato per lungo tempo con uncini di ferro e bruciato in più parti con torce accese, senza però che si potesse mai far vacillare la sua costanza, e la sua Fede, ripetendo spesso quelle parole: Non vi è altro Re, che Gesù Cristo. Questi è quello, che io adoro; e ancorché mi faceste soffrire mille morti, non cesserei mai di adorarlo. Tutti i tormenti non potranno mai togliermi Gesù Cristo dalla bocca, Gesù Cristo dal cuore. L’unico, e il massimo mio dispiacere è di aver aborrito, e perseguitato il suo sacrosanto Nome nei suoi Santi, e di aver cominciato così tardi ad adorare il mio vero Re, perché il mio orgoglio mi impediva di riconoscerlo”. Fu alla fine per ordine del tiranno decollato, e così ottenne la corona del Martirio.Se negli odierni teatri non si mettono più, come una volta, in ridicolo i sacrosanti mister della nostra Religione, non si può negare però, che in quelli anche di presente non si deridano [oggi si fa anche di molto peggio nelle chiese del “novus ordo” -ndr.- ], almeno tacitamente, le principali e fondamentali virtù cristiane, l’umiltà, la modestia, la mortificazione, la pazienza, la dilezione dei nemici etc., esaltandosi, e mettendosi in piacevole vista, e onorevole comparsa l’ambizione, il lusso, il falso, la vendetta, e sopra tutto l’amor profano. E pure quanti Cristiani credono innocenti quei divertimenti, che fomentano il vizio, e le passioni sregolate, e che sono tanto opposti allo spirito di Gesù Cristo? – Preghiamo S. Genesio, che siccome egli con un prodigio straordinario della divina grazia ottenne di esser illuminato, e convertito in un teatro, così impetri a noi con la sua intercessione lume sufficiente per ben discernere i pericoli dei teatri, e quanto sia ripugnante al carattere di vero Cristiano il frequentare simili spettacoli, funesti avanzi del Gentilesimo, e lacci deplorabili delle anime, specialmente dell’incauta gioventù.

Noi Cattolici “pusillus grexG” [leggi “grex Greg. XVIII”] invochiamo S. Genesio per impetrare da Dio la conversione dei tanti teatranti, buffoni, nani, giullari, lacché, tirapiedi, fanfaroni, azzeccagarbugli, baldracche, cortigiane, favorite/i, sodomiti, pedofili, “travestiti” da carnevaleschi chierici, etc. che hanno invaso i sacri palazzi e le chiese dell’orbe per conto della sinagoga di satana manovrata dai marrani, dagli apostati traditori di Cristo e della sua Santa infallibile Sposa mistica, la Chiesa Cattolica, unica arca di salvezza eterna. Preghiamo, poiché ad onta delle apparenze: « … tu, Domine, deridebis eos; ad nihilum deduces omnes gentes… Disperge illos in virtute tua, et depone eos, protector meus, Domine! » [Ps. LVIII; 9, 12]. Che il nostro Signore Gesù Cristo, per intercessione di S. Genesio, ce ne ottenga la grazia! Amen.

 

LA COMMEMORAZIONE DI PIO XII del S. P. GREGORIO XVII

S. GREGORIO XVII:

LA COMMEMORAZIONE DI PIO XII

[Tenuta alla presenza del massone 33° A. Roncalli,

l’antipapa sedicente Giovanni XXIII]

S. S. Pio XII con il Cardinal Siri, suo successore con il nome di  Papa Gregorio XVII

Sono ben certo di interpretare il comune pensiero ringraziandovi per l’insigne esempio che voi ci date manifestando, si può dire ogni giorno, ammirazione venerazione e rimpianto per il vostro antecessore Pio XII [in realtà Gregorio XVII sapeva bene chi era e quale era il vero intento del massone Roncalli, usurpatore all’epoca della Sede Pontificia … – ndr.-]. Ed è tale convinto, affettuoso vincolo di soprannaturale pietà, che vi ha spinto a donare a questa commemorazione il lustro, singolare davvero, della vostra augusta presenza. [si può cogliere la nota sarcastica del “vero” Santo Padre nei confronti dell’usurpatore massone 33° –ndr.- ]. L’esempio che voi, padre santo, ci date ponendo tale cura a che rimanga viva e venerata la memoria del defunto Pontefice, mi pare così preziosa anche perché a pochi uomini accade di ricordare degnamente quelli che li hanno preceduti. Grazie, padre santo. Per quel che mi riguarda debbo dire che solo pensando alla sincerità e forza di questo esempio ho trovato il coraggio di far risuonare l’umile mia voce in tale solenne adunanza. Per questo, fatto sicuro della benignità vostra, ritrovo la gioia di esprimere la riconoscenza che lega i moltissimi di tutto il mondo alla santa memoria di Pio XII. – La odierna commemorazione è promossa con augusto consenso di vostra santità [si legga satanità! – ndr. -] dal benemerito circolo di san Pietro e dalla Pontificia opera di assistenza, per i particolari vincoli che quel sodalizio illustre e quell’ente benefico ebbero con Pio XII; ma è ovvio che, dovendo io parlare di lui, prenda l’avvio da quella più ampia considerazione che la storia deve pure accordare ad un vicario, ad un successore di Pietro. Sento dunque il dovere di leggere, quanto mi riesce nei fatti la grandezza di un Pontificato per poi ravvisare nel Pontificato stesso il valore egregio e non comune dell’uomo, che fu romano, che si chiamò Eugenio Pacelli fino al 2 marzo 1939 e che da quel giorno portò, dodicesimo nella serie, il nome di Pio. – Naturalmente questo farò per la vastità della materia e grandezza del soggetto solo indugiando in qualche linea generale. La prospettiva storica ci obbliga a vedere subito con chiarezza che Pio XII fu Papa durante una guerra, che il suo Pontifìcato ha accompagnato una guerra. Questa fu cruenta fino all’8 maggio 1945 e, da quel giorno, abbandonato l’uso degli strumenti bellici, volse in più ampia anzi universale competizione gli strumenti naturalmente assegnati alle umane relazioni della pace, non disdegnando talvolta parziali ritorni al furore della vicendevole offesa o della distruzione. In realtà, di quella guerra che scoppiò nel 1939, pochi mesi dopo la assunzione di Pio XII al Pontificato, è sancita e non del tutto, a causa di permanenti pendenze, la pace diplomatica; non è certamente fatta la pace spirituale. Esprimo il modesto parere che questo Pontificato non lo si possa “leggere” fuori di quella generale qualifica “che ha accompagnato una guerra”. Mi chiedo allora: ma che significa per un Papa avere accompagnato il mondo attraverso una guerra? Vediamo. I palazzi apostolici divennero il punto di partenza per arginare con svariatissima azione, contenere, umanizzare. La loro naturale fisionomia di essere casa di tutte le genti si avvivò in mille modi. Essi divennero quel tal punto di passaggio, tra i diversi belligeranti, tra belligeranti e non belligeranti, nel quale lo scambio delle notizie volte a lenire infinite ansietà e lacrimevoli miserie, la organizzazione dei soccorsi, riassunse e sviluppò la prima esperienza del 1914. Fu opera grandiosa e qui sono presenti molti fedeli e piissimi strumenti di essa. Però non mi posso arrestare qui. La organizzazione della carità prese in qualche momento un posto preminente. Ciò fu in modo particolare per Roma prima e poi per tutta l’Italia. Il 18 aprile 1944, sorgeva, per volontà del Papa, la Pontificia opera di assistenza: egli dichiarò di fare così “guerra alla guerra” e di imporsi il criterio “che si doveva fare una carità fino in fondo”. In quegli anni tragici 1943-1945 il suo contatto con Roma, alla quale rimane unico vero schermo, divenne più intimo, più semplice, più affettuoso e vibrante nella comune pena. Il 13 giugno del 1943 radunava nel cortile del Belvedere 23 mila oratori come in un grande abbraccio; il 19 luglio seguente era tra il popolo sulle fumanti rovine dei quartieri di san Lorenzo; il 13 agosto era nello strazio del quartiere Prenestìno. La domenica 12 Marzo 1944 concesse una grande udienza in piazza san Pietro: era la folla del terrore, della miseria, della fuga in cerca di un rifugio; sprizzò dalle sue parole la scintilla e i figli si sentirono fusi nella fede e nella fiducia del padre. L’abbraccio alle immense folle restò fino all’ultimo una consuetudine della sua vita. Resisté alla pressione di abbandonare Roma: rimase ed affrontò gli eventi. Il suo rimanere, l’immenso prestigio col quale egli fece da schermo alla città eterna, i suoi interventi consci e decisi, si ha motivo di credere abbiano salvata la città stessa, come furono causa di salvezza per altre città e terre italiane. Il 4 giugno 1944 fu giornata decisiva: il popolo attendeva che il Papa andasse a visitare la Madonna del Divino Amore e la misericordia di Dio fu manifesta: gli occupanti lasciavano Roma senza opporre quella resistenza che avrebbe trasformata la città in un nefasto campo di battaglia. – Pio XII ha accompagnata la guerra, materialmente intesa, ben da vicino: le bombe hanno violata anche la Città del Vaticano. Come le vicende belliche tacquero, tutto fu volto al sollievo delle immense miserie, al ricupero delle giovanissime generazioni minacciate per la scarsità del nutrimento, alla supplenza di un periodo che tutto doveva ricostruire. Per quanto concerne l’Italia fu suo strumento principe la Pontificia commissione di assistenza trasformata il 15 giugno 1953 in Pontificia opera di assistenza, mentre già dal 20 ottobre 1951 era sorta per suo volere la conferenza internazionale delle “Carità cattoliche”, detta anche semplicemente “Caritas internationalis”. – Debbo venire a parlare d’altro: Pio XII ha accompagnato quel periodo di guerra cruenta ed incruenta in ben altro modo, sia nei confronti del mondo, sia nei confronti della Chiesa. Alla base della guerra stavano delle idee, anzi stavano degli errori. È naturale pensare che le guerre scaturiscano da passioni, da appetiti incontenuti e da interessi; ma tutto questo aveva il suo fondamento in errori che fermentavano da secoli per causa di altri errori e che per ragioni non intellettuali erano stati aiutati a fermentare e ad esplodere. La grande trama era orrendamente scavata su linee deformatrici della verità. La vera guerra si germinava là e stava là. Se non si arriva a questo punto credo non si possa capire la nota saliente del Pontificato di Pio XII. Egli ha visto questo. Forse nessuno lo ha visto come lo ha visto lui; da questa visione è nata la sua più grande fatica, la fedeltà ad essa scavando di essa profondissimo il solco e stabilendo una diversa caratura ai diversi impegni. Di questi taluni debbono per necessità storica passare in secondo piano quando un maggiore impegno si impone, lo capiscano o non lo capiscano gli altri che non sono sul ponte di comando della navicella. La fedeltà alla sua tipica missione ha reso eroico Pio XII, siccome dovrò ancora illustrare. – Mi si consenta di ritornare alla affermazione: la trama della guerra stava in errori o, se piace, in carenze di verità. Il fatto va considerato accuratamente perché è quello che illumina Pio XII. Tutti sanno del determinismo biologico figlio, speriamo unico, di quello teologico, del relativismo, dell’individualismo, dell’amoralismo, del criticismo e quelli che conoscono la storia in modo sufficiente da poter risalire per i rami sanno anche dove fanno capo, tanto da avere con impressionante evidenza documentato quanto il mondo paghi col sangue le ferite inferte alla verità di Dio, sia pure espressa soltanto in natura. Gli errori obbligano i fatti ad uscire di strada. Implacabilmente. Gli errori entrano dovunque anche dove non c’è neppure capacità di percepire in modo profondo la sana dottrina, perché hanno due vie insinuanti: quella delle loro metodologie e quella degli stati d’animo. Molte filosofie hanno conosciuto, se non un tramonto, un declino; eppure la loro metodologia si afferma poderosamente. I metodi di pensare e valutare idealisticamente, positivisticamente, esistenzialisticamente sono vivi anche se maneggiati dai più senza alcuna conoscenza del loro fondamento teorico. Gli stati d’animo possono generarsi concependo idee e presentando anche artisticamente fatti secondo quella vibrazione emotiva che è omogenea ad una filosofia — supponiamo — rovinosa e come tali entra in tutti, anche in quelli che nulla sanno di cultura. Ma, una volta entrati, orientano ad agire ed a simpatizzare come se quelle filosofie accettassero e vivessero. È così che gli errori hanno raggiunto una capacità nelle masse tanto incosciente quanto esplosiva. – Tutto questo accadeva ed accade mentre la fretta e la molteplicità degli oggetti offerti in sovrabbondanza alla considerazione di tutti ogni giorno, diminuiscono in tutti la possibilità di approfondimento, di sviluppo logico, di critica e pertanto di difesa. Si ha allora l’errore subcosciente, che è assai più difficile a combattere ed anche solo ad isolare e denunciare, che non l’errore aperto, definito ed espresso con proporzioni pertinenti. – Era dunque duplice l’aspetto negativo della situazione: gli errori fermentanti al disotto della inquietudine degli uomini, ed il modo crepuscolare col quale tali errori agivano ed inquinavano. – In questo soggiacere all’indettamento degli errori, senza averne coscienza chiara e precisa, per essere travolto dagli strumenti che si è creato, sta per il mondo il suo più grande dramma, assai peggiore di quello della guerra cruenta. – L’insegnamento multiforme per il bene delle anime e dei popoli Colui che fu detto “pastore angelico” vide tutto questo. Le pupille gli si dilatarono — lo si è osservato quando benediceva spalancava in croce le braccia e guardava in alto e lontano lontano —, salì idealmente su un podio in atteggiamento concentrato e raccolto, di asceta e quasi eremita proveniente da una lunga considerazione interiore e parlò. Parlò sempre toccando col pensiero vette di verità e abissi di errori, obbligando a dipanarsi questioni che stavano avviluppate e sornione, chiamando in giudizio tutti i fatti sostanziali del nostro tempo per obbligarli ad un tempestivo esame di coscienza, non avendo timori dinanzi alle scienze che salutò ed aiutò nel loro naturale e supremo raccordo a Dio loro Autore; incalzò, perseguì, analizzò, toccò sempre la corda del cuore. E parlò fino all’ultimo giorno in cui resse in piedi. Il giorno dopo l’ultimo discorso di Castelgandolfo Pio XII era alle soglie della morte. Parlare! Per Pio XII parlare era questo. Studiare personalmente portandosi con singolare acutezza in tutte le direzioni. Lo studio di un discorso talvolta durava molti mesi. Se l’argomento eccedeva il campo delle ordinarie discipline familiari ad un ecclesiastico, egli vedeva tutta la bibliografia recente di un determinato argomento, l’ultima che fosse uscita nel mondo. Aveva per questo una sorta di contratto con una organizzazione attrezzata all’uopo. La singolare conoscenza delle lingue gli facilitava il compito dello studio diretto e personale. Parlare una sola volta, per lui era raccogliere un materiale e spesso un ritornare a lunghi impegnativi colloqui — fuori di tabella — con uomini anche di disparate tendenze per acquisire una più completa ed obiettiva informazione. In taluni discorsi era meticolosissima la cura degli stessi particolari tecnici, dovuti non ad esibizione ma unicamente allo scrupolo di documentare obiettivamente l’onesto studio, per manifestare che le considerazioni inerenti ai rapporti colla fede e al giudizio morale non erano né inconsapevoli, né avventati. Per Pio XII il parlare era questo ed era anche qualcosa d’altro: lo dirò appresso. Per parlare impose limitazioni a sé e agli altri; il dovere principale in un momento prevale sui doveri in quel momento secondari. Svolse così una catechesi di una serietà ineccepibile, di un raggio universale, di una concludenza fascinosa. Il silenzio, che amava e lo stesso isolamento, che spesso prediligeva non erano altro che il raccogliersi necessario alla sua catechesi; del resto è ovvio che il serio parlare sia punteggiato dall’altrettanto serio silenzio. E certe caratteristiche proprie di Pio XII hanno la giustificazione nella particolarità della sua missione. – La definizione solenne del dogma della Assunzione della Vergine, per la rilevanza obiettiva, sta al centro del suo compito magisteriale e non sono poche le questioni teologiche e morali, le quali hanno avuto da lui ricchezza di documentazione magisteriale e di precisazione. Mi si conceda però di soffermarmi brevemente su alcuni punti che per il mondo affaticato nel quale viviamo, hanno una particolare importanza. Nel Natale del 1942 rivolse al mondo un messaggio relativo a un ordine nell’interno delle nazioni. Quel messaggio credo rimanga tuttavia il punto di riferimento per quanti in materia sociale vogliano ragionare esattamente e vogliano evitare il pericolo di essere dannosi ai propri simili. Egli aveva avvertito il centro della questione. Che era questo: accettare inconsciamente — siccome ho già detto sopra — sia da parte materialistica che dalla banda opposta l’idea di un determinismo, nel quale gli uomini si sarebbero meccanicamente cambiati verso il meglio, deducendo la logica di quel determinismo a poggiare riforme sociali piuttosto su elementi soggettivi ed anonimi, dimenticando pertanto con nefasta carenza che gli uomini sono liberi e sono persona? Di qui la sovrana indicazione di quel messaggio: strumento delle giuste riforme essere essenzialmente la legge, sia perché è elemento obiettivo sia perché essa si propone agli uomini in modo “morale”, ossia in modo conveniente al rispetto della persona umana. La imponenza di quel messaggio e di quel supremo richiamo ritengo non sia ancora sufficientemente intesa. Non mi meraviglia questo: è infatti proprio dei Papi, vicari di Dio, parlare per i secoli, inserirsi da maestri nella tradizione cristiana e restarvi. Ad essi può dunque benissimo accadere di non essere del tutto ascoltati dai contemporanei, perché la provvidenza ha loro preparato ascoltatori che li seguiranno anche dopo molti secoli. – L’ordine internazionale e la pace dovevano giustamente temere le molte e facili illusioni. Nel radiomessaggio ai governanti e ai politici del 24 agosto 1939 Pio XII affermò che « nulla è perduto con la pace, tutto può essere perduto con la guerra ». Lo stesso anno a Natale trattò — nella allocuzione al sacro collegio — dei punti fondamentali per la pacifica convivenza dei popoli. Nel messaggio del Natale 1940 disse i presupposti essenziali di una pace giusta e duratura, completando questo corpo dottrinale nel Natale del 1941 col messaggio sulle sicure basi per il nuovo ordinamento del mondo. Aveva di fronte il rassegnato cedimento alla ineluttabilità del male, la disonorevole rinuncia alla fiducia nell’intimo valore della verità e della giustizia. Allora il richiamo a valori morali e soprannaturali, nei quali si possono redimere le cose umane, si fa preciso, incalzante, concreto. Egli vedeva, e giustamente, lo stesso danno, diffuso da un cedimento di più secoli, sul valore della persona e sulla capacità di reagire alle avverse fortune: nel Natale del 1943, dovrei dire, cantò la vittoria sulla delusione, e l’attesa della pace. – Quando la stanchezza stessa degli eventi fece presagire forse non lontana la ricostruzione dalle rovine, ne trattò gli strumenti. Cosi nel messaggio natalizio del 1944 dissertò della democrazia nei suoi aspetti e nei suoi strumenti, completando il grande messaggio del 1942. – È proprio dei grandi dolori conferire la capacità di alterare i confini tra la realtà ed il sogno; è nefasto nel reggimento dei popoli che quella alterazione dia avvio a linee e programmi difformi dalla umana natura e dal comportamento naturale della umana società. Pio XII si prese cura di riportare in quel messaggio la questione sul terreno concreto e trattò dei caratteri dei cittadini e del carattere dei responsabili in regime democratico, avvertendo che a questo né si convengono, né mai saranno utili le astrazioni. I problemi sociali sarebbero riapparsi per ragione di ovvia giustizia, ma coi caratteri conseguenti alle immani prove subite: cioè brucianti e frettolosi. Fino all’ultimo riprese il messaggio sociale di Leone XIII, di Pio XI. Fu accanto a quelli che attendevano una migliore promozione ai beni della terra, una maggiore considerazione obiettiva nel concreto della vita civile. Soprattutto, mirò sempre a difenderli dal supremo oltraggio pel quale usandosi la fascinosa proposizione di dare a loro un migliore pane, non si attuasse in verità il disegno di defraudarli della libertà e della dignità umana, fomentando passioni per averne frutti di tirannia sui popoli. La sua voce fu severa e chiara. Non accolse le facili suggestioni della popolarità che inganna; reciso nella giustizia, austero nei doveri maggiori, nelle maggiori responsabilità ammonì a non seguire metodi i quali partendo da false concezioni dell’uomo, l’uomo oltraggiano e non redimono affatto dalla miseria e dall’avvilimento. – Questo insegnamento magistrale è arrivato dappertutto; esso si rifrange per mille raggi su ogni argomento, su errori, su costumi pericolosi, su stati d’animo equivoci, su illusioni facili e seducenti per gli uomini. Ha il carattere dell’universalità ed appare dominato dalla ansietà di tutto raggiungere e per arrivare a tempo. Pio XII avvertiva che le articolazioni di una guerra fredda seguono le articolazioni di idee vaganti; avvertiva non meno che, oltre una guerra fredda tra schieramenti, esiste non meno grave una guerra tra uomini ed interessi. L’ansietà sua di chiarire ed ammonire crebbe cogli anni, anche se negli ultimi anni la sua visione appariva meno preoccupata ed angosciata. Così accompagnò il tempo di questa singolare guerra. Ed il suo insegnamento fu l’asse della sua azione di governo, aperto, unitario, coerente. Le guerre fanno camminare le cose, perché sono fatte di mutamenti. La accelerazione delle esperienze e del progresso, tali da far superare un secolo in pochi decenni non lo sorprese: chi numera le riforme, le possibilità date alla vita religiosa, l’amore all’Azione Cattolica, i ritocchi apportati all’ordinamento liturgico, il respiro della metodologia, il ritmo dei contatti, può rilevare che con lui la Chiesa ha accompagnato il ritmo stesso del nostro tempo. La guerra talune cose ha livellate, altre ne ha svuotate, altre ha spogliate di moto e di ideale, altre finalmente ha ricominciate a vestirne di illusioni. Se ne è disegnata una mentalità, che forse, solo la prospettiva storica permetterà di afferrare. Chi guarda da un punto unitario il multiforme operato di Pio XII si accorge che egli aveva compreso. – La seconda guerra è lo scoppio, per ora ultimo, di una prevalenza materiale sullo spirituale, di un comando che la macchina, creatura degli uomini, esercita ormai sugli uomini, senza risolvere più problemi di quanti ne aggrava. Pio XII parve sfiorare la terra, che toccò solo con gentilezza e carità grandi. Fu colle caratteristiche che tutti videro, col suo riserbo colla sua pietà, mite che poté sfiorare la terra e librarsi sopra di essa, sovra del suo dramma. La Chiesa? La Chiesa è per la salvezza del mondo e rappresenta bene la Chiesa chi sulle orme del Salvatore lavora bene per la salvezza del mondo. Pio XII ne vestì la responsabilità e la gloria, accompagnando il mondo nella sua grande prova. È evidente che nell’ultimo secolo le pagine della storia si accompagnano ai Pontificati e che i Pontificati sono essi a scandirla. Ciò è naturale, se si considera che in ragione della Incarnazione la storia cammina nel senso del regno di Dio e pertanto ne assume di fatto l’incomparabile ritmo. Il clero, le scuole, le scienze, le missioni, le nuove prospettive accolsero di Pio XII l’attenzione impegnata, non scevra di dolorosa preoccupazione, la fatica incessante. L’azione di governo gli impose l’usura di una precisione assorbente. I contatti coi popoli, con tutti, li moltiplicò imponendo ad un temperamento per natura riservato lo sforzo continuo della parola e del tratto accoglientissimo. Era evidente in lui una disciplina imposta per altissimo senso di dovere. Non gli era facile il parlare, nonostante le straordinarie capacità. Scrisse e imparò a memoria: solo negli ultimi anni si rassegnò a leggere, non sempre. In un solo anno tenne 183 discorsi: erano stati tutti diligentemente vergati da lui e detti inappuntabilmente con scrupoloso rispetto dell’esattezza, spesso con sforzo e disagio penosi. Era suo dovere, così pensava. A considerarlo ci si accorge di una grande limatura fatta in se stesso ed attorno a se stesso come se il superfluo del grande servizio a Dio dovesse essere allentato e nulla potesse ingombrare il tempo, la mente ed il diuturno sacrificio. La sua figura fisica ben si acconciava a questa sorta di transumanazione anche esterna, che le innumerevoli genti, passate di qui, comprendevano anche senza saperla analizzare e ricevendone per irradiazione quasi il dono di una divina grazia. Il Papa imponeva a sé limitazioni, che parvero estendersi al di là di lui stesso e che erano un atto di virtù e di fedeltà alla missione, portando con sé, e lo si intuiva, il segreto di un sacrificio, raccolto e penitente. La gentilezza dell’animo, la finezza della sensibilità gli moltiplicarono le pene, gli aggravarono le preoccupazioni, gli resero più dolorosi i timori e le ansietà. La fermezza del pensiero, il nitore del magistero, la forza delle grandi decisioni passavano in lui attraverso questo personale travaglio che trasformarono in purissimo sacrificio non pochi giorni del suo Pontificato. Con tale sacrificio, illuminato dalle caratteristiche della sua natura e dai tratti della sua personalità egli accompagnò la grande prova del mondo e della Chiesa. A lui, per temperamento restio, toccò di stabilire nella carità della dedizione e con una sorta di violenza fatta a se stesso, il più grande contatto che — in ragione dei moltiplicati mezzi tecnici — sia mai stato attuato dai Papi prima di lui. Quello che fece, fece per comprensione profonda, per comprensione lungimirante, soffrendo, ove i limiti si imponevano per sé e per tutti gli altri. La sua radiosa pietà, che lo aveva portato a scrivere e compiere cose grandi nella teologia mariana e nella glorificazione della Vergine Santissima, Assunta in cielo, che lo faceva inginocchiare con chiunque si trovasse nella sua biblioteca privata allorché percepiva il segno dell’Angelus per recitarlo, completò in angelica luce i suoi tratti. – Verso il termine della vita parve crescere una luminosa serenità, come se avesse sentito il profumo di una messe matura e nel messaggio della Pasqua del 1958, l’ultimo dei grandi messaggi della sua vita, additò non solo speranze, ma esultò come chi si trova in cospetto di luminose certezze: contemplò, si direbbe, lo splendore di una aurora. Molti furono stupiti ad intenderlo parlare cosi. – Quella visione di aurora è auspicio e promessa, suggello gioioso della continuità di sacrificio e di vittoria che raccoglie i Papi nella unica indefettibile realtà di Pietro vivente.

Roma, 8 marzo 1959

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (3), capp. III e IV

 

CAPITOLO III.

NASCITA E NOME DEL BUON LADRONE.

Pagano di nascita.— Egiziano di origine. — Particolarità sulle ruine presenti del Latroun nella Giudea. — Citazioni di Quaresime e di Monsignor Mislin. — Testimonianze del Vescovo di Equilium, di S. Agostino, del Vescovo Eusebio, di S. Giovanni Damasceno, di Pietro de Natalibus, del P. Orilia. — Secondo le tradizioni più antiche e più comuni, il nome del buon Ladrone era Dima. — Prove di questa tradizione: l’Evangelio di Nicodemo, il Vescovo di Equilium, Salmerone, Masino, Quaresimo, Pipino, Ravisio, Mauralico, i Bollandisti, Godoffredo di Vandume, Tcofilo de Raynaud, Silveira, il P. Orlila, il B. Simone da Cassia. — Particolarità del Martirologio Romano e decisione della Congregazione dei riti. — In qual modo si ò potuto conoscere il nome proprio del buon Ladrone. — L’araldo della giustizia e lo scritto. — Particolarità storiche.

Sul buon Ladrone, e la sua nascita, il suo nome e la sua vita, come su molti altri personaggi che vi figurano, il Vangelo serba un misterioso silenzio. Ma se non ci illumina il sole, non siamo perciò condannati a camminar nelle tenebre. Alla luce della rivelazione, almeno in parte, supplisce la fiaccola della tradizione. – Prestiamole orecchio. – Sulla Croce, dice S. Giovanni Crisostomo, Nostro Signore parlava ad un uomo digiuno delle sublimi verità della Religione; ad un uomo che non aveva conoscenza alcuna dei Profeti; che aveva passata tutta la vita net deserto a far opere di sangue; che mai, neppur di passaggio, aveva intesa un’istruzione religiosa; ad un uomo che mai aveva letto un brano qualunque della sacra Scrittura. – Come il Crisostomo parla S. Agostino: « Prima della sua crocifissione il Ladrone non conosceva punto il Cristo: se l’avesse conosciuto, forse non sarebbe stato l’ultimo degli apostoli, egli che fu il primo a salire al Cielo. » Lo stesso linguaggio trovasi nella bocca del Vescovo Eusebio: « Prima di montare al Calvario Quest’uomo (egli dice) non conosceva né religione né Cristo. » – Esser nell’ignoranza completa della verità della fede, non conoscer nulla né dei profeti né delle scritture, e non sapere neppure se esistesse una religione ed un Messia; ad un Giudeo di nascita, per abbandonato che voglia supporsi, non pare che possa convenir un somigliante ritratto. – Un altro motivo da crederlo pagano si è che sul Calvario egli era il rappresentante e la figura dei Gentili, come il cattivo Ladrone lo era dei Giudei. « Sulla croce, dice il Crisostomo, i due ladroni furono immagine dei Giudei e dei Gentili. Il ladrone penitente è 1’immagine del gentilismo, che dapprima camminava nelle vie dell’errore, e viene poi alla verità: il ladrone che rimane ladrone fino alla morte, è la immagine dei Giudei. – Fino all’ora della crocifissione eglino batterono di conserva la via dell’iniquità. La croce li separò. » — Da tutti questi indizi possiamo conchiudere che il buon ladrone fosse pagano; né ci pare una tal conclusione forzata. Oltre poi i tratti distintivi del buon ladrone, che si applicano perfettamente ad un idolatra, tutti sanno che la Palestina era circondata da popolazioni pagane. Rimane a sapersi però qual fosse il luogo della sua nascita. Nacque egli nel deserto, in una caverna di masnadieri, o vide la luce in paese abitato? A siffatte domande la tradizione non dà una risposta certa, e solo ci dà notizia dei luoghi in cui dimorava, e che erano il teatro delle sue imprese. Il dotto Quaresmio commissario apostolico in Terra Santa, che ci lasciò due volumi in folio sulla Palestina, descrive in questi termini il viaggio da Jaffa a Gerusalemme. – « Da Rama, ove prendono riposo i pellegrini di Gerusalemme, si dirigano all’oriente verso la santa città. « Da Rama a Gerusalemme si contano pressoché trenta miglia. Tranne la valle di Rama che è fertile, deliziosa e dell’estensione di circa otto miglia, il rimanente della via è di accesso difficile, e non vi si incontrano che montagne e rupi. – « A circa dieci miglia da Rama, a dritta e ad un mezzo miglio dalla strada maestra, si scorge un diruto villaggio sulla cima di un colle. Lassù esisteva già una gran Chiesa, che oggi è quasi interamente distrutta. Quell’ammasso di rovine porta nel paese il nome di Villaggio del Buon Ladrone. Ma non è certo però che ivi egli nascesse. La tradizione ci fa solo sapere che in suo onore fu edificata la Chiesa, della quale ora non si scorgono che le rovine. » – Ecco quanto lasciava scritto al principio del secolo decimosettimo uno dei più accurati storici della Palestina. Ai tempi nostri un viaggiatore non meno autorevole ci prova anche una volta, che nell’Oriente tutto sembra immortale, così le tradizioni, come le rovine.  Al di là di Rama, dice Monsignor Mislin, la strada prosegue per due ore di cammino sopra un terreno sassoso ed ineguale fino alle prime gole delle montagne della Giudea. Là si incontra qualche tugurio abitato, e sulla collina si scorgono le rovine di Latroun luogo della abitazione presunta del Buon Ladrone. Latroun al pari dei castelli di Plans e di Maé, dei quali si vedono appena gli avanzi sulle vicine eminenze, fu distrutto da Saladino dopo la demolizione di Ioppe, di Rama, e di Àscalon. Quelle rovine, il cui aspetto è sinistro come le loro memorie, erano anche pia terribili alcuni anni addietro, poiché servivano di ricovero a banditi, che del Buon Ladrone avevan soltanto seguito la tradizione della vita e non quella del suo pentimento; ma Ibrahim aveva distrutto quei ridotti del brigantaggio, e sotto il suo governo tornata era la sicurezza. Se non che caduta nuovamente quella regione sotto il dominio dei Pascià di Costantinopoli, vi tornarono anche i ladroni di Latroun, e pare anche in buon numero. » [Luoghi Santi, t. I, c. XVII, p. 408]. – A qual razza apparteneva il Buon Ladrone? Era egli Arabo, Sirio, o Fenicio ? La più comune sentenza lo fa Egiziano. « Gli autori che io citava, dice Quaresimo, mi persuadono che egli fosse Egiziano di nascita. Egli dunque non nacque nella Giudea, nel luogo il cui nome richiama la sua memoria. Certo è soltanto che in quel luogo la pietà de fedeli edificò una Chiesa in di lui onore. » – Che Disma fosse Egiziano, uno dei dotti collettori delle nostre antiche tradizioni, il vescovo di Equilio, l’afferma decisamente sulla testimonianza di S. Giovanni Damasceno. « Questo ladro era Egiziano, come vedesi in S. Giovanni Damasceno; e quando Nostro Signore fu costretto a fuggire in Egitto, esso esercitava colà il mestiere di brigante, e coi suoi compagni spogliava i viandanti. » Questa opinione, aggiunge il P. Orilia, pare assai ben fondata per dare la certezza morale che il buon Ladrone fosse Egiziano di nascita. Se egli è così, il ladro del deserto era immerso nella più profonda e crassa idolatria del mondo antico. Adoratore del serpente vivo, del serpente familiare, del serpente dio e re, del dragone di Meteli, del Capro di Mendès, del coccodrillo del Nilo, del gatto, del bue, della cipolla, in una parola adoratore del demonio nelle sue svariate manifestazioni, le une più degradanti e più abominevoli delle altre, ecco qual era il buon ladrone. Dal fondo di questo abisso alla sommità del Calvario, misurate qual è l’intervallo, e conoscerete la grandezza e potenza del miracolo, che in un batter d’occhio fece di un idolatra brigante del deserto un santo. E qual’ era il nome di questo privilegiato della grazia? A siffatta domanda non abbiamo trovata risposta né monumenti anteriori alla fine del secondo secolo. A partir da quell’epoca, la tradizione più comune in Oriente e nell’Occidente, sicuramente fondata su testimonianze oggi non più conosciute, afferma che il buon Ladrone chiamavasi Dima, e Gesta il cattivo. – « Pilato, dice il vangelo di Nicodemo, ordinò che a seconda dell’accusa fatta dagli Ebrei, si scrivesse in una tabella in lettere ebraiche, greche, e latine: Questi è il re dei Giudei Uno dei ladroni ch’era pur crocifìsso, chiamato Gesta, disse a Gesù: « Se tu sei il Cristo salva te stesso e noi. » Dima parlando alla sua volta, lo rimproverò dicendo: « E non hai punto timor di Dio, tu che sei di quelli contro i quali la condanna fu meritamente pronunziata? » [Evang. Apocr. c. ix, p. 243, edit. Brunet.]. – Pietro de Natali, nel suo Catalogo dei Santi ci dà i medesimi nomi. « Al tempo della morte di Nostro Signore – furono arrestati i due masnadieri Dima e Gesta. Condannati a morte, essi furono crocifìssi insieme con Gesù Cristo. » Il dotto arcivescovo di Genova, Giacomo di Voragine, predicando al suo popolo, si espresse così: « Il giovane ladro che persuase i suoi compagni a lasciar passare incolume la sacra famiglia, è il ladrone Dima. » Il sommo teologo Salmerone parla come quegli antichi. Secondo Nicodemo i due ladri si chiamavano Dima e Gesta: erano essi i due più famosi ladroni del loro tempo. » Nella sua Bologna illustrata il Masino scrive. «San Dima, il buon Ladrone, è onorato nella Chiesa dei santi Vitale ed Agricola nella quale si conserva un frammento della sua croce. – Quaresimo è l’eco della medesima tradizione. Egli dice: « Quanto al nome del Buon Ladrone, che è nella memoria del Signore, gli antichi martirologi lo chiamano Dima. Lo stesso nome gli è dato da Guglielmo Pipino e dal Ravisio, i quali lo han pure per Egiziano di origine. » Uno dei predecessori del Baronio nella relazione del Martirologio, il celebre Maurolico, la cui parola è di grande autorità, pone senza alcuna riserva il nome di S. Dima nel suo Martirologio, ed i Bollandisti lo citano senza fare alcuna osservazione in contrario. Il medesimo nome si trova in Teofilo Rainaldo, in Gotofredo di Vendòme, nel Maionio, nel P. Orilia, nel B. Simone da Cassia, nel dotto teologo spognuolo Sylveira ed in molti altri autori. Al 25 marzo, il Martirologio romano, riveduto dall’immortale Baronio, fa menzione del Buon Ladrone in questi termini. « A Gerusalemme, commemorazione del Buon Ladrone che confessò Gesù Cristo sulla croce e meritò di sentirsi dire: Oggi sarai meco in paradiso. » [« Hierosolymis commemoratio sancti latronis, qui in cruce Christum cunfessus ab eo meruit audire: Hodie meeum eris in paradiso. »] – Sulla qual cosa il prudente cardinale fa questa nota, la cui riserva si spiega per la natura di un’opera, come il Martirologio, redatta nel secolo decimosesto. « I più lo chiamano Dima. Ciò nondimeno, siccome un tal nome è tratto dagli apocrifi, pare che avvenentemente e per questa ragione fosse omesso nel Martirologio. Malgrado ciò, sappiamo trovarsi un certo numero di santuari e di altari eretti sotto il nome di s. Dima » Egli è certamente nel medesimo spirito (cioè per prevenire il gracchiare dei protestanti e degli Ipercritici moderni) che Sisto V alla fine del medesimo secolo, e la congregazione dei riti nel 1724, soppressero il nome di Dima, accordando all’ordine della mercede, ed a quello dei Pii Operai la facoltà di recitare l’officio del Buon Ladrone [Vedi Bened. XlV, De canonizat. SS., lib. IV, p. II, c. XII, n. 10]. La medesima concessione fu fatta alle stesse condizioni ai Chierici Regolari di s. Gaetano Tiene. La prudente riserva della Chiesa Romana distrugge forse la tradizione della quale abbiamo ragionato? Non dubitiamo punto di ciò. Ammettendo che il nome proprio del buon Ladrone unicamente siasi tratto dagli apocrifi, tutti convengono che quei libri posseggono un qualche fondo di verità, e ne abbiamo già date le prove. Sul punto poi di cui si tratta presentemente, la verità è molto ben raffermata dall’aver ottenuto dall’un canto, il consenso del più gran numero degli organi della tradizione (plerique dice il Baronio), e per avere dall’altro, senza osservazione o richiamo della Chiesa, dato luogo in diversi paesi della Cristianità, e segnatamente in Italia, alla erezione di sacri edifici sotto il nome di s. Dima, nome proprio del buon Ladrone. E siccome a noi parrebbe temeraria cosa tacciar di leggerezza tanti uomini rispettabili, che di secolo in secolo hanno a noi trasmesso il nome di Dima, questo nome conserveremo nel corso di quest’opera, al glorioso crocifisso del Calvario. D’altronde se riflettiamo agli usi dell’antichità, comprenderemo facilmente essersi potuto sapere con certezza il nome dei due ladroni. Ai nostri giorni, almeno in Francia, si mettono a morte i rei condannati senza pubblicare i loro nomi al momento dell’esecuzione della condanna, e senza affiggerli in appositi cartelli; e nondimeno tutti li conoscono. Anticamente, oltre i dibattimenti giudiziaria v’era un’altra specie di pubblicità più immediata e più solenne. Presso gli Ebrei come presso i Romani, quando il momento dell’esecuzione era giunto, costumavasi di far proclamare il nome del condannato da un araldo che lo precedeva, o di scriverlo a grossi caratteri su di una tavoletta sospesa al di lui collo durante la funebre marcia, ed appesa poi all’istromento del supplizio sul capo del condannato: e questo appunto ebbe luogo a riguardo di Nostro Signore. L’adorabile nome suo fu scritto in tre lingue su di una tabella, la quale o venne fissata sulla croce nell’uscire dal Pretorio di Pilato, e così appesa fu portata da Nostro Signore; o innanzi a lui la portò un ministro della giustizia, nel percorrere ch’Ei fece la via dolorosa. Certo è che giunto il corteggio sulla cima del Calvario, lo scritto fu collocato sulla Croce al di sopra del capo del divino Condannato. Fra i moltissimi spettatori, venuti di fresco a Gerusalemme da ogni parte per le solennità della Pasqua, quanti solamente per quella tabella vennero forse a sapere il nome e le qualità della Vittima augusta? Nella stessa guisa tutta Gerusalemme e tutti gli stranieri accorsi poterono sapere il nome del buon Ladrone, e saperlo con certezza. Quello che ebbe luogo a riguardo di Nostro Signore non era già una singolarità, nè un’eccezione. Come l’abbiamo fatto rilevare, nelle esecuzioni capitali la proclamazione dei nome del condannato o la tabella, o l’una o l’altra cosa, era d’uso comune. L’erudito Giusto Lipsio parlando della crocifissione in particolare ci dice: « Sospeso che fosse il condannato alla croce, si appendeva la iscrizione. E che diceva essa? La causa del supplizio, il delitto commesso… e usavasi portare questa iscrizione avanti al condannato, o obbligare lui stesso a portarla. »  L’asserto di Giusto Lipsio ha per fondamento la storia. Ecco ciò che narra Svetonio di Caligola. « Uno schiavo a Roma in un pubblico banchetto avendo tolta da un letto una bandella dì argento, Caio lo diede sul momento in mano al carnefice con ordine di tagliargli le mani, e appendergliele al collo innanzi al petto, e di condurlo cosi attorno ai convitati, preceduto da una tavoletta che significasse la causa del suo supplizio. » Domiziano imita Caligola, o per dir meglio si uniforma all’uso. Dava quel barbaro imperatore dei giuochi al popolo nel Colosseo. Fra i cento mila spettatori, eravi un padre di famiglia, un veterano appartenente al Corpo dei Parmularii. Codesti erano soldati che prendevano il nome dal loro scudo, chiamato parma. Facendo uso della libertà di cui godevano i soldati romani, egli si permise una facezia nel vedere un gladiatore della Tracia di meschina apparenza, e disse: « Questo Trace è un gladiatore poco degno di chi dà questo spettacolo. » Domiziano prese per fatto a lui lo scherzo, vi trovò un offesa alla sua divinità, e senza indugio lo fece uscire dalla folla, e gli fece appendere al collo un’iscrizione che diceva : Questo Parmulario ha parlato empiamente. Condotto in mezzo al circo fu sbranato dai cani. – I fatti qui narrati non sono già eccezioni da attribuirsi alla personale crudeltà dei due coronati tiranni. Essi erano, lo ripetiamo, conformi all’uso. Non solamente si proclamava il nome del condannato, ma si suonavano campanelli e trombe innanzi ad esso, per avvisarne il popolo. Ascoltiamo Tacito e Seneca. « Allorquando i Consoli, dice il primo, ebbero condotto Publio Marzio fuori della porta Esquilina fecero suonare la tromba, e mettere a morte il colpevole secondo l’uso dei nostri maggiori. » Descrivendo un supplizio, il secondo si esprime così: « Il Pretore sale sul suo tribunale, tutti sono rivolti a lui. Si legano al reo le mani dietro le spalle: gli occhi di tutti sono aperti a mirarlo, su tutti i volti è dipinta la tristezza. L’araldo impone silenzio, pronunzia la formula della legge, e la tromba suona di nuovo. » Cosi praticavasi in tutto l’impero. Giammai un reo condannato conducevasi ai supplizio senza lo scritto, o l’araldo che proclamasse la causa della sua condanna. Di là quel detto volgare. « Il tale ò comparso innanzi al giudice colla tabella. Citiamone ancora alcuni esempi. Sparziano riferisce che Settimio Severo prima di essere imperatore, fu nominato governatore della provincia proconsolare di Africa. Uno dei suoi antichi compagni di studio, del municipio di Lepli, gli uscì incontro accompagnato da fiaccole; e benché plebeo, credé di poterlo abbracciare. L’orgoglioso Proconsole lo fece battere con verghe, nell’atto che un araldo gridava: Plebeo non essere temerario a tal segno da osare di stringere fra le tue braccia un Delegato del popolo Romano. Nella vita di Alessandro Severo troviamo un fatto consimile. Era tra i cortigiani di questo Principe un tal Vetronio Turino, che confidavasi di aver molta influenza sull’imperatore e di ottener da lui ogni cosa che dimandasse. Chiunque aveva da impetrar grazia, o chiedere un impiego, si raccomandava a Turino. Questi prometteva di parlarne all’imperatore, ma non ne faceva nulla. Ciò nondimeno accettava di nascosto larghi compensi per quel supposti suoi buoni uffici. Sotto una forma un po’ diversa, quelle largizioni erano ciò che sono le mance nel secolo decimonono. Alessandro venne in cognizione della frode, e sul momento fece arrestare Turino. Per suo comando il venditore di fumo fu condotto sulla pubblica piazza chiamata Foro Transitorio, e sospeso ad un trave o croce semplice, a pie della quale si dà fuoco a della paglia o legna umide. Nell’atto ch’egli era così soffocato, un araldo gridava: « Si punisce col fumo chi ha fatto mercato di fumo. » Un rescritto imperiale di Severo e di Antonino si esprime così: « Chiunque avrà spergiurato pel genio del principe, sarà battuto colle verghe, e gli sarà gridato: Impara a non spergiurare. » Tertulliano fa parola dell’uso medesimo praticato a riguardo dei Cristiani; e numerosi fatti confermano la testimonianza dell’illustre Apologista. Eccone soltanto due fra tanti. Nel racconto del martirio di S. Agnese, S. Ambrogio dice: « Il Giudice ordinò che la fosse condotta al lupanare accompagnata dall’araldo della giustizia che gridava: Agnese, vergine sacrilega, colpevole di bestemmie contro gli Dei, condannata al lupanare. » La città di Lione, in quella fiera persecuzione che la inondò di sangue cristiano, fu testimone di somiglianti spettacoli. Uno dei suoi più gloriosi martiri, Attalo, fu fatto passeggiare per tutto l’anfiteatro preceduto da una tabella nella quale leggevasi: « Costui è Attalo Cristiano. » La iscrizione dei nostri Padri generalmente era questa: « Nemici degli imperatori e degli Dei: Imperatorum et Deorum inimici. » – L’immobile o tenace Oriente nulla ha cambiato all’antico uso. Preceduti tuttavia da una tabella scritta vanno al martirio i nostri Missionari del Tonchino, della Concincina, o della Corea. Nel Seminario delle Missioni straniere a Parigi, possono vedersi alcune di siffatte tabelle, su cui sono impressi i nomi, e la cagione della loro condanna. Citeremo quella di Schaoftler martirizzato il 1 maggio 1851. Pochi passi innanzi al confessore della fede un soldato portava in alto, a guisa di stendardo, una tavoletta, nella quale leggevasi scritto a grossi caratteri: « Non ostante la severa proibizione emanata contro la religione di Gesù, il signor Agostino, prete europeo, ha osato venir qui clandestinamente a predicarla e sedurre il popolo. Arrestato egli confessò tutto, e il suo delitto è patente. Il signor Agostino abbia reciso il capo, e sia questo gettato nel fiume. » Nel 1806 noi troviamo l’ uso medesimo in Corea. Il giovedì 8 marzo, i quattro martiri Monsignor Berneux, i signori de Bretenieres, Beaulieu e Dorie, furono tratti dalla prigione, e posti a sedere sopra una lunga sedia portata da due uomini; avevano mani e piedi legati ai pioli della detta sedia, e la testa elevata perché anche i capelli erano attaccati. Andavano essi alla morte guardando il cielo, ove tra poco erano per essere coronati. Al di sopra del loro capo era fissa una tabella, sulle cui due facce leggevasi questa sentenza: « Ribelli e contumaci, condannati a morte dopo di aver sofferto molte torture. » Due giorni appresso, il 10 marzo, si ebbe altro simile spettacolo. Un carro sul quale è innalzata una croce, si ferma innanzi alla prigione dei martiri. Se ne fa venir fuori il venerabile Pietro Tjoi, e viene attaccato alla croce. I suoi piedi posano sopra uno sgabello, le sue gambe sono legate all’albero della croce, le sue braccia distese su quella, ed i suoi capelli annodati ad un travicello che sormonta lo strumento del supplizio. Al di sopra il capo, si legge la sentenza di morte. Quanto praticavasi presso i romani, e si pratica tuttavia presso i differenti popoli di Oriente, invariabilmente era in uso presso gli Ebrei. L’iscrizione era una lezione data al popolo, affinché tutti fossero ammaestrati dall’altrui sventura. Al pari di Nostro Signore ebbero anche i due ladroni nel Calvario la loro iscrizione? Tutto ci porta a crederlo; ma checché ne sia, le particolari notizie di quest’uso che abbiamo raccolte, mostrano per qual via si poté conoscere il nome proprio del buon Ladrone, e danno un buon fondamento alla tradizione, che ce lo ha trasmesso.

CAPITOLO IV.

VITA DEL BUON LADRONE.

Suo padre era un capo di masnada.— Il buon Ladrone nacque in mezzo ai ladri. — Crebbe in mezzo ad essi. — Commise tutti i delitti soliti a commettersi dai briganti. — Testimonianze di Feste, di S. Ambrogio, di S. Crisostomo, di S. Leone e del Vescovo Eusebio. — Fu omicida del proprio fratello.—Passi di S. Eulogio e di S. Gregorio Magno. — La crocifissione, prova della sua estrema colpabilità. — Uso della crocifissione presso i pagani; esempi citati dagli storici dell’Oriente e dell’Occidente. — Dima ladro di strada per trenta o quarant’anni.— Giudicato, dicesi, a Gerico, e condotto a Gerusalemme per dare maggior pubblicità al suo supplizio. — Particolarità  sulla sua prigione.

L’acqua che scaturisce da sorgente fangosa potrà ella esser mai limpida? L’albero, la cui radice è guasta potrà egli dare frutti sani e saporosi? Se la prima divien chiara e cristallina, ed il secondo senza punto risentire della natia infezione, darà frutti eccellenti, sarà questo un miracolo della natura. Nell’ordine morale avviene il medesimo. Quale è il padre, tale è il figlio: e nella sua generalità il proverbio è vero. Il contrario non è che l’eccezione; e l’eccezione conferma la regola. Vogliamo noi sapere qual si fosse il Buon Ladrone? Vediamo qual ne fosse il padre. Era costui un capo brigante: Princeps latronum. Nei diversi stati sociali, nel militare a cagion d’esempio, si giunge ai gradi superiori per il sangue freddo, il coraggio e le generose azioni, non che per provata scienza dell’arte della guerra. Come lotta di banditi contro la società, il mestiere di brigante non fa eccezione. Per divenire capo brigante, le qualità richieste sono l’astuzia e l’abilità nel concertare il delitto, l’audacia e la forza che non esitano di venire alla scalata delle mura e all’atterramento delle porte: la cupidigia e la crudeltà che ha per cose da nulla 1’omicidio, il saccheggio e l’incendio. – Un capo di briganti deve essere un eroe del misfatto. La ragione lo dice, e la storia lo conferma. Tal era il padre di Dima; ed il figlio fu degno del padre. Le notizie che la storia profana ci ha tramandate intorno ai briganti della Palestina al tempo di Gesù Nazareno, ci permettono di asserire come cosa verosimile che Dima nascesse in una spelonca di ladri. Dall’un canto noi vedemmo il capo di masnada Eleazaro, sfidare i gendarmi di quel tempo, ed anche interi corpi di truppe romane, e tenere per venti anni in un continuo allarme il paese. Ben si comprende ch’egli ebbe il tempo di ammogliarsi e di aver figli. Dall’altro pare che s. Giovanni Crisostomo senza ambagi asserisca che la culla del buon Ladrone fu una caverna di ladri. « Quest’uomo, egli dice, non aveva mai conosciuto che le lande del deserto: Omne tempus in desertis loci transegerat » Checche ne sia della nascita di Dima, il testo da noi citato ci fa sapere che fu educato in mezzo ai ladri, e da ladri. Lo sciagurato giovane non conobbe gli altri uomini, se non pel male che vide far ad essi, o ch’egli stesso fece loro; ed ebbe certamente occasione di farne. Tale è la testimonianza della tradizione, della quale si fecero interpreti i Padri della Chiesa. Da principio la sua professione lo forzava a mal fare. – Por vivere faceva d’uopo rubare, e per conseguenza assaltare, ferire, ed al bisogno, uccidere. Per propria difesa bisognava commettere i medesimi attentati. Per fare delle rappresaglie, nel caso di un colpo fallito, era necessario ricorrere agli stessi, ed anche a più odiosi mezzi. Si può aggiungere anche il desiderio di mostrarsi degno figlio del padre; un certo stimolo dì amor proprio onde distinguersi tra i suoi compagni; in fine, il bisogno di ispirare un gran terrore per meglio riuscire. Siffatte condizioni, la cui realtà è facile a comprendersi, erano per Dima altrettanti incentivi a perfezionarsi nella scelleratezza: senza di che non si è un buon Ladro, e soprattutto ladro di professione e di pubblica strada. – Dima era stato educato a troppo buona scuola per non comprendere tutto questo. Al dire di s. Ambrogio, egli visse ed invecchiò nell’abitudine dei più gravi delitti. Lo confessò egli stesso, o su di se attirò la spada della giustizia. E quali erano i suoi delitti? S. Leone e s. Giovanni Crisostomo ne riferiscono alcuni. Assalti a mano armata sui viandanti; invasioni con rottura di porte; omicidi, e tutto ciò che la perversità può ispirare di più iniquo contro la vita e le sostanze altrui. Come lo star nella tomba conduco i corpi alla putrefazione, così la lunga abitudine del delitto aveva tutte guaste e corrotte le facoltà dell’anima sua. A tanti misfatti s. Gregorio Magno e s. Eulogio ne aggiungono un altro che li sorpassa tutti; ed è il fratricidio. « Dolce cosa ella è, dice il primo, fermare lo sguardo su questo ladrone, che dall’abisso del delitto ascende sulla croce, e dalla croce al paradiso. Vediamo qual egli arriva al patibolo, e quale ne parte. Egli viene reo del fraterno sangue, e tutto cosperso di altro sangue; ma sulla croce la grazia interiore lo trasforma. – Colui che aveva dato la morie al fratello, esalta e glorifica la vita del Signore moribondo con queste fiduciose parole: Sovvengati di me quando sarai nel tuo regno » – E S. Eulogio dice : « Quale ostacolo fu mai per il ladrone del Calvario l’esser asceso sulla croce macchiato del sangue di suo fratello? Per quali miracoli poté segnalarsi nelle angosce della morte? Questo uomo aveva, per così dire, consumata la sua vita in azioni da brigante, in furti e rapine. Ciò nondimeno un solo istante di pentimento non solamente lo giustifica da quel gran misfatto, ma lo rende pur degno di accompagnare il Redentere, e di entrar per il primo nel cielo, giusta la promessa dello stesso Signore: Oggi sarai meco in paradiso » Quest’ultimo delitto del fratricidio, dico più che qualunque altro discorso. Colui che, misconoscendo i più sacri legami, non dubitò di bagnarsi le mani nel sangue di suo fratello, di che mai non fu capace? Laonde per caratterizzare d’un solo tratto il novello Caino, il vescovo Eusebio lo chiama insigne scellerato, uomo tutto ravvolto nelle iniquità. – Infine, le testimonianze de’ Padri sono solennemente confermate dal supplizio, al quale Dima fu condannato. La crocifissione era il più crudele ed il più ignominioso di tutti i generi di morte. « È delitto, dice Cicerone, legare un cittadino romano; scellerata cosa il batterlo colle verghe; quasi parricidio il metterlo a morte. E che dirò io del crocifiggerlo? Supplizio crudele, il più atroce d’ogni altro: io non trovo parole per qualificare una simile iniquità » – S. Giovanni Crisostomo fa osservare che per disonorare Nostro Signore, gli Ebrei lo vollero condannato al supplizio della croce, « In vero, egli dice, la morte sulla croce è una morte obbrobriosa, infamante; morte crudele, e la più crudele di tutte le altre; maledizione presso gli Ebrei, e abominazione pei Gentili. » Per tal motivo in tutta l’antichità questo genere di morte era riservato a ciò che v’era di più vile, e di più criminoso. Tacito lo chiama « il supplizio degli schiavi » servile supplicium. Ora nessuno può ignorare che presso gli antichi nulla v’era di più vile di uno schiavo. Ed anche meno che vile, esso non era nulla: Non tam vilis, quam nullus. « Asiatico che era uno schiavo reso libero, dice quello storico, espiò col supplizio degli schiavi l’abuso che aveva fatto del suo potere. » In Giovenale noi vediamo una donna romana che dice: « È uno schiavo, crocifiggilo. » All’occorrenza di una congiura di schiavi, così narra Dionigi di Alicarnasso: « Tosto gli uni furono strappati dalle case, gli altri arrestati nelle pubbliche piazze, e tutti crocifissi. » Capitolino ci narra di Macrono che, per far onta ai soldati si permetteva di farli mettere in croce, siccome schiavi. – Nella vita di colui che si volle chiamare il Divino Augusto, e del quale parecchi scrittori lodano ancor la clemenza, si trova un tratto che mostra qual peso delibasi dare agli elogi resi a certuni: ed il fatto storico del quale ci occupiamo lo prova. Dopo la guerra di Sicilia, il dementissimo Ottavio fece ricerca degli schiavi che in quella avevano combattuto. Quelli, dei quali si trovarono i padroni, furono ad essi restituiti; gli altri furono crocifìssi; ed erano sei mila. – Tito all’assedio di Gerusalemme, Tito la delizia dell’uman genere, nello stesso modo diè prova della bontà dell’animo suo e del conto che faceva degli Ebrei. Giuseppe, testimonio oculare, lasciò scritto: « Durante l’assedio, Tito in ciascun giorno fece crocifiggere cinquecento Ebrei e più: e per la gran moltitudine, mancava lo spazio alle croci, e le croci a tanti corpi. » – Dopo gli schiavi, nulla v’era di più vile dei ladri di pubblica strada. Si aggiungeva al disprezzo l’orrore, ed il supplizio della croce esprimeva questi due sentimenti. « Parve conveniente, dice il codice penale dei Romani, che i masnadieri famosi fossero crocifìssi sui luoghi stessi ne’ quali avevano esercitato il loro brigantaggio. » Riassumendo tutta la legislazione criminale degli antichi, il dottissimo P. Lamy si esprime così: « Il supplizio degli schiavi, dei briganti, degli assassini, dei sediziosi, era la croce. Eglino vi rimanevan appesi fino a che morissero di fame, di sete, e di dolore; e dopo la morte, eran fatti pasto dei cani, e dei corvi. – Così presso i Romani non v’era supplizio più crudele e più infame. » Qui faremo notare un miracolo non abbastanza rivelato, ed un uso tuttavia praticato, del quale pochi sicuramente sanno il significato. Quanto la croce era una cosa ignominiosa, o mal compresa nell’antichità pagana, altrettanto, dopo l’avvenimento del Calvario, è essa un simbolo sacro, eloquente e glorioso presso i popoli cristiani. Fra mille altri segui di rispetto, gli antichi imperatori nei pubblici atti apponevano sempre una croce innanzi alla loro firma. Questa era l’autentica sacra di ciò che intendevano dire. In prova della verità di loro parole, i vescovi han ritenuto quest’uso. Sempre, ed anche oggigiorno, coloro che non sanno scrivere, si sottoscrivono con una croce. Egli è questo un atto di fede nelle scritture pubbliche. – Né soltanto per punire i famosi malfattori si usava il supplizio della croce; ma altresì per dare un gran risalto alla loro punizione, e per produrre sulle moltitudini una durevole e profonda impressione. Per tal ragione Dima, uno dei più famigerati briganti del suo tempo, aveva diritto alla crocifissione. Noi dicemmo un’impressione durevole, perché tranne presso gli Ebrei, era uso comune di lasciar sulla croce i corpi dei giustiziati fino a che fossero divorati dagli uccelli di rapina, o putrefatti cadessero a brani. Col medesimo intendimento di vilipendere il condannato e d’ispirar terrore, vediamo la crocifissione praticata in alcune solenni occasioni, le quali ci fan risovvenire un avvenimento di data recente. Il mondo civilizzato dai Cristianesimo fu compreso di orrore alla notizia del tragico fine dell’imperatore Massimiliano. – Facendo fucilare quello sventurato principe, il selvaggio Juarez fece di bel nuovo ciò che solevano fare i Pagani a riguardo delle teste coronate. Quando essi volevano sfogare il maltalento e l’odio loro, atterrire le moltitudini e coprire di vergogna un re, o un qualche illustre personaggio, lo crocifiggevano. Tal fu l’intendimento del barbaro Messicano. Per mezzo del suo luogotenente Escobedo, non dubitò egli di notificare al mondo intero l’iniquo attentato. « Con l’uccisione di quei capi dei traditori, ho posto il terrore all’ordine del giorno. » Non altrimenti la pensavano gli antichi pagani. Sul conto degli Egiziani, Tucidide narra che avendo essi, come Juarez, arrestato a tradimento il re Inaro, lo crocifissero. Altrove noi vediamo Àgatocle condannato a morte, e talune matrone crocifisse per vendicare Euridice. Presso i Cartaginesi, i più illustri personaggi della repubblica, i generali dell’esercito, colpevoli di aver riportato anche vittoria operando in contrario alle istruzioni del senato, erano senza pietà condannati al supplizio della croce. Finalmente Plutarco e Quinto Curzio ci fan sapere che Alessandro non si mostrò men crudele di Augusto, di Tito, e degli altri, poiché fece crocifiggere il medico Glauco, e buon numero di bravi soldati, colpevoli di aver valorosamente protetta e difesa la città che ad essi era stata confidata. Riserbato egli stesso al supplizio della croce, e come brigante di professione, e come masnadiere famoso, Dima aveva colmata la misura dei suoi misfatti. Àmmettendo, secondo la tradizione, ch’egli fosse nel primo fiore degli anni, quando incontrò la sacra Famiglia, avrebbe egli passato trenta o quarant’anni della sua vita nel brigantaggio. Quindi è che all’ epoca del supplizio era tra i 50 e i 60 anni di età. Istrumento della divina giustizia doveva pure la giustizia umana aver la sua parte. È questa una legge invariabile, senza la quale non potrebbe la società umana sussistere. Se in questo mondo ancora il delitto andasse sempre impunito, la terra diverrebbe un teatro di sangue, ed il genere umano una mandria di lupi, che si sgozzerebbero fra loro. Egli è vero che, per un altro motivo, spesse volte la giustizia divina è lenta a punire; ma ben sovente compensa l’indugio colla severità della pena. Dima ne fece la prova. Fortunatamente per lui, che alla giustizia tenne dietro la misericordia. La tradizione non ci ha fatto conoscere come e dove cadesse nelle mani della giustizia. Si crede che l’arresto di lui avesse luogo nelle vicinanze di Gerico, e ch’egli ed i suoi compagni fossero giudicati in quella città. Ma certamente per disposizione di Pilato, furono condotti a Gerusalemme, per darvi lo spettacolo del loro supplizio nella ricorrenza della Pasqua. Questo era il mezzo di dare la più gran pubblicità alla loro punizione, e di rassicurare così le popolazioni, facendole assistere alla morte di quelli, che per lungo tempo erano stati per loro di tanto terrore. Non occorre dire che i due masnadieri furono caricati di catene e gettati nelle tenebre di un’orrenda prigione. – In Gerusalemme erano le carceri nei sotterranei del palazzo di Erode, poco lungi dal pretorio di Pilato. In esse erano custoditi i grandi malfattori rei di delitti capitali; per attendervi il loro supplizio. Noi dicemmo orrenda la prigione, nella quale Dima fu rinchiuso, perché tali erano tutte le prigioni degli antichi: ergastoli oscuri, umidi sotterranei, con porte di ferro, nei quali gli sciagurati con catene ai piedi, e la persona attaccata pel collo al muro con un anello, soffrivano torture non meno crudeli della morte. Se voglia aversene un saggio, non si ha che a visitare in Roma il carcere Mamertino. – Quel che le prigioni erano allora, Io sono ancora oggidì presso i Turchi, i Cinesi, n gli Annamiti, insomma ovunque non è tollerato il Cristianesimo. La sola legge di carità ha mitigato il rigore della carcere, e addolcita la sorte dei prigionieri. Quanto tempo rimase Dima nel carcere? La tradizione non lo dice: essa soltanto ci lascia presumere quanto egli ci abbia sofferto.