RICORDANDO LE APPARIZIONI DI FATIMA!

RICORDANDO LE APPARIZIONI DI FATIMA!

[ da: ATTUALITA’ DI FATIMA: Città della Pieve, 1953 -imprim.-]

FATIMA! Il più grande avvenimento religioso della prima metà del secolo ventesimo; l’esplosione irrompente del Soprannaturale in questo mondo rinchiuso nella materia (Claudel); il grande Miracolo del Cuore Immacolato di Maria; il misericordioso intervento del Cielo nella paurosa crisi che travaglia il mondo (Card. Cerejeira); òasi benedetta, impregnata di soprannaturale, dove più vicino si sente battere il Cuore Immacolato di Maria, nella sua immensa materna sollecitudine per l’umanità (Pio XII).

E’ Fatima un modesto villaggio della diocesi di Leiria, sperduto in uno dei contrafforti della Serra d’Aire, quasi nel centro geografico del Portogallo. Completamente sconosciuto fino a ieri; oggi celebre in tutto il mondo, dopo che la Regina del cielo l’ha scelto a teatro delle sue meraviglie, donde, incoronata Regina Mundi, se ne è andata in visita di ispezione a tutti i suoi domini. « Al suo passaggio in America come in Europa, in Africa o in India, nell’Indonesia e nell’Australia si moltiplicano le meraviglie della grazia in modo tale, che a stento possiamo credere a quanto vedono gli occhi » (Pio XII, Radiomessaggio del 13-X-51). Rammentiamo sommariamente la storia, quale ce la raccontano i migliori documenti. (Quali sono: La Relazione stesa dal Parroco Rev. Marques Ferreira, in cui raccoglie gli interrogatori dei veggenti e di altri cospicui testimoni, fatti subito dopo le singole apparizioni. Il Rapporto della inchiesta fatta dal Vicario di Porto de Mòs, Rev. /. Vieira da Rosa, il 25 ott. 1917, relativa, mente al fenomeno solare: deposizioni di sedici testimoni oculari. Gli Interrogatori fatti dal Visconte di Mantello canonico Formigao) nella sua qualità di investigatore ufficioso degli avvenimenti di Fatima ed in gran parte pubblicati in « Os episodios maravilhosos de Fatima » e « As grandes Maravilhas de Fatima ». L’Interrogatorio ufficiale di Lucia de Jesus (8 luglio 1924) e quello di cinque testimoni che più da vicino avevano presenziato agli avvenimenti; interrogatori fatti dalla Commissione Canonica, nonché il Rapporto della medesima presentato all’Autorità Ecclesiastica. I quattro manoscritti di Lucia de Jesus (Suor Maria del Cuore Immacolato) fatti per ordine espresso di Mons. Vescovo di Leirìa. Per la storia completa si veda : L. G. da Fonseca, S. J., Le Meraviglie di Fatima: Apparizioni-Culto-Miracoli – XI edizione, 1951). – Si era nel 1917, fine del terzo anno e principio de! quarto della prima guerra mondiale. Precisamente nel più buio della immane crisi intervenne il Cielo, e per esso la Vergine SS.ma, la « Vincitrice di tutte le grandi battaglie di Dio ». Intervento impercettibile, ma quanto mai efficace. Istrumenti ne furono tre minuscoli improvvisati pastorelli. Quando, cioè, vi poteva essere di umanamente più disadatto allo scopo. Ma è lo stile di Dio. – Erano essi Lucia di Gesù, di 16 anni, ed i suoi cugini Francesco e Giacinta Marto, uno di 9, l’altra di 7 anni, nativi di Aljustrel, piccola borgata a dieci minuti da Fatima. Semplici, ignoranti, non sapevano né leggere né scrivere; ma innocenti come agnelli e buoni come angioletti, sapevano pregare, e quando uscivano la mattina col gregge, si raccomandavano all’Angelo Custode, e poi là sul monte, quando non si divertivano facendo ripetere all’eco parola per parola l’Ave Maria, recitavano devotamente il Rosario, sia pure condensato, riducendo cioè il Pater Noster e l’Ave Maria alle sole due prime parole, quando la smania del giuoco li spingeva a fare presto. La Madonna già da mesi si era data premura di prepararli alla loro eccelsa vocazione. Ecco in quale maniera. Un giorno, verso la fine di primavera del 1916, in cui erano usciti a pascolare il gregge in un monticello nei pressi di Aljustrel, cominciando a piovigginare cercarono rifugio fra le rocce che si trovavano a mezza china del monte, le cui masse sporgenti li proteggevano contro il vento e la pioggia. Colà si rifugiarono e vi rimasero, dopo ritornato il sereno. Dopo mezzogiorno, recitato il rosario, si erano rimessi a giuocare; quando una forte raffica di vento fece alzare loro la testa per vedere quello che accadeva. Gli alberi erano immobili… ma giù sull’oliveto che si stende al piedi del colle, vi era una gran luce con in mezzo come una statua, bianca più della neve e luminosa come cristallo traversato dal sole. E la statua si moveva verso di loro. A misura che si avvicinava, potevano distinguerne meglio le fattezze, come di un giovanetto, apparentemente di 14 o di 15 anni e di bellezza sovrumana. – Arrivato presso i bambini li tranquillizzò dicendo: — Non abbiate paura! Io sono l’Angelo della Pace. Pregate con me. Ed inginocchiatosi, con la fronte piegata fino a terra, ripetè per tre volte: — Mio Dio, io credo, adoro, spero e Vi amo; Vi domando perdono per quelli che non credono, non adorano, non sperano e non Vi amano! I piccoli spinti da una forza soprannaturale, imitavano le mosse del giovane e con lui ripetevano parola per parola la preghiera. Si alzò poi e soggiunse : — Pregate così. I Cuori Santissimi di Gesù e di Maria stanno attenti alle vostre suppliche. Disparve. L’atmosfera del soprannaturale, che avvolgeva i piccoli, era tanto intensa, che per parecchio tempo quasi non si rendevano conto della propria esistenza, « rimanendo così nella posizione in cui li aveva lasciati l’Angelo e ripetendo cento volte la preghiera ». Qualche mese dopo, verso la fine di luglio, all’ora di siesta, essendo nell’orto di Lucia a giuocare sul pozzo ricoperto di grandi lastre di pietra, videro inopinatamente accanto a loro il misterioso giovane, che disse: — Cosa fate?… Pregate! pregate molto! I Santissimi Cuori di Gesù e Maria hanno su di voi disegni di misericordia… Offrite continuamente al Signore preghiere e sacrifici, in riparazione pei tanti peccati con cui Egli è offeso e come supplica per la conversione dei peccatori. Fate di attirare così la pace sulla vostra patria. Io ne sono l’Angelo Custode… Soprattutto accettate e sopportate con sottomissione i patimenti che il Signore vorrà mandarvi. Lezione importantissima, che faceva capire ai piccoli quanto Dio li amava, quanto vuole essere da noi amato, quale il valore del sacrificio e come il Signore in vista di esso converta i peccatori. Da quel giorno i tre pastorelli incominciarono ad offrire al Signore quante mortificazioni loro capitavano, e frequentemente passavano delle ore prostesi a terra, ripetendo « la preghiera dell’Angelo ». Passano due o tre mesi. I bambini si trovavano nel rifugio di cui si è parlato poc’anzi. Detto il rosario, si erano messi a dire la preghiera dell’Angelo e già l’avevano ripetuta parecchie volte, quando una luce abbagliante li avvolse. Alzando il capo vedono l’Angelo con in mano un calice e sopra un’ostia, dal cui candore stillavano gocce di sangue nel calice. E l’Angelo lasciando l’Ostia ed il calice misteriosamente sospesi in aria, s’inginocchia accanto ai piccoli e li fa ripetere per tre volte: — Santissima Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, io Vi adoro profondamente e Vi offro il preziosissimo Corpo, Sangue, Anima e Divinità di N. Signore Gesù Cristo, presente in tutti i Tabernacoli del mondo, in riparazione degli oltraggi, sacrilegi e indifferenze con cui Egli medesimo è offeso; e per i meriti infiniti del suo Cuore SS.mo, e per quelli del Cuore Immacolato di Maria vi domando la conversione dei poveri peccatori. Quindi alzatosi, prende l’ostia e la porge a Lucia, ed il calice lo divide fra Giacinta e Francesco, dicendo al medesimo tempo : — Prendete il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo, orribilmente oltraggiato dagli uomini ingrati. Riparate i loro peccati e consolate il vostro Dio. E prostrandosi di nuovo ripete tre altre volte la medesima preghiera e disparve. I bambini compenetrati della presenza di Dio che li assorbiva, riempiendoli di pace e felicità, ma allo stesso tempo quasi paralizzava l’uso dei sensi corporali, rimasero nella medesima positura ripetendo la preghiera, finché Francesco si accorse che si era fatta sera e bisognava ritornare a casa. Con questa terza apparizione si chiudeva la scuola dell’Angelo, a cui la Vergine aveva affidato la preparazione dei suoi cari privilegiati. Essi per allora non ne parlarono. Soggiogati da quella impressione che quasi li annientava, sentivano il bisogno di tacere e di concentrarsi in se stessi; sicché Lucia non ebbe fatica a convincere i cugini a non parlare dell’accaduto. Era la Provvidenza che così disponeva, perché una divulgazione prematura non ostacolasse le più importanti comunicazioni della Madonna.

PRIMA APPARIZIONE

Trascorrono i mesi, lunghi mesi di guerra; arriva il 13 maggio 1917, domenica avanti l’Ascensione. Giorno senza storia nei fasti degli uomini; giorno eccezionalmente storico in quelli di Dio ! A Roma veniva consacrato Vescovo Mons. Eugenio Pacelli, il futuro Papa di Nostra Signora di Fatima (Quando il 4 giugno 1951 nell’udienza concessa al pellegrinaggio Portoghese, che ufficialmente consegnava a S.S. l’altare della Madonna di Fatima nella chiesa giubilare di S. Eugenio, i pellegrini salutarono con l’acclamazione: «Evviva il Papa di N. Signora di Fatima! » S. S. sorridendo rispose : « E lo siamo! »); alla stessa ora ad Aljustrel, i tre pastorelli, dopo avere, insieme ai genitori, ascoltata la Messa in parrocchia, uscivano col gregge e decidevano di andare in un podere della famiglia di Lucia, per la configurazione del terreno, chiamato Cova da Iria, cioè, Conca o piccola valle di Iria. Vi arrivarono verso il mezzogiorno, ora legale, che avanzava di un’ora e mezza quella solare. Poco dopo, presa la frugale merenda, recitarono devotamente il rosario, poi spinsero le pecore verso l’estremità più alta della Cova, là dove sorge ora la basilica, ed ivi si misero a giuocare, innalzando un muricciolo intorno ad un piccolo cespuglio. Francesco faceva l’architetto muratore, le altre due i serventi, portando le pietre… Tutto ad un tratto una luce abbagliante, come un lampo a ciel sereno… Si guardano intorno impauriti, e Lucia riflette: — Si vedono lampi: abbiamo temporale. E’ meglio che ritorniamo a casa prima che venga la pioggia. — Sì, sì, andiamo! E radunate le pecore, si avviano alla strada attraverso la Conca. A mezza china un altro lampo più abbagliante del primo… Doppiamente impauriti affrettano il passo, ma subito, in fondo proprio alla Conca, si fermano interdetti. Davanti a loro su di un piccolo elce, alto un metro e qualche decimetro, sta una bellissima Signora, tutta luce, più brillante del sole, la quale guardandoli amorevolmente dice: — Non abbiate paura, che non vi faccio alcun male. La loro paura era causata dai lampi. Così, da questa parola, avrebbero potuto capire che essi altro non erano che lo splendore della Apparizione al suo avvicinarsi. Rasserenati, i bimbi rimangono in silenziosa estatica contemplazione. La bella Signora sembra avere dai 15 ai 18 anni. La veste più bianca e splendente della neve, di maniche piuttosto strette ed accollata, scende fino ai piedi, che sfiorano appena le nuove fronde dell’elce; non porta fascia né cinta, ma una lieve increspatura segna discretamente la vita. Un manto, esso pure bianchissimo e filettato d’oro, le ricopre la testa e la persona scendendo lieve e senza pieghe, lungo al pari della veste. Le mani giunte dinanzi al petto; dalla destra pende un rosario dai grani bianchi come perle, terminante in una piccola croce di vivissima luce argentea. Unico ornamento un sottile cordone di luce d’oro pendente sul petto e terminante in una piccola sfera dello stesso metallo. Il volto dai lineamenti purissimi ed infinitamente delicati, è circondato di una aureola più fulgida del sole, ma sembra velato di un’ombra di tristezza. Lucia prende coraggio e domanda: — Di quale paese siete voi? — Il mio paese è il cielo. — E Voi che cosa venite a fare qua al mondo? — Vengo per dirvi di venire qui tutti i mesi fino a compiere sei mesi; finiti i quali vi dirò chi sono e che cosa voglio. — Viene dal cielo, riflette Lucia: — E allora mi sapreste dire, se io andrò in cielo? — Sì, v’andrai. E mia cugina Giacinta? — Anche lei vi andrà. — E mio cugino Francesco? — Lui pure; ma dovrà dire il suo rosario… Incoraggiata la pastorella con la bontà della celeste Signora, volle sapere ancora la sorte capitata a due signorine sue amiche, morte da poco, e ne ebbe in risposta che la più giovane (sui sedici anni) era già in cielo, l’altra (diciotto o venti anni) in purgatorio, e vi sarebbe rimasta a lungo, « sino alla fine del mondo », avrebbe detto la Apparizione. Un istante ed il pensiero scatta in altra direzione: — E Voi mi sapreste dire, se la guerra finisce presto o se dura ancora molto tempo? — Non te lo posso dire per ora, prima di averti detto quello che desidero. Ma alla bella Signora altra cosa premeva ben più che il soddisfare la curiosità dei bambini: perciò con voce carezzevole e materna continuò: — Volete voi offrirvi al Signore, pronti a fare sacrifici e ad accettare volentieri tutte le pene che Egli vorrà mandarvi, in riparazione ai tanti peccati con cui si offende la divina Maestà, in ammenda onorevole delle bestemmie e di tutte le offese fatte all’Immacolato Cuore di Maria, e per ottenere la conversione di tanti peccatori, che se ne vanno all’inferno? — Sì, lo vogliamo, – risponde Lucia a nome di tutti e tre. — Ebbene… presto avrete molto da soffrire; ma la grazia di Dio vi assisterà sempre e vi conforterà. Così dicendo aprì le mani, « con gesto simile a quello del sacerdote quando dice “Dominus vobiscum” », e riversò sui veggenti un fascio di luce misteriosa, tanto intensa ed intima, che « penetrandoci nel petto fino al più intimo dell’anima (son parole di Lucia), ci fece vedere noi stessi in Dio più chiaramente che non ci vediamo nello specchio più terso… Allora per un impulso irresistibile siamo caduti in ginocchio ripetendo intensamente : — O SS.ma Trinità io vi adoro! Dio mio! Dio mio! io vi amo! ». Dopo qualche istante la Signora raccomandò ancora ai suoi piccoli confidenti: « Dite il rosario tutti i giorni con devozione, per ottenere la pace al mondo e la fine della guerra ». E poi incominciò a salire serenamente verso levante, fino a scomparire nell’immensità dello spazio. « La luce che la circondava, sembrava aprire una strada nella densità degli astri per il che noi si diceva, che avevamo visto aprirsi il cielo » (Lucia). Riscossisi dall’estasi, contenti e felici si scambiarono le loro impressioni. Tutti e tre avevano visto perfettamente l’Apparizione. Francesco però non aveva sentito che la voce di Lucia, pure accorgendosi che la bella Signora parlasse. Volle dunque subito sapere che cosa avesse detto e per quale ragione Lucia avesse fatto il suo nome. — E’ che, siccome aveva detto che veniva dal cielo, io Le ho chiesto se noi tutti e tre saremmo andati in cielo. — E che ti ha risposto? — Ha risposto di sì, che ci andremo… — Ma che tu devi dire molti rosari! – soggiunse pronta la piccola Giacinta. Ed il buon Francesco, tutto felice, incrociando le mani sul petto: — O mia Nostra-Signora! di rosari ve ne dirò quanti vorrete! E mantenne la parola. Da quel giorno fino alla morte; non ne trascorse uno solo in cui non avesse recitato uno, due o tre rosari, con le altre che sempre lo dicevano, e poi in particolare per conto suo. Quante volte, mentre stavano giuocando, egli si eclissava, e se poi lo chiamavano, per unica risposta faceva vedere la corona che teneva in mano e andava recitando! – Era ora di ritornare a casa. Lucia, pensando a quello che potrebbe succedere, raccomandò ai cugini di tacere assolutamente su quanto era loro capitato, specialmente di non dire a nessuno che avevano visto la Madonna : « del resto non ci crederebbero e ci potrebbero canzonare e rimproverare ». Tutti e due acconsentirono prontamente. Giacinta però ogni tanto saltellando ripeteva : — O che bella Signora ! O che bella Signora! — Scommetto che presto lo dirai a qualcuno! – ammoniva Lucia. — Non dico nulla! Non dico nulla! Non aver paura! Quando in Aljustrel, dinanzi a casa Marto, si separarono, Lucia raccomandò ancora: — Silenzio! avete capito? Silenzio assoluto! — Va bene, va bene! siamo intesi.

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In casa di Lucia niente di nuovo. Si cenò, si recitarono « le santissime grazie » e le preghiere della sera; la signora Maria Rosa lesse ai figli alcune pagine del Flos Sanctorum o della Storia Sacra, e si andò a letto. Dai cugini le cose non andarono così lisce. I genitori erano assenti, perché recatisi, dopo la messa, alla fiera di Battaglia. Giacinta inquieta, come se stesse sulle brace, girava per casa, ed ogni due minuti si affacciava alla porta per vedere se ritornassero. Appena avvistò la mamma, le corse incontro ed abbracciatele le ginocchia esclamò : — Mammina ! oggi ho visto la Madonna nella Cova da Iria! — Gesù! cosa dici?… Sei impazzita? — Ma sì, Mamma, io l’ho vista ! — Che ti credi proprio una Santina per vedere la Madonna?!… — Mamma, l’ho vista io, e pure Francesco e Lucia l’hanno vista!… Entrate in casa, la piccola soggiunse: — Mamma, io e Francesco andiamo a dire il rosario. La Madonna ce lo ha raccomandato. Finita la preghiera eccola di nuovo: — Mamma, dovete dire il rosario tutti i giorni. — Proprio tutti i giorni?! Non vedi che non c’è tempo… — Ma sì! ditelo, mamma; ditelo! La Madonna lo ha comandato. Il fatto si è che, mossi dall’esempio e dalle insistenze dei piccoli, i genitori presero in breve a recitarlo ogni giorno insieme con tutta la famiglia. Se qualche volta per motivo straordinario si tralasciava, Giacinta se ne rattristava e diceva alla madre: — Mamma, io ho già detto il rosario, Francesco pure lo ha detto, e voi non lo avete detto ancora!

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Il 14 mattina uscendo col gregge, Francesco corse da Lucia per dirle che Giacinta aveva raccontato tutto in casa. Giacinta ascoltò l’accusa in silenzio a capo chino. — Vedi? lo dicevo io! — E’ che io ho qua dentro una cosa che non mi lasciava stare zitta – rispose la piccina con le lacrime agli occhi. — Ora non piangere; ma non parlare più di quanto quella Signora ci ha detto. E che cosa hai detto in casa? — Ho detto che la Signora aveva promesso di portarci tutti e tre in cielo. — Proprio questo dovevi dire?!.. — Perdonami, che non dico più nulla di nulla a nessuno. Arrivati al pascolo, Giacinta andò a sedere su di una roccia. — Giacinta, vieni a giuocare! — Oggi non voglio giuocare. — E perché? — Perché sto pensando che quella Signora ci ha raccomandato di dire il rosario e di fare sacrifici per i peccatori. Ora, quando diciamo il rosario, bisogna dire tutta intera l’Ave Maria e tutto il Pater Noster. Per i sacrifici poi come fare? Domanda imbarazzante per la loro scienza ascetica. — Ecco! – esclama finalmente Francesco: — diamo la nostra merenda alle pecore e facciamo il sacrificio di non mangiare. Detto fatto. E fu quello il primo giorno di digiuno, al quale poi tanti altri dovevano seguirsi! Giacinta però sedeva ancora meditabonda sulla roccia. — Quella Signora ha detto pure che molte anime vanno all’inferno. Che cosa è l’inferno — L’inferno, – spiegò Lucia -, è una fossa profonda piena di belve, con un fuoco molto grande, dove sono gettati quelli che fanno peccati e non se ne confessano; e vi arderanno per sempre. — E non ne usciranno più? — No! — E dopo molti, molti anni! — No! mai! L’inferno non finisce mai. Neppure il cielo. Chi va in cielo non ne esce mai. — Ed anche chi va nell’inferno non ne esce mai? — Già ti ho detto di no. Non vedi che tanto l’uno come l’altro sono eterni? Il che vuole dire che non finiscono mai e durano sempre! « Senza saperlo abbiamo fatto in quel giorno la prima meditazione sull’inferno e sull’eternità » (Lucia). Nello stesso tempo ad Aljustrel le cose incominciavano a complicarsi. La Sig.ra Olimpia Marto, parlando con alcune vicine, raccontò l’avventura dei suoi piccoli, e così la notizia si sparse in paese e presto tutta la parrocchia di Fatima ne fu al corrente. Nessuno però prestava fede alla parola dei fanciulli, anzi, non pochi presero a beffarli, tacciandoli di impostori e criticando acerbamente i genitori che non sapevano richiamarli all’ordine. La madre di Lucia sulle prime sembrò dare poca importanza alla cosa; ma poi l’idea che tutto fosse invenzione e bugia della figlia cominciò a farsi strada nel suo spirito, aumentando sempre più. fin quasi a ossessionarla. Una mattina si alzò decisa di farla finita. Chiama la figlia: — che si levi immediatamente e venga lì a confessare che ha mentito e va ingannando la gente. Ordini perentori, carezze, minacce, il manico della scopa, tutto fu adoperato, senza però ottenere dalla figlia altra risposta che la conferma di quanto aveva detto. Finalmente le ordinò di condurre il gregge al pascolo e di riflettere bene tutta la giornata a quel che le diceva: « Se io non ho perdonato mai una bugia ai figli miei, molto meno ne perdonerò ora una di questo genere. Questa sera andrai da tutti quelli che hai ingannato, per confessare di aver mentito e chiedere perdono ». La fanciulla se ne andò al monte con le pecorelle. I cugini la aspettavano già. Quando la videro arrivare piangendo, chiesero ad una voce: — Che hai? Cosa t’è successo? — Mia madre vuole ad ogni costo che io dica di aver mentito; e come lo posso dire? — Vedi? la colpa è tua! Perché hai parlato? – osservò Francesco rivolto alla sorellina. Giacinta chinò il capo piangendo; poi, in ginocchio con le mani giunte, chiese loro perdono: — Ho fatto male; ma prometto che non dirò più niente a nessuno.

SECONDA APPARIZIONE

12 giugno. – A Fatima grande movimento coi preparativi della festa di S. Antonio, patrono principale della parrocchia. Verso sera Giacinta si avvicina alla madre e carezzandola dice: — Mammina! Domani non andare alla festa di S. Antonio. Vieni con noi alla Cova da Iria a vedere la Madonna. — Ma tu non ci andrai!… — Io ci vado! — E’ inutile; la Madonna non ti apparirà. — Ma sì! La Madonna ha detto che sarebbe apparsa, e apparirà di certo. — Allora non vuoi andare a Sant’Antonio? — Sant’Antonio non è bello! — Oh!… e perché? — Perché la Madonna è molto, molto più bella!… Io vado con Lucia e con Francesco alla Cova da Iria; se poi la Madonna dice che dobbiamo andare da Sant’Antonio, vi andremo. Il giorno seguente i signori Marto partirono di buon mattino per la fiera di Pedreiras (Porto de Mòs), lasciando i figli in libertà. In casa di Lucia madre e sorelle stavano a vedere, se la bambina, festaiola come era, preferisse la Cova da Iria alla festa di S. Antonio. La povera Lucia, con l’amarezza nell’anima per tanti rimproveri e contraddizioni, aveva incominciato subito allo spuntare del giorno a sbrigare le sue faccende. Frattanto si radunarono a cercarla alcune persone dei paesi circonvicini, per recarsi insieme al luogo del miracolo. Partirono tutti verso le undici e con altri, che li avevano preceduti, si trovarono raccolti intorno all’elce una cinquantina di persone. Una di esse così racconta: « Verso le undici arrivarono i tre bambini,… e come il sole scottava, si andò tutti sotto l’elce grande, a una cinquantina di passi, ed ivi si recitò il rosario. Finito che ebbero, Lucia si alzò, si aggiustò lo scialle ed il fazzoletto bianco che aveva in testa, si compose tutta come per entrare in chiesa, e si volse verso l’oriente. Si incominciarono le litanie; ma Lucia interruppe dicendo, che non c’era tempo; e subito gridando: — Giacinta, viene la Madonna! già si è visto il lampo! Partì di corsa verso l’elce piccolo, seguita dai cugini, e gli altri tutti appresso. Ho sentito le domande di Lucia e quanto diceva parlando con la Visione; ma non ho visto nulla né ho capito le risposte ». Le dichiarazioni di Lucia nelle inchieste ufficiali, completate da quelle che poi dovette scrivere, ci informano sufficientemente dell’andamento della apparizione. Lucia incominciò: — Voi mi avete comandato di venire qui. Vorreste farmi il favore di dire che cosa volete da me? — Voglio dirti di ritornare qui il giorno 13 del mese prossimo. Continuate a recitare il rosario tutti i giorni… E poi voglio dirti che tu impari a leggere, per dirti poi quello che desidero. — Avrei qui una domanda: Se Voi vorreste guarire un infermo… — Che si converta e guarirà durante l’anno. — Io vorrei pregarVi di portarci tutti e tre in cielo!… — Sì! Giacinta e Francesco verrò presto a prenderli. Tu però devi rimanere quaggiù più a lungo. Gesù vuole servirsi di te per farmi conoscere e amare. Egli vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato. A chi la praticherà, prometto la salvezza. Queste anime saranno predilette da Dio e come fiori collocati da me dinnanzi al suo trono. — Dunque debbo rimanere sola? – domandò Lucia rattristata, mentre le si affacciavano alla mente tutte le persecuzioni che da tre settimane la bersagliavano. — No, figliuola!… Tu soffri molto?! Non scoraggiarti! Io non ti abbandonerò mai. Il mio Cuore Immacolato sarà il tuo rifugio e la via che ti condurrà a Dio. Nel proferire queste ultime parole la Madonna aprì le mani e per la seconda volta riverberò sui veggenti quella luce immensa nella quale si vedevano come immersi in Dio. Lucia sembrava che stesse nella parte del fascio luminoso che si effondeva sulla terra; Francesco e Giacinta invece nella parte che si elevava al cielo, come per indicare che presto sarebbero saliti lassù. Alcuni istanti, e la Vergine, conservando alzata la destra, abbassò la sinistra con gesto di sostenere o additare il Cuore. E questo apparve dinanzi al petto, circonfuso di luce più viva, e circondato da pungenti spine, che lo attorniavano, in forma di virgulto spinoso, che, nascendo dalla parte superiore del Cuore e circondandolo, finiva nella parte opposta alla stessa altezza. Essi, alla gran luce che li illuminava, compresero che era il Cuore Immacolato di Maria, afflitto per i tanti peccati del mondo, e che domandava penitenza e riparazione… Quando la Visione incominciò ad allontanarsi, si sentì come lo scoppio lontano di un razzo, o, come altri si esprimono, un tuono sotterraneo, e si vide innalzarsi nello spazio una nuvoletta bianca. I veggenti seguivano con gli occhi avidi la Vergine ascendente, e Lucia gridava: — Se la volete vedere, eccola là… là… e puntava il dito precisamente verso la nuvoletta veduta dai circostanti. Quando questa scomparve totalmente, esclamò: — Basta. Il cielo è chiuso! – Circostanze interessanti e non ordinarie. Negli intervalli di silenzio fra le domande di Lucia, mentre, la Signora parlava, i più vicini sentivano come venuta dall’elce una vocina sottile sottile, che i testi comparano al ronzio delle api; non si riusciva però a distinguere parola alcuna. Si era in giugno; l’elce era ricoperto di fronde nuove e lunghe. Dopo l’apparizione tutte le fronde erano raccolte e piegate verso oriente, come se l’estremo lembo del manto della Signora, partendo, fosse passato strisciando su di esse.

TERZA APPARIZIONE

Ora la notizia delle celesti manifestazioni si sparse largamente nei dintorni. A Fatima non si parlava di altro, ed i piccoli veggenti incominciarono ad essere tormentati da visite continue di curiosi: alcuni benevoli, che conoscendo i bambini e non potendo dubitare della loro schiettezza, inclinavano ad ammettere la realtà delle apparizioni; la maggior parte scettici o addirittura ostili. Fra questi era quasi tutto il clero, e primo il Rev. Emmanuele Marques Ferreira, benemerito parroco di Fatima (1913-1919). Aveva egli consigliata la madre di Lucia a lasciare la figlia libera di recarsi alla Cova da Iria il giorno 13, ma che poi gliela portasse in canonica con i due cugini. Il 14 o 15 sera la signora Maria Rosa con cipiglio severo, disse improvvisamente a Lucia: — Domani andremo a sentire la messa, poi andrai dal signor « Priore ». Ch’egli ti castighi, faccia quel che vuole; purché ti obblighi a confessare che hai mentito, io sono contenta. « Le mie sorelle, scrive Lucia, presero il partito di mia madre ed inventarono minacce senza fine per atterrirmi con l’intervista del parroco… Informai Giacinta e Francesco di quello che accadeva, ed essi risposero: — Noi pure vi andremo. Il signor « Priore » ha fatto dire a nostra madre di condurci da lui; ma ella non ci ha detto nulla di tutto questo. Se ci battono, pazienza! soffriremo per amore di Nostro Signore e per i peccatori ». Il giorno seguente andarono dal parroco, il quale, al contrario di quanto facevano temere tante minacce, li ricevette con affabilità e li interrogò molto tranquillamente. Dai due piccoli ricavò appena qualche monosillabo. Lucia fu più esplicita, ma tacque tutto quanto fra loro avevano combinato di tacere. Il risultato dell’inchiesta non soddisfece il buon parroco, che finì dichiarando ponderatamente: — Non mi sembra cosa dal cielo. Per lo più, quando il Signore si comunica alle anime, ingiunge loro di rendere conto di tutto al confessore o al parroco. Questa invece si chiude nel silenzio. Potrebbe essere inganno del diavolo. Il futuro dirà… « Quanto questa riflessione mi abbia fatto soffrire, soltanto N. Signore lo sa, scrive Lucia. Cominciai a dubitare se quelle manifestazioni non venissero dal diavolo, che mi voleva perdere. Manifestai i miei dubbi ai cugini e la Giacinta rispose : — Non è il demonio! non Io è! Il demonio, dicono, è tanto brutto e sta sotto terra nell’inferno. Quella Signora invece è tanto bella, e noi la abbiamo vista salire in cielo! Nostro Signore si servì di queste parole per far svanire alquanto i miei dubbi ». Ma fu una schiarita momentanea. Nel decorso del mese, fra i continui rimproveri e beffe con cui la perseguitavano in casa e fuori, la ripresero i timori e pensò di non ritornare alla Cova da Iria. Anzi perdette l’entusiasmo per la mortificazione ed i sacrifici e si domandava, se non fosse meglio dire che aveva mentito, e cosi farla finita una buona volta. Ma i cugini la dissuasero: — Non fare così! Non vedi che proprio ora diresti una bugia e la bugia è peccato? Il pomeriggio del 12 luglio, vedendo che cominciava a radunarsi molta gente per assistere agli avvenimenti del giorno seguente, partecipò ai cugini la presa risoluzione di non andare. Essi risposero: — Noi andiamo. Quella Signora ci ha comandato di andare… — Se mai parlerò io con Lei, — soggiunse Giacinta e scoppiò in pianto. — Perché piangi? — Perché tu non vuoi venire… — No! non vengo! e se quella Signora domanderà di me, ditele che non son venuta, perché temevo che fosse il diavolo. E lasciandoli bruscamente corse a nascondersi. Il giorno seguente, avvicinandosi l’ora, si sentì all’improvviso spinta da una forza sovrumana, alla quale non poteva resistere. Andò dai cugini che trovò nella loro cameretta in ginocchio, piangendo e pregando. — Ma come? non siete andati? E’ ora. — Senza di te non abbiamo avuto il coraggio di andare. Vieni! Io sono già in cammino… Si mossero così tutti e tre. Giunti presso l’alberetto i bambini si inginocchiarono e Lucia intonò il rosario, che la folla, calcolata in più di 2.000 persone, accompagnò devotamente. A mezzogiorno preciso ecco il lampo, e subito dopo la Signora su l’elce. Lucia, forse per le molte contraddizioni sofferte, forse ricordando il dubbio che l’aveva tormentata, guardava come imbarazzata senza proferire parola. Intervenne — Ma su, Lucia; parla!… Non vedi che già ci sta e vuole parlare con te? E Lucia: — Che cosa volete da me? — Voglio dirti di rivenire qui il 13 del prossimo mese. — Per favore, diteci il vostro nome e fate un miracolo per far credere a tutti! Questa domanda dimostra bene lo stato d’animo dei veggenti e più ancora del pubblico. Un miracolo dileguerebbe tutte le contraddizioni ed essi non avrebbero più guai da soffrire. Poveri innocenti! La tempesta era soltanto incominciata ed essi avevano appena intravveduta la croce che li aspettava. La Signora rispose che seguitassero pure a venire tutti i mesi, in Ottobre avrebbe detto chi Ella fosse e fatto un grande miracolo, perché tutti credessero. — Io avrei qui parecchie domande: Se Voi vorreste guarire un bambino storpio di Moita. convertire una famiglia di Fatima, curare una donna di Pedrogam… La Signora rispose che non avrebbe guarito lo storpio, né lo avrebbe liberato dalla povertà: che egli piuttosto recitasse tutti i giorni il rosario con la famiglia; le altre persone avrebbero ottenute le grazie desiderate durante l’anno prossimo, ma bisognava dicessero il rosario. — Avrei ancora una domanda per un ammalato di Atouguia : se Voi lo portate in cielo, quanto più presto, tanto meglio… — Che non abbia fretta. Io so meglio quando conviene che lo venga a prendere. Nel silenzio susseguente Lucia, mentre ascoltava attentamente, ogni tanto accennava con la testa dicendo: — « Sì!… sì!… si dica il rosario— 11 rosario tutti i giorni… si! tutto si farà…». E’ che la Vergine di nuovo raccomandava istantemente la recita quotidiana della corona alla Madonna del Rosario, affinché Ella mitigasse la guerra, perché, affermava, soltanto Ella potrebbe venire loro in aiuto. – « E qui per rianimare il mio fervore intiepidito, confessa Lucia umilmente, ci inculcò di nuovo: — Sacrificatevi per i peccatori, e dite spesso, ma specialmente nel fare qualche sacrificio: « O Gesù, è per vostro amore, per la conversione dei peccatori e in riparazione delle ingiurie commesse contro l’Immacolato Cuore di Maria ». – Proseguendo il dialogo, gli astanti videro che i bambini illividivano come spaventati da qualche spettacolo terrificante, e Lucia gridava «.ahi!», ovvero «ahi Nostra Signora! ». Finalmente dopo un paio di minuti, nei quali l’espressione dei piccoli cambiò più volte e Lucia proferì qualche parola di assentimento: « Sì, vogliamo! », questa domandò:

— Non volete più nulla da me?

— No; oggi non voglio più nulla.

— Neanche io.

« Grazie al cielo, con questa apparizione mi si dissiparono dall’anima tutte le nubi e riacquistai la pace » , conclude Lucia.

Riavutisi i veggenti dall’estasi, tutta la folla si precipitò su di loro, tempestandoli di domande, specialmente su Lucia:

— Perché si era fatta vedere tanto triste?

— E’ un segreto.

— Buono o cattivo?

— E’ per il bene di noi tre.

— E per il popolo?

— Per alcuni è buono, per altri cattivo.

* * *

Il segreto. — Fin dalla seconda apparizione vi furono delle comunicazioni che i veggenti, su proposta di Lucia, decisero mantenere segrete: la prossima fine dei due piccoli, la vocazione di Lucia relativamente al Cuore Immacolato di Maria, l’invito a fare sacrifici per i peccatori… « A questo volevamo riferirci, quando dicevamo che la Madonna ci aveva rivelato un segreto nel mese di giugno. Essa veramente questa volta non ci comandò di tacere; ma noi sentivamo che il Signore ci muoveva a farlo » (Lucia). Ma poi nella terza apparizione sopravvenne « il segreto » imposto dalla Vergine e dai bambini tanto gelosamente guardato. – Oggi lo conosciamo in gran parte, dopo che Lucia, nel 25° anniversario delle Apparizioni, per ordine della Autorità ecclesiastica, dovette mettere in iscritto « quanto attualmente se ne potesse rendere noto ». – Ecco dunque quanto essa ne scrisse, « Ottenuta licenza dal cielo e per pura ubbidienza ». « Il segreto consta di tre cose distinte, due delle quali ora esporrò. La prima cosa fu la visione dell’inferno. Quando diceva le ultime parole (“Sacrificatevi per i peccatori ecc.”, aprì di nuovo le mani, come nei due mesi precedenti. Il fascio di luce riflessa sembrò penetrare la terra, e noi vedemmo come un grande mare di fuoco ed in esso immersi, neri ed abbronzati, demoni ed « anime in forma umana, somiglianti a braci trasparenti; che trascinate poi in alto dalle fiamme, sprigionatesi dalle anime stesse insieme a nubi di fumo, ricadevano giù da ogni parte, quali faville nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, fra grida e lamenti di dolore e di disperazione, che facevano inorridire e tremare per lo spavento. (Fu probabilmente a questa vista, che io emisi quell’ahi! che dicono aver sentito). I demoni si distinguevano per forme orribili e schifose di animali spaventevoli e sconosciuti, ma trasparenti come neri carboni in brace. – « Questa vista durò un istante; e dobbiamo grazia alla nostra buona Madre del cielo, che prima ci aveva prevenuti con la promessa di portarci in Paradiso; altrimenti, credo, saremmo morti di terrore e di spavento. « Impauriti e quasi a domandare soccorso alzammo gli occhi alla Madonna, che ci disse con bontà e tristezza: « — Avete visto l’Inferno dove vanno a finire le anime dei poveri peccatori. Per salvarli il Signore vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato. Se si farà quello che vi dirò, molte anime si salveranno e vi sarà pace. – « La guerra (quella del 1914-1918) sta per finire; ma se non cessano di offendere il Signore, nel regno di Pio XI ne incomincerà un’altra peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che « quello è il grande segno che vi dà Iddio ( Lucia credette riconoscere « il grande segno di Dio » nella luce straordinaria, che illuminò il cielo la notte dal 25 al 26 gennaio 1938) che prossima è la punizione del mondo per i suoi tanti delitti, mediante la guerra, la fame e le persecuzioni contro la Chiesa e contro il Santo Padre. Per impedire ciò, verrò a chiedere la Consacrazione della Russia al mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati del mese. Se si darà ascolto alle mie domande, la Russia si convertirà e si avrà pace. Altrimenti diffonderà nel mondo i suoi errori, suscitando guerre e persecuzioni alla Chiesa; molti buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire; varie nazioni saranno annientate… Finalmente il mio Cuore Immacolato trionferà! ». Come? Quando? Forse ciò già riguarda quella parte del segreto che a suo tempo si paleserà meglio. Frattanto ci si dice: « Il Santo Padre mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un tempo di pace ». L’Apparizione conchiuse: — Non dite questo a nessuno. A Francesco sì, potete dirlo. Qualche momento dopo soggiunse: — Volete imparare una preghiera? — Sì che lo vogliamo! — Quando recitate il rosario dite alla fine di ogni decina : « O Gesù, perdonate le nostre colpe; preservateci dal fuoco dell’inferno; portate in cielo tutte le anime, (e soccorrete) specialmente le più bisognose della vostra misericordia ». — Ciò detto la Visione si dileguò come al solito, salendo verso oriente.

QUARTA APPARIZIONE

13 agosto. Circa le dieci antimeridiane entrano nella canonica di Fatima il Sindaco di Villa Nova d’Ourèm, massone ed anticlericale arrabbiato, con un sacerdote. Li riceve il Parroco, che si meraviglia di vedere un sacerdote accompagnare il sindaco in una faccenda estranea alla competenza dell’Autorità civile… — Nulla di nuovo! Siamo andati ad interrogare i bambini e siamo mezzo persuasi di quanto essi raccontano. Vorremmo però che Ella, signor « Priore », li interrogasse dinanzi a noi sul segreto che dicono di aver ricevuto. — Il segreto?! – Era la prima volta che il Rev. Marques Ferreira sentiva parlare di un segreto. — Poi il signor sindaco li porterà egli stesso nella sua carrozza al luogo dove avvengono le apparizioni… Una mezz’oretta dopo arrivavano i bimbi accompagnati dai genitori. Fatti i convenevoli, il Parroco si rivolge a Lucia: — Chi ti ha insegnato a dire tutte codeste cose che vai dicendo? — Quella Signora che ho visto nella Cova da Iria. — Ma non sai che chi dice bugie, causa di tanto danno, come quella che tu vai spargendo, andrà all’inferno? Eh!… tanta gente viene ingannata per causa vostra! — Se chi dice bugie va all’inferno, allora io non ci vado, perché io non dico bugie; dico soltanto quello che ho visto e udito da quella Signora. E poi se la gente va alla « Cova » è perché ci vuole andare; che io finora non ho chiamato nessuno. — E’ vero che la Signora ti ha detto un segreto? — E’ vero ; ma io non lo dico. Il Parroco continuava insistendo; allora Lucia: — Guardi! se Lei vuole, io vado laggiù, e chiedo alla Signora se mi dà il permesso di dire il segreto; e se me lo dà allora glielo dirò. — Queste sono cose soprannaturali, – concluse il sindaco -. Andiamo via! Ed invitò i bambini a salire sulla vettura. Siccome essi non si muovevano, – « andate! andate! » – disse il sig. Marto, il quale nella sua buona fede era ben lontano dal sospettare delle intenzioni del sindaco. I bimbi ubbidirono e la carrozza partì; percorsi però alcuni metri, svoltò e filò dritto a Villa Nova d’Ourém. Stava ancora il parroco coi presenti a commentare il fatto, quando arrivarono di corsa alcuni ciclisti per metterlo in guardia… La folla che riempiva la Cova da Iria era tutta in subbuglio e minacciava di venire a Fatima per « linciarlo », quale complice nel ratto dei veggenti. Che succedeva dunque laggiù? La campagna sferrata dalla stampa liberale-massonica contro « !a nascente montatura clericale di Fatima » aveva portato la notizia a tutti gli angoli del Portogallo, suscitando enorme curiosità. Perciò in quella mattina del 13 agosto si era riversata nella Cova da Iria una folla ingente, calcolata in più di 15.000 persone… Intorno all’elce si pregava, si cantavano canti religiosi… Era quasi mezzogiorno ed i bambini non comparivano… La folla incominciava a diventare impaziente, quando, con la velocità di un baleno, si sparse la notizia che i veggenti erano stati dal sindaco arrestati in casa de1 Parroco. Indescrivibile l’esaltazione scoppiata a tale notizia! Tutti gridavano: — Andiamo a Villa Nova d’Ourém a protestare!… Andiamo dal Parroco; anche lui è colpevole!… Chissà che cosa sarebbe successo, se all’ora delle apparizioni non si fossero verificati fenomeni straordinari, che valsero a placare gli animi. E prima si sentì una forte detonazione o un « tuono », seguita da un lampo, mentre sull’elce si formava una nuvoletta « bellissima, molto bianca, molto leggera », che vi rimase parecchi minuti e finalmente, dopo una seconda detonazione si alzò in aria e scomparve. Le detonazioni furono tanto sensibili, che parte della gente si diede alla fuga, temendo fosse qualche attentato dinamitardo. Presto però si fermarono, osservando i meravigliosi giuochi della luce solare: gli oggetti apparivano coloriti con tutti i colori dell’arcobaleno, gli alberi sembravano giganteschi mazzi di fiori… Il parroco poteva scrivere, nell’autodifesa contro l’accusa di complicità nell’arresto dei veggenti: I «presenti (stimati a più migliaia) possono attestare i fenomeni straordinari da loro osservati, e che tanto mi hanno confermati nella fede. Non sono più i bambini, ma tutta la folla del popolo, di ogni classe e condizione sociale e di diverse parti del paese, che ora rende testimonianza ». E così i pellegrini si dispersero rasserenati, e convinti che « la Madonna era apparsa ». « Che pena però che non abbia trovato i bambini !… ». – In prigione! Frattanto essi erano rinchiusi in casa del sindaco. Nelle prime ore la prigione non fu rigorosa, e la moglie del sindaco, che in suo cuore compativa gli innocenti, fece del suo meglio per raddolcirla. La mattina seguente, fra quattro poliziotti, furono condotti all’Ufficio Comunale e sottoposti ad un interrogatorio in piena regola. Il sindaco con maniere gentili, con domande insidiose, con l’attrattiva di varie monete ed oggetti d’oro, fece il possibile per indurli a svelare il segreto. I bambini raccontavano quanto era loro successo, ma il segreto « non potevano rivelarlo, perché la Signora aveva comandato di non dirlo a nessuno ». A mezzogiorno fu tolta la seduta per ricominciare nel pomeriggio con un secondo interrogatorio, nel quale alle promesse si aggiunsero le minacce. — Se non vogliono ubbidire, chiamiamo una guardia e lì facciamo uccidere, – propose uno dei presenti; — Non sarà necessario tanto, – fece il sindaco – essi diranno tutto… Ma non dissero, e li rinchiusero nella pubblica prigione, dichiarando che sarebbero venuti a prenderli per bruciarli vivi. – I carcerati fecero loro buona accoglienza. Giacinta, scostatasi dai compagni, piangeva. — Giacinta, vieni qui. Perché piangi? – chiese Lucia. — Perché dobbiamo morire senza riabbracciare i nostri genitori. Né i tuoi né i miei sono venuti a rivederci. Non si curano più di noi. Io vorrei almeno vedere la mamma!… — Non piangere, – disse Francesco -. Se non potremmo rivedere la mamma, pazienza! Offriamo questo sacrificio per la conversione dei peccatori. Peggio se la Madonna non ritornasse più; è questo che più mi costerebbe; ma io offro anche questo per i peccatori. E giungendo le mani: « 0 Gesù mio, è per vostro amore e per la conversione dei peccatori! ». Giacinta piangendo, le manine giunte e gli occhi al cielo, soggiunse: — Ed anche per il Santo Padre e in riparazione delle offese commesse contro il Cuore Immacolato di Maria! I carcerati commossi a questa scena volevano consolarli: — Ma perché non dite il segreto? Che vi porta che la Signora non voglia? — Questo poi no! – rispose Giacinta vivamente; – vogliamo piuttosto morire! Trascorse alcune ore, furono ricondotti ufficio, dove il sindaco li tormentò con nuovo e stringente interrogatorio, pieno di lusinghe e minacce. Vedendoli irremovibili, scatta in piedi e grida: — Se non vogliono ubbidire con le buone ubbidiranno con le cattive! E rivolto ad uno dei satelliti comanda di preparare una grande padella con olio bollente, per farvi friggere i ribelli; e frattanto chiude i bambini in una stanza. Momenti pieni di ansietà per i poveri innocenti. Si riapre la porta ed il sindaco chiama Giacinta: — Se non parli, sarai la prima ad essere bruciata. Vieni! La bambina che poco prima piangeva per poter rivedere la mamma, adesso con gli occhi asciutti lo seguì subito senza congedarsi da noi, racconta Lucia. Fu ancora interrogata, minacciata, infine chiusa in altra stanza. Nel frattempo Francesco diceva: — Se ci uccideranno, come dicono, fra poco saremo in cielo, e che piacere! Morire… non importa niente… Voglia Iddio che Giacinta abbia paura. Voglio dire un’Ave Maria per lei – Si leva la berretta, giunge le mani e prega. Si riapre la porta e ricompare il sindaco — Quella ormai è morta. Adesso tu! indicava Francesco. – Il tuo segreto! — Non posso dirlo a nessuno. — No? vedremo! – e afferrandolo per il braccio se lo trascina dietro. Ma egli, come la sorellina, resistette a carezze e minacce e andò a finire nella medesima stanza. Era la volta di Lucia. — E tu che sentivi? — le domandavano più tardi. — Io ero convinta che egli facesse davvero e che ormai la fosse finita per me: ma non avevo paura e mi raccomandavo alla Madonna. Fortunatamente il sindaco non faceva davvero e Lucia poté ritrovare i cugini vivi e sani. Il 15 furono ancora sottoposti a nuovi interrogatori e finalmente, poiché non si approdava a nulla, dallo stesso sindaco riportati alla canonica di Fatima e rilasciati liberi sul balcone, donde due giorni prima li aveva proditoriamente rapiti.

APPARIZIONE INASPETTATA

Il 19 agosto, domenica, Lucia con Francesco e suo fratello Giovanni pascolavano il gregge nei « Valinhos » (piccole valli). Verso le cinque pomeridiane vedono che l’atmosfera prende il colore già osservato nella Cava da Iria durante le apparizioni e Lucia nota il lampo foriero della venuta della Madonna. Sicura che Ella fosse per comparire, prega Giovanni di chiamare subito Giacinta, rimasta a casa con la mamma. Appena giunti, vedono un secondo lampo e, istanti dopo, la Signora su di un elce simile a quello della Cova. Lucia fece la solita damanda : — Che cosa volete da me? — Voglio dirvi che seguitiate ad andare alla Cova da Iria il giorno 13, fino ad Ottobre, e che seguitiate pure a dire il rosario tutti i giorni. La veggente chiese nuovamente un miracolo; e la Signora: — Nell’ultimo mese farò il miracolo, perché tutti credano. Se non vi avessero portati nel villaggio (Villa Nova d’Ourém), il miracolo sarebbe più grandioso. In compenso, altri favori del cielo nel giorno 13 ottobre: — che sarebbe venuto S. Giuseppe col Bambino Gesù per dare la pace al mondo, Nostro Signore a benedire il popolo, la Vergine sotto sembianza dell”Addolorata… Essendosi poi già esposte molte offerte al piede dell’elce, Lucia domandò: — E quel danaro che Voi avete, che cosa volete se ne faccia? L’Apparsa rispose che si impiegasse ad acquistare due troni portatili da reggersi, uno da Lucia e Giacinta con altre due ragazzette biancovestite, l’altro da Francesco con tre giovanetti della stessa età, rivestiti essi pure di un mantello bianco. Il resto delle offerte sarebbe per la festa della Madonna del Rosario. Lucia domandò ancora la guarigione di vari infermi ed ebbe in risposta che alcuni sarebbero guariti nel corso dell’anno. Ma tutto questo sembrava secondario alla Vergine, perché con materna sollecitudine, velata di tristezza, continuò ad esortarli alla pratica della preghiera e della mortificazione, e concluse: — Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori. Badate che molte, molte anime vanno all’inferno, perché non vi è chi si sacrifichi e preghi per loro. Come le altre volte, l’apparizione fu soltanto per i confidenti privilegiati della Vergine. Quando la sera la mamma domandò a Giovanni che cosa avesse visto nei « Valinhos », rispose: — Ho visto che Lucia, Francesco e Giacinta s’inginocchiavano presso l’elce, poi, ho ascoltato quello che diceva Lucia. Quando ella disse: « Eccola se ne va via; guarda, Giacinta! » ho sentito un tuono, come lo scoppio di un razzo, ma non ho visto nulla. Ancora mi fanno male gli occhi per tanto guardare in aria. Ancora un’altra circostanza interessante. I bambini tagliarono e portarono a casa il ramoscello, terminante in due fronde, sul quale sembrava poggiassero i piedi del1a Signora. Trovando la madre di Lucia sulla porta di casa, a conversare con varie persone, — Zia, – gridò Giacinta, – abbiamo visto la Madonna un’altra volta! — Non fate altro che vedere la Madonna, bugiardoni che siete! — Ma sì che l’abbiamo vista! Guarda, zia: aveva un piede su questa e l’altro su quest’altra; – e indicava le due fronde che apparivano piegate quasi in angolo retto. — Bugiardi!… lascia vedere! Appena prese in mano il ramoscello, tutti i circostanti sentirono che da esso si sprigionava un profumo delizioso come di essenza sconosciuta. Questo fenomeno la impressionò e per la prima volta incominciò a pensare che forse potrebbe essere vero quanto i bambini raccontavano…

QUINTA APPARIZIONE

Le angherie del sindaco di Villa Nova d’Ourém ebbero un effetto totalmente contrario a quello che egli si riprometteva. D’allora in poi nessuno dubitò più della sincerità dei veggenti; anzi moltissimi si convinsero che vi doveva essere veramente un intervento soprannaturale, senza il quale non sapevano spiegarsi la costanza eroica dimostrata dai bimbi nelle tragiche giornate della loro prigionia. – Quindi un considerevole aumento di fede e devozione, palesatosi in modo sorprendente il 13 settembre. « Le strade e le scorciatoie erano piene di gente, scrive un testimonio oculare… Era un pellegrinaggio degno di questo nome, la cui sola vista faceva piangere di commozione. Non ho mai ammirato in vita mia una cosi grande e solenne manifestazione di fede… « A mezzogiorno preciso il sole incominciò a perdere del suo splendore. Non vi fu chi non osservasse questo fenomeno, che dal maggio precedente si ripete al giorno 13 di ogni mese, alla stessa ora. « Arrivati i bambini davanti all’elce, Lucia ordina ai circostanti di pregare. Non dimenticherò mai la profonda impressione provata allora, vedendo cadere in ginocchio tante migliaia di fedeli (calcolati da 15 a 20.000 e più), i quali piangendo pregavano a voce alta ed imploravano pieni di fede la materna protezione della Regina dei cieli ». Si pregava ancora, scrive il Rev.mo Vicario Generale di Leiria, « quando d’improvviso si odono grida di giubilo e migliaia di braccia si alzano puntando verso il cielo: — Guarda! guarda!… là… più in qua! non vedi?… Ecco! vedo! oh! bello!… « Alzo gli occhi,… e con grande sorpresa vedo distintamente un globo luminoso, che si muove verso l’occidente, spostandosi lento e maestoso attraverso lo spazio… Di repente però scompare ai nostri occhi. Accanto a noi stava una bambina,… più o meno della stessa età di Lucia, che piena di gioia gridava: — La vedo! La vedo ancora! adesso scende giù… « Passati alcuni minuti, esattamente il tempo che solevano durare le apparizioni, la bambina cominciò di nuovo a gridare: — Eccola! eccola! Sale su un’altra volta! e continuò gridando e seguendo il globo con lo sguardo, finché disparve nella direzione del sole. « I pastorelli, in una celeste visione, avevano contemplato la Madre di Dio in persona; a noi era stato concesso di vedere il veicolo, per dire così, che l’aveva trasportata dal cielo sull’inospitale Serra d’Aire ». – Presso l’elce Lucia, interrompendo la preghiera, aveva esclamato raggiante di gioia: — Eccola, eccola che viene! Era il quinto colloquio che la celeste Signora concedeva ai pastorelli di Fatima. — Che cosa volete da me? – fece Lucia. La Vergine rispose che si perseverasse nella recita della corona alla Madonna del Rosario, perché Ella mitigasse la guerra, la quale andava verso la fine. E rinnovando la promessa fatta il 19 agosto, annunziò che nell’ultimo giorno sarebbero venuti S. Giuseppe ed il Bambino Gesù per dare la pace al mondo e N. Signore per benedire il popolo; e per tanto essi si trovassero colà immancabilmente il giorno 13 ottobre. — C’è qui questa bambina che è sordomuta. Non la vorresti guarire? — Fra un anno proverà qualche miglioramento. — Avrei ancora molte domande, per alcuni di convertirli, per altri di guarirli… — Guarisco alcuni, ma gli altri no, perché il Signore non vuole fidarsi di loro. Forse perché non li trovava ben disposti, ovvero perché la croce era ad essi più salutare che la guarigione. — Il popolo desidererebbe tanto avere qui una cappellina… La Signora acconsentì alla proposta, aggiungendo che metà del denaro finora raccolto fosse per le prime spese della fabbrica. Qualcuno aveva consegnato alla veggente due lettere ed una boccettina di acqua profumata per offrirla alla Signora; la quale però rispose: — Quello non serve a nulla per il cielo. — Fate un miracolo perché tutti credano! insistette Lucia, desiderosa di far zittire tanti che blateravano: « E’ una imbrogliona, che merita di essere impiccata o bruciata viva ». L’apparizione confermò ancora una volta la promessa di un miracolo patente a tutti, per il prossimo mese. Poi fissando sui tre innocenti uno sguardo più insinuante, soggiunse: — Nostro Signore è molto contento dei vostri sacrifici; ma non vuole che dormiate con la corda. Portatela soltanto durante il giorno. I bambini, docili alle raccomandazioni della celeste Signora « che voleva loro tanto bene », fin dalla prima apparizione venivano moltiplicando preghiere e sacrifici per i peccatori. Dopo la visione dell’inferno ne sembravano insaziabili. Non bastavano più le ore passate a recitare il rosario, o con la fronte per terra a ripetere le preghiere dell’angelo; alle giornate di rigoroso digiuno si aggiunsero quelle afose senza una stilla d’acqua per dissetarsi, e poi anche una ruvida corda stretta alla vita sulla nuda carne… Sia per la ruvidezza della corda sia perché a volte la stringevano troppo, « questo strumento di penitenza ci faceva soffrire orribilmente, tanto che la Giacinta spesso non poteva frenare le lacrime. Se però le si diceva di toglierla, rispondeva subito: No! Voglio offrire questo sacrificio al Signore in riparazione delle offese che riceve e per la conversione dei peccatori » (Lucia). Sul principio portavano la corda giorno e notte; con quale tormento e con quale danno per la salute è facile immaginare. Perciò la Madre SS.ma si degnò di fare loro da Direttore spirituale. Gli innocenti ubbidirono; ma con fervore tanto più grande, perché sapevano di piacere al Signore, perseverarono in questa dura penitenza, i due fratellini, fino a quando l’ultima malattia li obbligò al letto. Allora, anche perché la mamma non la vedesse, consegnarono ciascuno la sua corda a Lucia. Quella di Giacinta aveva tre nodi ed era macchiata di sangue!

* * *

In quel 13 settembre, quando Lucia esclamò: — Eccola che parte! – il sole riprese il suo splendore consueto, i bambini ritornarono a casa in compagnia dei genitori, che trepidanti li avevano seguiti da lontano, e l’immensa folla si disperse poco a poco. Oltre al globo luminoso e all’abbassamento della luce solare, tale che « potevano vedersi la luna e le stelle nel firmamento », altri segni accompagnarono e seguirono il colloquio misterioso. L’atmosfera prese un colore giallastro. Una nuvoletta bianca, visibile a distanza, attorniava l’elce e avviluppava i veggenti. Dal cielo piovevano come dei fiori bianchi o fiocchetti di neve, che svanivano prima di toccare terra. Ma tutti questi fenomeni dovevano rimanere eclissati dal grande miracolo verificatosi il 13 ottobre.

SESTA ED ULTIMA APPARIZIONE

Il racconto dei pellegrini e più ancora i giornali liberali, discutendo i fatti a capriccio della loro incredulità e annunciando la promessa ripetuta di un grande miracolo, avevano suscitato in tutto il paese un’incredibile aspettativa. In Aljustrel, villaggio nativo dei veggenti, vi era un vero orgasmo. Circolavano delle minacce all’indirizzo dei bambini: — « Se poi non accade nulla… vedrete! Ve la faranno scontare ». Si sparse perfino la voce, che l’Autorità civile pensava a fare esplodere una bomba presso i veggenti al momento della apparizione. I congiunti delle due famiglie, in questo ambiente, con la speranza sentono crescere il timore e col timore il dubbio: « E se i bambini si sono ingannati? ». Solo essi si mostravano imperturbati. Non sapevano quale potesse essere il miracolo, ma sarebbe avvenuto immancabilmente. Le bombe poi… « oh ! che felicità! saliremo di là con la Madonna in paradiso! » – esclamavano. – Il 13 ottobre spunta freddo, malinconico, piovoso; ma la moltitudine aumenta, aumenta sempre. Vengono dai dintorni e da lontano, moltissimi dalle città più remote della provincia, non pochi da Oporto, Coimbra, Lisbona, donde i giornali di maggior diffusione hanno inviato i loro corrispondenti. La pioggia continua aveva trasformato la « Cova da Iria » in una immensa pozzanghera di fango e bagnava fino alle ossa pellegrini e curiosi. Non importa! Verso le undici e mezzo più di 50.000 persone erano sul luogo, aspettando pazientemente. – Arrivano i pastorelli. La folla riverente apre un passaggio, ed essi, seguiti dalle loro mamme trepidanti, vengono a collocarsi dinanzi all’albero, ormai ridotto ad un pezzo di tronco… Lucia ordina di chiudere gli ombrelli. Tutti obbediscono e si recita il rosario. A mezzogiorno preciso Lucia ebbe un gesto di sorpresa e interrompendo la preghiera, esclamò: — Ora si è visto il lampo… Eccola! eccola! — Guarda bene, figliuola! Vedi se non ti sbagli,… ammoniva la madre visibilmente angustiata, nella incertezza di come andrebbe a finire quel dramma. Lucia però non la sentiva; era entrata in estasi. « Il viso della bambina si fece più bello, prendendo un colorito roseo ed assottigliandosi le labbra », dichiarava un testimonio nel processo (13 novembre 1917). L’Apparizione si fece vedere nel solito luogo ai tre fortunati fanciulli, mentre i presenti vedono, a tre riprese, formarsi attorno ad essi e poi alzarsi in aria fino all’altezza di cinque o sei metri, una nuvoletta bianca come d’incenso. Lucia ripete ancora la solita domanda: — Che cosa volete da me? — Voglio dirti che continuiate a dire sempre il rosario tutti i giorni; e che si faccia qui una cappella in onore della Madonna del Rosario. — E allora Voi come vi chiamate? — Io sono la Madonna del Rosario. La guerra sta per finire ed i vostri soldati presto ritorneranno a casa. — Io avrei qui tante domande… Vorreste Voi accordarle tutte o no? — Accorderò alcune, ma altre no – rispose la Vergine; e subito ritornando al punto centrale del suo messaggio: — Bisogna che si emendino! che domandino perdono dei loro peccati! E prendendo un aspetto più triste, con voce supplichevole: — Non offendano più Nostro Signore, che è già troppo offeso! Era l’ultima parola, l’essenza del messaggio di Fatima! Furono queste parole della Vergine, quelle « che più profondamente mi rimasero impresse nel cuore… Quale amoroso lamento contengono e quale tenera supplica! Oh! come vorrei che risuonasse per tutto il mondo, e che tutti i figliuoli della Madre del cielo ascoltassero la sua voce! » (Lucia). Nel congedarsi la Signora aprì le mani, che si rifletterono nel sole sembrando additarlo. Lucia automaticamente gridò : — Guardate il sole! Spettacolo indescrivibile e non mai visto! Cessa la pioggia, le nubi si squarciano e appare il disco solare, come una luna di argento, poi gira vertiginosamente su se stesso, simile a una ruota di fuoco, proiettando in ogni direzione fasci di luce gialla, verde, rossa, azzurra, viola… che colorano fantasticamente le nubi del cielo, gli alberi, le rocce, la terra, la folla immensa. Si ferma alcuni momenti, poi ricomincia di nuovo la sua danza di luce, come una girandola ricchissima, fatta dai più valenti pirotecnici. Si arresta ancora per incominciare una terza volta più svariato, più colorito, più brillante quel fuoco di artificio. Ad un tratto tutti hanno la sensazione che il sole staccatosi dal firmamento si precipita su di loro! Un grido unico, immenso erompe da ogni petto; esso traduce il terrore di tutti e, nelle varie esclamazioni, esprime i diversi sentimenti: « Miracolo! Miracolo! » « Credo in Dio! » « Ave Maria! »… I più gridano: « Mio Dio, misericordia! » e cadendo ginocchioni nel fango, recitano ad alta voce l’atto di contrizione. E questo spettacolo, nitidamente distinto in tre tempi, dura ben dieci minuti ed è veduto da più di 50.000 persone, con le stesse fasi, nello stesso tempo, nel giorno e nell’ora da mesi promessi e preannunziati. Inoltre da molte testimonianze si ricava, che il prodigio con tutte le sue fasi fu perfettamente osservato fino a venti chilometri di distanza… ed ancora, circostanza non disprezzabile, attestata da quanti furono interrogati in proposito: terminato il fenomeno solare, si accorsero con sorpresa che i loro abiti, poco prima intrisi d’acqua, si erano asciugati completamente. Perché tutto questo lusso di meraviglie? Evidentemente per convincerci della verità delle Apparizioni e della eccezionale importanza del celeste Messaggio di cui la Madre di Misericordia era apportatrice. Ascoltiamolo dunque! – Mentre la folla contemplava la prima fase del fenomeno solare, i veggenti gioivano di un ben diverso spettacolo. Accomiatatasi la Vergine, essi continuavano a seguirla con lo sguardo mentre saliva nello sfondo della luce solare. Quando disparve, ecce mostrarsi accanto al sole la Sacra Famiglia, a destra la Vergine vestita di bianco con manto ceruleo e il volto splendidissimo più del sole; a sinistra S. Giuseppe col Bambino, i quali sembravano benedire il mondo col gesto della mano in forma di croce. Scomparsa poi questa visione, vide ancora Nostro Signore benedicente il popolo e di nuovo Nostra Signora « sotto diversi aspetti, sembrava l’Addolorata, ma senza la spada nel petto; e credo aver visto ancora un’altra figura: la Madonna del Carmine (Lucia). – Cessato il fenomeno solare, l’entusiasmo della folla esplose in un vero delirio. I più, precipitandosi sui veggenti, le cui predizioni si erano sì splendidamente avverate, li volevano vedere, toccare, interrogare, e … averne reliquie. Lucia perdette così non solo il velo, ma anche le lunghe trecce… – Ventiquattro ore dopo, la notizia di quanto era avvenuto a Fatima, aveva raggiunto i più remoti angoli del Portogallo. L’effetto fu incalcolabile… Ma non appartiene più alla storia delle apparizioni.

G. da Fonseca S. J.

 

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (8)

CAPITOLO XVII

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLE SCIENZE

Incertezze, tenebre, materialismo, errori mostruosi, caos intellettuale, ecco ciò che la filosofia moderna guadagnò facendosi discepola del paganesimo, malgrado il divieto sì positivo dei Padri della Chiesa e la riserva così eloquente dei secoli di fede. Ora, la filosofia è per eccellenza la cultura dell’idea, e l’idea governa il mondo. La filosofia esercita dunque un influsso inevitabile sulla scienza in generale, sulle arti, sulla letteratura, su tutte le manifestazioni del pensiero. Diventando pagana, essa dovette imprimere a tutte queste cose i suoi vari caratteri. Fatti costanti, universali, rendono palpabile la verità di questa induzione, incontestabile a priori. Cominciamo dalla storia. – Il primo carattere della moderna filosofia, figliuola della filosofia pagana, si è l’incertezza. Gli innumerevoli sistemi da essa generati, e che anche ogni giorno va generando, ne sono la prova. Un tal carattere fu dalla medesima comunicato alla storia. La storia è la scienza dei fatti, delle cagioni loro, delle loro relazioni, del loro scopo particolare e della tendenza loro verso un fine generale e supremo. Ora, i fatti della storia sono dovuti ad una doppia cagione: l’azione di Dio e la libertà dell’uomo, come essi sono coordinati a un doppio scopo: la gloria di Dio e la salute dell’uomo. Quindi, un doppio elemento nella storia: l’elemento divino e l’elemento umano. La cognizione di questo doppio elemento e della sua azione combinata nei fatti che empiono gli annali del mondo, è la filosofia o l’occhio della storia. È evidente che tutta questa filosofia dipende dall’idea che serve di punto di partenza. Arte monotona di registrare date e nomi propri, ecco la storia se questa idea non esiste; menzogna, sogni, se tale idea è falsa; delizioso studio, fonte dei più preziosi insegnamenti, se tale idea è vera. – Ma questa idea rivelatrice, chi mai la può comunicare all’uomo? Nessun altro che Quegli che può rivelare 1’umanità a se stessa, la sua origine, i suoi doveri, i suoi destini. È dire abbastanza che non appartiene che a Dio ed alla religione il darci la vera filosofia della storia. Ora, diventando pagana, la storia cessò di cercare la sua bussola nella religione: essa avrebbe arrossito, come la filosofia stessa, di chiedere lumi a colei che non si cessava dal rappresentare come la madre dell’ ignoranza e la regina della barbarie. Che dico! Non solo la storia lasciò repentinamente la scuola della fede, ma ancora tolse a sé la possibilità di rientrare nella medesima, declamando su tutti i tuoni e ad ogni proposito contro la Chiesa. A tale che, secondo la giusta osservazione del conte de Maistre, dopo il Rinascimento la storia è una permanente cospirazione contro la verità. D’ allora in poi, non più alcuna filosofia della storia; ogni storico si arrogò il diritto di scrivere sotto l’ispirazione delle sue opinioni, dei suoi pregiudizi, delle sue antipatie e delle sue simpatie personali. Quindi quella confusione veramente filosofica nello estimare i fatti i più volgari; quindi quelle riabilitazioni scandalose dei più grandi colpevoli; quindi, infìne, quelle condanne, più scandalose ancora, dei più grandi uomini e delle più belle azioni. Spogliata della sua maestà, la storia non fu troppo spesso che una cornice per mettere in mostra un sistema preconcetto od una tesi in favore di un interesse di setta e di partito. Nella semplice esposizione dei fatti, essa si mostra 1’eco fedele del paganesimo. Essa ci parla sul serio dello stato di natura; essa ci racconta che vi fu un tempo in cui gli uomini vivevano dispersi nelle selve, in cui si cibava di ghiande, in cui non avevano altra lingua se non un piccolo numero di segni per indicare i primi bisogni della vita materiale. Che bella idea questo ci dà della dignità umana e della bontà di Dio! Che mezzo eccellente di confermare fede alla verità del racconto Mosaico, base stessa della storia! Non basta il distruggere; su questi dati assurdi si fondano sistemi sovranamente avversi alla religione e all’ ordine sociale. Si sostiene, per esempio, che Dio non si è rivelato all’ uomo; che la religione, la società sono 1′ opera dell’uomo e del tempo. – Non solo una tale filosofia della storia copia il paganesimo, ma da figliuola bennata prende la difesa di suo padre. Essa pretende che i cristiani hanno calunniato Nerone, Decio, Diocleziano e gli altri persecutori; accusa le vittime dei delitti dei carnefici; pone a carico del Cristianesimo (che essa chiama fanatismo) una gran parte degli eccessi di cui il Cristianesimo ebbe a soffrire; accusa i sommi Pontefici, quei medesimi che salvarono 1’Europa dalla barbarie, d’ ambizione e di crudeltà. Su molti punti, la Chiesa non merita né la fiducia, né il rispetto, né la gratitudine delle nazioni: tale si è la conclusione di questo insegnamento filosofico della storia. Al carattere d’incertezza e di pirronismo universale si aggiunge il materialismo. Quelle magnifiche viste del genio cattolico che si trovano nei Padri della Chiesa , soprattutto in Sant’Agostino, quelle viste di complesso che incatenando gli avvenimenti gli uni agli altri, spiegano tutta un’epoca, disparvero dalla storia collo spirito che le inspirò. Dopo il Rinascimento, nessuno, tranne Bossuet, si alzò o seppe mantenersi alle cagioni supreme degli avvenimenti, a quel Moderatore supremo che nelle sue mani tiene le redini di tutti gli Imperi, che li innalza o che li abbassa a suo grado, e che guida il mondo mentre l’uomo si agita. Tito Livio, Sallustio, Tacito, Senofonte, Erodoto sono divenuti, e per lo spirito e per la lettera, modelli obbligati. Quindi, silenzio assoluto sull’azione della Provvidenza negli avvenimenti di questo mondo. – Scartato sistematicamente l’elemento divino, la storia riapparve sotto la penna degli autori cristiani, ciò ch’essa fu sotto la penna dei pagani, una lettera morta. Gli annali del genere umano, aperti a tutti gli occhi, cessarono di dare all’uomo la conoscenza di Dio e di se stesso, l’intelligenza della sua missione e della sua condizione sulla terra. Quali furono i risultati di questo ritorno al paganesimo? Per la storia, la degradazione; per l’uomo, il materialismo ed il fatalismo. Le altre scienze non furono guari più felici. Ostilità contro la religione e materialismo, tali sono i caratteri che esse rivestirono, i vantaggi che esse acquistarono diventando pagane. Superflua cosa sarebbe il verificare con lunghi particolari questo fatto evidente: contentiamoci di alcune osservazioni generali. Dapprima, chi di noi non udì il rumore dei sarcasmi lanciati da tre secoli contro la religione ed il medio-evo da tutte le bocche dotte d’Europa? Cotali sarcasmi, misti di sofismi, non formavano forse, nell’Enciclopedia e nella più parte delle opere moderne, come un’ immensa montagna innalzata contro il cielo dai moderni Titani? Oggigiorno ancora non è forse dall’alto di tale montagna che parlano il più gran numero dei dotti e dei maestri della gioventù? Non è forse di là che incessantemente discende quel1’odio cordiale dei letterati contro il Cattolicesimo, o il disprezzo, più insultante dell’odio? Non è forse di là che viene l’opinione ancor sì accreditata, che la fede non si può trovare negli animi se non in ragione inversa dei lumi? la superba pretesa di non mai chiedere alla religione lo scioglimento d’alcun problema? L’affettazione sostenuta di non mai pronunciare il suo nome nella esposizione delle scientifiche teorie? – Che cosa guadagnò la scienza con questa pagana ostilità? Privo della fede che sola può rivelargli i segreti del mondo morale, 1′ umano spirito si trovò inabile a tutte le scienze di un ordine superiore: alla scienza delle sue relazioni con Dio; alla scienza delle sue relazioni coi suoi simili, sì nell’ordine civile che nell’ordine domestico. Chi non arrossirebbe vedendo l’ignoranza funesta in cui l’Europa è caduta, di tutte le cognizioni veramente degne dell’ uomo? Quale scioglimento seriamente accettevole sa essa dare da tre secoli in qua a tutti i grandi problemi, dai quali dipende la pace delle nazioni ed il solido progresso del genere umano? Non fa egli pietà il vedere le questioni le più semplici di religione, di libertà religiosa, civile, domestica, di patriottismo cristiano, (questioni elementari nei secoli di fede), oltrepassare le nostre sommità intellettuali e mettere in fallo le capacità dei nostri moderni Licurghi? – Il discredito delle scienze le più nobili e le più necessarie ecco il primo frutto del paganesimo classico. La profanazione di queste stesse scienze ne è un secondo. Altre volte, tale era la potenza dello spirito cristiano, ch’esso spiritualizzava in qualche modo le scienze materiali facendole volgere all’avanzamento della religione. Noi vedemmo ciò, parlando delle celebri scuole d’Inghilterra e d’Irlanda; noi lo vediamo ancora nell’ordine gerarchico indicato da San Tommaso e generalmente seguito in Europa prima del Rinascimento. Oggidì tale si è la potenza dello spirito pagano, ch’esso fa servire anche le scienze morali a raffermare il materialismo ed a propagare il suo regno. – Ad esempio, che di più morale nella sua essenza e nel suo scopo quanto la scienza di governare le nazioni? Ebbene! Osservate ciò che avviene in Europa da tre secoli. La legislazione non spogliò essa forse il suo carattere religioso? La scienza del diritto non cessò forse affatto di appoggiare le sue basi sul diritto primordiale, la volontà suprema di Dio, manifestata nella Scrittura e nelle decisioni della Chiesa? Quale relazione vi è mai tra le Carte moderne ed i Capitolari dei nostri antichi re o le Costituzioni degli imperatori cristiani? La politica non è forse ridotta all’arte di materializzare i popoli? Non la udite voi, d’accordo colla sua moderna compagna, la scienza economica, proclamare che un popolo nulla ha a desiderare dacché può dormire tranquillo, dacché ha pane da mangiare, vino da bere, letto da riposarsi, teatri per divertirsi, strade ferrate per trasportarsi, macchine per vestirsi a buon prezzo e gas per rischiararsi? – Non è forse a procurargli questi vantaggi che tendono esclusivamente i suoi sforzi ed i suoi calcoli? Se essa insegna la morale alle popolazioni, non è forse ancora nell’interesse dell’ordine materiale e della tranquillità dei suoi godimenti? Essa può applaudire ai suoi propri successi, poiché sotto l’influsso di questa politica tutta pagana, i popoli cristiani sono giunti a credere che difatti l’uomo non viva se non di pane; che ogni scienza la quale non si traduce in godimenti materiali sia una chimera; che ogni insegnamento che non rende onore e vantaggio sia un inganno; che la felicità sia tutta quanta quaggiù. Ed i popoli non sanno più chiedere se non ciò, non sanno più lavorare se non per ciò, non sanno più combattere se non per ciò!

CAPITOLO XVIII

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Parlerò io delle scienze fisiche e naturali? Qui soprattutto si fa sentire, in tutta la sua estensione, la funesta influenza del paganesimo classico. L’universo è un magnifico specchio in cui si riflettono sotto mille sembianze diverse le perfezioni di Dio che sfuggono all’occhio umano. Il firmamento con i suoi innumerevo lisoli, la terra con le sue infinite ricchezze sono due predicatori eloquenti, la cui lingua, intelligibile a tutti i popoli, annunzia incessantemente la gloria del Creatore. Sulla fronte dei cieli, come sulla superficie del grano di sabbia, Dio impresse in caratteri scintillanti la prova della sua esistenza, della sua potenza, della sua saggezza e della sua bontà. Ecco perché, girando uno sguardo scrutatore sulla creazione tutta quanta che Dio aveva tratta dal nulla, il supremo Artefice disse che tutte le cose erano buone. Ecco perché i saggi d’Oriente dicevano: L’universo è una lira di cui Dio è il musico. Chi oserà negare che il vero scopo delle scienze fisiche sia di ricercare nella natura ciò che l’occhio divino vi ha veduto? che la loro gloria sia quella di trovarlo, ed il progresso dell’uomo di servirsene come d’una scala per innalzarsi alla cognizione più perfetta ed all’amore più fedele del Creatore, sua felicità e suo fine? O, per parlare come la teosofia indiana: chi oserà negare che la felicità dell’uomo sia quella d’essere iniziato ai segreti divini di questa misteriosa armonia? Poiché l’uomo pure non è egli forse, in un senso, il dio e quindi il musico dell’universo? Non bisogna forse, quindi, che le corde armoniche d’una tale lira, accordata dal Creatore medesimo, fremano sotto la dotta sua mano? Cercare il mondo spirituale nel mondo materiale, tale è lo scopo principale cui bisogna correr dietro leggendo il gran libro della natura; scoprirvi dei mezzi di guarigione e di benessere materiale non è che il secondo. L’ordine provvidenziale consiste nello armonizzare questo doppio scopo; il disordine consiste nel dimenticare il primo per non occuparsi che del secondo: è ciò il materialismo, è ciò la profanazione della scienza, poiché è la schiavitù della natura alla iniquità, e la degradazione della intelligenza. Docili alla voce del Creatore medesimo, così compresero lo studio della natura ed i Profeti ed i Padri della Chiesa, ed i secoli di fede. Nulla è paragonabile alle sublimi lezioni di Giobbe e d’Isaia, ai trattati immortali di S. Basilio, di Sant’Ambrogio, di San Gregorio da Nissa, di San Crisostomo e di Sant’Agostino sull’opera delle Sei Giornate. Oltre lo scopo altissimo della scienza, ch’essi stupendamente raggiunsero, essi diedero ai più difficili problemi soluzioni che la scienza moderna è ben obbligata di ammettere sotto pena di sragionare perpetuamente. Così la capirono nei tempi moderni alcuni geni abbastanza forti per resistere al fascino del materialismo pagano. « La maggiore utilità, dicono eglino, che trarre si possa dallo studio della natura, si è di eccitarsi alla pietà. Non vi è soggetto di riflessione più desiderabile dei fenomeni della natura, quando sono riferiti ad un autore intelligente. Egli è un vedere l’universo come un tempio in cui noi siamo in adorazione permanente. Invece di non pensare a Dio se non di rado, come ciò avviene a coloro che non vi sono avvezzi, ci diventa in qualche guisa impossibile il non legare le idee di Dio con tutti gli oggetti che colpiscono i nostri sguardi. Non un solo corpo organizzato esiste, che, nei mezzi che ha di conservarsi e di riprodursi, non dimostri la cura particolare che il Creatore gli concesse sotto questi riguardi. La è dunque una stessa intelligenza che ha tutto ordinato; la stessa intelligenza s’interessa a tutti gli esseri creati. Sotto le leggi di questo Essere noi viviamo; la nostra esistenza, la nostra felicità sono in sue mani, e quanto noi abbiamo a sperare deve venire da Lui. Nell’immenso quadro che ci offre la natura, noi vediamo che nulla fu tralasciato, e che lo stesso grado di attenzione e di cura fu concesso ai più piccoli oggetti. Come potrebbe mai venirci in mente che noi saremo dimenticati o negletti giammai (Linneo, Saggio, etc.)? ». – Dal canto suo, trattando di una sciènza particolare, della quale il paganesimo moderno lungo tempo e crudelmente abusò, Cuvier seppe indicare lo scopo al quale bisognava ricondurla. Ei stabilì che la geologia dimostra che gli annali della terra s’accordano cogli annali dei popoli e meravigliosamente confermano il racconto di Mose. « È questo, dice Cuvier, uno dei risultati i meglio provati insieme ed i meno aspettati di questa scienza; risultato tanto più prezioso, in quanto lega con una catena non interrotta la storia naturale e la storia civile. Io penso dunque coi sig. Deluc e Dolomieu, che se v’ha qualche cosa dimostrata in geologia, sia questa, che la superficie del nostro globo fu vittima d’una grande e subitanea rivoluzione, la cui data non può rimontar guari al di là di cinque a sei mila anni; che tale rivoluzione ascose e fece sparire il paese abitato prima dagli uomini e dalle specie di animali i più conosciuti in oggi; ch’essa, all’opposto, pose a secco il fondo dell’ultimo mare e ne formò i paesi ora abitati; che dopo tale rivoluzione il piccolo numero d’individui dalla medesima risparmiati si sono sparsi e propagati sui terreni nuovamente messi a secco, e per conseguente che dopo simile epoca soltanto le nostre società ripigliarono il progressivo loro cammino, ch’essi formarono stabilimenti, raccolsero fatti naturali e combinarono sistemi scientifici ». Far servire la natura alla gloria del suo Autore ed al bene spirituale dell’uomo, senza escludere alcuno dei risultati materiali dell’investigazione, tale è l’ordine, tale è, sotto l’ispirazione del Cristianesimo, la magnifica missione della scienza. Chi dirà la parte vergognosa alla quale il paganesimo moderno l’ha condannata? Sta scritto che i Filistei, dopo essersi impadroniti di Sansone, gli recisero i capelli, gli strapparono gli occhi e Io condannarono a far girare innanzi loro una macina da mulino per divertirli sino al giorno che il forte d’Israello li seppellì sotto le mine del loro tempio, trasformato in teatro. Ecco quello che il paganesimo fece delle scienze fisiche. Esso se ne impadronì, le spogliò della forza e della luce poste in quelle acciò rendessero testimonianza al Creatore; le torturò in ogni guisa per strappar loro delle bestemmie, e vietò alle medesime di pronunziare mai il nome di Dio, in luogo del quale pose sulle loro labbra la parola NATURA: la natura fece quanto noi vediamo; la natura pose l’istinto nelle sue creature; la natura impose l’immobilità ad alcune delle sue creature: la natura dovunque, la natura sempre, senza mai dire che cos’è questa donna. Dopo avere degradato le creature, le costrinse, con lunghi e perseveranti sforzi, a rivelargli i loro segreti, ad aprirgli le loro viscere, e si servì degli uni ed esplorò le altre per procurarsi grossolani godimenti, e se ne inebbriò, e ne inebbriò la società tutta quanta, la quale vacilla sulle sue basi aspettando di trovare una tomba in questa orgia senza nome, in cui l’ateismo forzato della creazione va unito all’incredulità degli animi ed al sensualismo dei cuori. – Degradare la natura, condannarla a tacersi sulla religione e ricondurre il mondo moderno al sibaritismo del secolo di Tiberio, ecco ciò che il paganesimo classico fece delle scienze fisiche. È tutto? Non ancora. Invece di lasciar loro, per esprimersi, parole cristiane ed intelligibili, compose ad esse un inintelligibile gergo che non è di alcun paese, ma che ha il vantaggio di portare il doppio suggello del paganesimo greco e del paganesimo latino. Come non protestare, in nome del buon senso e del buon gusto, nonché in nome della scienza medesima, contro la terminologia barbara, introdotta dal Rinascimento nel nostro linguaggio scientifico? Lo faremo per mezzo d’uomo non sospetto. « Certo, una scienza non potrebbe limitarsi ai termini volgari: essa è costretta ad averne di particolari. Le parole hanno d’uopo di essere definite, cioè semplicemente spiegate con altri termini più volgari e più semplici, e la sola regola di queste definizioni è quella di non introdurvi alcun termine che abbia d’uopo esso stesso di essere spiegato, cioè che non sia chiaro di per sé o già prima spiegato. « I termini scientifici non essendo inventati se non dalla necessità, egli è chiaro che non si deve così a caso caricare una scienza di termini particolari. Sarebbe pertanto a desiderare che si abolissero quei termini scientifici, e per così dire barbari, che non servono se non ad abbagliare; che in geometria, ad esempio, si dicesse semplicemente proposizione invece di teorema; conseguenza invece di corollario; osservazione invece di scholio, e così degli altri. La più parte delle parole delle nostre scienze sono tratte dalle lingue dotte in cui erano intelligibili al popolo stesso, poiché non erano spesso se non se termini volgari o derivati da essi termini. Perché non conservare loro un tal vantaggio? Le parole nuove, inutili, bizzarre o tratte troppo da lontano sono quasi così ridicole in materia di scienza che in materia di gusto. Non si può mai rendere il linguaggio di ogni scienza troppo semplice, e per così dire troppo popolare; non solo è questo il mezzo di facilitarne lo studio, ma è eziandio un togliere un pretesto di screditarla al popolo, il quale s’immagina o vorrebbe persuadersi che il linguaggio particolare d’una scienza ne fa tutto il merito, e che è un baluardo inventato per impedirne gli accessi (D’Alembert, Enciclop., art. Elementi.) ». Forse il popolo non si è sempre ingannato. Checché ne sia, sinché le scienze parleranno francese od italiano o tedesco od inglese, in greco ed in latino, o piuttosto un idioma barbaro, miscuglio bizzarro di due lingue morte, esse non diventeranno mai popolari. La più graziosa di tutte, la botanica, rimarrà soffocata sotto il peso della sua non intelligibile nomenclatura. È questo un novello benefizio di cui esse vanno debitrici alla nostra fanatica ammirazione per i pagani. Ve n’ha un altro. Diventando pagana, la scienza diventò affatto materiale, o, come si dice, affatto positiva. La sua gloria consistette nello studiare la materia, niente altro che la materia; essa moltiplicò le osservazioni e le esperienze, ed accumulò fatti numerosi. Lo ripeto, è questa la sua gloria; essa non ne rivendica alcun’altra. Ma i fatti soli sono essi la scienza? No: non più di quello che il corpo senz’anima non è l’uomo, non più di quello che i materiali accumulati confusamente qua e là sul suolo non sono un edificio; non più di quello che i colori, per ricchi che siano, gettati senz’ordine sulla tela, non sono un quadro. Ciò che manca alla scienza attuale, si è la vita; si è un pensiero fecondo che l’animi, che ne armonizzi, ne coordini tutte le parti: e ciò manca alla scienza perché la fede manca alla agione. In una parola, finché la scienza, diventata pagana con il Rinascimento, non sarà di nuovo diventata francamente cristiana, non sarà se non un cieco che senza guida percorre paesi sconosciuti, un ignobile meccanico condannato a strappare con pena dal seno della terra le pietre del fabbricato che la sua mano non edificherà: il genio che crea è figlio della fede.Da questa mancanza della fede derivano ancora e l’impotenza assoluta di innalzarsi ad alcuna vista complessiva, e la strettezza, l’individualismo in qualche modo, che pone il suo triste conio su tutti i lavori attuali dell’intelligenza. Le divisioni, le sotto-divisioni, vera epidemia della scienza, hanno invaso ogni parte delle cognizioni umane. Quindi ne viene che gli uomini i più distinti sono condotti a questa notevole confessione, che le scienze le più in onore di presente non fecero un passo dopo Aristotele. « La fisiologia comparata, dice il signor Bourdon, è rimasta tale, quasi, quale la troviamo nelle immortali opere di Aristotele, senza accrescimento, senza nuova luce. A forza di distinguere ogni cosa sino a gradi quasi infiniti, le generalità che formano le scienze furono quasi generalmente neglette. Ad eccezione di tre o quattro naturalisti, le cui opere fanno la gloria delle scienze moderne, la più parte di coloro che si occuparono della storia della natura ne fecero una scienza piena di puerilità (Principri di fisiol. Comp., p. 45) ». Buffon tiene lo stesso linguaggio: « La storia degli animali di Aristotele, dice, è forse ancora oggidì ciò che noi abbiamo di meglio fatto in tal genere… Dal suo lavoro sembra ch’ei li conoscesse meglio forse, e sotto viste più generali che non si conoscano di presente (Modo di studiare la stor. natur., t. 1, p. 43, 44.) ». A queste testimonianze facil cosa sarebbe aggiungerne ben altre. I progressi nelle scienze fisiche, presentano il lato bello della storia della ragione, diventata incredula diventando pagana. A Dio non piaccia che noi le disputiamo alcuno dei successi reali di cui essa si glorifica; ma questi medesimi successi, lo diciamo arditamente, furono funesti al vero progresso dell’umano spirito, cioè al suo cammino progressivo verso la verità: la verità, cioè Dio, ed essi l’hanno allontanato da Dio.Né solamente inclinarono lo spirito umano verso la materia presentandogliela come l’unica fonte dei suoi godimenti e della sua gloria, ma ancora esagerando ai suoi occhi l’importanza delle scienze naturali e di tutte quelle che vi si connettono. Vedendo le innumerevoli opere scientifiche di fisica, di storia naturale, di geologia, di matematica, pubblicate da un secolo in ispecie; vedendo i viaggi intrapresi per terra e per mare, le spese prodigiose fatte dai particolari e dai governi; vedendo gli onori concessi a coloro che effettuarono qualche progresso, gli elogi dati a codeste scienze ed il posto ch’esse occupano nell’insegnamento, non si direbbe forse che l’uomo non è creato se non se per conoscere le proprietà della materia, e che un tale conoscimento è il primo fra tutti per la sua dignità, pel suo vantaggio, e per la sua certezza? Qui traspare il pensiero che anima, forse a loro insaputa, i continuatori del Rinascimento. Ei decorarono del titolo esclusivo di scienze esatte le matematiche, introduzione alle scienze fisiche, e dissero: « Fatti semplici, ben veduti e ben confessati, ecco il punto di partenza necessario d’ogni scienza. Seminate geometri, e da questa semente feconda nasceranno dovunque filosofi (Encicl., art. Elementi e Geometria) ». Difatti il mezzo non è mal trovato. Quando voi sarete riusciti a persuadere che nulla v’ha di esatto, cioè di vero, se non ciò che si può toccare colla mano, vedersi coll’occhio, provarsi con A più B, egli è evidente che non avrete più se non uomini empi e scettici. Tutte le verità che non saranno suscettibili di questo genere di prova, non innalzandosi più ai vostri occhi al disopra della verisimiglianza o della probabilità, cesseranno di essere per l’uomo illuminato punti di credenza e regole obbligatorie di condotta. Creare il materialismo in morale, il pirronismo in religione, in istoria ed in filosofia, ecco l’ultima parola delle scienze naturali diventate pagane. Se questo è un progresso, omaggio al Rinascimento!

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (7)

CAPITOLO XV

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA FILOSOFIA

Mentre il paganesimo classico si formula nell’ordine artistico col naturalismo e col sensualismo, esso si fa sentire nell’ordine puramente intellettivo mediante un influsso forse più funesto, sebbene meno palpabile. In nessun luogo fece più strage che nella filosofia. Chiamo filosofìa quell’ ardente ricerca della verità su Dio, sull’uomo, sul mondo, sul complesso degli esseri, sulla loro natura e sulle relazioni che li congiungono. Per spiegare questo immenso dominio, la ragione, (si capisce) ha qui d’uopo più che altrove, d’ un punto di partenza certo, d’una bussola affatto sicura e d’una pietra di paragone infallibile, che l’aiuti a distinguere il vero dal falso. Sotto l’impero del Cristianesimo, tutte queste condizioni di successo erano messe a sua disposizione. – Figliuola docile della fede, la ragione cominciava ad ascoltare le lezioni della madre. Poscia, prendendo per punto di partenza le verità ch’essa aveva imparato a sì infallibile scuola, ne ricercava le relazioni nascoste, ne dimostrava la ricchezza e la varietà, ne faceva applicazioni feconde d’ utili risulta menti. Aveva dubbi? Consultava la genitrice, paragonando le scoperte da lei fatte agli insegnamenti che aveva ricevuti, e sempre, da figliuola bennata, faceva ridondare i suoi trionfi a gloria della religione. In altri termini, e per parlare la lingua del più grande filosofo che il mondo abbia conosciuto nel sistema scientifico creato dal Cristianesimo e sì ben capito dal medio-evo, le scienze somigliavano ad una famiglia ottimamente ordinata. La teologia era la madre, tutte le scienze erano sue figliuole; la madre dava gli ordini, imprimeva la direzione; le figliuole lavoravano, ognuna nella sua orbita, per il bene comune. Lo scopo ultimo di tutti gli sforzi era la glorificazione ed il servizio della loro regina, la quale poneva in opera, pel bene fisico e morale dell’uomo, i risultamenti ottenuti da ogni scienza e dalla filosofia stessa, sua figliuola primogenita [“Theologia imperat omnibus aliis scientiis tamquam principalis, et utitur in obsequium sui omnibus aliis scientiis, quasi usualis … ita ut, cum finis totius philosophiæ sit intra finem theologiæ et ordinatus ad ipsum, theologia debeat omnibus aliis scientiis imperare, et uti iis quæ in eis traduntur.] D. TH. in lib.l, Sentent. Prolog. —“Non accipit sua principia ab aliis scientiis, sed immediate a Deo per revelationem. Et ideo non accipit ab aliis scientiis langua a superioribus, sed utitur eis tanquam interiorìbus, et ancillis.” [Id. S. Theol., p. l, q . 1, art. V.]. – Dalla certezza del punto di partenza, dalla direzione infallibile nella investigazione, dalla convergenza universale di tutte le scienze verso lo stesso scopo erano derivate e quell’assenza d’ ogni grave errore, e quella lucidità nelle definizioni, e quella ricchezza di vedute, e quella fecondità nelle applicazioni, e quel carattere d’unità e d’universalità nella scienza, e quella profonda intelligenza della verità, e quelle magnifiche speculazioni che riunendosi nelle opere di Sant’Agostino, di Sant’Anselmo, d’Alberto il Grande, d’Alessandro d’Ales, di San Bonaventura e di San Tommaso, come in un vasto specchio, illuminavano coi loro immortali splendori tutte le questioni le più astratte dell’ ordine religioso, politico, civile, domestico ed anche materiale. Sì splendori immortali, poiché i mille sistemi filosofici nati da tre secoli in qua, lungi dall’oscurarne la purezza, non fecero se non renderla più vivace; immortali, poiché ivi ancora bisogna ricorrere per ricercare lo scioglimento di tutti i problemi che tormentano il mondo. « Erede della filosofia dei Padri della Chiesa, la filosofia del medio-evo, dice il signor Moeller, appoggiandosi a credenze incrollabili, rimase sempre la stessa quanto ai principii; ed essa guadagnò così, con lavori secolari, una grandezza ed una estensione che mai fu eguagliata da verun’altra filosofia (Moeller, Stato della filosof. modem, in Alemagna, p. 4.) ».Ma le cose cangiarono affatto col Rinascimento. In tale età mille voci s’innalzarono d’ogni parte d’Europa per proclamare i sistemi filosofici della Grecia, il vero tipo della filosofia, il modello della libera discussione ed il vasto campo in cui la ragione doveva entrare se voleva giungere alla scoperta della verità. La prima cosa da fare in questo scopo era di persuadere alla ragione di cercare in se stessa il suo punto di appoggio e di cessare di pigliare l’insegnamento della Chiesa per base delle sue investigazioni filosofiche. E siccome la si era persuasa di finirla col suo passato letterario ed artistico, rappresentandoglielo quale il tipo dell’ignoranza e della barbarie, mille avvocati sostennero che la filosofia cattolica del medio-evo era la compressione dello spirito umano ed il tipo della servilità. E perché, ve ne prego? Perché essa pigliava per suo punto di partenza, per sua bussola e per sua pietra di paragone le verità indimostrabili della Fede.Dite dunque che la geometria, la chimica, tutte le scienze, di qualsiasi natura, sono la compressione della intelligenza, poiché tutte senza eccezione partono da assiomi o da principii indimostrati e indimostrabili. Voi pretendete che la Chiesa ostasse alla libertà del pensiero e che i dogmi da essa imposti alla ragione inceppassero il libero muoversi degli spiriti. Per provare che siffatti gravami addotti contro la filosofia cattolica sono fondati, voi dovreste anzi tutto dimostrare che i dogmi della Chiesa non sono verità le quali, come tali, formano le basi di ogni verace filosofia. Infatti, se i nostri dogmi sono verità, dov’è il motivo di ammettere che la filosofia la quale cerca la verità, possa trovarsi imbarazzata accettando una verità qualunque? Ora, sin qui, nessuno poté provare che i dogmi cattolici non siano verità. Sono ignorati, respinti; ma è sopra le umane forze il dimostrare che la fede della Chiesa sia un errore.Si poteva andare più lungi e chiedere agli avvocati del paganesimo rinascente, ai panegiristi della pretesa emancipazione intellettiva, se una filosofia che accetta per punto di partenza le verità della fede cattolica, sia più ristretta, meno libera di quella che prende per sola ed unica base la ragione umana? Egli è evidente per ogni uomo ragionevole, che una idea, quale essa sia, non potrebbe limitare l’esercizio della ragione se non in quanto è essa stessa limitata. Se dunque i dogmi cattolici non erano superiori all’umana intelligenza, il rimprovero degli apostoli della filosofia indipendente sarebbe stato fondato. Ma le verità religiose hanno un senso sì profondo, sì inesauribile, che nessuno spirito creato è capace di abbracciarle in tutta la loro estensione e di darne una spiegazione compiuta. Perciò, le rivelazioni divine, invece di limitare le facoltà della ragione umana, le offrono di continuo nuovi punti di veduta e danno sempre nuovo alimento al pensiero (V. Moeller, ib., p. 4). Queste così semplici osservazioni, che bastavano per ridurre al nulla le pretese dei nuovi venuti, o non furono fatte, o non furono ascoltate. D’ogni parte si accorse alla scuola dei filosofi pagani. Per entrarvi, bisognava soscrivere a questo adagio di Epicuro: che la vera filosofia non poteva nascere se non fra i Greci, poiché in ogni altra parte la tradizione regnava, e vi si soscrisse. La tradizione cattolica, l’insegnamento della Chiesa furono rigettati come ostacoli, e la sufficienza dell’umana ragione fu solennemente proclamata. Un tal principio preparava la conseguenza finale che fu dedotta ai dì nostri. « Concludiamo. Il Cristianesimo ha perduto il suo antico dominio sulle anime; la fede se n’è ritratta. Abbandonato dalla pubblica opinione, convinto d’inferiorità dalla moderna ragione, avverso al principio delle nostre istituzioni e delle nostre leggi, esso non può più, esso non deve presiedere alla educazione nazionale. Esso non lo può più, perché le sue lezioni non sono più ascoltate; esso non lo deve, perché scopo della prima educazione si è di formare cittadini, esercitati dall’infanzia all’intelligenza, all’amore ed alla pratica delle leggi del paese….« Il Cristianesimo non è più. Abbiamo d’uopo d’una religione; chi la farà? La mia risposta è prevedibile: la ragione ha vinto il Cristianesimo oltrepassandolo; tocca alla ragione di surrogare ciò ch’essa ha distrutto (1) ». Ben tosto i due grandi sistemi filosofici dell’antichità, quello di Platone e di Aristotele, cioè l’idealismo e l’empirismo, riunirono sotto le loro opposte bandiere tutti i professori di filosofia ed i loro scolari. Sotto la bandiera di Platone si schierò l’Italia, diretta dai Medici di Firenze, da Marsilio Ficino,da Andrea Porta e da altri distinti personaggi. Aristotele attrasse al suo vessillo prima l’Inghilterra, poscia l’Alemagna e la Francia. Cominciate al rinascere del paganesimo, queste due linee filosofiche parallele ed opposte si prolungano sino ai dì presenti. Cosa notevole! Le superbe pretese e l’impotenza assoluta, gli eterni tentennamenti, le fluttuazioni, le contraddizioni, gli errori mostruosi, le applicazioni formidabili di questa filosofia pagana nell’Europa moderna, sono esattamente le medesime che sorsero in seno all’antica Grecia. Oggidì come altre volte, essa può scrivere sulla porta delle sue scuole: Qui è l’officina di tutte le assurdità (“Nihil tam absurdi quod non dicatur ab aliquo philosopho”. Cicer.]. Ebbra di se stessa, cade da un estremo all’estremo opposto, senza poter mai tenere quel giusto mezzo in cui si trova la verità. Dal materialismo corre all’idealismo, dal panteismo allo scetticismo per riuscire adesso, come altre volte, all’abisso incommensurabile del razionalismo universale ed alla mina della società. Con Talete di Mileto, suo primo organo nell’antichità e fondatore della scuola ionia, essa proclama l’acqua e l’umido, cioè la materia, qual principio di tutte cose. La scuola italica e Pitagora suo fondatore, le danno una smentita e sforzansi di far regnare lo spiritualismo. Cinquantanni dopo, comparisce la scuola eleatica, i cui principali organi, Senofonte da Colofone, Parmenide e Melisso, professano il panteismo idealista e su vari punti giungono sino allo scetticismo. Colla scuola atomistica, fondata da Leucippo, il materialismo risale sul trono. Dalla contraddizione dei sistemi e dalle stragi del dubbio, sempre crescenti, le quali ne sono conseguenza inevitabile, nasce la scuola sofistica. A volte campioni del prò e del contro, i suoi discepoli si fanno un giuoco ed un’industria di sostenere e di combattere le proposizioni le più contraddittorie. Ancora alcuni anni, e la società greca, già sì caduca, si sfascerà sotto i loro colpi. Socrate giunge ed imprende ad opporre un argine al torrente del dubbio. Ei prende per oggetto la filosofia morale, e forma alcuni discepoli di cui il più celebre è Platone. Padre della scuola accademica, Platone dispiega tutti i mezzi del suo genio per rendere lo scettro allo spiritualismo. Aristotele suo discepolo glielo strappa e fa regnare l’empirismo, che, legato ai peripatetici, non tarda a riaccostarsi al materialismo. Epicuro ve lo fa entrare a piene vele. Discepolo dei successori di Aristotele, ei cava l’ultima conseguenza pratica dalla filosofia del maestro di Stagira. Il suo sistema è l’immoralità; il piacere è il bene supremo dell’uomo. Fondatore della scuola stoica, Zenone viene ad opporsi all’epicureismo. Il corpo è tutto, diceva Epicuro; il corpo è nulla, rispondeva Zenone; il piacere è l’unico bene, continuava Epicuro; il dolore stesso il più vivo non è un male, replicava Zenone. – Dopo cadute più o meno numerose, dopo resistenze più o meno impotenti, giunge, verso il finire del secondo secolo, Sesto Empirico. Relatore accanito di tutte le querele e di tutte le assurdità filosofiche, egli deduce la conclusione finale da questi dibattimenti di mille anni. La prima parola che cade dalla sua penna è contraddizione; l’ultima, scetticismo. Tale è il termine vergognoso a cui riesce la pagana filosofia. Durante il lungo periodo di sua esistenza, qual progresso ha essa effettuato? Quale verità ha essa scoperto? Quale virtù ha essa fatto praticare? Quale società ha essa resa migliore e più durevole? Un uomo non sospetto risponderà: « La storia della filosofia, dice il signor Ancillon, non offre se non un vero caos. Le nozioni, i principi, i sistemi vi si succedono, si combattono e si cancellano gli uni gli altri, senza che si sappia il punto di partenza e lo scopo di tutti questi movimenti, ed il vero oggetto di codeste costruzioni tanto audaci quanto poco solide. » Se essa fu impotente pel bene, chi dirà la sua potenza pel male? « 1 grandi errori della mente erano quasi sconosciuti nel mondo prima della greca filosofia. Essa li fece nascere, o per lo meno li sviluppò, indebolendo il rispetto per le tradizioni e sostituendo il principio dell’esame particolare al principio di fede (Saggio sull’indiff., t. III, p. 58) ». I sofisti prepararono la strada ai barbari.

CAPITOLO XVI

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Risuscitata alla metà del secolo decimoquinto, la filosofia pagana dà una seconda volta lo spettacolo della sua impotenza nello scoprire la verità, e della sua onnipotenza nell’ingenerare l’errore. Non è questa un’accusa volgare che noi ripetiamo per ripeterla dopo mille altri; la è una innegabile verità che non bisogna cessar di ridire. Il paganesimo filosofico ci uccide. Senza parlare degli errori mostruosi su Dio, sull’uomo, sul mondo, di cui macchiò la storia d’Europa da tre secoli in qua, il razionalismo attuale, il razionalismo dissolvente che minaccia la società d’un prossimo ritorno alla barbarie, non ne è se non l’ultima parola. – Infatti, rigettata la tradizione cattolica come un ostacolo e l’infallibilità della ragione posta in assioma; come impedire che il razionalismo in tutte le sue formidabili applicazioni alla religione, alla società, alla famiglia, alla proprietà, non diventi un articolo di fede, qualora salti in capo alla filosofia di proclamarlo? Ora, l’abbiamo visto, la sufficienza assoluta della ragione fu realmente, sebbene tacitamente, stabilita in principio sin dal primo giorno del Rinascimento. Tutte le investigazioni filosofiche ebbero luogo sotto il suo occulto influsso. Bentosto fu gettata via la maschera, e col mezzo di Lutero la ragione fu proclamata sovrana in materia di religione. – Cartesio stese il di lei impero e formulò chiaramente l’universalità de’suoi diritti (Roma condannò la logica di Cartesio nel 1613. Il protestantismo stesso l’anatematizzò nel sinodo di Dordrecht nel 1656; talmente il dubbio cartesiano minacciava il poco di credenza che rimaneva nella Riforma!). – Sentiamo i suoi ammiratori e gli organi suoi fedeli: « Spirito indipendente, novatore ardito, genio di singolare potenza, Cartesio amava troppo di farsi egli stesso le sue idee, di confidare a sé l’intimo suo sentire, perché ei non riconoscesse l’autorità della ragione individuale, e il diritto ch’essa ha di esaminare e di giudicare ogni specie di dottrina. È gloria di Cartesio l’aver proclamato e praticato questi principii, e di essere l’autore di quella intellettuale riforma che recò il suo frutto nel XVII e nel XVIII secolo, e che, oggi più che mai, esercita il suo influsso nel mondo filosofico. Oggi di fatto, grazie a Cartesio, siam tutti protestanti in filosofia; a quel modo che, grazie a Lutero, slam tutti filosofi in religione…. Noi non vogliamo credere che all’evidenza della verità (Globe, n. 147) ». Vediamo ora all’opera la filosofia nuovamente fatta pagana: con Platone essa professa lo spiritualismo puro, e non tarda a cadere nel panteismo idealista con Spinoza. Alla scuola di Aristotele essa si appassiona per l’empirismo: e Bacone da Verulamio insegna che la materia è la cagione delle cagioni, essa stessa senza cagione; Locke trova nella sensazione l’unica fonte delle idee; Condillac inventa l’uomo statua; Maillet giunge all’uomo-pesce, e il barone di Holbach, riassumendo nel famoso Sistema della natura il principio e le conseguenze di questa scuola, ci dà qual manuale della ragione e della condotta il complesso mostruoso di tutte le assurdità e di tutte le turpitudini del materialismo e dell’ateismo tanto antico quanto moderno. Hobbes, Hartley, Barclay, Priestley, Elvezio, Lamétrie, tutte le sommità filosofiche d’Inghilterra, di Francia e d’Europa, applaudirono al coraggio del loro confratello che diceva forte quanto essi pensavano piano. La società medesima, fatta incredula e materialista alla scuola dei moderni pagani, rispose a coro come la società antica nutrita delle medesime dottrine: « La verità è una chimera; il piacere è l’unica legge, l’unico dovere ». – Gli antichi sofisti avevano aperto la via ai barbari: i loro moderni discepoli consegnarono la società ai distruttori del 93: Il pensiero dei saggi aveva preparato la Rivoluzione, il braccio del popolo la eseguì. Tanto predicata da tre secoli, insegnata con tanta cura alla gioventù, spiegata con tante fatiche dai forti cervelli d’Europa, la filosofia pagana era oramai giudicata. Ma, devesi pur dirlo, malgrado questa spaventosa esperienza, l’umana ragione non fu guarita. Il suo divorzio con la fede, l’amore appassionato della sua pretesa emancipazione avevano lasciato sussistere in essa il germe del male. Sulle reliquie ancor fumanti dell’ordine sociale, essa spiegò le stesse pretese alla direzione intellettuale del genere umano. Qui ancora, come nell’antichità, l’ultima sua parola fu il dubbio universale e l’epicureismo. Cabanis osò dire a questa società coperta di sangue e di sozzure: « I nervi sono il principio del pensiero, la cagione dell’idea; l’effetto è di necessità quale è la cagione; dunque il pensiero, dunque l’idea è materiale: dunque l’uomo non è che una macchina, senza altra differenza tra lui ed il suo cane, tranne la grandezza dell’angolo facciale. » Sistema abbietto, al quale Destult di Tracy prestò il soccorso dell’arida sua ideologia. Se Cabanis fu il fisiologo e Destult di Tracy il metafisico del materialismo nel XIX secolo, Volney ne fu il moralista. « Conservarsi, ed a tal fine tutto tentare e tutto fare, ecco, secondo Volney, la grande legge dell’umana natura. Allora, che cos’è il bene? Che cos’è il male? La risposta è facile: Il bene è quanto tende a conservare, a perfezionare l’uomo; il male è quanto tende a deteriorarlo e a distruggerlo. Il maggior bene è la vita, il maggior male si è la morte: nulla v’ha al di sopra del bene fisico, nulla di peggio della sofferenza del corpo: il bene supremo è la sanità (Storia della filosofìa nel secolo deèimonono, t. Il, p. 119). – Carità, abnegazione, fede, speranza, sagrificio dell’interesse personale al pubblico bene sono le virtù degli imbecilli a prò dei bricconi. L’assassinio è un dovere ogniqualvolta è utile. Io, cioè il mio corpo, e poi nulla, ecco tutta la religione; non vi sono se non gli stupidi che possano averne un’ altra. Tale si è la filosofia di Volney. Ora, quando si pensa che tali massime sono state sparse per quindici anni con una spaventosa profusione; quando si pensa ch’ esse penetrarono in tutte le classi della società; che le grazie e la semplicità dello stile han fatto del catechismo di Volney il libro dei salons e delle capanne: si ha forse a stupire del carattere profondamente epicureo dell’età nostra? – In questo sistema, Dio è evidentemente nulla, l’anima è nulla: tutto è materia. Però la nostra filosofia pagana intraprese una reazione spiritualistica contro il moderno Epicuro, come lo aveva di già fatto contro l’antico. I signori Royer-Collard, Cousin, Jouffroy, ed il Globe, si.assunsero la missione di ristaurare lo spiritualismo. Ma priva di base e di bussola, la loro filosofia è caduta nel panteismo e nello ecletticismo senza esautorare il sensualismo di Volney. Il panteismo si trova a grandi caratteri nelle opere di Cousin. Quanto all’ecletticismo, ei non è altra cosa, sotto un nome diverso, se non se lo scetticismo ed il razionalismo assoluto. Uno de’suoi più fervidi apostoli, Jouffroy, è morto nelle angosce di un dubbio orrendo. Tutte le generazioni attuali che ne sono imbevute, sono profondamente incredule: ecco quanto allo scetticismo. Che l’ecletticismo sia pure il razionalismo al suo più alto grado, eccone la prova. – Il pensiero confessato altamente, insegnato chiaramente dai suoi organi, si è che la verità compiuta, la verità tale quale deve essere conosciuta per soddisfare a tutti i bisogni della ragione, è ancora da trovare: nessun sistema filosofico, nessuna religione, nemmeno il Cristianesimo, ne è l’espressione adeguata. Quindi per essi la necessità d’una ricerca universale in tutti i sistemi ed in tutte le religioni, affine di prendervi ciò che è vero, e con tutte queste verità sparse formare un simbolo totale. Ma quale sarà la loro pietra di paragone per distinguere la verità dall’errore? La ragione forse di ogni individuo, o di un solo individuo, riconosciuto per maestro infallibile? Nell’uno e nell’altro caso, voi deificate la ragione e create il più vasto razionalismo che mai si sia visto. Essi ne convengono: « Poiché, dicono, appartiene alla ragione individuale il diritto di esaminare e di giudicare ogni specie di dottrina (Globe, n. 147) ». Ma almeno, sanno essi quali nuove dottrine sostituiranno alle vecchie? Non ancora; essi le cercano. La loro risposta merita d’essere conosciuta: « Le dottrine che devono presiedere alla nostra vita morale, religiosa, politica, letteraria, sta a noi il farle, poiché i nostri padri non ce ne legarono se non delle sterili e logore…. Bisogna dunque fabbricarne delle nuove. Questa necessita dell’età nostra è compresa o piuttosto è sentita da tutti gli animi (ib. n. 56). » È chiaro: il razionalismo non spiegò mai pretese più orgogliose; giammai la ragione, emancipata dalla tutela della fede mediante la filosofia pagana, si mostrò più stupidamente superba; giammai il mondo fu più vicino a nuove e spaventose catastrofi, inevitabili castighi della rivolta spinta sino all’imitazione di satana. Ciò che v’ha di più spaventoso, ciò che mostra sino a quale profondità il paganesimo filosofico sia entrato negli animi, si è che i sapienti del secolo soscrivono senz’altro a queste altiere pretese. Ei chiamano la ragione una rivelazione permanente di Dio, i cui diritti a nessun riguardo si devono sacrificare (Discorso del sig. Di Lamartine, nov. 1843). Credono mostrarsi assai generosi e ben meritare dei cattolici permettendo alla religione di trattare da eguale a eguale colla ragione, di dividere con essa l’impero dell’uomo, dando all’una la sovranità dello spirito ed all’altra la direzione del cuore. « La, religione e la filosofia sono due sorelle immortali, che non possono perire. La religione e la filosofia nacquero lo stesso giorno, il giorno che Dio pose la religione nel cuore dell’ uomo e la filosofia nel suo spirito; bisogna che esse vivano insieme, immortali, l’una a fianco dell’altra, che non si separino, e che nei tempi di prova cerchino d’avvicinarsi anziché di distruggersi (Il sig. Thiers, Discorso sull’istruzione pubblica, 18 gen. 1850). – Ma già i laici del paganesimo negano questa pretesa eguaglianza della religione e della ragione: ei dicono senza velo che la religione non è che un principio di oscurantismo e di corruzione, che la ragione sola è sovrana. « Io proverò, scriveva poco fa un discepolo del signor Cousin (Il sig. Jacques nella Libertà di pensare.), che il catechismo imbestialisce l’infanzia; proverò quindi che la corrompe… bisognava che la ragione si stabilisse al fine sovrana nel suo dominio. Ciò accade nel XVII secolo; Cartesio proclama l’affrancamento definitivo del pensiero, e, nel rispetto ch’egli esprime ancora per la Chiesa e per la teologia, è facile ravvisare un po’ d’ironia e molta prudenza… È egli d’uopo rammentar qui Voltaire e Rousseau? è egli d’uopo aggiungere che le loro dottrine, inspirate dallo spirito del secolo, si sono impadronite della società francese abbastanza fortemente per realizzarsi in qualche guisa nell’ordine dei fatti politici, sostituendovisi con violenza allo spirito del passato, mediante la gran rivoluzione dell’89? Così la ragione, che ancora non era se non se affrancata, è oramai sovrana. La sua volta è venuta di organizzare la società e di governare lo Stato. Divinizzate anche dal popolo, la ragione e la libertà surrogano gli Dei scaduti del Cristianesimo sugli altari donde le passioni popolari li precipitarono. La Convenzione decreta, in nome della ragione, l’esistenza dell’Essere supremo; non vi è più altro culto, altra religione che la religione della ragione ed il culto della libertà. Ecco la storia ».Sì, ecco la storia della filosofia moderna sotto l’influsso del paganesimo classico, non solo in Francia, ma in tutta Europa. Avrei potuto mostrare questa filosofia producente ovunque e soprattutto in Alemagna gli stessi errori, preparando gli stessi delitti, producendo le stesse calamità che in Francia. Basterà dire ch’essa vi giunse non solo in pieno paganesimo, ma sino a quelle regioni vicine all’inferno in cui la ragione, profondamente pervertita, non sa più se non bestemmiare Iddio ed invocare il nulla. Per giustificare la nostra asserzione, ci si permetta di citare le opinioni attuali dei suoi rappresentanti i più accreditati, col giudizio dei loro discepoli. « Vi sono quattro cose, diceva Goethe, che io egualmente detesto: il tabacco e le campane, le cimici ed il Cristianesimo. » Questa spaventosa bestemmia è, secondo la Libertà di pensare, « l’espressione la più ingenua dell’invincibile ripugnanza che il Giove Olimpico dei tempi moderni provava per l’estetica cristiana. Si è per istinto che Goethe odiava la rivoluzione morale che sostituì la Vergine pallida ed infermiccia all’antica Venere, ed alla perfezione ideale del corpo umano rappresentato dagli Dei della Grecia, la magra immagine d’un crocifisso stiracchiato da quattro chiodi. Dopo ciò non fa più meraviglia vederlo porre innanzi al suo letto, esposta a levante la testa colossale di Giove, acciò ei possa al suo svegliarsi rivolgergli la sua preghiera del mattino. Inaccessibile al timore ed alle lacrime, Giove era veramente il Dio di quel grand’uomo. – « Hegel non si pronunciò meno decisamente per la superiorità dell’ideale religioso degli Elleni e contro l’intrusione degli elementi siriaci o galilei. La leggenda del Cristo gli sembra concepita nello stesso sistema della biografia alessandrina di Pitagora; essa ha luogo nel dominio della realtà la più volgare, e non già in un mondo poetico; è un miscuglio di semplicità meschina, di pallide chimere, come se ne in contrano fra le persone fantastiche che non hanno una bella e forte immaginativa. L’Antico ed il Nuovo Testamento non hanno, ai suoi occhi, alcun valore estetico.« Codesta è la stessa tesi che tante volte eccitò il brio spiritoso e la fantasia umoristica di Enrico Heine: ma il signor Luigi Feuerbach, capo della giovine scuola alemanna, è forse l’espressione la più compiuta e la più sviluppata di questa antipatia contro il Cristianesimo; e se il secolo XIX dovesse vedere il finimondo, certo sarebbe lui che bisognerebbe chiamare l’Anticristo ». – Per poco ei non definisce il Cristianesimo un pervertimento della natura umana « Non vi sono che degli ignoranti o degli spiriti superficiali che indirizzar possano all’antichità il rimprovero di materialismo. – L’antichità rappresenta la natura ed il finito; falsati quali noi siamo dalle nostre idee soprannaturali e dalla nostra sete d’infinito, quell’Arte così limitata, quella morale sì semplice, quel sistema di vita sì bene fissato d’ogni parte, ci sembrano una realtà circoscritta. Castore e Polluce, Diana e Minerva sono per noi freddi e senza ideale, perché rappresentano la natura sana e normale. Ma lo spiritualismo cristiano è, nel fondo, ben più materiale … Tutte le false idee che vi sono nel mondo in fatto di morale e di estetica sono derivate dal Cristianesimo. La Grecia, con un tatto divino, aveva afferrato in tutto la perfetta misura, fuggitiva ed inafferrabile gradazione che si intravede per istinto, ma in cui uno non può mantenersi….» – « Non è solamente il sovrannaturale che cade sotto la critica della nuova scuola alemanna: il signor Feuerbach e tutti i filosofi di questa scuola riconoscono senza esitare, che il teismo, la religione naturale, ogni razionalismo che ammette qualche cosa di trascendente, deve essere posto sullo stesso piede del sovrannaturale. Credere a Dio ed all’immortalità dell’anima è ai suoi occhi altrettanto superstizioso quanto il credere alla Trinità ed ai miracoli. La critica del cielo non è più se non la critica della terra; la teologia diviene l’antropologia. « La scienza che un uomo ha del suo Dio non è che un altro nome per indicare la scienza ch’egli ha di se stesso, la coscienza ch’egli ha del suo io ». Ogni considerazione del mondo superiore, ogni sguardo gettato dall’ uomo al di là di se stesso e del reale, ogni sentimento religioso, sotto qualsiasi forma si manifesti, non è che un’illusione (Libertà di pensare, 20 novembre 1850) ». Per coronare questo spaventoso sistema d’empietà, Feuerbach termina la sua Tanatologia dichiarando ch’egli ama meglio tuffarsi nel niente, che non incontrare nella sfera delle ombre Socrate, Sant’Agostino e tanti altri eroi. Poi, come conclusione finale di ogni sua filosofia, invita i suoi adepti ad adorare la morte! – Facile sarebbe moltiplicare le citazioni. Quelle che precedono sono più che bastevoli per dimostrare gli eccessi inauditi, l’influsso disastroso e sempre attuale del paganesimo filosofico, nonché l’indispensabile necessità di ritornare senza indugio alla filosofia cristiana, se vogliamo prevenire un nuovo e forse ultimo cataclisma

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MOSERNISTA APOSTATA DI TORNO: FULGENS CORONA

Oggi ci occuperemo di una lettera enciclica nella quale è esposto il nettare della teologia mariana, scandalo dei modernisti attuali che, al massimo, hanno un atteggiamento indifferente verso la questione. Il Santo Padre Pio XII, che aveva già definito in modo infallibile il dogma l’Assunzione in cielo della Beata Vergine Santissima, vuole che la Chiesa Universale tributi alla Madre sua, alla Madre di Dio, alla Madre del Cristo, con un Anno Mariano, gli onori dovuti ad una figura sì eccelsa, all’Acquedotto di tutte le grazie, secondo la perfetta definizione di San Bernardo. Notevoli sono i passaggi nei quali il Sommo Pontefice indica al mondo i rimedi semplici, ma indispensabili, per ottenere la pace sociale ed il benessere reale dei popoli. È proprio ciò che occorre meditare in un mondo intossicato dal massonismo imperante in ogni ambito, compresa la falsa chiesa dell’uomo gestita dagli antipapi vicari di satana, operante tra i popoli oramai scristianizzati e paganizzati, con il suo braccio devastante, che è il “modernismo ecumenico” anticristiano di foggia luciferina. Abbeveriamoci a questa fonte di santità, ed invochiamo, con la preghiera finale, composta per l’anno mariano dal Papa, la Vergine Santa affinché ci preservi da questa generazione che senza alcun dubbio, è la peggiore che la terra abbia mai visto e sostenuto.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

FULGENS CORONA

INDIZIONE DELL’ ANNO MARIANO

“La fulgida corona di gloria, con la quale il Signore cinse la fronte purissima della Vergine Madre di Dio, ci sembra maggiormente risplendere mentre rievochiamo il giorno in cui, cento anni or sono, il Nostro predecessore di felice memoria, Pio IX, circondato da un’imponente schiera di cardinali e di vescovi, dichiarò, proclamò e solennemente definì con autorità infallibile «che è stata rivelata da Dio, ed è quindi da credersi con fede ferma e costante da ogni fedele la dottrina la quale insegna che la beatissima Vergine Maria, nel primo istante del suo concepimento, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo salvatore del genere umano, fu preservata immune da ogni macchia di peccato originale». – Tutta la cattolicità accolse con esultanza la sentenza del pontefice che essa già da lungo tempo ardentemente attendeva; e la devozione dei fedeli per la santa Vergine, che fa rifiorire al più alto grado i costumi dei Cristiani, così risvegliata, trasse nuovo vigore, come pure di nuovo ardore si alimentarono gli studi che posero con maggior chiarezza nella debita luce la dignità e la santità della Madre di Dio. – Sembra che la stessa beata Vergine Maria abbia voluto in maniera prodigiosa quasi confermare tra il plauso di tutta la Chiesa la sentenza pronunziata dal Vicario del suo divin Figlio in terra. Infatti non erano ancor trascorsi quattro anni, quando la santa Vergine, nelle vicinanze di un paese della Francia situato ai piedi dei monti Pirenei, apparve nella grotta di Massabielle ad una fanciulla semplice e innocente, in aspetto giovanile e affabile, vestita di candido abito e candido mantello, cinta di una fascia azzurra; e alla fanciulla che con insistenza chiedeva il nome di Colei che si era degnata di apparirle, elevando gli occhi al cielo e con soave sorriso rispose; «Io sono l’Immacolata Concezione». – L’avvenimento, come era ovvio, venne rettamente interpretato dai fedeli, i quali, affluendo numerosissimi da ogni parte del mondo in pio pellegrinaggio alla grotta di Lourdes, ravvivarono la propria fede, stimolarono la pietà e si sforzarono di conformare la loro vita ai precetti cristiani; ivi pure non di rado ottennero miracoli tali da suscitare l’ammirazione di tutti e dimostrare che la sola religione cattolica è stata data e confermata da Dio. – Ciò naturalmente ben intesero in particolar modo i Pontefici Romani, che arricchirono di privilegi spirituali e con doni della loro munificenza il meraviglioso tempio eretto dopo pochi anni dalla pietà del clero e del popolo.

I

Invero, nella citata lettera apostolica, con cui il Nostro predecessore stabilì che questo punto della dottrina cristiana dovesse ritenersi fermamente e fedelmente da tutti i credenti, altro non fece se non raccogliere fedelmente e consacrare con la sua autorità, la voce dei Santi Padri e di tutta la Chiesa, la quale a cominciare dai primi tempi aveva come spaziato lungo il corso dei secoli. – Anzitutto il fondamento di tale dottrina si trova già nella sacra Scrittura, dove Dio Creatore di tutte le cose, dopo la lamentevole caduta di Adamo, si rivolge al serpente tentatore e seduttore con queste parole, che non pochi santi Padri e Dottori della Chiesa e moltissimi autorevoli interpreti riferiscono alla vergine Madre di Dio: «Porrò inimicizia fra te e la donna, fra il seme tuo e il seme di lei ...» (Gn III, 15). Se dunque in qualche momento la beata Vergine Maria fosse rimasta priva della divina grazia, in quanto inquinata nel suo concepimento dalla macchia ereditaria del peccato, almeno per quell’istante, benché brevissimo, non avrebbe avuto luogo fra Lei e il serpente quella perpetua inimicizia, di cui fino alla solenne definizione dell’Immacolata Concezione si parla già fin dalla più antica tradizione; ma invece ci sarebbe stato un certo asservimento. – Inoltre, poiché la Santissima Vergine viene salutata «piena di grazia» (Lc 1, 28), cioè kecharitōménē, e «benedetta fra le donne» (Lc 1,42), tali parole, come sempre ha ritenuto la Tradizione Cattolica, chiaramente indicano che «con questo singolare e solenne saluto, mai prima d’allora udito; viene designato essere stata la Madre di Dio sede di tutte le grazie divine, adorna di tutti i carismi dello Spirito Divino, anzi di essi tesoro quasi infinito e abisso inesauribile, di modo che mai fu soggetta alla maledizione». – Tale dottrina nei primi tempi della Chiesa fu insegnata abbastanza chiaramente e senza alcun contrasto dai Santi Padri, i quali affermarono essere stata la beata Vergine giglio fra le spine, terra del tutto intatta, immacolata, sempre benedetta, libera da ogni contagio del peccato, legno incorruttibile, fonte sempre limpida, figlia unica e sola non di morte ma di vita, germe di grazia e non di ira, per ogni verso illibata, santa e lontanissima da ogni macchia di peccato, più bella della bellezza, più santa della santità, sola santa, da superare tutti in santità, all’infuori di Dio, e per natura più bella, più graziosa e più santa degli stessi cherubini e serafini e di tutte le schiere degli angeli. – Considerate diligentemente, come si conviene, queste lodi della beata Vergine Maria, chi oserebbe dubitare che Colei, la quale fu più pura degli angeli e pura in qualunque tempo non sia rimasta monda in qualsiasi anche minimo istante, da ogni macchia di peccato? Ben a ragione dunque sant’Efrem si rivolge al divin Figlio di Lei con queste parole: «Tu e la tua Madre, voi soli in verità siete per ogni verso e integralmente belli. Non vi è in te, o Signore, e neppure nella Madre tua macchia alcuna». Da queste parole si rileva con evidenza che fra tutti i santi e le sante, di una solamente può dirsi, allorché si tratta di qualsivoglia macchia di peccato, non potersi neppure porre il quesito; e parimenti che questo singolarissimo privilegio, a nessuno mai concesso, Ella per questo motivo lo ottenne dal Signore perché venne innalzata alla dignità di Madre di Dio. Tale eccelso officio, che fu solennemente riconosciuto e sancito nel Concilio di Efeso contro l’eresia nestoriana e di cui non sembra potervi essere altro maggiore, postula la pienezza della grazia divina e l’anima immune da qualsiasi peccato, perché esige la più alta dignità e santità dopo quella di Cristo. Anzi da questo sublime officio di Madre di Dio, come da arcana fonte limpidissima, sembrano derivare tutti quei privilegi e tutte quelle grazie che adornarono in modo e misura straordinaria la sua anima e la sua vita. Come ben dice l’Aquinate: «Poiché la beata Vergine è Madre di Dio, dal bene infinito che è Dio trae una certa dignità infinita». E un illustre scrittore sviluppa e spiega lo stesso pensiero con le seguenti parole: «La beata Vergine … è Madre di Dio; perciò è così pura e così santa da non potersi concepire purità maggiore dopo quella di Dio».Del resto, se noi approfondiamo l’argomento, e soprattutto se consideriamo l’infiammato e soave amore con cui Dio certamente amò e ama la Madre del suo unigenito Figlio, come potremmo soltanto sospettare che Ella sia stata anche per un brevissimo istante soggetta al peccato e priva della divina grazia? Poteva senza dubbio Dio, in previsione dei meriti del Redentore, adornarla di questo singolarissimo privilegio; che non l’abbia fatto, non è neppur possibile pensarlo. Conveniva infatti che tale fosse la Madre del Redentore, da essere il più possibile degna di Lui. D’altronde non sarebbe stata degna, se macchiata della colpa originale, anche solo nel primo istante della sua concezione fosse stata soggetta al triste dominio di satana. – Né si può dire che per questo venga diminuita la Redenzione di Cristo, quasi che essa non si estenda all’intera progenie di Adamo, e che perciò venga detratto qualcosa dall’officio e dalla dignità del divino Redentore. Se infatti consideriamo a fondo e diligentemente la cosa, è facile vedere come Cristo Signore abbia in verità redento la divina sua Madre in un modo più perfetto essendo Ella stata da Dio preservata immune da qualsiasi macchia ereditaria di peccato, in previsione dei meriti di Lui. Perciò l’infinita dignità di Gesù Cristo e l’universalità della sua redenzione non vengono attenuate o diminuite da questo punto di dottrina, ma anzi accresciute in sommo grado. – Sono pertanto ingiusti la critica e il rimprovero che anche per questo motivo non pochi acattolici e protestanti fanno alla nostra devozione per la Santa Vergine, come se togliessimo qualche cosa al culto dovuto a Dio solo e a Gesù Cristo. È vero invece che l’amore e la venerazione che noi dedichiamo alla nostra Madre celeste ridonda tutto senza dubbio in gloria del suo divin Figlio, non soltanto perché tutte le grazie e tutti i doni, anche eccelsi, da Lui derivano come da prima fonte, ma anche perché «i genitori sono la gloria dei figli» (Pro XVII, 6). – Fin dai più remoti tempi della Chiesa, questo punto di dottrina venne sempre più in luce e sempre più si affermò, sia presso i sacri pastori, sia nella convinzione e nell’animo dei fedeli. Lo attestano, come dicemmo, gli scritti dei Santi Padri, i Concili e gli atti dei Romani Pontefici; lo testimoniano infine le antichissime liturgie, nei cui libri, anche i più antichi, tale festa si considera come tramandata dai Padri. – Inoltre, perfino presso tutte le comunità dei Cristiani orientali, che già da lungo tempo si separarono dall’unità della Chiesa Cattolica, non sono mancati e non mancano coloro che, pur essendo animati da pregiudizi e da contrastanti opinioni, hanno accolto questa dottrina e ogni anno celebrano la festa della Vergine Immacolata. Ciò non accadrebbe certo, se essi non avessero ricevuto tale verità fin dai tempi antichi, prima cioè che i medesimi si fossero staccati dall’unico ovile. – Ci piace dunque, al compiersi di un secolo da quando il pontefice Pio IX d’immortale memoria definì solennemente questo singolare privilegio della vergine Madre di Dio, riassumere e concludere il nostro assunto con queste parole, con cui lo stesso Pontefice afferma tale dottrina essere stata «per giudizio dei padri, affidata alla sacra Scrittura, tramandata da tante e così gravi testimonianze dei medesimi, espressa e celebrata da tanti illustri monumenti della veneranda antichità, proposta infine e confermata dal più alto e autorevole giudizio della Chiesa, di modo che nulla è più caro e più dolce ai sacri Pastori e a tutti i fedeli «che onorare, venerare, invocare e predicare con fervore e affetto la Vergine Madre di Dio concepita senza macchia originale». – Ci sembra poi che tale preziosissima gemma, onde si arricchì cento anni fa il sacro diadema della beata Vergine Maria, oggi splenda di luce più fulgente essendo toccata a Noi, nell’anno giubilare 1950, per disposizione della divina Provvidenza, la felice sorte di definire – ed è ancor vivo nel Nostro cuore il gradito ricordo – che l’alma Genitrice di Dio è stata Assunta in cielo in anima e corpo; e potemmo così corrispondere ai voti del popolo cristiano, che furono formulati in maniera particolare già quando fu solennemente sancito l’immacolato concepimento della Vergine. Allora, infatti, come scrivemmo nella lettera apostolica Munificentissimus Deus, «i cuori dei fedeli furono mossi da una più vivida speranza che anche il dogma dell’Assunzione corporea della Vergine in cielo venisse al più presto definito dal supremo Magistero ecclesiastico». – Così Ci sembra che in maniera più profonda ed efficace tutti i fedeli possano volgere la mente e il cuore al mistero stesso dell’Immacolata Concezione della Vergine. Infatti per lo strettissimo rapporto che lega questi due misteri, dopo esser stata solennemente promulgata e posta nella debita luce l’Assunzione della Vergine in cielo – che costituisce quasi la corona e il complemento dell’altro privilegio mariano – ne è venuto che con maggior pienezza e splendore si è manifestata la sapientissima armonia di quel piano divino con il quale Dio ha voluto che la Vergine Maria fosse monda da ogni macchia originale. – A motivo di questi insigni privilegi concessi alla Vergine, tanto l’alba del suo pellegrinaggio terreno, quanto il tramonto s’illuminarono di fulgidissima luce; alla perfetta innocenza dell’anima di Lei, immune da qualsiasi macchia, corrisponde in maniera consona e meravigliosa la più ampia glorificazione del suo corpo virgineo; ed Ella, come fu congiunta al suo Figlio unigenito nella lotta contro il serpente infernale, così insieme con Lui partecipò al glorioso trionfo sul peccato e sulle sue tristi conseguenze.

II

Occorre tuttavia che questa celebrazione centenaria non solo riaccenda negli animi di tutti la Fede Xattolica e la devozione ardente verso la Santa Vergine, ma sia altresì di stimolo per conformare, il più possibile, i costumi dei Cristiani sull’esempio della Vergine Maria. Come tutte le madri provano soavissimi sentimenti quando scorgono che il volto dei propri figli riproduce per qualche particolare somiglianza le loro fattezze, così Maria, Madre nostra dolcissima, non può avere maggiore desiderio né più grande gioia nel veder riprodotti nei pensieri nelle parole e nelle azioni di coloro che Ella accolse come figli sotto la croce del suo Unigenito, i lineamenti e le virtù della sua anima. – Ma perché la pietà non rimanga vuota parola, né diventi immagine fallace della Religione, né sentimento debole e caduco di un istante, ma sia sincera, vera, efficace, essa deve indubbiamente sospingere noi tutti, secondo la condizione di ciascuno, al raggiungimento della virtù. È necessario anzitutto che essa sproni noi tutti a quell’innocenza e integrità di costumi, che rifugge e aborre anche dalla più piccola macchia di peccato: poiché commemoriamo il mistero della santissima Vergine, la cui Concezione fu Immacolata e immune da qualsiasi colpa originale. – La beatissima vergine Maria, la quale nell’intero corso della sua vita – sia nel gaudio da cui fu soavemente inondata, sia nella tribolazione e negli atroci dolori, per cui primeggia Regina dei martiri – mai si allontanò, neppure minimamente, dai precetti e dagli esempi del suo divino Figliuolo, Ci sembra che ripeta a tutti e a ciascuno di noi quelle parole che pronunciò durante le nozze di Cana, quasi additando Gesù Cristo ai servi del convito: «Fate tutto quello che egli vi dirà» (Gv 2, 5). Sembra che a noi tutti oggi Ella ripeta quella stessa esortazione, in un senso ancora più vasto, poiché è di assoluta evidenza che la radice di tutti i mali da cui sono con tanta veemenza e asprezza tribolati gli uomini, angustiati i popoli e le nazioni, hanno principalmente origine dal fatto che molti «abbandonate le sorgenti di acqua viva, si sono scavate cisterne sconnesse, che non possono contenere le acque» (Ger 2, 13) e hanno disertato da Colui che solo è «via, verità e vita» (Gv 14, 6). Se dunque si è errato, bisogna ritornare sulla diritta via; se le tenebre dell’errore hanno avvolto le menti, senza indugio devono essere dissipate dalla luce della verità; se quella morte, che è la vera morte, si è impadronita degli animi, bisognerà con vivo efficace desiderio accostarsi alla vita: a quella celeste vita, che non conosce tramonto perché ha origine da Cristo Gesù; se con animo fiducioso e fedele lo seguiremo in questa terra di esilio, certamente, insieme con Lui godremo nei cieli la beatitudine eterna. – Questo ci insegna e a queste cose ci esorta la beata Vergine Maria, Madre nostra dolcissima, la quale ci ama di autentico amore, certamente più di tutte le madri terrene. Come ben sapete, venerabili fratelli, di queste esortazioni e inviti a un ritorno a Cristo e a una diligente ed efficace conformità ai suoi insegnamenti hanno gran bisogno gli uomini d’oggi, in un momento in cui tanti si sforzano di svellere radicalmente dagli animi la fede di Cristo, o con mascherate e astute insidie, o anche con una propaganda e un’esaltazione aperta e ostinata dei loro errori da essi propalati così impudentemente, come se fossero gloria del progresso e dello splendore di questo secolo. Ma rigettata la nostra santa Religione, negati i divini voleri che sanciscono il bene e il male, appare evidente che quasi a nulla giovano le leggi e quasi a nulla è ridotta la pubblica autorità; si ha di conseguenza che gli uomini, perduta con queste dottrine fallaci la speranza e l’attesa dei beni immortali, è naturale che cerchino smodatamente i beni terreni, avidamente desiderino quelli altrui e talora, quando l’occasione e la possibilità si offrono loro, se ne impadroniscano anche con la violenza. Di qui prorompono gli odi, le invidie, le rivalità e le discordie tra cittadini; di qui nasce la perturbazione della vita pubblica e privata, e gradatamente si scalzano quelle fondamenta dello stato che mal potrebbero essere sostenute e rafforzate dall’autorità delle leggi civili e dei governanti; di qui infine la diffusa decadenza dei costumi a motivo dei licenziosi spettacoli, dei libri, dei giornali e di tanti delitti. – Non neghiamo che in questo campo l’autorità dello Stato possa far molto; tuttavia il risanamento di tante sciagure è da ricercarsi in rimedi più profondi. È necessario chiamare in aiuto una forza maggiore di quella umana, che penetri negli animi e li rinnovi con la divina grazia rendendoli col suo ausilio migliori. – Solamente allora sarà lecito sperare che torni a fiorire ovunque la vita cristiana; che i veri principi sui quali si fonda la società si consolidino il più possibile; che intervenga in mezzo alle varie classi sociali una mutua, retta e sincera esumazione delle cose, unita con la giustizia e la carità, e che una buona volta tacciano gli odi, le cui faville dànno esca a nuove miserie e molto spesso spingono gli animi esacerbati al versamento di sangue; che, infine, attenuati e placati i contrasti che si agitano tra le classi alte e basse della società, con imparzialità si compongano e armonicamente coesistano i giusti diritti di ambo le parti, con il vicendevole consenso e il dovuto rispetto, per il comune vantaggio. – Ciò senza dubbio soltanto è reso possibile a fondo e con saldezza dagli insegnamenti della morale cristiana – purché realmente messi in pratica – alla cui attiva e fruttuosa osservanza ci sprona tutti la Vergine Madre. Tenendo nella dovuta considerazione queste cose, venerabili fratelli, invitiamo voi tutti e singoli con la presente lettera enciclica a fare in modo che secondo il vostro ufficio rivolgiate al clero e al popolo a voi affidato un’esortazione per la celebrazione dell’Anno Mariano che indiciamo ovunque, dal prossimo mese di dicembre sino allo stesso mese dell’anno seguente, nel compiersi cioè del primo centenario da quando la Vergine Madre di Dio rifulse di una nuova gemma, tra il plauso del popolo Cristiano, allorché, come dicemmo, il Nostro predecessore di immortale memoria, Pio IX decretò e sancì solennemente la sua Immacolata Concezione. Confidiamo pienamente che questa celebrazione mariana possa dare quei frutti desideratissimi e salutari che tutti vivamente aspettiamo. – Per raggiungere più facilmente e più efficacemente lo scopo, desideriamo che in ciascuna diocesi siano tenuti al riguardo opportuni discorsi e conferenze, per maggiormente chiarire alle menti questo punto della dottrina cristiana: di modo che la fede del popolo si accresca, arda ogni giorno più la devozione verso la Santa Vergine e tutti seguano con operoso volere le vestigia della nostra Madre celeste. – E poiché in tutte le città, paesi e villaggi, ovunque fiorisce il Cristianesimo, vi è sempre una qualche cappella, o altare almeno, dove rifulge l’immagine della beata Vergine Maria esposta alla venerazione del popolo cristiano, Noi desideriamo, venerabili fratelli, che i fedeli vi si rechino con la maggior frequenza possibile e innalzino, con un sol cuore e una sola voce, pubbliche preghiere alla soavissima Madre nostra. – Dove poi vi è un tempio in cui la Vergine è maggiormente venerata – il che avviene in quasi tutte le diocesi – in determinati giorni dell’anno vi concorrano pie moltitudini di pellegrini con solenni manifestazioni pubbliche della comune fede e del comune amore verso la Vergine Santissima. Ciò senza dubbio si farà soprattutto alla grotta di Lourdes, dove la Vergine Immacolata è venerata con tanta fervida pietà. – Ma preceda tutti con l’esempio quest’alma città, la quale fin dai primi tempi del Cristianesimo ha avuto un particolare culto alla Madre celeste e propria Patrona. Vi sono qui non poche chiese, come è noto, in cui Ella è proposta alla pietà dei romani; ma fra tutte, senza dubbio, eccelle la Basilica Liberiana, ove ancora rifulge il mosaico del Nostro predecessore di venerata memoria Sisto III, monumento insigne della divina Maternità di Maria Vergine, e dove benignamente arride l’immagine della «Salvezza del popolo romano». Là dunque specialmente accorrano i cittadini a pregare, e davanti a quella sacra immagine tutti elevino i loro voti, chiedendo soprattutto che l’Urbe, centro dell’orbe cattolico, sia altresì a tutti maestra di fede, di devozione, di santità. «Infatti – Ci rivolgiamo a voi figli di Roma con le stesse parole del Nostro predecessore di s. m. Leone Magno benché tutte le chiese diffuse sulla terra debbano fiorire per ogni genere di virtù, a voi tuttavia si addice sopra tutti gli altri popoli primeggiare nel merito della pietà, a voi che, fondati sulla stessa base della rocca apostolica, foste con tutti gli altri redenti da nostro Signor Gesù Cristo e, a preferenza di tutti gli altri, istruiti dal beato apostolo Pietro». – Molte grazie tutti debbono implorare nelle presenti circostanze dall’aiuto della beata Vergine, dal suo patrocinio, dalla sua potenza mediatrice. Chiedano innanzi tutto – come abbiamo già detto – che i propri costumi, con il soccorso della divina grazia, sempre più si uniformino agli insegnamenti cristiani, perché la fede senza le opere è morta (cf. Gc II, 20.26), e perché nessuno può fare convenientemente casa alcuna per il pubblico bene, se prima egli stesso non rifulga come esempio di virtù agli altri. – Chiedano con insistenza che la generosa e balda gioventù cresca sana e pura, né lasci contaminare dall’aria corrotta del secolo e infiacchire nei vizi il bel fiore della propria età; che sappia governare con retta guida le inclinazioni sregolate e l’impulsività ardente e, rifuggendo da ogni insidia, non si rivolga alle cose cattive e dannose, ma elevi il cuore a tutto ciò che è bello, santo, amabile, eccelso. – Chiedano, pregando in comune, che l’età virile e matura si distingua su tutte per onestà e cristiana fortezza; che la società domestica rifulga di un’inviolata fedeltà, sia fiorente per la sana e religiosa educazione dei figli e si rafforzi nella concordia e nel vicendevole aiuto. – Implorino finalmente che i vegliardi si rallegrino dei frutti di una vita spesa nel bene, così che avvicinandosi il termine della vita non abbiano nulla da temere, non siano afflitti da rimorsi o da angosce di coscienza, né abbiano motivo alcuno di arrossire, ma fermamente confidino di ricevere presto il premio della loro lunga fatica. – Chiedano, inoltre, nella preghiera alla divina Madre, il pane per gli affamati, la giustizia per gli oppressi, la patria per i profughi e gli esuli, una casa ospitale per i senza tetto, la debita libertà per coloro che ingiustamente furono gettati in carcere o nei campi di concentramento; il desideratissimo ritorno in patria per coloro che sono ancora prigionieri nonostante che da tanti anni sia terminata la guerra e internamente sospirano e gemono; per coloro che sono ciechi nel corpo o nell’anima la letizia della fulgida luce; e per tutti quelli che sono divisi fra loro dall’odio, dall’invidia, dalla discordia, che ottengano pregando la carità fraterna, l’unione degli animi e quell’operosa tranquillità che è fondata sulla verità, sulla giustizia, sulle relazioni amichevoli. – Desideriamo in modo speciale, o venerabili fratelli, che con le ardenti preghiere che saranno elevate a Dio nella prossima celebrazione dell’Anno Mariano, si chieda supplichevolmente che, sotto l’auspicio della Madre del divin Redentore e Madre nostra dolcissima, la Chiesa Cattolica possa finalmente ovunque godere della libertà che le compete e che essa, come insegna la storia, adoperò sempre a vantaggio dei popoli e mai a loro rovina, sempre per raggiungere la concordia dei cittadini, delle nazioni, delle genti, e mai per dividere gli animi. – Tutti sanno in quali tribolazioni viva, in alcuni luoghi, la Chiesa e da quali menzogne, calunnie, spoliazioni sia travagliata; tutti sanno come in alcune regioni i Vescovi siano miseramente dispersi, incarcerati senza motivo, o talmente ostacolati da non potere esercitare liberamente, come si conviene, il loro pastorale ministero; tutti sanno infine che in quei luoghi non si possono avere scuole proprie, né pubblicamente per mezzo della stampa si può insegnare, difendere, propagare la dottrina cristiana ed educare convenientemente la gioventù secondo i suoi insegnamenti. Quelle esortazioni, pertanto, che a tale riguardo spesso, quando si è presentata l’occasione, vi abbiamo indirizzato, insistentemente ve le ripetiamo per mezzo della presente lettera enciclica, nella piena fiducia che in questo Anno Mariano dovunque siano innalzate supplichevoli preghiere alla potentissima Vergine Madre di Dio e soave Madre nostra, affinché quei sacri diritti che competono alla Chiesa e che sono richiesti dallo stesso rispetto della libertà e della civiltà, siano riconosciuti apertamente e sinceramente da tutti, con sommo vantaggio di ognuno e incremento della comune concordia. – Questa nostra parola, che Ci è dettata da un fervido senso di carità, desideriamo giunga anzitutto a coloro che, costretti al silenzio e circondati da ogni genere di insidie, vedono con animo addolorato la loro comunità cristiana afflitta, turbata e priva di ogni umano aiuto. Anche questi dilettissimi fratelli e figli Nostri, in strettissima congiunzione con Noi e con gli altri fedeli, interpongano presso il Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione (cf. 2 Cor 1, 3), il potentissimo patrocinio della vergine Madre di Dio e Madre nostra, e chiedano a Lei celeste aiuto e divine consolazioni. Mentre perseverano con indomabile animo nella fede dei padri, facciano proprie in questi gravi frangenti le seguenti parole del Dottore Mellifluo, quasi distintivo di cristiana fortezza: «Staremo in piedi e combatteremo sino alla morte, se sarà necessario, per nostra madre (la Chiesa), con le armi che ci saranno consentite: non con gli scudi e le spade, ma con la preghiera e le lacrime a Dio». – Anche coloro che sono separati da Noi per l’antico scisma e che del resto Noi amiamo con animo paterno, li invitiamo a unirsi a queste comuni preghiere e a queste suppliche, poiché ben sappiamo che essi hanno in somma venerazione la grande Madre di Gesù Cristo e ne celebrano la Concezione Immacolata. La medesima beata vergine Maria riguardi tutti quei cristiani, congiunti almeno dai vincoli della carità, che rivolgono a lei supplichevoli gli occhi, gli animi, le preghiere, impetrando quella luce che illumina le menti di uno splendore soprannaturale, e chiedendo quella unità per la quale finalmente si faccia un solo ovile sotto un solo pastore (cf. Gv X, 16). – A queste preghiere comuni siano associate pie opere di penitenza; l’amore alla preghiera, infatti, fa sì che «l’animo sia sostenuto, si prepari alle cose ardue, si innalzi alle cose divine; la penitenza ci fa ottenere il dominio su noi stessi, specialmente sul corpo, il quale per il peccato originale è fortemente ribelle alla ragione e alla legge evangelica. È evidente che queste virtù sono strettamente congiunte tra loro, e vicendevolmente si sostengono e mirano insieme all’identico scopo di distaccare l’uomo, nato per il cielo, dalle cose caduche, e di sollevarlo quasi a un celeste commercio con Dio». – Siccome però ancora non ha brillato sui popoli e nelle anime una pace solida, sincera, tranquilla, si sforzino tutti i fedeli piamente pregando di raggiungerla e consolidarla felicemente e pienamente; in modo che, come la beata Vergine ci donò il Principe della pace (cf. Is IX, 6), ella stessa con il suo patrocinio e con la sua tutela congiunga gli uomini tra loro in amichevole concordia. Solo allora essi potranno godere quel tanto di serena prosperità che è possibile ottenere nel breve corso della vita, quando tra loro non saranno separati da invidie, lacerati miseramente da discordie, né sospinti violentemente a lottare tra loro con minacce e fraudolenti consigli; ma, fraternamente uniti, si scambieranno tra loro il bacio di quella pace che è «tranquilla libertà» e che, sotto la guida della giustizia e l’aiuto della carità, fa delle diverse classi dei cittadini e delle diverse genti e nazioni una sola famiglia unita, come si conviene, e concorde. – Il divin Redentore, auspice e mediatrice l’amorevolissima Madre sua, voglia nella maniera più larga e consolante portare a compimento questi Nostri ardentissimi voti, ai quali, come pienamente confidiamo, corrisponderanno i voti non solo di tutti i Nostri figli ma anche di tutti coloro ai quali stanno a cuore gli interessi della civiltà cristiana, e il progresso civile. – Intanto sia propiziatrice dei divini favori, e testimonianza del Nostro affetto paterno, la benedizione apostolica che a voi tutti e singoli, venerabili fratelli, insieme al clero e ai fedeli a voi affidati, impartiamo con effusione di cuore. – Roma, presso San Pietro, l’8 settembre, festa della natività di Maria ss.ma, nell’anno 1953, XV del Nostro pontificato. PIO PP. XII

PREGHIERA DI PIO XII

PER L’ANNO MARIANO

« Rapiti dal fulgore della vostra celeste bellezza e sospinti dalle angosce del secolo, ci gettiamo tra le vostre braccia, o immacolata Madre di Gesù e Madre, nostra, Maria, fiduciosi di trovare nel vostro Cuore amatissimo l’appagamento delle nostre fervide aspirazioni e il porto sicuro fra le tempeste che da ogni parte ci stringono. – « Benché avviliti dalle colpe e sopraffatti da infinite miserie, ammiriamo e cantiamo l’impareggiabile ricchezza di eccelsi doni, di cui Iddio vi ha ricolmata al di sopra dì ogni altra pura creatura, dal primo istante del vostro concepimento fino al giorno, in cui, Assunta in cielo, vi hai incoronata Regina dello universo. – « O fonte limpida dì fede, irrorate con le eterne verità le nostre mentì! O Giglio fragrante di ogni Santità, avvincete i nostri cuori col vostro celestiale profumo! O Trionfatrice del male e della morte, ispirateci profondo orrore al peccato, che rende l’anima detestabile a Dio e schiava dell’inferno! « Ascoltate, o prediletta di Dio, l’ardente grido che da ogni cuore fedele s’innalza in quest’Anno a voi dedicato. Chinatevi sulle doloranti nostre piaghe. – Mutate le menti ai malvagi, asciugate le lacrime degli afflitti e degli oppressi, confortate i poveri e gli umili, spegnete gli odi, addolcite gli aspri costumi, custodite il fiore della purezza nei giovani, proteggete la Chiesa Santa, fate che gli uomini tutti sentano il fascino della cristiana bontà. Nel vostro nome, che risuona nei cieli armonia, essi si ravvisino fratelli, e le nazioni membri dì una sola famiglia, su cui risplenda il sole di una universale e sincera pace.  – « Accogliete, o Madre dolcissima, le umili nostre suppliche e otteneteci soprattutto che possiamo un giorno ripetere dinanzi al vostro trono, beati con voi, l’inno che sì leva oggi sulla terra intorno ai vostri altari: Tutta bella sei, o Maria! Tu gloria, Tu letizia, Tu onore del nostro popolo! Così sia ».

Festa della Presentazione di Maria Santissima: 21 Novembre 1953.

PIUS PP. X II

 

DOMENICA V dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXVI:7; XXVI:9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus. [Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Ps XXVI:1 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timébo? [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò?] Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus. [Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Orémus. Deus, qui diligéntibus te bona invisibília præparásti: infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum; ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes, promissiónes tuas, quæ omne desidérium súperant, consequámur. [O Dio, che a quanti Ti amano preparasti beni invisibili, infondi nel nostro cuore la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto, conseguiamo quei beni da Te promessi, che sorpassano ogni desiderio.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet III:8-15

“Caríssimi: Omnes unánimes in oratióne estóte, compatiéntes, fraternitátis amatóres, misericórdes, modésti, húmiles: non reddéntes malum pro malo, nec maledíctum pro maledícto, sed e contrário benedicéntes: quia in hoc vocáti estis, ut benedictiónem hereditáte possideátis. Qui enim vult vitam dilígere et dies vidére bonos, coérceat linguam suam a malo, et lábia ejus ne loquántur dolum. Declínet a malo, et fáciat bonum: inquírat pacem, et sequátur eam. Quia óculi Dómini super justos, et aures ejus in preces eórum: vultus autem Dómini super faciéntes mala. Et quis est, qui vobis nóceat, si boni æmulatóres fuéritis? Sed et si quid patímini propter justítiam, beáti. Timórem autem eórum ne timuéritis: et non conturbémini. Dóminum autem Christum sanctificáte in córdibus vestris.”

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]-

Omelia XI

“Siate tutti concordi, compassionevoli, amatori dei fratelli, pietosi, modesti, umili: non rendendo male per male, od ingiuria per ingiuria; ma, per contrario, benedite, perché a questo siete chiamati, acciocché ereditiate la benedizione. Chi pertanto vuole amare la vita e vedere giorni felici, raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra non proferiscano frode. Si ritragga dal male e faccia il bene, cerchi la pace e la procacci. Perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti, e le sue orecchie intente alle loro preghiere; ma il volto del Signore sta contro quelli che fanno male. E chi mai potrà farvi male, se siete studiosi del bene. Ma se pure patite alcuna cosa per la giustizia, beati voi! Non abbiate timore di loro, né ve ne turbate. Adorate Cristo Signore nei vostri cuori„ (I. di S. Pietro c. III, 8-15).

In questi otto versetti vi ho presentato nella nostra lingua il tratto dell’epistola, che or ora si è letta nella Messa. Esso è tolto dal capo terzo della prima lettera di S. Pietro ai fedeli sparsi in varie province dell’Asia Minore. È cosa affatto superflua il farvi osservare come ogni versetto, dirò meglio, quasi ogni parola di questa breve lezione racchiuda un documento altissimo di sapienza morale; voi stessi, udendone la versione, ve ne sarete accorti. Noi avvezzi fino da fanciulli ad udire queste sì sante verità, quasi non vi poniamo mente e non ne riceviamo grande impressione, come non facciamo le meraviglie allorché al mattino il sole spunta sull’orizzonte, raggiante di luce. Ma così non doveva essere dei primi cristiani, massime di quelli che erano allora allora usciti dal paganesimo. Io immagino, che quei cristiani all’udirsi leggere queste sentenze sì semplici, sì sublimi e sì conformi ai principi della stessa ragione naturale ed ai sentimenti più nobili del cuore, eppure sì nuove, pieni di stupore gratitudine, dovessero esclamare: Oh! come bella, ammirabile e divina questa Religione! Benedetto Colui, che per sua misericordia l’ha manifestata agli uomini! Felici gli uomini che la ricevono e la osservano! – Ma lasciato da banda ogni esordio, mettiamo mano non tanto alla spiegazione (che in tanta chiarezza non occorre), ma alla considerazione ed applicazione di queste verità, che rispondono ad ogni età e condizione di persone. – S. Pietro nei versetti, che precedono, ricorda alle donne i loro doveri verso dei mariti, e le esorta ad essere sollecite più degli ornamenti esterni, della vera bellezza, che è tutta interna; poi eccita i mariti ad usare ogni riguardo alle loro donne, affinché possano avere insieme l’eterna eredità. Poi proseguendo, scrive: ” Siate tutti concordi, compassionevoli, amatori dei fratelli, pietosi, modesti, umili. „ Dite, o carissimi: era possibile in sì poche parole condensare maggior numero di massime morali di queste più belle e più stupende ? “Siate tutti concordi, „ o, come porta il testo della Volgata, ” unanimi, „ cioè abbiate tutti un animo solo, un solo sentimento. Si può dire che nelle lettere, specialmente di S. Paolo, la raccomandazione della concordia si incontra ad ogni pagina. La concordia esterna, delle parole e degli atti, nella famiglia e società, perché sia vera concordia e durevole, deve essere una conseguenza dell’interna, deve scaturire dalla mente e dal cuore. Abbiamo tutti gli stessi principi, professiamo tutti le stesse verità, amiamoci tutti come fratelli, e la concordia regnerà regina in mezzo a noi. Mi direte: Sta bene aver comuni gli stessi principi, tener salde le stesse verità, ecco la base della concordia. — Ma è egli possibile trovarci uniti nelle stesse verità e negli stessi principi? Volete voi che ciascuno sacrifichi le sue convinzioni? La diversità di parlare e di giudicare è una necessità delle cose ed è voluta in gran parte dalla disuguaglianza delle menti, della istruzione e di cento altre cause, onde la concordia in tanta differenza di caratteri e di pensamenti è impossibile. — No, non è impossibile, o cari. La carità scambievole, senza offendere la libertà individuale, può mantenere la concordia. Le voci dell’organo sono diverse fra loro, ma si possono armonizzare: il rispetto vicendevole, la tolleranza, figlia della carità, possono mantenere la più perfetta concordia: anche tra quelli, che quanto a principi dissentono profondamente tra loro. Studiamoci di essere uniti nella verità e avremo la concordia: che se non possiamo essere uniti nella stessa verità, lo siamo sempre nella carità e ne avremo egualmente il frutto nella concordia esterna. Lo so dilettissimi: alcuni credono che la differenza di religione e di fede debba spezzare il vincolo della carità e generare la discordia e l’odio. È un errore: Dio non ama Egli i peccatori e per amore non li chiama a penitenza? Gesù Cristo non morì forse per tutti? Se Dio li ama, se Gesù Cristo morì anche per essi, perché non ameremo noi pure quelli che non hanno comune con noi la stessa fede? Noi non approveremo mai la loro dottrina e i loro errori, che faremmo oltraggio a Dio: ma rispetteremo sempre ed ameremo le loro persone, li terremo in conto di fratelli, perché anch’essi come noi creati da Dio, chiamati alla stessa fede, perché anche per essi è morto Gesù Cristo. Tolga dunque Dio che noi nutriamo ombra d’odio o di rancore contro quelli, che non professano la nostra fede o che avendola professata, la rigettarono. Deploreremo la loro caduta, la loro miscredenza, ma li rispetteremo e li ameremo sempre e cordialmente, e perciò anche con loro sarà perfetta la nostra concordia. – “Siate compassionevoli, „ Compatientes, dice S. Pietro, che importa piangere con chi piange, patire con chi patisce. Allorché un membro del nostro corpo soffre, in qualche modo soffrono tutti gli altri e il corpo nostro languisce, perché il male d’uno è male degli a1tri: similmente quando una persona a noi cara patisce, noi pure patiamo con essa, perché l’amore, che ad essa ci lega, di due anime ne forma quasi una sola, e perciò il dolore è comune. Ciò, in qualche misura, dovrebbe avvenire ogni qualvolta vediamo un fratello soffrire: se lo amiamo, come vuole il Vangelo, il suo soffrire, sarà nostro soffrire: allora saremo compassionevoli e tosto appariranno i frutti della carità, giacché non è possibile sentire vera compassione pei mali altrui e non far nulla per alleviarli. È egli possibile che una spina vi si conficchi nella mano sinistra e la destra non si adopri a levarla prontamente? “Siate amatori dei fratelli, „ Fraternitatis amatores. O la santa parola! Quegli uomini pieni d’orgoglio, che nel secolo scorso proclamarono la fratellanza universale, quasi che fossero stati essi gli scopritori ed i primi apostoli, meditino queste due parole, diciannove secoli or sono, scritte dal principe degli Apostoli: Fraternitatis amatores. – Non solo dobbiamo essere concordi, compassionevoli gli uni verso gli altri, ma dobbiamo amarci come fratelli. Per i fratelli, per i veri fratelli che si amano, ogni bene è comune, e la sventura che colpisce uno, colpisce tutti. Ah! Carissimi, come sarebbe felice il mondo, se questa fratellanza inculcata da Gesù Cristo e predicata da S. Pietro in questo luogo, regnasse in mezzo a noi e si manifestasse nelle opere. Si parla molto, si parla eloquentemente di fratellanza; tutti 1’hanno sulla lingua: ma l’hanno anche nelle opere? Ohimè! Parlano di fratellanza e si lacerano tra loro, e il forte opprime il debole, il ricco il povero, l’uomo istruito abusa dell’ignoranza altrui e vedo una classe armata e fremente contro l’altra. È questa la fratellanza che Gesù Cristo ha portato sulla terra e san Pietro proclama altamente quando scrive: siate amatori dei fratelli — Fraternitatis amatores? — Ditelo voi, carissimi. S. Pietro prosegue: siate pietosi, „ Misericordes, che suona alcun che di più vivo e sentito del compassionevoli. Cosa strana e quasi incredibile! Vi furono filosofi antichi, come Seneca, che osarono insegnare la pietà verso i miseri essere una debolezza d’animo, una infermità dello spirito e doversi combattere e disprezzare. La pietà e la commiserazione verso i sofferenti è la dote che maggiormente onora la natura umana e la rende più simile a Dio, che è la stessa bontà e misericordia: per essere insensibili ai dolori altrui; bisogna rinnegare la propria natura e renderci simili alle piante ed alle pietre, non dico alle bestie, le quali talvolta sembrano compatire ed aver pietà almeno coi loro nati. Noi, o dilettissimi, non dimenticheremo mai questa sublime sentenza di Gesù Cristo, che disse: “Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli, „ e “Beati i misericordiosi, perché anch’essi otterranno misericordia. „ “Siate modesti, umili, „ Modesti, umile. Modestia ed umiltà, osserva S. Bernardo, sono due sorelle, ed io volentieri le chiamerei piuttosto, madre e figlia, giacché mi sembra che la modestia sia la figlia della umiltà. La modestia riguarda direttamente l’esterno dell’uomo, l’umiltà si riferisce all’interno. Per la modestia l’uomo compone il suo esterno in guisa che torna caro ed amabile a tutti: la modestia apparisce nelle vesti, nel passo, nel suono della parola, nell’aspetto, negli atti esterni, nell’atteggiamento della persona, che spira benevolenza, piacevolezza, benignità, rispetto, affabilità e grazia, a talché la compagnia della persona modesta è da tutti desiderata e tutti rallegra. Perché poi la modestia non sia ingannevole apparenza, ma virtù vera e solida, deve germogliare dal fondo dell’anima, deve emanare dall’umiltà del cuore, come la fragranza dal fiore. L’anima, che conosce se stessa e perciò sente bassamente di sé, veglia sempre sopra de’ propri atti, ama il nascondimento, tutti reputa migliori di sé, si tiene all’ultimo luogo, e ne gode: essa è sempre tranquilla e pacifica nel santuario della sua coscienza: e qual meraviglia, che la pace interna informi i suoi atti esterni e si irradii costantemente sul suo volto e si manifesti nella modestia? – “Non rendendo male per male e ingiuria per ingiuria. „ Veramente un uomo, un cristiano, quale lo vuole S. Pietro i n questo luogo, che abbiamo chiosato brevemente, dovrebbe essere amato da tutti e parrebbe impossibile possa essere offeso: ma non è così. Tanta è la malignità di certi uomini e il pervertimento di certi cuori, che le anime più umili, più modeste, più pie, più caritatevoli non vanno salve dall’odio e dalle offese più gravi, e sembra talvolta che le loro virtù siano incitamento e motivo ad accrescere l’ira e le persecuzioni dei tristi. Pietro stesso che scriveva queste verità sì sante e le praticava; tutti gli Apostoli e Gesù Cristo medesimo non furono fatti segno della malevolenza più cupa, dell’odio più feroce dei malvagi fino a rimanerne vittime? Perciò S. Pietro, continuando la sua esortazione, dice: “Ancorché voi, o cari, siate perfettissimi in codeste virtù, non dovete meravigliarvi se il mondo vi tratterà da pari suo, e se vi perseguiterà e coprirà d’ingiurie. È questa la mercede ch’egli suole dare ai buoni. E voi che farete? Non rendete male per male, ingiuria per ingiuria. „ In queste parole di S. Pietro ed in quelle che seguono si ripete quasi letteralmente l’insegnamento di Cristo registrato nel capo V del Vangelo di S. Matteo. E non solo noi non dobbiamo rendere male per male, ingiuria per ingiuria, che sarebbe già molto; ma per contrario dobbiamo benedire chi ci offende: Sed e contrario benedicentes; frase che risponde perfettamente al precetto di Cristo: Benedicite maledicentibus vobis (Matteo, V, 44). È il grado sommo della carità, è virtù eroica, senza dubbio; ma Gesù Cristo l’ha comandata, più ancora, l’ha praticata Egli stesso sulla croce, e per noi basta. “E questa, soggiunge S. Pietro, quasi per prevenire la difficoltà, la vostra vocazione, „ “Quia in hoc vocati estis.” Non movete difficoltà, sembra dire l’Apostolo, perché la religione, alla quale siete chiamati, vi impone virtù sì alta, “se volete ereditare la benedizione, „ Ut benedictionem hareditate possideatis. Di quale benedizione intende qui parlare S. Pietro, data qual premio del perdono generoso delle offese, del benedire chi ci maledice? Non dubito che intenda parlare principalmente della benedizione eterna, del premio dei giusti, ma non senza una allusione anche alla benedizione o mercede temporale, che il mondo stesso non rare volte riserba ai magnanimi, che perdonano le offese e rendono bene per male. Affermata questa dottrina sì eccelsa del perdono delle offese, anzi del rendere bene per male, benedizione per maledizione, S. Pietro cita un luogo del Salmo XXX, 13 e seg., e dice: ” Chi dunque vuole amare la vita e godere buoni giorni, raffreni la sua lingua dai male, e le sue labbra non proferiscano frode; „ vale a dire: chiunque desidera di possedere la vita beata in cielo e felice anche quaggiù sulla terra, quanto a noi è possibile, raffreni la sua lingua e si guardi dal tessere inganno od ordire frode contro il fratello. È chiaro che questa testimonianza del Salmo si connette colla sentenza evangelica del perdonare e benedire chi ci maledice: Benedìcite maledicentibus vobis, ed è qui riportata da S. Pietro come conferma, tanto più conveniente in quantoché la lettera era indirizzata ai cristiani, la maggior parte dei quali era di Ebrei, cresciuti nelle idee naturalmente ebraiche. Una lingua che non sa raffrenarsi, che rende ingiuria per ingiuria, non solo si prepara giorni amari nella vita futura, dove sarà reso a ciascuno secondo le opere sue, ma sovente se li prepara anche nella presente, perché sparge il seme della discordia, offende ed irrita i fratelli, si crea dei nemici e dilata l’incendio degli odi, dove ché colui che tace, benefica chi gli fa male e benedice chi lo ingiuria, gli chiude la bocca e vince, come scrive S. Paolo, col bene il malvagio. Si ritragga dal male, faccia il bene, cerchi la pace e la procacci. „ Quest’altra sentenza, tolta dallo stesso Salmo, è amplissima, vedete, e contiene quattro cose distinte, che S. Pietro conferma e raccomanda e sulle quali mi passo. Fuggire il male, fare il bene, cercare la pace e conservarla con ogni diligenza, le sono cose generalissime, sulle quali non occorre fermarci, e perciò passiamo all’altra sentenza del Salmo. – “Perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti, e i suoi orecchi sono intesi alle loro preghiere; ma il suo volto sta contro quelli che fan male. „ Il fissare gli occhi sopra una persona può avere un doppio significato affatto contrario: gli occhi si fissano sopra una persona per mostrare ira e disprezzo, o per mostrare compiacenza ed amore. Si guarda il nemico con occhi torbidi, fieri, dispettosi; la madre sul bambino, che porta sulle braccia, tiene fissi gli occhi pieni di letizia e d’amore. In qual senso il Salmista afferma che Dio tiene fissi gli occhi sui giusti? Evidentemente li tiene fissi sopra di loro con cura ed affetto paterno, perché si tratta di giusti, che sono figli bene amati. Dio poi verso di loro tiene aperte le orecchie per udire le loro preghiere ed esaudirle. Come è bella e soave questa pittura, che il Salmista fa di Dio rispetto ai buoni! Iddio li guarda amoroso, li ascolta sollecito, come un padre, anzi come una madre fa con i suoi figli: la madre è tutta intenta ai bisogni dei figli, li mira tacita, li previene ed appena ode un loro grido, un gemito, vola a loro e darebbe per essi la vita. È questa una poverissima immagine delle sollecitudini amorose, onde Iddio circonda i giusti e provvede ai loro bisogni. Che se Dio è tutto tenerezza verso dei giusti, il suo volto, dice il salmista, è pieno di sdegno e di terrore contro i malvagi, per scuoterli e ridurli a miglior consiglio. Non è mestieri, o dilettissimi, il dirvi che in questo luogo della sacra Scrittura, come in mille altri, si parla di Dio, come se fosse un uomo, che ha occhi, orecchie e volto, mentre per ragione sappiamo e per fede, che Dio è puro spirito e come tale non ha né occhi, né orecchi, né volto, ma solo mente e volontà, come si conviene alla natura sua semplicissima. – Qui S. Pietro ripiglia la sua esortazione e scrive: “E chi mai potrà recarvi danno, se siete studiosi del bene? „ Sopra ha detto ai suoi discepoli, che non rispondano male per male, ma benedicano a chi li maledice, e qui a confermarli nel bene aggiunge: Se voi fate bene a tutti, anche a chi vi odia, e se volgete in vostro vantaggio il male, che tentano di farvi i nemici, chi mai potrà recarvi danno? Non ve lo possono fare, i nemici; chi dunque ve lo farà? Ai giusti, ai veri figli di Dio tutto giova sulla terra e tutto si volge a bene, dice S. Paolo: Omnia cooperantur in bonuum. Giovano i favori e le benedizioni degli uomini, come le contraddizioni e le maledizioni, perché i giusti da tutto traggono occasione di esercitare la virtù e di servire a Dio. – “Che se pure, così S. Pietro, soffrite alcuna cosa per la giustizia, felici voi!” È questa una sentenza tolta quasi di peso dal Vangelo, dove Cristo dice: “Beati quelli che soffrono persecuzione per la giustizia; „ e ancora : “Beati voi allorché gli uomini vi avranno maledetti e vi avranno perseguitato: godete ed esultate, perché grande è la vostra mercede. „ E non temete di loro, né vi turbate, soggiunge S. Pietro. A che temere quelli che vi odiano, vi maledicono e vi perseguitano? Essi vi spianano la via del cielo, vi preparano la corona, e se possono togliervi il corpo, non possono togliervi l’anima, né torcervi un solo capello. Dunque bando ad ogni timore non solo, ma ad ogni più lieve turbamento: Non conturbemini. – Ci resta da spiegare l’ultimo versetto: “Adorate nei vostri cuori Cristo Signore. „ Il testo della nostra Volgata dice: “Santificate”, parola che risponde all’adorate, nel senso preciso che ha pure nell’orazione domenicale, in cui diciamo a Dio; ” Sia santificato il vostro nome, „ cioè siate onorato, glorificato, e adorato. Come doppia è la nostra natura, così doppio vuol essere il culto, che tributiamo a Dio, il culto dello spirito e del cuore, che è interno, e il culto del corpo, che è esterno: questo non può mai separarsi da quello e, se è separato, si risolve o in una ipocrisia o in atti materiali senza valore dinanzi a Dio. Il culto del cuore deve precedere ed informare il culto esterno come l’anima informa il corpo, e benché il primo alcune volte possa esistere senza il secondo, tuttavia ordinariamente lo trae seco come una necessità: è come il pensiero, che produce naturalmente la parola. San Pietro in questo luogo inculca ai suoi figliuoli questo culto interno, questa adorazione di Cristo nel cuore, causa e radice del culto esterno. Miei cari! Dio è spirito, disse Gesù Cristo alla samaritana, e perciò vuole che gli uomini lo adorino anzi tutto in spirito. Allorché pertanto vogliamo o dobbiamo adorare Iddio, poniamoci dinanzi alla sua maestà infinita, raccogliamo i nostri pensieri ed i nostri affetti, ritiriamoci nel santuario della nostra mente e del nostro cuore, e quivi riconosciamo il nostro nulla e la grandezza di Dio: questo conoscimento, questo sentimento intimo del nostro nulla, e del tutto che è Dio, mentre fa curvare tutto l’essere nostro al cospetto di quella immensa grandezza e quasi lo annienta, fa piegare le nostre ginocchia e la nostra fronte e fa risuonare sulla nostra lingua quelle parole di S. Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” Allora adoriamo Dio nei nostri cuori: Dominum Christum sanctificate in cordibus vestris. –  È questo adorare Dio in spirito e verità.

Graduale

Ps LXXXIII:10; LXXXIII:9

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice super servos tuos, [O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo a noi, tuoi servi]

V. Dómine, Deus virtútum, exáudi preces servórum tuórum. Allelúja, allelúja [O Signore, Dio degli eserciti, esaudisci le preghiere dei tuoi servi. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XX:1

Alleluja, alleluja Dómine, in virtúte tua lætábitur rex: et super salutáre tuum exsultábit veheménter. Allelúja. [O Signore, nella tua potenza si allieta il re; e quanto esulta per il tuo soccorso! Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt V:20-24

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nisi abundáverit justítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dic tum est antíquis: Non occídes: qui autem occídent, re us erit judício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qu iráscitur fratri suo, reus erit judício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fatue: reus erit gehénnæ ignis Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.”

[In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, imbecille, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta.]

Omelia

Omelia della Domenica V dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

– Falsa pietà –

Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella che vantano gli scribi e i farisei, voi non entrerete nel regno dei cieli. “Nisi abundaverit iustitia vestra plusquam scribarum et pharisæorum, non intràbitis in regnum cœlorum”. Così il divin Salvatore nell’odierno Vangelo ai suoi discepoli e a noi. E perché minaccia così decisa e formidabile? Perché la giustizia e la pietà de’ farisei e degli scribi era tutta riposta in una superficiale corteccia, in una esteriore apparenza. Non fu già tale la giustizia e la pietà del santo precursore Giovanni Battista, [ … di cui in questo dì si celebra la solenne rimembranza del suo nascimento]. Basti il dire che fu canonizzato dalla bocca di Gesù Cristo per il maggiore di tutti i santi: “non surrexit maior Joanne Baptista”. Egli infatti fu una città ben munita, una colonna di ferro, una muraglia di bronzo. Così lo caratterizza la Chiesa con quelle parole, che disse già Iddio al profeta Geremia: “Dedi te … in civitatem munitam, et in columnam ferream, et in murum aeneum” (cap. 1, 18). Esso fu una città munita nella sua nascita, una colonna di ferro nella sua vita, una muraglia di bronzo nella sua morte: una città munita sulle montagne della Giudea, una colonna di ferro nel deserto, una muraglia di bronzo nella Caldea, e nel castello di Macheronte. Ecco tutto l’encomio di colui che nasce, che vive, che muore da giusto. Vediamo se può reggere al suo confronto la nostra giustizia, o se più tosto è simile all’apparente giustizia e falsa pietà degli scribi e de farisei.

I. – Là sui monti della Giudea nasce Giovanni come la stella mattutina foriera del giorno: fin dal seno materno è dotato dell’uso perfettissimo della ragione, santificato prima di nascere, ripieno di Spirito Santo. Di Spirito Santo è ripiena la madre sua Elisabetta, e profetizza: di Spirito Santo è ripieno Zaccaria suo padre, e scioglie anch’esso prodigiosamente la lingua in profezie. Gode per tre interi mesi l’assistenza di Maria, e quella di un Dio umanato, che si fa conoscere nell’utero verginale da lui che esulta nell’utero materno. Oh che città ben munita! “Dedi te in civitatem munitam”. – Anche noi nello spirituale nostro rinascimento fummo ripieni di Spirito Santo: lo Spirito Santo venne ad abitare nelle anime nostre come un tempio vivo. La grazia santificante ci costituì figliuoli di Dio ed eredi del celeste regno; l’acqua rigenerante impresse nel nostro spirito l’indelebile carattere di cristiani, ed infuse nel nostro cuore gli abiti delle soprannaturali virtù: Fede, Speranza e Carità. Una città ben munita e ben difesa fu altresì la nostra anima, “dedi te civitatem munitam”. Ma ohimè! Che allo spuntar dell’uso della ragione questa mistica città fu dai nemici circondata ed assalita, e forse la maggior parte di noi deve piangere la sua caduta! Che se poi fu riedificata, come le mura di Gerusalemme, nel Sacramento della Penitenza, ecco il modo di mantenerla costante nella spirituale sua restaurazione. – In quella guisa si conserva sicura dall’invasione ostile una città ben cinta di mura e di antemurale; così la nostra anima si manterrà nella santificante grazia ricevuta nel Battesimo o recuperata nella sacramental Penitenza, se dall’eterne massime e dall’evangeliche verità sarà ben custodita e difesa. Un cristiano che illuminato da viva fede vada dicendo a se stesso: “A che fare, ed a che fine Iddio mi ha posto in questo mondo?” – Per amarlo, per servirlo nel breve pellegrinaggio di questa vita, e poi goderlo eternamente nella patria de’ beati. Un po’ più tardi, un po’ più presto convien partire, non è questo il luogo di una permanenza: “Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus” (Ad Hebr. XIII, 14). Si avvicina la morte, si avvicina 1’eternità, l’eternità felice o sventurata; quale di queste due sarà per toccarmi? Quale mi fa sperare o temere la vita che meno: son io in stato di grazia o di peccato? Se in stato di grazia, che fo per conservarla? Se in stato di peccato, che fo per uscirne? Eh via si risolva. Voglio lasciar il peccato, voglio staccarmi da questo mondo, voglio darmi a Dio, voglio salvarmi. Oh questa sì che è una città ben munita! Che se per mala sorte cadono a terra questi ripari, ella è perduta. “Luxit antemurale, et murus pariter dìssipatus est. Defixæ sunt in terra portæ eius” (Thren. 8.9) . – Ma che gioverebbe ad una città essere ben fortificata, se dal proprio principe non venisse provveduta degli opportuni sussidi? E come potrebbe un’anima sussistere in grazia, se da Dio non fosse custodita e protetta? Nisi Dominum custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam (Ps. CXXVI, 2). Questi aiuti però tanto necessari, acciò non cada in man de’ nemici, Iddio è sempre pronto a concederli a condizione facilissima, che si domandino con umili, fervide ed incessanti preghiere. La grazia e la preghiera, dice il re Profeta (Ps. LXV, 29), vanno del pari. Eccettuata, soggiunge S. Agostino (Lib. De Eccl. Dogm. C. 58), la prima grazia della fede per un infedele, tutte l’altre a noi derivano pel canale della preghiera. Petite, et accipietis (Lc. II, 9), c’inculca il nostro divin Salvatore, pel desiderio ch’Egli ha di esaudirci, e per animare la nostra fiducia, ci assicura di favorevole rescritto con affermativa sua ripetuta parola: “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo dabit vobis(Io. XVI, 23).

II. Ritorniamo al Battista. Ei fu una colonna di ferro nel deserto: “Dedit te … in columnam ferream”. Miratelo in quelle orride selve mal coperto di ruvida spoglia, il suo cibo son vili locuste é miele silvestre, la sua bevanda è l’acqua del fonte, la sua abitazione le grotte e le caverne, il suo letto il nudo terreno. Or come durarla dagli anni più teneri fino alla virilità in tanta inedia, in tanta nudità, esposto all’inclemenza delle stagioni? Come soffrire il tedio di tanta solitudine, la pena di sì lungo silenzio, l’asprezza di vita sì austera? Ecco il perché: la sua virtù superiore a tutti i gusti del senso, a tutt’i reclami dell’umanità, a tutti i bisogni della natura, era a somiglianza del ferro che doma tutti i metalli: “Dedi te in columnam ferream”. Gesù Cristo infatti interrogando i suoi discepoli disse loro: “Che avete veduto nel deserto, vedendo Giovanni? Una canna forse, una fragile canna agitata dal vento”? Non già, avrebbero potuto rispondere, ma una colonna inflessibile di costanza e di fermezza. – Uditori carissimi, a che dobbiamo paragonare la nostra pietà? Alla colonna del Battista, o alla canna del deserto? Non v’è simbolo forse più espressivo della falsa pietà, che una canna. Ella è vuota, sterile, infeconda, e secondo la varietà de’ venti or si piega dall’una, or dall’altra parte, e quando spira un’aurea leggera, pare che applauda a se stessa col rumoreggiare delle foglie. Canna vuota è colei che finge devozione per attirarsi la stima degli uomini; canna sterile è chi mena vita molle, dissipata, oziosa; canna pieghevole, agitata, instabile, è chi si lascia trasportare dalle proprie passioni; canna che applaude a se stessa, è chi pieno di vanità e gonfio di superbia non ha concetto, non ha amore, che per sé. Altri, è vero, si accostano alla sacra Mensa; pare col modesto atteggiamento, colla devota compostezza, che onorino quel Dio che ricevono; ma L’insultano, invece perché ricevendo il Principe della pace, sono in guerra coi loro prossimi, sono in discordia nelle loro famiglie; si pascono delle carni immacolate del divino Agnello, ed hanno il cuore macchiato da affetti troppo sensibili, e talvolta ancor sensuali; danno a Gesù un bacio di apparente amicizia; ma è bacio di tradimento, bacio di Giuda. Son simili costoro a quella canna posta dai Giudei in mano di Gesù Cristo schernito d’onore, perché in forma di scettro; ma in realtà era uno scettro di scorno, d’ignominia, di contumelia. – Si esercitano altri in opere di carità, ma per gloria vana; distribuiscono limosime, ma per ostentazione; soccorrono infermi, ma per aver nome nel testamento; assistono moribondi, ma per aver parte nell’eredità; proteggono la vedova e la pupilla, ma per facilitarsi l’accesso alle loro case, la libertà in trattarle, e insidiare così a colpo più franco alla loro onestà. Somiglianti son questi a quella canna, di cui si servirono i manigoldi a temperare le arsure di Gesù Cristo sitibondo sulla croce. Sembrava tal canna, su la cui cima era applicata un’umida spugna, sembrava strumento di ristoro e di conforto, ma era ristoro di aceto mordace, ma era conforto di amarissimo fiele.

III. – Fu finalmente Giovanni Battista un muro di bronzo nella Galilea, e nel castello di Macheronte: “Dedi te in murum æneum”. Dopo aver predicato alle turbe la penitenza in riva al Giordano, fa il precursore di Cristo penetrar la sua voce nella reggia d’Erode Antipa, ed animato da santo zelo della legge di Dio: non ti è permesso, gli dice, tener presso di te, come tua, la moglie di tuo fratello Filippo, ancora vivente; egli è questo un enorme adulterio, un abominevole incesto. “Non licet tibi habere uxorem fratris tui(Io. VI, 18); e come un muro di bronzo si oppose costantemente alla pratica iniqua di due potenti regnanti. – È tale la nostra fermezza nella giustizia e nella cristiana pietà? Tale sarà, se qualora ci venga proposta un’antidata a falsificare uno scritto, risponderemo, “non licet”. Tale sarà se chiamati a giurare contro la verità, se al presentarsi un ingiusto guadagno, un contratto usurario, un’opportunità di vendetta, una qualunque occasione di peccato, diremo a noi stessi: “non licet, non licet”… Se fummo per lo passato muraglie pendenti, giusta la frase del re Salmista, e macerie sconnesse per l’inclinazione al senso, all’interesse, alle cose terrene, imitiamo ora la generosa fortezza del Santo precursore, come muraglia di bronzo, in resistere a tutto ciò ch’è contrario alla retta coscienza, e alla santa legge di Dio. – Ancor uno sguardo al Battista, acciò l’imitazione delle sue virtù e dei suoi esempi sia in noi perfettamente compiuta. Nella prigione del castello di Macheronte ove per odio dell’empia Erodiade sta rinchiuso, egli corona la sua costanza e la sua vittoria, lasciando la testa sotto la spada del carnefice in testimonio della verità da lui predicata. – Fedeli miei dilettissimi, notate bene. Se noi non ci troviamo in questa necessaria disposizione di dar la testa, il sangue, la vita prima che commettere un solo peccato mortale, non è vera la nostra pietà, è falsa la nostra giustizia. “Prima la testa in terra, – dobbiamo dire col beato Leonardo – che il peccato nell’anima”. Questa assoluta risoluzione, conviene ripeterlo, è cotanto necessaria ed indispensabile, che se con pienezza d’animo e decisa determinazione di volontà non siamo in grado di dire e protestare, prima qualunque disgrazia, prima la morte, e qualunque morte, che offendere Dio con grave peccato, è vana la nostra fede, falsa la nostra opinione, bugiarda la nostra pietà, fallace la nostra giustizia. Giustizia da Farisei e da Scribi, che, come dal bel principio vi accennai, non può aver ingresso nel regno dei cieli: “Nisi abundaverit iustitia vestra plus quam Scribarum et Pharisæorum, non intrabitis in regnum cœlorum”. 

Credo …

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps XV:7 et 8. Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: providébam Deum in conspéctu meo semper: quóniam a dextris est mihi, ne commóvear. [Benedirò il Signore che mi dato senno: tengo Dio sempre a me presente, con lui alla mia destra non sarò smosso.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris: et has oblatiónes famulórum famularúmque tuárum benígnus assúme; ut, quod sínguli obtulérunt ad honórem nóminis tui, cunctis profíciat ad salútem. [Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni dei tuoi servi e delle tue serve, affinché ciò che i singoli offersero a gloria del tuo nome, giovi a tutti per la loro salvezza.]

Communio

Ps XXVI:4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. Una cosa sola chiedo e chiederò al Signore: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.

Postcommunio

Orémus. Quos cœlésti, Dómine, dono satiásti: præsta, quæsumus; ut a nostris mundémur occúltis et ab hóstium liberémur insídiis.

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (6)

CAPITOLO XII

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA LINGUA

Se è cosa innegabile che il paganesimo introdotto nella educazione della gioventù modificò profondamente i pensieri, e, in qualche guisa, l’essere dei popoli moderni, è pure innegabile che la forma del pensiero, cioè la parola e l’Arte, deve portare tracce non meno profonde di simile influsso. A quanto abbiamo detto della poesia e della letteratura aggiungiamo una parola sulla lingua ordinaria, la quale riceve più direttamente l’influsso della letteratura o della lingua dotta. Parleremo poscia dell’Arte. – Tutti sanno che lo stile è l’uomo; che la lingua di un popolo altro non è se non la forma esterna del suo pensiero, dei suoi gusti, del suo modo di giudicare e di sentire. Se un tal popolo è cristiano, la sua lingua sarà cristiana; se un tal popolo è profondamente cristiano, la sua lingua sarà profondamente cristiana. All’opposto, se un tal popolo è pagano, la sua lingua sarà pagana; s’esso è profondamente pagano, la sua lingua sarà profondamente pagana. Egli è questo un infallibile termometro per giudicare che fatta d’idee regni in un popolo egualmente che in un uomo. – Ora abbiamo veduto che da secoli il paganesimo, cioè il naturalismo ed il sensualismo, giungendo incessantemente per la grande strada dell’educazione alla radice stessa della società, penetrò profondamente fra i popoli d’Europa. Che la loro lingua portar ne debba l’innegabile suggello, il solo enunciare così fatta proposizione si è un dimostrarla: tuttavia, stabiliamola con fatti. Nel medio-evo, la lingua delle nazioni d’Europa è affatto calcata sulla lingua religiosa: essa ne è, per dir così, profumata. Lo spiritualismo ed il sovrannaturale si rinvengono d’ogni parte; le parole cristiane, i nomi sacri escono naturalmente d’ogni labbro: il sugo cristiano anima la parola e vivifica il pensiero. La parola, a volte grave, semplice, nobile, viva, abbondante, naturale, affettuosa e sempre vera, comunica tutte codeste qualità al pensiero. Nulla di più agevole a provare. Basta, per questo, aprire i Capitolari dei nostri re e le carte degli antichi tempi; di consultare i nostri storici, quali Joinville, Froissard o Davila; di leggere i discorsi dei cancellieri delle nostre Università, le Mercuriali dei presidenti dei nostri Parlamenti, ed altri documenti pubblici od ufficiali. – Giunge il paganesimo classico: tosto la lingua muta carattere. Essa comincia dal perdere la sua abbondanza e la sua semplicità. Fénélon medesimo non poté non farne l’osservazione. « La nostra lingua, egli dice, manca di un gran numero di parole e di frasi: mi sembra anzi che sia stata imbarazzata ed impoverita da cento anni in qua volendola purificare. È vero che era ancora un po’ informe e troppo verbosa. Ma la vecchia lingua si fa desiderare quando la troviamo in Marot, in Amyot, nel cardinale d’Ossat, nelle opere le più gaie e nelle più serie: essa possedeva non so che di breve, d’ingenuo, di ardito, di vivo, di appassionato (Lettera sull’eloquenza.). » Quindi il sugo cristiano diminuisce; il sovrannaturale diventa più raro; le antiche formule che l’esprimevano sì bene o spariscono del tutto, o sono notevolmente alterate. Se ancor ne rimangono vestigie, nella lingua del popolo fa mestieri cercarle: la lingua dei letterati ne è sprovveduta. Per lei, le parole cristiane paiono anticaglie. Essa non le pronuncia più se non se di raro e come a malincuore.Quindi l’adorabile nome di Nostro Signor Gesù Cristo non si trova una sola volta scritto in tutte lettere nei discorsi del mondo legale da più di sessant’anni in qua. Mentre l’uomo del mondo si fa una gloria di citare Orazio e Virgilio, non gli avviene mai di citare una massima dell’antico o del nuovo Testamento. I nomi dei filosofi pagani gli spuntano naturalmente sulle labbra; quelli degli Apostoli o dei Profeti mai o quasi mai. S’egli vuol fare l’elogio di una virtù, non dice già una virtù cristiana, ma sì una virtù antica; s’egli vuol offrirci il tipo di un grande carattere, non dice già un carattere cristiano, ma sì un carattere antico. Dovunque può, sostituisce parole pagane o profane, parole di significazione meramente naturale alle parole di significazione sovrannaturale. Per dire Iddio, dice Divinità, Essere supremo, Natura; per dire religione, culto; per dire fede, convinzioni od opinioni religiose; per dire carità, filantropia, umanità; per dire elemosina, assistenza. Sull’orlo della tomba, il requiescat in pace cattolico dà luogo alla formula pagana: la terra ti sia leggera. Facile cosa sarebbe il citare una quantità di altre sostituzioni, testimonio manifesto dell’alterazione del pensiero cristiano. Non parlo di un grandissimo numero di parole o di formule della lingua religiosa, che mai non si trovano in certi scritti, in certe storie, in certe opere sulle scienze fisiche o politiche, se non forse con accompagnamento di dispregio e di bestemmia. Ciò è così vero, che voi potete conversare a lungo con un letterato, non importa su quale argomento, sènza riconoscere al suo linguaggio s’egli è ebreo, protestante o seguace di Budda. Lo stesso ne è della maggior parte delle moderne scritture: l’impronta cattolica ne è talmente dileguata, che quasi sempre si può chiedere se l’autore ha una religione e se lo scritto vien da Parigi, da Ginevra o da Costantinopoli. Ora, tutto ciò è ad un tempo una ridicolezza, una vergogna ed uno scandalo; ma è il frutto legittimo del paganesimo classico. È una ridicolezza, poiché vi è lo strano contrasto delle parole pagane e delle anime battezzate; è una vergogna, perché vi è un sintomo dell’indebolimento e della perdita totale della fede; è uno scandalo, perché le nazioni non più potendo distinguere ciò che noi siamo in fatto di religione, vuoi al nostro linguaggio, vuoi ai nostri pubblici costumi, non sanno qual posto assegnarci fra i popoli. Questa ridicolezza, questa vergogna, questo scandalo, diventarono nel calendario repubblicano la lingua ufficiale della nazione, la quale, nutrita di paganesimo, cioè di sensualismo e di naturalismo, trovava affatto logico conformarsi ai suoi modelli così nel suo linguaggio come nelle sue istituzioni e nei suoi costumi. Pronta giustizia, è vero, fu fatta di una tale prova prematura. Nondimeno, se vogliamo sapere a qual grado di profondità il paganesimo sia penetralo nello spirito pubblico, con quanta forza si sia fermato nelle nostre idee, e quale immensa via ci abbia fatto fare, basta un semplice confronto, il cui profondo significato non potrebbe essere negato.Oltre l’interesse morale ch’esso offre, un tal confronto ha un interesse di curiosità altrettanto più vivo, in quanto che a mia saputa non fu mai fatto. Io lo rinvengo nel nome del vascelli, a tre secoli di distanza. Scelgo questo punto di confronto, perché gli elementi ne son certi; perché i due fatti paragonati sono una manifestazione autentica del pensiero dominante nelle due età; finalmente perché il fatto contemporaneo è talmente accettato, che non si potrebbe tentare di nulla cambiarvi senza cagionare un immenso stupore e senza suscitare una infinità di reclamazioni e di sarcasmi.Nel 1571 dunque, i vascelli delle grandi potenze marittime d’Europa si trovavano riuniti nel golfo di Lepanto, in cui dovevano riportare la celebre vittoria che annientò nelle onde la potenza invaditrice dell’Islamismo. In allora, sebbene il paganesimo classico fosse in tutto il suo fervore, non si trovavano ancora in una flotta di 204 navi se non due nomi pagani, quelli di Diana e di Sirena, mentre quella ci offre sessantotto nomi di santi o di sante. Ecco ora il secondo termine di paragone. Il quadro generale della marineria francese, pubblicato nel 1846, offre 371 navi di ogni grandezza. Di queste 371 navi non una sola porta un nome di santo (bisogna eccettuare il Santi-Petri che non è d’origine francese), mentre ottantacinque hanno nomi pagani, e quanto v’è di più pagano.—Questo confronto prova certamente qualche cosa, poiché il linguaggio, massime poi il linguaggio ufficiale, esprime le idee dominanti in un popolo, a quella guisa che il termometro è l’indicatore fedele dei gradi della temperatura. Ma se vogliamo sapere tutto ciò che prova, bisogna ricordarsi non solo che quei nomi pagani furono imposti ai nostri vascelli da uomini letterati, ma eziandio ch’essi non sono disapprovati da nessuno: bisogna ricordarsi inoltre, che, in tutto il rimanente la lingua seguì lo stesso moto, cosicché la nomenclatura pagana della marineria non è già un fatto isolato, ma semplicemente un punto di vista di un fatto universale. Ciò posto, per misurare con esattezza, se non matematica, almeno approssimativa, la strada percorsa dal paganesimo in Europa da tre secoli, bastano (sembra) le regole di proporzione seguenti: Nel secolo decimosesto, il paganesimo stava alla società come due sta a duecento quattro. Trecent’anni più tardi, oggidì, il paganesimo sta alla società come ottantacinque sta a trecento settantuno. Checché ne sia del valore assoluto di siffatto calcolo, non è però nien vero che, per nominare le più magnifiche opere del suo genio, di quel genio ch’ei ricevette da Dio e per la gloria di Dio; che, per porre i suoi vascelli sotto la protezione celeste; che per ispirare ai suoi marinai perduti frammezzo l’Oceano, lontani dalla patria, esposti a formidabili pericoli, consolanti e salutari pensieri, il Regno Cristianissimo non seppe pronunciare una volta sola il nome di un santo, non seppe volgere una sola volta i suoi sguardi verso il ciclo! In cambio seppe percorrere tutte le contrade pagane, rammentare tutti i nomi pagani, evocare tutti gli Dei celesti, terrestri e infernali per battezzar le sue navi e loro affidare i suoi naviganti! È un’altra Firenze, la regina della pittura, la quale colloca ogni sala della sua Galleria sotto il vocabolo di una divinità pagana. Dovunque, lo stesso linguaggio; dunque da per tutto la stessa idea.

CAPITOLO XIII

INFLUSSO BEL PAGANESIMO CLASSICO SULLE ARTI

L’influsso pagano, che abbiamo provato sulla lingua, dovette di necessità pesare sulle arti, nuova manifestazione del pensiero. Ora, vi è un’Arte cristiana, come vi è una letteratura cristiana. Nata il primo giorno che il cristianesimo celebrò gli augusti suoi misteri, vuoi nel cenacolo di Gerosolima, vuoi nelle catacombe di Roma, cotale Arte lasciò da per tutto tracce di sua esistenza. Sviluppatasi cogli anni, essa aveva, molto tempo prima del secolo decimoquinto, raggiunto un alto grado di perfezione. – Il medio-evo aveva veduto il più prodigioso progresso artistico, di cui la storia d’un popolo faccia menzione. – Cominciando il secolo undecimo, il mondo cristiano pressoché tutto, ma specialmente l’Italia e le Gallie, preso ad un tratto da un divino entusiasmo, si pose a rinnovare le sue antiche basiliche, quantunque la maggior parte fossero in condizioni convenevole in ricchezza e di conservazione. Una sublime rivalità nacque tra i popoli a chi ergerebbe i più magnifici monumenti. Le flotte dei Pisani, dei Genovesi e dei Veneziani solcavano tutti i mari, visitavano tutte le isole per toglierne l’alabastro, il porfido ed i marmi i più rari. Non mai i Romani fecero scorrere, per edificare i giganteschi loro monumenti, le loro strade, i loro acquedotti, le loro naumachie, ì loro circhi ed i loro anfiteatri, fiumi d’oro sì abbondanti come quelli che i religiosi nostri antenati scorrer fecero per costruire le loro cattedrali e per ornarle. Detto sarebbesi che il mondo medesimo, scuotendo le vecchie sue vesti, avesse fretta di coprirsi, come di un manto di gloria, di chiese, di basiliche sfolgoreggianti d’azzurro, d’oro e di porpora. Lo stesso progresso continuò nei tre secoli seguenti. Sul finire di sì glorioso periodo, l’Europa apparisce agli occhi stupefatti risplendente di capi d’opera d’architettura, di scultura, di mosaico, di pittura e di cesellatura che noi possiamo bensì ammirare, eguagliare non mai. Infatti, mentre il genio della Fede, personificato in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Alemagna, in una quantità di grandi uomini sconosciuti, lanciava negli spazii quelle cattedrali a proporzioni gigantesche e perfettamente armoniche, esso animava del divin suo soffio lo scultore che tagliava in merletto le miriadi di guglie, la cui punta slanciata sembrava recare la preghiera sino al cielo; poscia faceva uscire dalla pietra e dal marmo quei popoli interi di statue, i quali, per ammaestrare della vita il pellegrino, gli riponevano solt’occhio le auguste e formidabili reatà del mondo futuro, le battaglie ed i trionfi di coloro che preceduto l’avevano nel pellegrinaggio dal tempo alla eternità. – Guidato dalla mano immortale di Cimabue, di Pisano, di Giotto e di altri molti, il pennello cattolico scriveva sulle muraglie delle basiliche, e talora sulle pareti delle più umili cappelle, la meravigliosa epopea del Cristianesimo, ed innalzava l’arte ad una perfezione da far disperare i meno valenti. Il mosaicista smaltava, come un pavimento, lo spazzo e la volta del tempio di fiori immortali e di disegni a mille colori; il cesellatore incideva sui vasi sacri o i misteri dell’Uomo-Dio, o le vite dei santi, o gli emblemi delle Virtù: il vetraio, l’orefice, il ricamatore gareggiavano di zelo e di fortuna, in guisa che appena era dato d’incontrare un umile tempio, un povero monastero che non contenesse qualche prezioso oggetto d’arte. In una parola, grazie al cristianesimo, che in allora operava nella pienezza del suo potere, l’Europa fu un vero museo, ma un museo casto, morale, nel quale l’Arte, diventata ciò che esser deve, un sacerdozio, aveva tradotto in capi d’opera d’ogni genere il principio spiritualista che la inspirava. – A tale punto si era quando il paganesimo classico invase l’Europa. Ora egli è nella natura delle cose che le arti ricevano l’impulso dalla letteratura e camminino nella sua via. Diventata pagana, la letteratura comunicò dunque alle arti una direzione pagana. La pittura fu la prima a prestare il suo concorso a questa felice restaurazione del paganesimo in seno delle genti cristiane. A questa età, per la prima volta il pennello del pittore, che la religione consacrato aveva presso che esclusivamente a esprimere le cose sacre, fu prostituito a riprodurre le divinità e i fatti mitologici sulla tela, sulle pareti e persino sulle volte dei palazzi. Dalle dimore dei grandi si videro sparire i quadri religiosi per dare luogo alle infamie della favola. Per avere un’idea della licenza e dell’impudente oscenità delle pitture fatte a quest’epoca, basti dire che gli Dei e le Dee d’Olimpo, in uno stato di nudità totale e nelle più lubriche attitudini, ornano le gallerie delle case principesche, così che gli occhi i meno casti non le possono mirare senza che la fronte arrossisca. Si è senza dubbio per questo, che l’accesso a tali gallerie non è lecito a tutti, ma solo alle persone d’una classe elevata, e solo nei giorni di ricevimento; certo, in quei giorni, e per tali persone, quei quadri non hanno nulla che offender possa il pudore! Non bastò il riempiere le case di Veneri, di Ninfe, di prostitute; la licenza dell’Arte, fatta pagana, giunse sino a macchiare la santità dei templi del vero Dio. L’antichità cristiana aveva sempre abbigliato di vesti e di eleganti drappi gli angeli, rappresentati nell’atteggiamento d’un pudore tutto celestiale; in questo secolo furono affatto svestiti, e presentati agli occhi dei fedeli sotto la forma di Genii pagani. Si andò anche più lontano, dipingendo i santi e le virtù. Uomini e donne per metà nude, tali furono i santi, le sante e le virtù che furono offerte alla venerazione dei cristiani. Fra mille esempi, ne citerò un solo, il Giudizio finale di Michelangelo. In questo quadro, in cui la carne domina ben più che non lo spirito, in cui la nudità delle membra cancella l’idea cristiana, si ammirano la perizia del pittore, il vigore del suo pennello, la possanza del suo genio: ma il sentimento cristiano non vi si trova quasi, e la pietà ancora meno. Come, per esempio, sopportare l’idea che il supremo Giudice dei vivi e dei morti abbia l’aria irritata d’un semplice mortale, l’atteggiamento convulsivo di Giove che lancia il fulmine, o di Nettuno che biasima i flutti? In questa mancanza di verità traspare l’influsso del mito olimpico sovra il genio dell’artista cristiano. Raffaello medesimo fu trascinato dal torrente. Il mirabile ingegno ch’egli aveva ricevuto dal cielo per predicare lo spiritualismo cristiano, fu da lui prostituito troppo spesso al sensualismo pagano. Primieramente ei non arrossì dal riprodurre, non so quante volte, la più infame delle Dee; poscia dal macchiare i suoi quadri religiosi, anche i più pregiati, colle figure di meretrici. Lo stesso ne è del Tiziano, di Giulio Romano e di tutti gli altri pittori, discepoli del Rinascimento. Per giudicare d’un solo colpo d’occhio la fatale influenza del paganesimo sulla pittura, basti visitare la galleria del palazzo Pitti a Firenze. Qui comincia il pagano sensualismo; qui, per consacrare in qualche guisa le rimembranze della sua culla, esso riunisce la più parte delle opere capitali dovute alla sua ispirazione. Vi si vede cogli occhi, vi si tocca colle mani questa verità, che il Rinascimento fu in pittura ciò che esso fu in letteratura: il culto della forma e l’apostolato del sensualismo. Questo tempio della pittura si divide in quindici cappelle o sale. Non una ha ricevuto una denominazione cristiana; tre hanno nomi insignificanti: sale della Stuffa, dei Ragazzi, dei Poccetti. Le altre dodici hanno il nome di una divinità pagana o d’un semideo: sala di Venere, sala d’Apollo, sala di Marte, sala di Giove, sala di Saturno, sala dell’ Iliade, sala dell’Educazione di Giove, sala di Ulisse che ritorna in Itaca, sala di Prometeo, sala della Giustizia, sala di Flora, sala della Musica. Per tema che non si capisca il pensiero che presiedette a tali disposizioni ed a tali denominazioni, le ultime sale sono le più magnifiche, quella di Venere è la prima. Ogni divinità tutelare è dipinta sul soffitto della sua sala coi suoi casti attributi, ossia nello adempiere qualche azione mitologica; azioni, l’una più dell’altra capace di ispirare celesti pensieri!! Al disotto, sulle quattro pareti del santuario, voi vedete brillare i quadri dei grandi maestri del Rinascimento. Si direbbero degli ex voto che testifichino la gratitudine degli artisti per il Dio o per la Dea alla cui ispirazione essi sembrano dichiararsi debitori delle opere del loro pennello. – Oso sfidare di trovare una traduzione più letterale del pensiero artistico nel secolo sedicesimo, che non tutto questo spettacolo così perfettamente pagano; una testimonianza più irrecusabile dell’alleanza adultera della pittura e del paganesimo, avvenuta a questo tempo. La Galleria di Firenze non dice forse al giovine artista costretto di visitarla, come il tirone è costretto di fare il suo giro della Francia: « Innalza gli occhi al soffitto delle mie sale; ecco gli Dei della pittura, ecco quelli che ispirarono i capi d’opera che brillano ai loro piedi. Tu non devi cercare nel cielo dei cristiani ispirazioni e modelli: l’Olimpo ti basta, la strada ti è aperta dalle luminose tracce dei grandi maestri: lavora, imita, spera ». E che mai deve egli imitare? Ciò che ha sotto lo sguardo? E che cos’ha egli sotto lo sguardo? Quadri che si dividono in due grandi classi: gli argomenti profani e gli argomenti religiosi. – I primi sono trattati dai maestri con una perfezione che rammenta certi affreschi di Pompei; si vede che furono dipinti con entusiasmo. Ve qualche figura innanzi alla quale il chirurgo può fare un corso di anatomia. La dolcezza, la forza, lo splendore, le più delicate gradazioni della carnagione; le fibre, i nervi, i muscoli, i più piccoli tendini; il complicato congegno degli organi, la loro dilatazione o la loro contrazione, secondo l’impressione naturale del piacere o del dolore, nulla vi manca. A tutte queste doti vanno congiunte la regolarità delle proporzioni, l’esatta naturalezza delle posizioni, la bellezza del colorito che rapisce. La forma materiale e la sensazione fisica si trovano espresse con una indicibile perfezione. – Quanto agli argomenti religiosi, s’indovina ciò ch’ei possono essere: il pittore li fece a sua immagine com’ei medesimo si era fatto a immagine dei modelli pagani e profani. La forma materiale nulla e quasi nulla lascia a desiderare. Voi avete begli uomini e belle donne, delle Grazie, delle Ninfe, delle Dee; ma di santi e di sante poco o niente. Voi scoprite, anche senza volerlo, nei santi, nelle sante, nei martiri, negli angeli, un’aria di famiglia con Apollo, con Giove, colle Muse, cogli eroi e colle eroine dell’antichità, la quale vi rende palpabile la pagana ispirazione. Si cerca il cielo, non si trova se non l’Olimpo: l’occhio ammira, ma il cuore non prega. Un intero ordine di sentimenti, d’idee, d’immagini, deposto in noi dalla religione e che compone il fondo del nostro essere sovrannaturale, rimane senza traduzione. Il pittore non ci capisce; il suo linguaggio non è il nostro: egli parla di carne, e noi parliamo di spirito. Essere muta per lo spiritualismo è la prima disgrazia della pittura discepola del Rinascimento; come il primo rimprovero che le si deve fare, si è di esser diventata il più pericoloso apostolo del sensualismo. Essa ne merita un altro, molto più grave. Prima del suo divorzio, essa non dipingeva il nudo. Ciò per due motivi; il primo, perché la religione cristiana, essenzialmente spiritualista e morale, lo vieta. Ora la pittura, docile figliuola della sua casta madre, prendeva se stessa in considerazione, e considerava sé come un sacerdozio destinato a tradurre un ordine d’idee, di sentimenti e di bellezze, superiore ai sensi; il secondo motivo, conseguenza del primo, perché la pittura del nudo non era per nulla necessaria alla perfezione dell’Arto cattolica. Si procurava esclusivamente di rendere la bellezza spirituale, la cui sola vista innalza al disopra dei sensi. Ora, cotale bellezza si riflette unicamente negli occhi e nei lineamenti del viso. Quindi l’incomparabile purezza delle figure ed il tipo veracemente divino, che distinguono le opere dei grandi maestri anteriori al Rinascimento. Si vede che questa parte assorbiva le loro cure ed il loro ingegno. Tutto il rimanente, riguardato quale un accessorio, è trattato con una certa negligenza, diventato il soggetto eterno di rimproveri spinti sino all’ingiustizia. Questa dignità, questa santa missione dell’Arte fu sconosciuta dai nuovi artisti. Formati alla scuola del paganesimo, essi non videro abitualmente se non se la beltà materiale, e, per farla spiccare, dipinsero il nudo, e, infelici! lo dipinsero con un’abbondanza e con frontatezza tale che fa abbassare gli occhi alla virtù, e che coprirà per sempre di rossore la fronte la meno pudica. È egli questo un progresso? È egli questo l’uso legittimo dell’arte? Non ne è forse la profanazione? Dio ha Egli dato all’uomo il genio per corrompere con maggiore perizia? – Sotto l’influsso del paganesimo la pittura cessa dunque, tranne sempre onorevoli eccezioni, di essere la lingua dello spiritualismo, per diventare la lingua del sensualismo. Pel fondo, essa ha perduto infinitamente di più che non abbia guadagnato nel rivolgimento del quindicesimo secolo. Quanto alla forma, si potrebbe egli provare che, rimanendo cattolica, l’Arte non avrebbe raggiunto quella correzione di disegno, quella regolarità di lineamenti, quella perfezione di posizioni, di drappi ed altri accessori che il Rinascimento si vanta di averle dato, e che l’esperienza le avrebbe dato senza di quello? Colui che può il più, può il meno. L’arte cattolica si era innalzata sino alla bellezza ideale e sovrannaturale: un po’ di pratica le avrebbe dato il segreto della bellezza sensibile, i cui modelli sono palpabili. Si possono allegare per prova i capi d’opera di Giotto, del Beato Angelico, del Gaddi e di altri molti. La Cappella degli Spagnuoli, in Roma, possiede varie figure antiche così belle di stile e di espressione come quelle di Raffaello, e i cui pensieri sono più profondi ed i concetti più vasti. La Madonna di Santa Maria in Cosmedin; Nostra Signora, nella Chiesa dei santi Cosma e Damiano sul Foro, sono per ogni verso ammirabili: tale si è la maestà delle figure che Michelangelo, Raffaello e tutti i pittori che li hanno seguiti non poterono mai raggiungerla.

CAPITOLO XIV

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Sebbene la pittura si sia troppo spesso prestata, dal principio della Rinascenza, a secondare il sensualismo pagano, bisogna riconoscere ch’essa non s’allontanava ldalla religione se non a malincuore. La scuola fondata da fra Bartolomeo e dal Beato Angelico lottò a lungo contro l’invasione, e ottenne magnifici trionfi. Altrettanto non si può dire della scultura. Appena il culto del paganesimo fu inaugurato, gli scultori ed i loro patroni si lasciarono trascinare ad un fanatismo, e quasi ad un delirio incredibile per gli antichi modelli. Dapprima, non si ebbe risparmio né a spese, né a lavori, per scoprire le statue delle divinità dell’Olimpo e dei grandi uomini dell’antichità: gli scavi furono coronati dal successo. Mentre i secoli cristiani riserbavano l’entusiasmo loro per la scoperta di qualche celebre martire ed il loro oro per ergere templi agli eroi della Fede, si vide, oh tempi! oh costumi! l’entusiasmo, riserbato solo per gli Dei della favola, manifestarsi con feste e pubbliche allegrezze, e l’oro cristiano consacrato a edificare sontuosi palazzi per albergarvi le divinità e gli uomini del paganesimo. Si trovava egli una statua di Venere, di Giove, di un Satiro, che dico io? una statua! un frammento di statua, un braccio, un piede, un torso, una mano, un naso? e tosto voi avreste visto le accademie adunarsi, e con grandissima serietà ordinare investigazioni. Commentari apparivano d’ogni parte, e le intere città, percorse in ogni verso dagli amatori, passavano dall’agitazione all’allegrezza, come se la scoperta di tali oggetti avesse assicurato la salvezza della repubblica. Quindi esse statue di Dei e di personaggi del paganesimo, le iscrizioni, i vasi, le urne, le tombe ed i monumenti di ogni genere, andavano a popolare non solo i musei (il che era permesso, e sino ad un tal punto, degno di elogio), ma i palazzi e le case. Da quanto avveniva in Roma stessa, si giudichi di ciò che altrove si faceva. Un giorno si annunzia che operai hanno trovato nei dintorni di Sette-Sale un gruppo in marmo d’un ammirabile scalpello greco. A questa notizia , gli artisti e i dotti accorrono ai Giardini di Tito. Essi hanno riconosciuto il Laocoonte quale Plinio Io ha descritto: l’entusiasmo è al colmo. – La sera, tutte le campane delle chiese suonano per annunziare la felice scoperta. I poeti non dormono di notte; essi preparano, per salutare il ritorno del capo d’opera antico alla luce, sonetti, inni, canzoni: alla domane tutta Roma è in festa. La statua, ornata di fiori e di verzura, attraversa la città a suon di musica; le signore sono ai veroni, e applaudono colle mani; i sacerdoti, schierati d’ambo i lati si scoprono alla vista del capo d’opera; tutto il popolo è nelle vie, accompagnando cogli allegri suoi canti il Laocoonte, che fece il suo trionfale ingresso nel Campidoglio. Collocata la statua sul suo piedestallo, Giulio II si ritrae nelle sue stanze, ed allora una nuova festa incomincia, in cui il cardinale Sadoleto, col capo coronato di edera, canta il felice avvenimento in un’ode che tutti gli umanisti sanno a memoria (Ecce alto terra e tumulo, etc.). La sera, il Sadoleto trova nella sua camera un bel manoscritto di Platone: era un dono del Papa. Quanto a Felice de Fredis, che aveva scoperto la preziosa statua, il sommo pontefice gli diede parte delle entrate della gabella di Porta San Giovanni in Laterano e lo creò notaio apostolico. Non fa mestieri aggiungere che i fanatici partigiani del Rinascimento abusarono nel più strano modo di questi pontificii incoraggiamenti. – Infatti per timore che il popolo non fosse privo della vista dei casti oggetti, di cui la scoperta era stata cagionata dagli scavi, vennero essi esposti nei quadri vii e sulle pubbliche piazze; si posero sulle facciate dei palazzi e delle case, colà ove la pietà degli antichi cristiani collocava l’augusto segno della croce e le immagini dei santi. Ma, da una parte, queste reliquie della superstizione pagana non erano tanto a buon mercato, e pochi potevano procurarsele; d’altra parte, non un solo onest’uomo, non una famiglia agiata che non ne volesse avere. Perciò, come si erano tradotte in volgare, per bene del popolo, le più oscene opere della antichità, gli scultori cristiani riprodussero a gara le antiche statue di tutti gli Dei e di tutte le Dee dell’Olimpo, gli uni in marmo ed in bronzo, gli altri in terra cotta, in gesso ed in pietra. Le incisioni le moltiplicarono all’infinito, e spesso ancora aggiunsero alla oscenità del modello. Con questo mezzo, tutte le infamie mitologiche diventarono sì comuni che ogni cristiano, per quanto povero ei fosse, si vide in stato di potersi procurare, invece dei ritratti di nostro Signore e della Santa Vergine, l’incisione o la statua di Giove, di Venere, di Cupido, di Diana e degli altri. Allora il sensualismo, scorrendo a piena onda dallo scalpello dello scultore, dal bulino dell’incisore e dal pennello del pittore, inondò delle sue onde impure tutta quanta l’Europa cristiana. Dai palazzi, ove essi avevan preso il luogo del Salvatore, di Maria, dei Martiri e dei Santi; Giove, Giunone, Apollo, Venere, le Grazie, le Ninfe, i Satiri, gli Dei e i semi-dei discesero trionfanti sulle piazze delle città, ornarono le fontane, popolarono i pubblici passeggi ed abbellirono i parchi e i giardini delle case di campagna, dando a tutti, e ad ogni ora, le più eloquenti lezioni di oscenità. Il fanciullo stesso trovò nel domestico focolare, od almeno non ne poté uscire, senz’incontrare immagini che macchiando la sua giovine immaginazione, volgevano il cuor suo verso la terra e i sensi: meno felice del fanciullo del medio-evo, il quale nella paterna dimora e nelle vie delle città o sull’orlo delle strade, era certo di incontrare le sante immagini, le ingenue statue di Gesù e di sua Madre o degli antichi patroni dell’Europa cattolica. E facile il capire quanto questa continua visione del mondo superiore, predicando lo spiritualismo il più elevato, nobilitasse il cuore ed incoraggiasse la virtù. Tuttavia non bastava al sensualismo pagano d’avere macchiato i luoghi e gli edifici profani; esso osò penetrare persino nei templi del vero Iddio. Le tombe, che sino a questa età la pietà degli antichi artisti aveva abbellite di figure, di emblemi e d’ornamenti cristiani, cominciarono ad essere edificate nel gusto pagano. Statue indecenti vi rappresentarono le Virtù cristiane. Da principio, lo scandalo fu spinto sì lungi, che invece di onorare la memoria dei morti, le figure erano molto più proprie ad eccitare le passioni dei vivi, e si fu più tardi obbligati di coprirle con una veste di bronzo. Quindi si fecero sparire dai mausolei tutti gli emblemi cristiani, per surrogarli con emblemi o pagani o profani. Così che se non era il tempio in cui sono posti, meno assai per abbellirlo che per macchiarlo, nulla in somiglianti monumenti potrebbe far ravvisare tombe cristiane. Altre volte (ciò che non è meno sacrilego sebbene più ridicolo) si fece un bizzarro miscuglio del Cristianesimo e del Paganesimo. La Religione ed il Tempo, la Speranza e l’Amore, uniti insieme, ciascuno coi suoi attributi cristiani o mitologici, ridussero i mausolei a un non so che senza nome. Fra mille esempi citerò la tomba del Delfino, posta in mezzo del coro della metropolitana di Sens. Ma, siavi o no miscuglio sulle tombe come ai tavoli degli altari o altrove, tutte le figure sono eseguite secondo il tipo pagano. I Genii diventano gli Angeli; Diana, la Santa Vergine; Endimione od Apollo, Mostro Signore e i Santi; Cesare e Nettuno, Mose; i filosofi, San Giuseppe ed i Profeti. – Diciamo tuttavia, per esser giusti, che la scultura come la pittura, conservò qualcosa di cristiano, anche dopo la generale invasione del paganesimo: ma l’architettura, nulla affatto. Dal principiare del sedicesimo secolo, essa si allontanò affatto dal tipo cristiano. Partendo da tale età, l’opinione pubblica dichiarò che non solo i palazzi, le case, i teatri e tutti gli edifici profani, ma ancora le chiese, dovevano essere costrutte nello stile greco e romano. Il che era diametralmente contrario all’uso costante della Chiesa. È ben vero che quando i cristiani d’altre volte non avevano né i mezzi né il tempo necessario per erigere una chiesa, ei si servivano, per adorare il vero Iddio, dei templi delle false divinità dopo di averli purificati e spogli d’ogni vestigio d’idolatria. Ma quando loro fu dato di costruire nuove chiese, giammai un architetto cristiano prese a modello un tempio pagano. Perciò, dalla visita dei monumenti cristiani che ci rimangono, risulta questo fatto innegabile, che dall’origine della Chiesa sino al sedicesimo secolo, veruna chiesa nuova fu creata nello siile pagano. Non lo si attribuisca né a mancanza di danaro, né a mancanza di modelli. Da un lato, i Cesari furono non prima cristiani che non risparmiarono a spese per dare alla religione templi magnifici; dall’ altro, i più celebri templi pagani di Grecia e d’Italia sussistevano ancora in tutta quanta la loro interezza. Ma gli architetti cristiani li sdegnarono con ragione poiché trovavano lo stile pagano improprio al culto ed opposto al genio cattolico. Sotto il nome di architettura bizantina si stabilì pertanto un nuovo modo di ergere le chiese. Da Costantinopoli, ove esso era nato, passò in Occidente. Modificata dallo studio profondo delle relazioni tra l’Arte e la Fede, aiutata in ispecie dai consigli dei Vescovi, che accuratamente esaminavano il disegno dei nuovi edifici e spesso lo davano ei medesimi, questa architettura giunse, sotto il nome di architettura gotica, al più alto grado di perfezione. A lei si devono le immense, magnifiche, meravigliose cattedrali di Francia, d’Inghilterra e d’Alemagna, in cui l’eleganza, la grazia, la ricchezza, la brillante varietà delle forme vanno unite alla maestà del complesso, e fanno risplendere in tutta la sua gloria il genio della Fede che le ispirò. Ma quando, sul finire del secolo quindicesimo, si cominciò a ripetere che le opere de’ pagani erano il tipo del bello in ogni genere, non solo nelle lettere, ma anche nelle arti; che elleno dovevano essere i soli modelli degni dell’ artista e del letterato; 1’architettura cristiana, consacrata dall’ uso di quindici secoli, illustrata da innumerevoli capi d’opera, fu subito trattata di barbara ed esiliata dalle città cristiane. Acciocché non rimanesse vestigia delle sue opere, si videro gli architetti, o piuttosto i Vandali di quell’età insensata, trasportati dal cieco furore che aveva spinto i barbari del quindicesimo e del sedicesimo secolo a rovesciare gli osceni templi del paganesimo, sforzarsi di distruggere i pii, i venerabili Santuari delle età cristiane. Così, per non citare che un solo esempio, l’antichissima e venerabilissima basilica di San Pietro in Vaticano, monumento incomparabile non solo della religione dell’intera Europa, della pietà dei fedeli, della munificenza dei papi e dei re, ma eziandio, a giudizio dello stesso Bramante, vero museo e capo d’opera unico dell’Arte cristiana, fu senza pietà rovesciato da capo a fondo per dar luogo all’edificio greco-romano che il Rinascimento gli ha sostituito. Né le grida, né le collere di quel grande artista poterono fermare il martello distruttore. Lo stesso vandalismo stese dovunque le sue rovine. Chi conterà le antiche chiese, le cappelle, le torri, le tombe od affatto distrutte, o sepolte nelle viscere della terra, o sfigurate da mutilazioni più indegne ancora, acciocché l’Europa intera più non contasse alcun edificio antico o moderno, che non fosse nello stile greco, e coll’impronta del paganesimo? Ben di più; nel medio-evo, l’architettura civile stessa aveva preso un carattere religioso e prodotto superbi edifici, come si può vederlo ancora a Venezia in particolare, ed in alcune città di Francia, del Belgio e dell’Inghilterra. Ora, il sedicesimo secolo imprese a rinnovare od a restaurare anche le chiese nello stile pagano. Il fanatismo giunse a tale, che senza la viva opposizione dell’ autorità ecclesiastica, gli antichi monumenti cristiani, che erano sfuggiti al furore dei barbari, sarebbero caduti sotto i colpi dei cristiani medesimi. Questa opposizione, la quale, devesi confessarlo, non durò sempre, fu lungi dal salvare tutti i nostri edifici. « Durante i secoli 17° e 18°, il fanatismo per uno stile di architettura recentemente adottato, era tale, che il sistema di restaurazione applicato agli antichi nostri edifici religiosi, fu per essi una disgrazia, non solo sotto il punto di veduta dell’arte, ma eziandio sotto quello della loro solidità. Essi furono trattati a dispetto del principio di loro costruzione; loro si rimproverava di non essere in armonia con ciò che allora si riguardava come il bello in architettura, e venivano torturati per sottoporli al gusto del giorno ». E v’è da meravigliarsi di tanti atti di vandalismo, che ci fanno gemere oggidì? E v’ ha parimenti da meravigliarsi che il divorzio tra 1′ architettura e la religione si sia mantenuto sino ai dì nostri con una specie di buona fede e frammezzo un concerto di lodi che saranno uno dei maggiori stupori dell’avvenire? E v’è insomma da meravigliarsi dell’aberrazione a cui esso trascinò lo spirito pubblico, quando si sentono gli uomini i più celebrati per senno e per buon gusto, dire, quasi un doppio assioma, che1’architettura pagana è il tipo del bello, e 1’architettura cristiana il tipo del brutto? – Dopo di avere citato un pomposo elogio del nuovo tempio di San Pietro in Vaticano, in cui la più avida curiosità e la più dotta trova di che soddisfarsi; in cui gli artisti in ogni genere i più critici ed i più esperti vengono ad ammirare e ad istruirsi, Feller termina così il suo articolo su Giulio II: « Egli incoraggiò la pittura, la scultura, l’architettura; ed ai suoi tempi le arti belle incominciarono ad uscire dalle macerie della gotica barbarie ». Ma ecco un’altra autorità. Parlando dell’ architettura cristiana, Fénélon si esprime così: « Gli inventori dell’architettura che dicesi gotica, e che è , dicesi, quella degli Arabi, credettero senza dubbio di aver sorpassato i greci architetti. Un edificio greco non ha ornamento alcuno che non serva che ad ornare l’opera; i pezzi necessari per sostenerlo o per porlo al coperto, come le colonne e la cornice, si volgono solo in grazia colle loro proporzioni: tutto è semplice, tutto è misurato, tutto è limitato all’uso: non vi si vede né ardire, né capriccio che impongano agli occhi; le proporzioni sono sì giuste che nulla sembra troppo grande, sebbene tutto lo sia; tutto si limita a contentare la vera ragione. All’opposto, l’architettura gotica innalza, su pilastri assai piccoli, un’immensa volta che sale sino alle nubi; si crede che tutto sia per cadere, ma tutto dura per molti secoli; tutto è pieno di finestre, di rosoni e di punte; la pietra sembra intagliata come cartone; tutto è a giorno, tutto è nell’aria. Non è egli naturale che i primi architetti gotici si siano lusingati d’aver sorpassato col loro vano raffinamento la semplicità greca? Cangiate solo i nomi, ponete i poeti e gli oratori in luogo degli architetti: Lucano doveva naturalmente credere d’essere più grande di Virgilio; Seneca il Tragico poteva pensare ch’egli spiccava ben più di Sofocle ; il Tasso poté sperare di lasciarsi indietro Virgilio e Omero. Questi autori, così pensando, si sarebbero ingannati ». – Voi lo sentite; quanto l’arte cristiana ha mai prodotto di più perfetto non è se non un’opera di cattivo gusto, che non può sostenere il paragone delle opere del paganesimo. Architetti e poeti cristiani non sono al confronto dei pagani se non ciò che Lucano è al confronto di Virgilio, e Seneca di Sofocle! – Riassumendo quanto precede ed applicando all’architettura ed alla scultura le riflessioni che facemmo sulla pittura, noi diciamo che, ogni cosa esaminata a sangue freddo e senza passione, il Rinascimento altro non fu se non il risorgimento del Paganesimo nell’arte, come pure nelle lettere, e la distruzione del Cristianesimo nell’arte, come pure nelle lettere; la rivincita del sensualismo pagano, vinto già dallo spiritualismo cristiano; un immenso passo retrogrado e non un immenso progresso; una fonte d’errori e di vergogna per 1’Europa e non già un principio di luce e di gloria. Tali sono i grandi vantaggi che noi abbiamo raccolto, e che ancor raccogliamo dal paganesimo classico. Altri ve ne sono, che faremo conoscere nei Capitoli seguenti.

TESI A CONFRONTO: l’una cattolica e l’altra eretico-manichea.

TESI A CONFRONTO:

[La XVI Tesi DEL TOMISMO

e la Tesi c.d. Cassiciacum]

Il Magistero della Chiesa, con la Lettera al Generale dei Francescani del 13 dicembre del 1885 di Leone XIII, il quale in essa applica i princìpi dell’enciclica sulla rinascita del tomismo Æterni Patris (del 1879) al caso concreto dell’insegnamento della dottrina tomistica anche presso tutti gli altri ordini religiosi (con particolare riferimento ai figli di S. Francesco) e al clero secolare, recita: «L’allontanarsi dalla dottrina del Dottore Angelico è cosa contraria alla Nostra volontà, e, assieme, è cosa piena di pericoli. […]. Coloro i quali desiderano di essere veramente filosofi, e i religiosi sopra tutti ne hanno il dovere, debbono collocare le basi e i fondamenti della loro dottrina in S. Tommaso d’Aquino.

– Con la promulgazione del motu proprio “Doctoris Angelici” del 29 giugno del 1914 San Pio X imponeva come testo scolastico la Summa Theologiæ di San Tommaso alle facoltà teologiche, sotto pena d’invalidarne i gradi accademici. Papa Sarto richiamava l’obbligo di insegnare i princìpi fondamentali e le tesi più salienti del tomismo (“principia et pronuntiata majora”). – San Pio X incaricò nell’inverno del 1914 il padre gesuita Guido Mattiussi di “precisare il pensiero di S. Tommaso sulle questioni più gravi in materia filosofica, e di condensarle in pochi enunciati chiari ed inequivocabili”. Partecipò al lavoro anche Mons. Giuseppe Biagioli, professore di teologia dogmatica presso il Seminario di Fiesole. Nell’estate del 1914 il card. Lorenzelli, Prefetto della ‘S. Congregazione degli Studi’, presentò le XXIV Tesi compilate da Mattiussi e Biagioli a San Pio X, che le approvò il 27 luglio del 1914. Benedetto XV impose a p. Mattiussi di scrivere su La Civiltà Cattolica un ‘Commento delle XXIV Tesi’, che fu poi pubblicato a Roma dall’Editrice Gregoriana nel 1917.

Il 7 marzo 1916 la ‘S. Congregazione degli Studi’ a nome del papa Benedetto XV stabilì che “Tutte le XXIV Tesi filosofiche esprimono la genuina dottrina di San Tommaso e son proposte come sicure (tutæ) norme direttive”. Tuttavia «il Papa, pur insistendo “doversi proporre tutte le Tesi della dottrina di san Tommaso quali sicure regole direttive”, non imponeva il dovere di abbracciarle con assenso interno. Evidentemente Benedetto XV non voleva dare alle XXIV Tesi un valore dogmatico, ma un valore di alta importanza disciplinare […], come la dottrina preferita dalla Chiesa». Il Magistero ecclesiastico con papa Benedetto XV, il 7 marzo 1917, decise che «le XXIV Tesi dovessero essere proposte come regole sicure di direzione intellettuale. […] Nel 1917 il ‘CIC’ nel canone 1366 § 2 diceva: “Il metodo, i princìpi e la dottrina di S. Tommaso devono esser seguiti santamente o con rispetto religioso”. Tra le fonti indicate il ‘Codice’ addita il ‘Decreto di approvazione delle XXIV Tesi’». Sempre papa Giacomo Della Chiesa nell’Enciclica “Fausto appetente die” (29 giugno 1921) insegna: «La Chiesa ha stabilito che la dottrina di S. Tommaso è anche la sua propria dottrina (“Thomæ doctrinam Ecclesia suam propriam esse edixit”)». Pio XI nell’enciclica “Studiorum ducem” (1923) ha ribadito e riconfermato l’insegnamento delle encicliche di Leone XIII, S. Pio X e Benedetto XV. Per cui se per un atto di estrema bontà la Chiesa permette o tollera che si insegni lo scotismo e il suarezismo, è certo che la sua dottrina è quella di S. Tommaso: “Ecclesia edixit doctrinam Thomæ esse suam” (Benedetto XV, “Fausto appetente die”, 1921). La Chiesa – come abbiamo visto – ha voluto che si raccogliessero in una specie di ‘Sillabo’ le Tesi genuine della filosofia tomistica. ‘Le XXIV Tesi del Tomismo’ composte da p. Guido Mattiussi e approvate dal Magistero ecclesiastico (S. Pio X e Benedetto XV) contengono l’essenza della dottrina tomistica genuina.

Partendo da queste premesse magisteriali, ci accingiamo ad esaminare la XVI tesi del tomismo, per confrontarla con la tesi abbondantemente eretica, la c. d. Tesi di Cassiciacum, di un preteso teologo francese, addirittura un domenicano, dello stesso ordine di S. Tommaso quindi, Guerard Des Lauriers, un falso vescovo senza giurisdizione, oscillante tra setta lefebvriana e setta sedevacantista, pertanto personaggio sacrilego e blasfemo nei suoi scritti e nei suoi atti, ed iniziatore della setta eretica dei sedeprivazionisti, setta che sostiene e puntella il “novus ordo”, raccogliendo i pesciolini sfuggiti alla rete del Vaticano II, e alle canne da pesca dei lefebvriani e dei sedevacantisti apocalittici! – Coloro che fossero interessati a conoscere le altre tesi contenute nel lavoro di Matteussi e Biagioli, base filosofica della teologia cattolica, [lo raccomandiamo a tutti i Cattolici] non devono far altro che cercarsele nei siti internet finto-cattolici o nelle librerie specializzate. Diamo allora inizio all’esame della tesi XVI:

Tesi XVI del tomismo:

L’unione dell’anima con il corpo

«L’anima razionale è unita al corpo in maniera tale da esserne l’unica forma sostanziale. È per essa che l’uomo è uomo, animato, vivente, corpo, sostanza e ente. Quindi l’anima dà al corpo ogni grado essenziale di perfezione; inoltre comunica al corpo l’atto d’essere per il quale essa stessa è ciò che è ed esiste».

– L’anima umana è la forma sostanziale del corpo. Ora la forma sostanziale di un composto è unica poiché una sola sostanza – per il principio evidente di ‘identità’ e ‘non contraddizione’ – non può essere, nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto, una sostanza ed un’altra essenzialmente diversa. Per esempio, l’oro non può essere, nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto, oro e ferro avendo contemporaneamente la forma sostanziale di oro e di ferro.

San Tommaso spiega: “L’anima è ciò per cui il corpo umano possiede l’essere in atto e ciò è proprio della forma, che dà l’essere. Perciò l’anima umana è forma del corpo” (De Anima, 1, resp.; ivi, 1, ad 7). L’Angelico porta due argomenti a dimostrazione di questa affermazione: 1°) l’unione dell’anima col corpo non può essere accidentale (come vorrebbe lo spiritualismo esagerato di Platone e Cartesio), perché, quando l’anima si separa dal corpo, in quest’ultimo non rimane più nulla di umano se non l’apparenza. Il cadavere non ancora putrefatto sembra ancora un corpo umano, ma non lo è più in quanto non è vivo e non è un corpo organico. Perciò se l’anima fosse unita solo accidentalmente al corpo, come un marinaio alla nave o un cavaliere al cavallo, non darebbe la specie al corpo e alle di lui parti; infatti il cavaliere non dà la natura specifica al cavallo, altrimenti il cavallo dovrebbe essere di specie umana; invece l’anima informa e specifica il corpo e le sue parti; ne è prova il fatto che, separandosi l’anima dal corpo per la morte dell’uomo, le singole parti mantengono il loro nome che indica la loro specie solo in maniera equivoca. Per esempio, la parola ‘occhio’, parlando di un morto, è un concetto equivoco poiché l’occhio del morto non è un organo che può vedere, ma è materia in putrefazione; così pure la parola ‘corpo’ riferita ad un morto è un concetto equivoco poiché il corpo non è vivente, ma è una materia cadaverica in putrefazione. – 2°) Inoltre l’unione del corpo giova all’anima sia nell’essere che nell’agire: “L’anima è unita al corpo per la sua perfezione sostanziale, ossia per formare con lui una sostanza umana completa, perché la sola anima senza il corpo non sarebbe un uomo ma un fantasma, ed anche per la perfezione accidentale dell’azione. Per esempio, la conoscenza intellettiva dell’anima è acquisita attraverso i sensi e ‘niente si trova nell’intelletto se prima non è passato attraverso la conoscenza sensibile’; infatti questo modo di agire è connaturale all’uomo, che è un composto di anima e corpo” (De Anima, 1, ad 7).

– Tutto ciò (ossia il legame con la materia delle azioni più squisitamente spirituali dell’anima, come il conoscere) non compromette la spiritualità intrinseca dell’anima razionale, poiché essa non dipende soggettivamente dal corpo, ossia il corpo non è l’organo o la facoltà attraverso cui l’anima conosce intellettualmente, ma l’anima dipende dal corpo solo oggettivamente, ossia l’anima si serve del corpo come di un oggetto dal quale astrae psicologicamente le idee universali a partire dalle immagini sensibili, che si trovano nel cervello. È la conoscenza sensibile che dipende soggettivamente dal corpo ossia è situata negli organi corporei come facoltà di conoscenza sensibile. Per esempio, la vista si trova nell’occhio o nella sua pupilla e retina, che sono corporee, il tatto nella pelle, l’udito nei timpani, l’immaginazione e la memoria nel cervello; invece l’intelletto e la volontà sono soggettivamente facoltà spirituali che risiedono nell’anima razionale e che si servono degli organi sensibili come di oggetti materiali a partire dai quali le facoltà spirituali astraggono le idee universali. S. Tommaso scrive che le operazioni dell’anima razionale “richiedono il corpo non come strumento, organo o facoltà, ma solo come oggetto. Infatti la conoscenza intellettiva non si attua mediante un organo corporeo quale causa efficiente strumentale, ma si serve di un oggetto sensibile o corporeo” (In I De Anima, lect. II, n. 19). Inoltre “l’intellezione è un’operazione dell’anima spirituale e razionale, perché non nasce dall’anima per mezzo di un organo corporeo come causa efficiente – per esempio, l’immaginare nasce remotamente dall’anima che si serve del cervello come di uno strumento o causa efficiente prossima dell’immaginazione, come pure la vista nasce dall’anima mediante l’occhio – mentre il legame dell’anima razionale con il corpo riguarda l’oggetto; infatti le immagini sensibili, che sono gli oggetti dai quali l’intelletto astrae le idee spirituali universali, non possono sussistere senza il concorso degli organi corporei ” (De Anima 1, ad 12).

La specie umana è il composto di anima e corpo nel quale si sviluppano assieme le potenze vegetative e sensitive, che risiedono nell’organismo corporeo (l’uomo mangia, cresce, vede, sente, immagina e ricorda), e le potenze spirituali (l’uomo ragiona e vuole liberamente) che si trovano nell’anima razionale. Ora l’esperienza ci mostra che almeno nell’operazione intellettuale, la quale è propriamente umana, le potenze organiche e spirituali cooperano con l’intelligenza (“nulla si trova nell’intelletto se prima non è passato attraverso i sensi”, dicono gli scolastici), mentre se corpo e anima non formassero una sola sostanza dovrebbero restare estranei l’uno all’altra. Invece l’intellezione è un’azione spirituale, ma il corpo vi concorre come strumento oggettivo e non efficiente dell’anima e dell’intelligenza, che è una facoltà spirituale, la quale si trova nell’anima razionale, come già abbiamo intravisto sopra e vedremo meglio nelle Tesi successive riguardanti la conoscenza. L’Aquinate scrive: “L’anima pur potendo sussistere per se stessa, non forma da sé una specie o una sostanza completa, ma entra nella specie umana come forma. Così l’anima è sia la forma del corpo sia una sostanza” (De Anima, 1, resp.).

– L’uomo è una sola persona, che non è la sola anima né il solo corpo, ma l’unione sostanziale di anima e di corpo. L’uomo non è solo anima e il corpo non è la “prigione dell’anima” come voleva Platone, altrimenti l’uomo sarebbe un fantasma; parimenti l’uomo non è solo corpo, come vorrebbero i materialisti, altrimenti sarebbe un cadavere senza vita. Il comune modo di parlare testimonia questa verità, infatti diciamo: “io conosco, io voglio, io sento, io soffro, io cammino, io vedo”, come pure diciamo: “la mia anima o intelligenza conosce, il mio corpo cammina”, ossia la parola “io”, che indica tutto l’uomo, designa sia la parte spirituale sia quella materiale di noi stessi, secondo il buon senso e il senso comune di tutti gli uomini dotati di sana ragione.

– La materia e la forma si uniscono come la potenza e l’atto per costituire un solo soggetto o una sola sostanza completa. La materia di per sé è incompleta, è un co-principio sostanziale e deve essere completata da una forma per dar luogo ad un corpo completo, così pure la potenza o capacità di essere se non riceve l’atto non arriverà mai all’essere: solo se attuata essa sarà un ente completo in atto d’essere e non più una capacità soltanto in divenire. La potenza sta all’atto, come la materia alla forma. Ora l’atto e la forma attuano ed informano la potenza e la materia come il più perfetto completa il meno perfetto. Quindi l’anima informa e perfeziona il corpo, dandogli l’essere e la specie; per esempio l’anima razionale dà la specie umana  al corpo e poi l’essere, mentre la specie animale è data dall’anima sensibile e la specie vegetale è data dall’anima vegetativa.

– L’anima razionale è ciò per cui l’uomo è uomo, è animato, è vivente, è corpo, è sostanza ed è ente. Infatti 1) la natura specifica dell’uomo è la razionalità: “L’uomo è animale (genere) razionale (differenza specifica)” (Aristotele). Senza l’anima razionale avremmo al massimo un animale bruto, provvisto solo di anima vegetativa. Quindi l’anima razionale è ciò che rende l’uomo tale. 2) L’anima razionale dà la vita o l’animazione al corpo, poiché essa è “principio di vita”. Un puro corpo senza anima è un cadavere inanimato e non un corpo organico. 3)  L’anima è un co-principio sostanziale, che assieme al corpo forma la sostanza completa umana: la sola anima o il solo corpo non sono un uomo, ma la loro unione sostanziale forma l’uomo. Quindi senza corpo non c’è l’uomo, ma un angelo o un fantasma, e senza anima c’è solo un cadavere. 4) Infine l’ente è composto di essenza ed essere; ora l’essenza umana è composta dal corpo più l’anima razionale come forma sostanziale del corpo, ma l’essenza è in atto primo all’essere come atto ultimo. Quindi l’anima razionale informa il corpo e poi l’essere come atto ultimo completa l’essenza e la fa uscire fuori dalla sua causa e quindi la fa esistere (ex-sistere). Perciò l’uomo è un ente composto di corpo, anima, essenza ed essere ed è un ente esistente e vivo in atto. Perciò l’anima dà al corpo l’atto di essere per il quale essa stessa è ciò che è ed esiste. Abbiamo già visto che l’uomo è un ente composto di essenza (anima e corpo), la quale è ultimata dall’actus essendi come atto ultimo o perfezione di ogni forma, di ogni essenza, di ogni perfezione. Così il corpo, informato dall’anima, costituisce l’essenza umana la quale deve essere ultimata dall’atto di essere e l’ente umano potrà così esistere e vivere realmente. Perciò anche l’anima, spiega S. Tommaso,  è composta di essenza ed atto d’essere e di conseguenza di potenza e atto, perché “la sostanza dell’anima non è il suo essere, ma si rapporta ad esso come la potenza all’atto” (De Anima 1, ad 6).

– L’anima dà al corpo tutti i gradi di perfezione essenziale, ossia il corpo dell’uomo essendo informato dall’anima razionale riceve da questa le perfezioni proprie della specie umana, che sono la vita razionale, intelligente e libera, l’immortalità o resurrezione per riunirsi all’anima dopo la morte.

Dalla tesi risulta evidente che la forma e la materia devono essere unite in modo complementare in ogni essere vivente. Queste due condizioni, la formale e la materiale sono solo teoricamente separate, onde permetterne uno studio particolareggiato. È come per un chimico esaminare separatamente il rame e lo stagno, per comprendere meglio la composizione del bronzo. Ma se dal bronzo togliamo il rame, avremo solo stagno, evidentemente ben diverso dal bronzo, che potrebbe diventare bronzo se fuso al rame, ma intanto stagno è, e stagno rimane. Trattasi evidentemente di una “svista” gnostica ereditata da Platone e dalla scuola alessandrina dei filosofi neo-platonici, e poi da tutte le filosofie manicheiste, fino al recente modernismo-massonico, di cui evidentemente il nostro finto-vescovo è un esponente “sottile” e forse occulto.

La tesi del non-vescovo eretico-manicheo:

La tesi Cassiciacum, dal nome latino di Cassago Brianza, ove Sant’Agostino [… quando conservava ancora in parte la sua forma mentis neo-platonica, successivamente rigettata … chissà su questo riferimento a S. Agostino pre-cristiano, non acora pienamente convertito, non voglia essere un segnale di riconoscimento …]  si ritirò in preghiera e meditazione prima di ricevere il Battesimo, sostiene invece che può esserci un Papa solo materiale, cioè un corpo putrefatto, senza anima, senza la “fiammella divina” che però potrebbe arrivare da un momento all’altra appena il “cadavere ambulante” rifiuti il Vaticano II e le sue idiozie ed imbecillità dottrinali. Evidentemente siamo in un ambito gnostico-neoplatonico, del corpo “carcere” che imprigiona una “fiammella” emanante dal pleroma, che può trasmigrare per tornare e raggiungere infine il pleroma originario stesso!

Come sarebbe allora possibile che, in una prospettiva teologico-dottrinale, si possa concepire il ruolo del “papa” unicamente formale o materiale? Questo è manicheismo puro, altro che Albigesi! La figura del Papa non può sussistere se manca una delle due componenti essenziali, così come per ogni uomo, addirittura anche per ogni bestia. Cosa significa un “papa materiale”? A cosa possiamo paragonarlo? Ad uno zombi senza anima, un vampiro, un cadavere ambulante, un involucro, un carapace, una conchiglia vuota, un avatar? Ed invece un papa solo formale a cosa somiglierebbe? Ad uno spirito senza corpo, senza membra e strutture che gli permettano di agire ed operare! Ecco che allontanarsi dalla retta teologia, produce conseguenze devastanti, o … ridicole se preferite, se questo non comportasse la morte eterna di anime riscattate da Cristo con il suo Sangue preziosissimo versato sulla croce.

I sedeprivazionisti italiani presentano così la questione: “… La grande difficoltà che si para innanzi a quei cattolici che si oppongono al Concilio Vaticano II e alle sue riforme è quella dell’autorità papale, vale a dire in qual modo si possa giustificare il rifiuto della “nuova religione” quando essa è proclamata, almeno apparentemente, dall’autorità suprema. – La soluzione proposta dalla Fraternità di San Pio X [anche questa grossolanamente eretica –ndr.- ] è la seguente: i papi del Vaticano II sono veri papi ma non si deve obbedire loro quando ci ordinano di credere il falso o di compiere il male. Tuttavia, questa soluzione benché si possa applicare senza problemi agli ordini del papa che agisce in quanto persona privata, implica una defezione della Chiesa se si tratta del magistero ordinario universale o delle leggi generali, che sono verità infallibili. In altre parole, un vero Papa, in virtù dell’assistenza dello Spirito Santo, non può in nome della Chiesa, insegnarci cose false o ordinarci di compiere il male. Quindi, l’unica soluzione che mantenga l’indefettibilità della Chiesa consiste nell’affermare che quei “papi” che promulgano e diffondono la defezione dalla fede del Vaticano II e della “nuova religione” in generale non godono dell’autorità papale [una falsa conclusione addotta come necessità … il tipico espediente del lestofante!-ndr.-]. Tuttavia, tra tutti coloro che sostengono questa tesi alcuni affermano che detti papi sono totalmente privi della dignità pontificia, altri affermano che ne sono privi soltanto parzialmente, e cioè formaliter (formalmente) e non materialiter (materialmente)…”. In altre parole, un “tizio” diventa Papa materialmente se eletto da un conclave di Cardinali, ma può non esserlo formalmente per difetto di intenzione, perché non vuole procurare il “bene” della Chiesa Cattolica. Pertanto è autorizzato a dire stupidaggini, ad avallare e proclamare eresie, a canonizzare bestie, asini e porci, ma rimane comunque il Vicario di Cristo e può conferire la carica di cardinale per l’elezione di un successivo beota, che a sua volta sarebbe un papa materiale, finché, [ … Attenzione, questa non è da perdere … c’è da ridere!] … rinsavito abbandona le balordaggini del Vaticano II e quelle da lui stesso e dai suoi predecessori enunciate, ritorna “cattolico” ed acquisisce la carica “completa”, ristabilendo la pienezza del Papato!”. Se un cabarettista sapesse di questa cosa, potrebbe fare grande fortuna in tutti i teatri dell’orbe! Più avanti, a sostegno della “tesi cassiciacum” si riporta il parere di illustri teologi, e tra i teologi chiamati a sostegno della tesi del Des Lauriers troviamo citato DOMENICO PALMIERI, S.J. (Tractatus de Romano Pontifice, Prati Giachetti 1891.). Ascoltiamo bene: La successione materiale è una pura e semplice serie di Pastori o Vescovi che si succedono ininterrottamente risalendo fino agli Apostoli o a uno degli Apostoli dai quali abbia preso inizio: la successione formale è questa serie che in più gode dell’autorità trasmessa ai singoli successori dagli Apostoli, che per questa autorità sono costituiti successori formalmente. Poiché dunque ciascuno dei successori riceve l’autorità proveniente dagli Apostoli da coloro o da colui che ha ricevuto la medesima autorità in atto e può comunicarla ad altri, avviene in questo modo che l’autorità permanga formalmente mediante la successione. Tutte e due le successioni sono necessarie, né l’una può esistere senza l’altra; la prima tuttavia è più riconoscibile, la seconda invece la si conosce quando si conosce la vera Chiesa. – Quindi c’è da chiedersi. Ma questi “ci sono o ci fanno”, se pongono come base dei loro ragionamenti questi chiari enunciati: “… l’una non può esistere senza l’altra”? Quindi un papa materiale non può esistere assolutamente secondo il Palmieri. E più avanti leggiamo ancora:

“… Questa è la successione formale. Senza dubbio, perché qualcuno abbia l’autorità nella Chiesa, è richiesta la missione (Rom, X, 15, Coll. I Tim, V, 22, 7; Tim II, 2; Tit I, 5): ma non può inviare se non colui che ottiene in atto l’autorità Apostolica e può trasmetterla. Quindi, è da lui che si deve ricevere l’autorità; quindi, un successore deve succedere formalmente. Coloro dunque che succedono in tal modo sono i soli che possano veramente essere detti successori degli Apostoli; perché essi soli ottengono quell’autorità che gli Apostoli ricevettero da Cristo (pagg. 286-288). È questo è ancor più vero per il Papa che non può essere mai solo materiale, senza Autorità divina!

Viene scomodato, proprio in netto contrasto con la fanta-tesi, anche il grande Santo teologo: SAN ROBERTO BELLARMINO S.J. (De Romano Pontefice I. 2, c. 17.). Ecco il passaggio citato:

“Bisogna osservare che nel Pontefice “coesistono tre elementi: Il Pontificato stesso (precisamente il primato), che è una certa forma: la persona che è il soggetto del Pontificato (o primato) e l’unione dell’uno con l’altro. Di questi elementi, il primo, cioè il Pontificato stesso proviene soltanto da Cristo; la persona invece in quanto tale procede senza dubbio dalle sue cause naturali, ma in quanto eletta e designata al Pontificato procede dagli elettori; spetta a loro designare la persona: ma l’unione stessa procede da Cristo, mediante (o presupponendo) l’atto umano degli elettori… Si dice quindi in verità che gli elettori creano il Pontefice e sono la causa per cui un tale sia Pontefice… tuttavia non sono gli elettori che danno l’autorità né sono causa dell’autorità. Come nella generazione degli uomini l’anima è infusa soltanto da Dio e tuttavia, poiché il padre che genera disponendo la materia è causa dell’unione dell’anima col corpo, si dice che è un uomo che genera un altro uomo ma non si dice che l’uomo crea l’anima dell’uomo”. Evidentemente il termine “coesistono” in francese o in inglese non esiste per i nostri “tesisti” [… e compratevi un vocabolario, via!], per cui possono allegramente dire che nel Papato possono NON-COESISTERE le componenti essenziali, che possono essere spaiate e viaggiare da sole, così come un uomo può vivere senza l’anima ed essere comunque un uomo-materiale! Qui veramente è tutta da ridere!

Lo stesso D. Sanborn, strenuo difensore della tesi Cassiciacum del Des Lauriers [anch’egli un finto vescovo senza giurisdizione, come il Des Lauriers stesso], recentemente autoproclamatosi “rettore” di uno pseudo-seminario americano [mai autorizzato da chicchessia, ente autonomo eretico-finto-cattolico], riassumendo la dottrina chiarissima [a tutti, ma … evidentemente non a lui e ai c.d. Tesisti] dice [“Il Papato materiale” 1996]:

III) Non c’è successione apostolica legittima se non è formale.

La successione materiale, sia per elezione legale sia per presa di possesso con la forza o al di fuori della legge, non è sufficiente perché vi sia una successione apostolica legittima, perché l’autorità è la forma con la quale qualcuno è costituito vero successore degli Apostoli. L’elezione legale non è sufficiente perché qualcuno sia costituito e sia ritenuto vero successore degli Apostoli formalmente”. – Ed proprio questo il caso specifico degli antipapi che si sono insediati con la forza sul trono di Pietro, usurpando il legittimo Papato di Gregorio XVII il 26 ottobre del 1958 … e del suo attuale successore. Quindi anche D. Sanborn, non volendo, riconosce che l’elezione legale [figuriamoci quella illegale!] non è sufficiente perché qualcuno sia costituito e ritenuto vero successore degli Apostoli [in questo caso parliamo addirittura del Principe degli Apostoli] formalmente. Questo dovrebbe far comprendere immediatamente che mancando la forma, la materia non costituisce diritto al Papato, soprattutto quando poi addirittura il vero Papa c’è! Ecco come cose semplicissime si stravolgono e si invertono completamente, tanto da giustificare, con argomenti che lo escludono totalmente, la possibilità di una carica pontificale reale. Questo dovrebbe pure immediatamente far capire, anche al più ignorante dei teologi e allo più sprovveduto dei fedeli comuni, che una carica materiale nel Papato è cosa assurda ed inconcepibile, cosa per cui, seguendo l’assicurazione evangelica: “Io sarò con voi [materialmente e formalmente] fino all’ultimo giorno”, c’è da concludere che un vero Papa, materiale e formale c’è sicuramente, è necessità teologica assoluta di fede divina, se non vogliamo bestemmiare accusando il Signore di aver promesso una cosa non vera, accusandoLo cioè di essere un bugiardo ingannatore! Ecco allora l’eresia formal-materialista tradursi in: 1) peccato contro la fede, 2) bestemmia contro il Cristo ingannatore, 3) accusa di inganno e mistificazione contro la Chiesa Corpo mistico infallibile di Cristo; 4) peccato contro lo Spirito Santo; 5) porta spalancata sull’inferno!

Le conseguenze dell’allontanamento dalla metafisica tomistica:

Allontanarsi dalla metafisica dell’essere come actus ultimus omnium essentiarum comporta un grave pericolo di conclusioni disastrose. «Il più piccolo errore intorno alle prime nozioni di essere ecc., produce conseguenze incalcolabili, come ricordava San Pio X, citando queste parole di S. Tommaso: “Parvus error in principio, magnus est in fine”. – Si capisce allora perché San Pio X insegna nella Pascendi (8 settembre 1907) e nel Giuramento anti-modernista Sacrorum Antistitum (1° settembre 1910): “Ammoniamo i maestri di filosofia e teologia che facciano bene attenzione a ciò: allontanarsi anche solo un po’ dall’Aquinate, specialmente in metafisica, comporta un grave pericolo”. – Qui ci siamo non solo allontanati, ma all’aquinate gli abbiamo rivolto le spalle prendendo da subito una direzione opposta. Le conseguenze disastrose, ovviamente sono legate al gravissimo problema della salvezza eterna dell’anima. Che Dio ci salvi!

Domine, salva nos!”

In memoria di Monsignor SALVATORE LUIGI ZOLA,

Il Vescovo di Lecce che autenticò le Profezie di La Salette

[di P. S. D.]

 – Monsignor Luigi Zola –

 Se il mio popolo continua, quello che ti dirò ora avverrà prima, se cambia un po’, accadrà un po’ più tardi. – La Francia ha corrotto l’universo. La fede si estinguerà in Francia: tre quarti della Francia non praticherà più la religione, o quasi, l’altra crederà di praticarla senza praticarla davvero. Poi, dopo [che] convertirà delle Nazioni, la fede sarà riaccesa ovunque. Un grande Paese, ora protestante, nel nord dell’Europa, si convertirà; con il supporto di questo Paese verranno convertite tutte le altre nazioni del mondo. – Prima di tutto quel che avverrà, ci saranno numerosi turbamenti, nella Chiesa e ovunque. Quindi, dopo, il nostro Santo Padre, il Papa, sarà perseguitato. Il suo successore sarà un Pontefice che nessuno si aspetta. – Dopo, ci sarà una grande pace, ma non durerà a lungo. Un mostro verrà a disturbare. –  Tutto ciò che dico qui avverrà in un altro secolo, al più tardi nell’anno Duemila”.

[Nostra Signora di La Salette – rivelazione fatta a Maximin Giraud, settembre 1846]

 Quello che precede è il testo di parte delle rivelazioni di La Salette, località francese in cui due pastorelli ricevettero delle rivelazioni dalla Madonna il 19 settembre 1846; per la precisione, il testo è tratto dal messaggio ricevuto da Maximin Giraud.

Maximin, insieme a Melania Calvat, vide nella località francese “una Signora” che fece delle rivelazioni sul futuro della Chiesa ed in genere del mondo. In particolare, il riferimento fatto dalla Signora alla Chiesa eclissata, di cui si può leggere in altre pagine di questo Sito, e soprattutto quello al “Pontefice che nessuno si aspetta”, ci fanno capire che i tempi a cui poco più di 170 anni fa quella Signora rimandò sono proprio quelli che stiamo vivendo, in cui assistiamo alla maturazione degli eventi che, succedutisi apparentemente a partire dal conclave del 1958, affondano in realtà le loro radici in epoche molto anteriori. – Pochi sanno che il primo Prelato a validare i messaggi de La Salette fu Monsignor Luigi Zola, di origini campane che, consacrato Vescovo il 30 marzo 1873, fu vescovo di Lecce dal 1877 al 1898, anno in cui morì nel vicino paese di Cavallino.

Seguendo il filo conduttore dell’imprimatur di Monsignor Luigi Zola alle apparizioni di La Salette, il resoconto di queste pagine inizia proprio a partire dalla morte del Vescovo, avvenuta per la precisione il 27 aprile 1898.

Foto n° 1 – La bara di Monsignor Luigi Zola nel Duomo di Lecce

La sua tomba, come quella di altri vescovi di Lecce, è situata nel Duomo di Lecce. Chi volesse vederla, però, non potrà giovarsi dell’ausilio di una qualsiasi indicazione, ma dovrà andarsela a cercare. E, quando forse riuscirà a trovarla, la vedrà ubicata nella navata laterale sinistra, in un settore del Duomo che malgrado la collocazione non si esiterebbe a definire di second’ordine e la cui situazione può essere riassunta da una parola: degrado. Le condizioni in cui essa è tenuta sono infatti a dir poco pietose, interessata com’è da calcinacci, polvere e quant’altro non dovrebbe essere in un Duomo, neanche se fosse uno scantinato sudicio di qualche museo, magari riservato a reperti invalidati da ricerche o…. ipotesi successive, o comunque ritenuti poco interessanti ed in attesa di essere dismessi. In ogni caso, ritenuti non interessanti e pertanto da non evidenziare ma anzi a cui assegnare un’immagine di basso profilo, come ciò da cui si sono progressivamente ma impercettibilmente ogni anno prese le distanze, come ciò da cui forse ci si vergogna e di cui si evita di parlare, come ciò che appare scomodo. – E’ proprio in questa navata che è stata collocata la tomba in marmo in cui sono conservati i resti mortali di Monsignor Luigi Zola, una tomba di cui è impossibile non rilevare lo stato di decadenza, sicuramente poco curata e quasi ostentatamente ricoperta da calcinacci. – Eppure, per la cronaca, Monsignor Luigi Zola morì in odore di santità e, da documenti reperibili su internet, pare che dopo la sua morte numerose guarigioni siano state attribuite alla sua intercessione. Per Monsignor Luigi Zola fu aperto un processo di canonizzazione il 26 aprile 1941, come pubblicato sul sito dell’“Arcidiocesi di Lecce”, nello spezzone di seguito riportato:

Dei Canonici Regolari Lateranensi, secondogenito dei conti Francesco e Giuseppina di Fraja, nato a Pozzuoli il 12 aprile 1822. Sacerdote il 9 febbraio 1845. Eletto Vescovo di Ugento il 21 marzo 1837 e consacrato in S. Pietro in Vincoli dal Card. Lorenzo Barili, assistenti mons. Pietro Giannelli, Arcivescovo tit. di Sardi, e mons. Edoardo Enrico Howard, Arcivescovo tit. di Neocesarea il 30 marzo 1873. Traslato a Lecce il 22 giugno 1877 e morto a Cavallino il 27 aprile 1898 in fama di santità. Il processo di canonizzazione fu iniziato il 26 aprile 1941, chiuso il 9 febbraio 1945, sospeso il 17 dicembre 1985. È sepolto in Duomo. [da: Arcidiocesi di Lecce – Storia dei Vescovi dell’Arcidiocesi di Lecce-https://www.diocesilecce.org/diocesi-di-lecce/vescovi-del-passato/ )

E, per la cronaca, l’inizio e la chiusura del processo di canonizzazione avvennero sotto il Pontificato di Pio XII, mentre la “sospensione” della canonizzazione si ebbe in epoca wojtyliana.

Gli eventi che legano Monsignor Luigi Zola a La Salette sono molteplici, come risulta dalla biografia della veggente Melanie Calvat:

<< Per sfuggire a Napoleone III; da lei accusato di cesaropapismo, ed al clero francese divenutole in larga parte ostile, Melanie cominciò il suo esodo per l’Europa, spostandosi dall’Inghilterra alla Francia e alla Grecia fino ad approdare in Italia, a Castellamare di Stabia (Napoli). Qui vi trascorse diciassette anni avvalendosi della direzione spirituale dell’abate Luigi Salvatore Zola (1822-1898) dei Canonici Regolari Lateranensi. Dopo che questi fu nominato Arcivescovo di Lecce, nel 1892 lo seguì trasferendosi a Galatina (Lecce). >> [da: “Melanie Calvat” – in “Padre Annibale” http://www.padreannibale.altervista.org/Profili/melanie_calvat.html]

Viene da chiedersi cosa sarebbe ora del testo della profezie di La Salette se non ci fosse stato il vivo interessamento di Monsignor Luigi Zola, questo sconosciuto personaggio di un arcipelago ecclesiastico che sta ora andando lentamente sempre più alla deriva sotto gli astuti e impercettibilmente progressivi colpi di un modernismo dilagante che sostituisce alla bellezza della Parola l’etica del nulla.

Cosa resterebbe ora della vera e propria persecuzione che costrinse Melanie Calvat a vagare profuga per l’Europa, se ella non avesse incontrato sulla sua strada questa fulgida e coraggiosa figura di Vescovo, che in Campania prima, ed a Lecce dopo la tutelò, facendosi “garante” dei messaggi che a lei e a Massimino erano stati affidati ?

Resterebbe probabilmente molto poco. Come molto poco, in termini di lustro, è restato della bara in cui sono custoditi i resti mortali di Monsignor Luigi Zola; come nulla è restato del suo processo di canonizzazione.

E come nulla, o meno di nulla, è restato dell’ultima dimora in cui il Monsignore soggiornò.

Dalle cronache del tempo sappiamo infatti che Luigi Zola morì a Cavallino “il 27 aprile 1898 in fama di santità”. Una ricerca permette di appurare come egli sia morto nella casa del sacerdote don Pasquale de Matteis, parroco di Cavallino:

“S.E. il Vescovo di Lecce Mons. Zola, toscano di nascita, andato in riposo perché cagionevole di salute, viene a risiedere in Cavallino ospitato in casa dal sacerdote don Pasquale De Matteis”  [Da: Antonio Garrisi – “Cittadini di Cavallino”] http://www.antoniogarrisiopere.it/30_c00_CittaDi—Caval.html )

In realtà Monsignor Luigi Zola non era toscano di nascita, bensì, come si è letto prima, campano, ma questo non conta. Ciò che importa è che egli sia morto nella casa del Sac. Don Pasquale De Matteis, all’epoca parroco di Cavallino.

1898 D. Die vigesima septima Aprilis 1898 – Caballini – Reverendissimus Dominus Salvator Aloisius e Comidibus Zola Lycientium Aepiscopus, filius qq.um Francisci et Iosephæ Di Fraja, septuaginta sex annos agens, obiit in hac Caballini Terra, omnibus munitus Sacramentis infirmorum, die dicta, hora occasus solis, cuius corpus delatum fuit Lycien et sepultum in cemeterio in particulari sepulcro- Et ita est –  Æconomus Curatus Orontius Totaro

(da A. Garrisi, Cittadini di Cavallino, op. cit.)

Un’altra ricerca permette di verificare che a Don Pasquale De Matteis fu assegnato “un tratto di suolo pubblico confinante con la chiesa degli ex-Domenicani”.

(N° 10225) Decreto autorizzante il comune di Cavallino nella Terra di Otranto a concedere a D. Pasquale De Matteis un tratto di suolo pubblico confinante con la chiesa degli ex-Domenicani per pronto pagamento di ducati quindici, dispensandosi alle subaste, e con i patti e le condizioni fissate nel voto decurionale e nell’avviso di espedienza del Consiglio di Intendenza” (Napoli, 22 maggio 1846) [da: Collezione delle leggi e dè decreti reali del Regno delle Due Sicilie” https://books.google.it/books?id=iWkuAAAAYAAJ&pg=RA1-PA332&lpg=RA1-PA332&dq=%22pasquale+de+matteis%22+cavallino++domenicani&source=bl&ots=8dqhzqex9n&sig=wo1zTw3xhOzImgYuSLI7GkMeMaE&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjquND0iurUAhWDXRQKHXAKCVsQ6AEIMzAB#v=onepage&q=%22pasquale%20de%20matteis%22%20cavallino%20%20domenicani&f=false]

Foto n° 2- Cavallino: viottolo che conduce a tratto di suolo, oggi edificato, confinante con il Convento dei Domenicani

            L’ingresso del convento dei Domenicani, il cui stabile è tuttora esistente – per quanto adibito a tutt’altro uso rispetto a quello originario – è in Corso Umberto I, lungo la strada che unisce Cavallino alla vicina Lecce; su questa strada si affaccia anche il cancello che conduce alla stradina su cui doveva sorgere anche la casa di Don Pasquale De Matteis, quella casa in cui morì Monsignor Luigi Zola, Vescovo di Lecce e primo convinto assertore della veridicità dei Messaggi di La Salette.

Nei pressi di questo cancello, anteriormente al 31 gennaio 2010 c’era un busto di Sigismondo Castromediano, patriota, archeologo, letterato cavallinese e….. amico d’infanzia di Don Pasquale De Matteis ! Tutto ciò è ancora visibile su Google Maps, attualmente aggiornata al 2009, in cui è tuttora documentata la presenza del busto di Castromediano: è sufficiente, a tale proposito, digitare a Cavallino “Corso Umberto I n° 42” e ruotare opportunamente la foto verso destra.

Foto n° 3 – Il busto di Sigismondo Castromediano

Ho scritto che il busto di Sigismondo Castromediano c’era fino al 31 gennaio 2010, perché in quella data avvenne un fatto nuovo: quel busto fu rimosso ed al suo posto fu messa una statua, opera dello scultore Marco Mariucci, che raffigura un personaggio inquietante. Si tratta di un anonimo “domatore di cavalli messapico” che viene spesso erroneamente indicato come “guerriero” sui siti internet che ne parlano.

Che si tratti invece di un semplice “domatore di cavalli” lo attesta l’iscrizione posta alla base della stessa statua, iscrizione che recita testualmente:

Foto n° 4 – il “messapo domatore di cavalli”

MESSAPUS EQUUM DOMITOR

NEPTUNIA PROLES

QUE NEQUE FAS IGNI CUIQUAM

NEQUE STERNERE FERRO

[Virgilio Eneide Libro VII Versi 691-692]

[Messapo domatore di cavalli.

Prole di Nettuno che né il ferro

né il fuoco possono abbattere.]

Opera di Marco Mariucci

Ma, a parziale discapito dell’errore di volersi ostinare a identificare con un guerriero un tizio che guerriero non è (sia pure a costo di voler passare sopra all’estrema semplicità di un accertamento che consisterebbe semplicemente nello scendere dalla macchina, avvicinarsi alla statua e leggere quanto riportato dall’iscrizione alla base….), c’è da dire che quel personaggio non ha niente del domatore di cavalli. – A prescindere dal fatto che nell’immaginazione collettiva un domatore di cavalli non ha un armamentario che (come invece appunto un guerriero) lo permetta di classificare come tale, si può tuttavia dire cosa un domatore di cavalli NON dovrebbe avere.

Non avrebbe alcun bisogno di avere scudo e lancia, come non dovrebbe avere alcun bisogno di un elmo con due spropositate corna che, più ancora che con l’iconografia dei più temibili guerrieri, sembrano avere un’attinenza con la raffigurazione delle creature infernali.

Tutti questi accessori di cui lo scultore ha provveduto a fornire il suo anonimo “domatore di cavalli” non hanno niente a che fare con un personaggio che dovrebbe semmai curare di non avere ammennicoli inutili che potrebbero intralciarlo nel suo pericoloso lavoro e potrebbero allarmare fuori misura il cavallo da domare.

Foto n° 5 – particolare dell’elmo… e delle corna del “domatore di cavalli”

Oltre ad essere raffigurati malgrado la loro assoluta inutilità, gli ornamenti di cui il personaggio è stato provvisto non hanno fra l’altro riscontro, in quanto a dimensioni, né negli annali delle battaglie né nell’iconografia con cui i guerrieri sono raffigurati.

Si tratta di un paio di corna di dimensioni così inutilmente eccessive da rendere lo sprovveduto tizio che le dovesse indossare (tizio il quale, proprio in virtù del suo…trofeo non dovrebbe essere un personaggio qualsiasi, ma un appartenente ad un rango di livello – a quale lo lascio immaginare -) facilmente riconoscibile come personaggio sicuramente di elevato lignaggio; nel caso di un improbabile guerriero, poi, tali attributi lo impaccerebbero non poco nei movimenti e nell’arte della battaglia.

Il discorso si chiude quindi qui, sia che si tratti di un improbabile domatore di cavalli, sia che si tratti di un altrettanto improbabile guerriero.

 

Foto n° 6 e 6 bis- il “domatore di cavalli” rivolto verso il cancello di accesso al viottolo già visto in foto n° 2

A parte quel particolare, nulla si rileva in quel personaggio: non un nome, non una collocazione precisa in un qualche evento storico o mitologico, non un riferimento ad una cultura o una tradizione. Nulla, solo quel paio di corna sapientemente intarsiate con simbolismi il cui stile sembrerebbe affiorare dalle piramidi dell’antico Egitto e da tutto il bagaglio dei loro esoterismi; sul corno a sinistra, dall’alto verso il basso, si distinguono: un guerriero, con scudo rotondo e con due lance, oltre che munito di un elmo con due corna, che guarda verso destra di chi osserva; poi un non meglio precisato rapace diurno; infine un leone. Su quello a destra, nello stesso ordine, come in una sorta di antitesi, si vedono: un analogo guerriero che guarda verso sinistra di chi osserva; un rapace notturno con i ciuffetti auricolari tipici del gufo; infine un cavallo.

Ai tre livelli sopra indicati, sui due corni dell’augusto personaggio si vedono quindi, da sinistra a destra rispettivamente: in alto: un guerriero che guarda in avanti (verso destra per chi guarda) e a destra un guerriero che guarda in direzione opposta (verso sinistra per chi guarda); al centro: un uccello diurno ed un uccello che simboleggia la notte; in basso: un predatore ed una preda. Ad ogni livello, quindi, elemento ed il suo opposto, secondo una regola esoterica che fu espressamente raccomandata da Aleister Crowley, un mago nero che sosteneva di essere l’incarnazione di satana.

Lo scudo del “domatore di cavalli” è poi decorato con una raffigurazione di Medusa che sembra richiamare in maniera abbastanza evidente i demoni delle mitologie indù.

Ecco così che al posto della raffigurazione del patriota di Cavallino, persona ben conosciuta e nota oltre che nella sua collocazione storica anche nelle sue fattezze e nell’operato, ha trovato posto la rappresentazione di un personaggio che più che un personaggio è un simbolo, un simbolo non già del domatore di cavalli e neanche del guerriero arcaico. Nulla di più che un simbolo esoterico che richiama con quei suoi particolari così ingenuamente mescolati e così ostentatamente spropositati nient’altro che un messaggio blasfemo.

Dove c’era il busto dell’amico di infanzia di Don Pasquale De Matteis c’è ora questo “cosaccio” che va ben oltre quello che dovrebbe rappresentare e che chiunque entri nel paese di Cavallino non può non notare, come un sinistro benvenuto su cui non è possibile non porsi qualche domanda.

Nel paese in cui trascorse i suoi ultimi giorni Monsignor Luigi Zola, assertore della veridicità dei messaggi profetici di La Salette, oggi, come una zampata o come una marcatura dell’areale di qualche animale selvatico, c’è un segno di possesso, di dominio, da parte di forze del tutto aliene alla mitezza dello stesso Zola.

“È importante rammentare, ognora, che il Vescovo di Lecce Salvatore Luigi Zola in data 21 aprile 1882 concesse 40 giorni d’indulgenza a coloro che recitano 3 Ave alla Vergine del Monte (che viene celebrata a Cavallino la prima domenica di maggio, N.d.A.); e pure il Vescovo Gennaro Trama in data 27 novembre 1906 accordò altri «50 giorni d’indulgenza a tutti i fedeli che divotamente reciteranno 3 Ave Maria» davanti all’antica immagine de la Matonna te lu Monte. [http://www.antoniogarrisiopere.it/26_c03_CappeDel–Monte.html]

 

 

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (5)

CAPITOLO X

TESTIMONIANZA DEI FATTI. —

INFLUSSO DEL PAGANESIMO

CLASSICO SULLA LETTERATURA

Dalla testimonianza degli uomini, passiamo a quella dei fatti. Ora, con maggior eloquenza ancora, se è possibile, degli uomini, i fatti depongono in favor mio. Il paganesimo nella educazione è distruttore della letteratura, delle arti, della filosofia, delle scienze, della religione, della famiglia, della società; ecco quanto essi dicono, ecco quanto essi provano.– Distruttore della letteratura; questa proposizione soprattutto, me l’aspetto, sarà notata di paradosso. Infatti è cosa convenuta di ripetere nel mondo dotto che lo studio dei modelli pagani, ripigliato sulla metà del decimoquinto secolo, fu il risorgimento della letteratura in Europa. – Intendiamoci, esaminiamo e ripigliamo la storia del Rinascimento, sbozzata precedentemente. Dopo la caduta originale, due opposte potenze si disputano la signoria dell’umanità al pari del cuore di ciascuna persona: il sensualismo e lo spiritualismo, o, per parlare l’energico linguaggio della Scrittura, la carne e lo spirito, il vecchio uomo e 1’uomo nuovo. Durante tre mila anni, il mondo visse sotto la signoria della carne, ed il mondo ebbe una lingua, una letteratura, una poesia, espressione fedele del principio in cui egli si era trasformato, per il quale solo viveva, ch’egli andava cercando ovunque, ch’egli amava in tutto, ch’egli adorava appassionatamente in tutte le sue forme. Diventato carne, il mondo parlava il linguaggio della carne e delle sue tre grandi concupiscenze: orgoglio, cupidigia, piacere. Essenzialmente sensualista, la sua letteratura e la sua poesia rivestirono forzatamente, secondo l’ispirazione sovrana della carne e delle sue tre potenze, forme dure, superbe, fredde, ipocrite, ma il più spesso eleganti e voluttuose, sia per palliare la turpitudine del fondo, sia per dare nuovi allettamenti all’idolo, ai piedi del quale tutti i cuori desideravano segretamente di vedersi incatenati. – Pure, un giorno giunse nel quale la signoria della carne fu distrutta, e l’uomo, libero dalla sua tirannide, visse felice sotto l’impero dello spirito. Il Cristianesimo operò siffatto benedetto rivolgimento, o, per meglio dire, fu esso stesso un tale rivolgimento, o per meglio dire, fu esso stesso un tale rivolgimento. Re del mondo per mille anni, esso ebbe di necessità un linguaggio, una letteratura, una poesia, espressione fedele del suo pensiero. Ora, il pensiero cristiano è l’antipode del pensiero pagano. L’uno è essenzialmente spiritualista, l’altro sensualista. Inoltre, per ciò stesso ch’esso è divino, il pensiero cristiano è il più ricco, il più semplice ed il più sublime, il più elevato ed il più profondo, il più casto ed il più bello, in una parola, sotto qualsiasi punto di vista la letteratura cristiana partecipa per forza di tutte queste sode e splendide qualità. A volte, come il pensiero ch’essa rendeva sensibile, ricca, spiritualista, semplice, sublime, vera, dolce, casta, grave, sobria d’ornamenti, era dessa l’incessante predicatrice dello spiritualismo, come la letteratura pagana era stata l’organo vivente del sensualismo. Un tratto essenziale soprattutto la distingue: mentre la letteratura pagana è il culto della forma, che sfoggia dovunque lusso ed abbondanza per mascherare l’ignominia e la povertà del fondo; nella letteratura cristiana, la forma sparisce il più che si può, al fin di lasciare comparire nella sua splendidezza la bellezza maestosa del fondo. – Il mondo conobbe pertanto due letterature, perché fu inspirato da due pensieri: la letteratura pagana, espressione del pensiero pagano, e la letteratura cristiana, espressione del pensiero cristiano. Negare un tal fatto, è un non capire nemmeno il senso dei termini che si adoprano. Nel lungo periodo che era scorso dalla predicazione del Vangelo sin verso il finire del quindicesimo secolo, l’Europa aveva acquistato un modo di giudicare e di sentire, conforme all’insieme delle cagioni che sovr’essa avevano operato. « Se nei progressivi sviluppi del pensiero e della immaginazione, scrive un uomo non sospetto, l’Europa fosse rimasta abbandonata ai suoi soli elementi di cultura, se veruno straniero influsso non ne avesse modificato 1’azione, sì sarebbe veduta nascere ovunque sul suo suolo una letteratura veracemente nazionale, come quella degli antichi, e nella quale si sarebbero rinvenuti, senza aggiunta e senza confusione, tutti i lineamenti della sua civiltà ». – Invece di dire che si sarebbe veduta nascere cotale letteratura, l’autore avrebbe dovuto dire che era nata. Infatti, i Padri della Chiesa avevan rivestito della vera sua forma il pensiero cristiano nelle varie sue manifestazioni. Successore di tanti luminari, San Gregorio il Grande l’aveva stabilito. Formati alla sua scuola, Sant’Anselmo, Beda il Venerabile, Lanfranco di Cantorbery, San Bernardo, San Francesco di Assisi, San Tommaso, San Bonaventura, Sant’Antonio da Padova, San Bernardino da Siena, Sant’Antonino da Fiorenza ed una folla d’altri avevano reso popolare in Italia, in Francia, in Inghilterra, in tutta Europa, la forma perfetta del pensiero cristiano nelle lettere, nell’eloquenza, nella filosofia, nella teologia, nella storia. Per parlare della letteratura in un senso più ristretto: Dante aveva cantato, Petrarca aveva scritto. La Francia stessa non era rimasta indietro dopo sì begli esempi. « Le poesie dei suoi Trovatori, i suoi antichi fabliaux, i suoi antichi romanzi di cavalleria vi componevano, molto prima del quindicesimo secolo, una letteratura basata su tradizioni popolari, sulla pittura degli usi nazionali Se, correggendo le sue mende senza mutare il suo principio, fosse rimasta la Francia fedele a quei primi saggi del suo letterario ingegno, essa godrebbe oggi i vantaggi, ben poco intesi, di una letteratura nata e perfezionata sul patrio suolo. Sgraziatamente, così non avvenne. – Si studiarono, si commentarono senza posa le opere della Grecia e di Roma Si adottarono i loro principii, si bevette il loro spirito. Si trattarono di gotici e di anticaglie i pochi scritti che erano stati prodotti da una ispirazione attinta alle sorgenti nazionali. Insomma, una grande rivoltura ebbe luogo nei pensieri. La Francia vi prese parte forse più che non verun altro paese d’ occidente ». Vediamo ora che cosa vi guadagnò la letteratura sì per la forma che pel fondo. Non contenti d’avere infettato l’Alemagna, e con essa metà d’Europa colle loro eresie filosofiche e teologiche, i Greci fuggiaschi da Costantinopoli infettarono colla loro eresia letteraria la patria delle lettere e delle arti, l’Italia, e con essa le altre genti latine. Alla loro voce se vide l’Europa cristiana, l’Europa letteraria, rinunciando a sè, prendere per modelli esclusivi i pagani d’Atene e di Roma, imprigionare nelle forme studiate del loro linguaggio, freddo come la cenere delle loro tombe, la sua parola sì ingenua, sì forte, sì libera, sì viva: alla inspirazione del sovrannaturale cristiano preferire la falsa inspirazione del naturalismo pagano ; in una parola, farsi, per quanto in lei stette, greca e romana nella sua composizione, e pagana nel suo linguaggio. Poco a poco, il ricco capitale di nobili pensieri, di generosi sensi, esclusivamente prodotto dalla Fede, andò diminuendo, mentre il culto della forma, col suo lusso, colle sue ricercate andature, con i suoi gingilli e colla sua eleganza affettata, diventò il grande scopo dell’arte letteraria. Non s’accorgevano che il pensiero moderno, vestito con forma pagana non era meno ridicolo che un francese del sedicesimo secolo, in toga romana, o coperto il capo del frigio berretto. – Non si ristette alla risurrezione della forma pagana; ben presto una voce cristiana, la voce del legislatore del Parnasso, osò dire al mondo: — Volgi i tuoi sguardi verso l’Olimpo; colà vi sono i tuoi Dii; soli, il cui nome abbellire possa le tue opere; soli, i cui misteri e il cui intervento convengano alle opere della sapienza. La storia nazionale altro non è che un capitale sterile e prosaico; 1′Evangelio è troppo austero: i suoi formidabili misteri ucciderebbero 1’entusiasmo. — « La favola offre alla mente mille variati piaceri; ivi, tutti i nomi fortunati paiono nati pel verso…. I terribili misteri della fede d’un cristiano non sono suscettibili d’ornamenti allegri; l’Evangelio non offre d’ogni parte ai nostri occhi se non penitenza a fare e tormenti meritati Oh bizzarro disegno d’un poeta da ciabatte, il quale fra tanti eroi sceglie Childebrando! (art. poet. Di Boeleau, c. III)) ». Così fu reciso il filo che univa la nostra poetica cultura alla cultura poetica dei padri nostri. Noi diventammo infedeli al loro spirito per darci senz’altro ad uno spirito straniero che noi capivamo male, che non aveva relazione di sorta colla nostra vita reale, con la nostra religione, coi nostri costumi, con la nostra storia. L’Olimpo, con i suoi idoli, surrogò il cielo dei cristiani La musa dei moderni, sottoposta a siffatta trasfusione, ricevette nelle sue vene un sangue straniero che non potè mai identificare interamente colla sua vita…. Il mondo della poesia diventò un tutt’altro mondo che il mondo volgare; non vi si sentì parlare se non di Troia e e Tebe, di Roma e degli Dei stranieri. « La nostra natura propria ed originaria combatte sempre tacitamente codesta vita artificiosa che ci si costrinse a vestire. Noi non siamo più di un solo getto: l’unità della nostra esistenza è turbata, e noi somigliamo al mostro d’Orazio. E chi vi guardasse da vicino troverebbe forse che a lungo andare nacque di colà cotesto raffreddamento dei cuori per la religione, per la semplicità e per la santità dell’Evangelio, per tutto ciò che è veracemente grande, nobile ed umano, il cui luogo fu usurpato dal gigantesco, dall’ampolloso e dall’ammanierato. Non già che somiglianti vizi abbiano in veruna guisa appartenuto agli antichi, ma perché appartengono alla falsa strada da noi presa, volendo diventare altra cosa che ciò a cui ci destinava la saggia natura nel mondo moderno e cristiano ». « Gli scrittori di un gran popolo, soggiunge il giudizioso editore di Bouterweck, debbono essere gli emuli, non già le scimmie dei grandi modelli stranieri, dei quali essi procurano di appropriarsi le bellezze. Se i creatori delle letterature moderne non avessero troppo perduto di vista questo principio, esse si uniformerebbero di più ai costumi, ai sensi, alle istituzioni degli avi nostri, ai nostri usi, alla nostra religione; e noi non avremmo letterature ibride o scolorate, ora composte di elementi eterogenei e peccanti per la base di loro instituzione, ora formate da un tipo estraneo ai nostri pensieri ed al nostro modo di essere; non presentanti, in una parola, se non una letteratura greca in caratteri occidentali, una cattiva litografia della letteratura degli antichi ». Cessando di essere indigena, cioè religiosa e nazionale, la nostra letteratura non solo perdette la sua forma naturale; essa perde la sua popolarità. « La poesia francese essendo diventata, sotto l’influsso del paganesimo, la più classica di tutte le moderne poesie, è la sola che non sia sparsa nel popolo ». « Invece di porre al servigio del genio cristiano, soggiunge un celebre scrittore, i progressi dell’antichità nello studio del bello, noi ponemmo il genio cristiano alla coda della letteratura e della estetica pagane. Che ne è nato? Una letteratura neutra, servile, la quale esercitò influsso il più triste sugli ingegni e sui costumi. Essa degradò l’ingegno abbassandolo alla parte di copista. Essa pervertì i costumi, poiché invece di darsi a coltivare e ad abbellire i costumi cristiani, si fece interprete ed ammiratrice delle puerili idee e dei dissoluti costumi dell’ antichità. – « Di nuovo, che ne è nato? Lo sbiadimento della poesia, della musica, della pittura, della scultura, dell’architettura, le quali non vivono se non delle ispirazioni del pensiero religioso e nazionale. Perciò noi vediamo i grandi artisti uscir dalla trista carreggiata aperta nell’epoca detta del Rinascimento , e fra breve sarà chiamata l’epoca della degradazione. Costretti a ripigliare i nostri studi ed a ritornare alle tradizioni della scuola del medio-evo, la nostra adorazione per l’Arte antica ci ritardò di tre secoli. – « Le nostre prove di restaurazione pagana furono, nell’ordine politico, ancor più disastrose. L’idea romana, di creare nazioni di soldati regnanti sulle altre per il diritto del brando, non generò altro che guerre sanguinose. L’idea greca, di fare nazioni di legislatori e di funzionari, produsse il dispregio delle leggi, del potere, e ci ha resi non governabili. – « Insomma, i nostri moderni educatori nulla tralasciarono per farci indietreggiare di venti secoli e per astringere i popoli cristiani a ripigliare il misero andamento d’una misera antichità (Il signor Martinet, Dell’ Educazione dell’uomo) ».

CAPITOLO XI

SEGUITO DEL PRECEDESTE

L’alterazione della sua forma, la perdita delle sue bellezze e della sua popolarità, non è se non il più piccolo dei danni recati alla moderna letteratura dal paganesimo classico: esso la viziò profondamente nel suo spirito. Di spiritualista che essa era, la rese sensualista. Sentiamo la storia. È vero: nel secolo decimoquarto, il Boccaccio aveva rialzato il macchiato vessillo del paganesimo. Essendosi nutrito ei medesimo degli autori antichi, sovrattutto di Omero e di Menandro, aveva imparato alla loro scuola a vivere da pagano. Boccaccio sparse a fiotti nei suoi scritti la corruzione ch’egli aveva attinto nelle sue letture. Ma tale si era in allora l’influsso generale dello spirito cristiano che Boccaccio, tocco dal pentimento, bruciò ei medesimo in pubblico il suo Decamerone e gli altri suoi scritti licenziosi. I germi funesti ch’egli aveva seminati, appena conosciuti di qua dai monti, non diventarono un albero e non produssero frutti mortali, se non quando i Greci giunsero a Firenze. Giovanni Argiropolo, Andrea Lascaris, Isidoro Gaza, capi dell’ emigrazione, accolti e colmati d’onori dai Medici, ottennero il permesso d’insegnare pubblicamente. Essi ne profittarono non solo per impiegare, per commentare, per esaltare la letteratura pagana, ma eziandio per appassionare tutti gli animi in suo favore. L’Argiropolo, diventato precettore dei figliuoli di Cosimo de’ Medici, li rese deliranti per le greche lettere;.il Gaza tradusse in greco le principali opere degli antichi autori latini, ed in latino gli autori greci; il Lascaris, mandato più volte in Grecia, ne riportò i manoscritti degli oratori, dei filosofi e dei poeti, attalchè, grazie agli sforzi riuniti di questi tre personaggi, 1’amore dei pagani eccedette i limiti della ammirazione, e diventò una specie di culto. – Educati alla loro scuola, Marsiglio Ficino restaurò la filosofia pagana; il Poliziano, la letteratura pagana. Sotto la guida di Andronico da Tessalonia, il Poliziano, iniziato a tutti i segreti delle lettere pagane, non istimò e non insegnò per tutto il corso di sua vita se non il puro paganesimo. Prima dei quindici anni, cantò in un poema latino i giuochi che, alla guisa dei pagani, i Medici diedero in Firenze; tradusse in latino gli storici greci; celebrò in lirici versi le lodi di Orazio, di cui fece quasi un Dio; compose epigrammi affatto pagani e pel fondo e per la forma; scrisse in versi italiani canzoni lubriche e tragedie di gusto pagano, che vennero stampate in Firenze con grandissimo lusso. Non pago al corrompere i suoi contemporanei, il Poliziano trasmise ai posteri il veleno del suo insegnamento. Ei fondò una scuola, alla quale ebbe furia di accorrere tutta la gioventù illustre di Toscana e d’Italia. Da tale scuola uscì fra gli altri il Machiavelli, il quale pieno, come i suoi condiscepoli, d’amore e d’ammirazione per i pagani, compose, in ricordanza di Luciano e d’Apuleio, l’Asino d’ oro, poema osceno, preludio di commedie più oscene di quelle di Plauto e di Terenzio. Fra tutte si distingue per questo titolo, quella che è chiamata la Mandragola: componimento infame, che possentemente contribuì alla corruzione dei costumi. Dallo studio dei poeti passò il Macchiavelli allo studio degli storici pagani, e specialmente di Tito Livio. Preferendo i loro principi politici e le dottrine sociali a quelle dell’Evangelio, egli compose il suo famoso libro Del Principe, giustamente chiamato il codice della ipocrisia, della frode e della empietà, poiché esso crolla tutte le fondamenta della buona fede, della virtù, della giustizia e della religione fra gli uomini. Il Poliziano formò ancora Pietro Bembo e Giovanni Della Casa, ambi ellenisti e latinisti pagani molto esperti, ma ambi fedeli imitatori dei loro modelli, affatto corrotti di costumi, e non meno corruttori negli scritti loro. Tutti e due piansero i loro traviamenti; ma è però vero che loro aveva bastato, come bastò ai condiscepoli loro, d’aver bevuto alla fonte del paganesimo per diventare 1’onta della loro patria ed il flagello dei pubblici costumi. Tali sono alcuni dei frutti recati sul finire del decimo quinto secolo dal rinascente paganesimo. Mentre esso invadeva Firenze, si estendeva ognor più, sul cominciare del secolo decimosesto, in tutte le contrade d’Europa: Roma stessa provò il suo letale influsso. Ivi, sotto la ispirazione di Pomponio Leto, un troppo gran numero di animi si lasciarono andare alla febbre da cui era egli stesso divorato. Siffatto era il suo entusiasmo, che non voleva leggere se non gli autori profani; celebrava devotamente la festa della fondazione di Roma, e giunse persino ad erigere altari a Romolo. La conseguenza di codesto appassionato amore del paganesimo fu quale doveva essere, quale sarà sempre, il disprezzo per la cristiana religione. Pomponio diceva che essa non era buona se non per uomini barbari: le scritture e gli scritti dei Padri non ottenevan da lui se non sarcasmi: insomma la sua vita privata era degna dei suoi modelli. L’empietà e l’ateismo ne diventarono il carattere, in guisa che si fu costretti ad imprigionarlo. Fortunatamente Pomponio Leto ne uscì per morire da cristiano allo spedale. Tuttavolta, la febbre accesa da Pomponio s’era comunicata alla gioventù. Sin dalla mezzanotte assediava essa la porta della scuola di lui per assistere alle lezioni, le quali avevano principio solo allo spuntare del giorno. Nella stessa guisa che Pomponio aveva tributato un culto a Romolo, si videro uomini animati dal medesimo spirito stabilir feste in onore di Platone, ed erigere santuari a Catullo. Fuvvi un istante in cui più di cento ottanta poeti facevano risuonare gli echi di Roma cristiana degli accordi del loro liuto pagano! Rallentatosi qualche tempo a cagione degli sforzi d’Innocenzo VIII, d’Alessandro VI e d’Adriano VI, l’ andazzo pagano ripigliò il suo correre con rapidità maggiore. Già aveva invaso Francia, in cui il Mureto, diventato, senza maestro, discepolo fanatico di Anacreonte, di Orazio, di Catullo e di Terenzio, aveva ridotto a pratica nei suoi costumi gli insegnamenti dei suoi prediletti autori: in Parigi, in Tolosa, in Italia, in Venezia medesima egli fece pompa dello scandalo, e finalmente venne a fermarsi a Roma. Ivi si pentì del male immenso ch’egli aveva fatto; ma, lungi dal diminuire, il suo amore della letteratura pagana non fece se non crescere. Prova ne sono i suoi Juvenilia Carmina, e le sue annotazioni ad Orazio, a Catullo, a Tacito, a Cicerone, a Sallustio, ad Aristotele, a Senofonte: opera dell’intera sua vita. Signora dei pensieri con l’educazione, la reazione pagana doveva di necessità penetrare nei pubblici costumi. L’antica Roma aveva avuto poeti prima d’avere teatri: ma i primi produssero i secondi. Lo stesso avvenne nel tempo del Rinascimento. I teatri, che tutti i Padri della Chiesa, tutti i Concilli, tutti i Sommi Pontefici avevano con voce unanime esiliato dalle città cristiane, ricomparvero in Firenze dapprima, poscia nel rimanente d’Europa. Ovunque, vi erano teatri permanenti; e, ciò che non si era veduto da quindici secoli, le genti cristiane occuparono in folla i gradini dei teatri, degli anfiteatri, poscia dei circhi, degli ippodromi, applaudendo con pagano furore a spettacoli interamente pagani. Quello che esse fecero lo fanno ancora, e Dio sa con quanto vantaggio dei pubblici costumi! Sicché si recitarono da principio sulle scene d’Italia le commedie greche di Aristofane e di Menandro e le commedie latine di Terenzio, le une e le altre nella loro nativa nudezza. Dappoi, affinchè il popolo e le donne poco versate nella conoscenza del latino potessero prender parte ai piaceri della rappresentazione, il Macchiavelli, l’Ariosto, e più tardi il Metastasio, il Casti, ed una folla d’ altri discepoli de’ pagani, composero in idioma volgare componimenti nei quali respirano il sensualismo e l’oscenità dei loro modelli. Ben presto le accademie, i palazzi dei nobili, le case dei semplici privati risuonarono dei versi dei poeti pagani. Non si ebbe più gusto se non pei libri dell’antichità: essi soli diventarono 1′ oggetto di uno studio ardente. Sullo scrittoio del dotto, sul tavolo dello scolare, sulla cattedra del professore e sulla dorata suppellettile della gran dama, Virgilio aveva occupato il luogo della Scrittura; Cicerone, quello di san Paolo e di sant’Agostino; Orazio, quello di Davide; Plauto, Aristofane e Catullo, quello degli Atti dei martiri e delle Vite dei Santi. – Un somigliante andazzo manifestossi nel rimanente d’Europa ed in ispecie in Francia. I nostri più grandi poeti francesi, Corneille e Racine, ricollocarono sulla scena, ed offrirono all’ammirazione della società i principali componimenti del teatro pagano, od argomenti presi dal paganesimo. Gli Orazi e i Curiazi, Cesare, Britannico, Ifigenia, e che so io? tutto il mondo pagano, terrestre ed olimpico, fece pompa agli sguardi di un popolo cristiano, di sensi, di pensieri e di affetti che non sono nella nostra natura né nei nostri costumi, e del tutto opposti ai dettami di nostra religione. Che mai di più sensualista di certi componimenti che è inutile il nominare, ed i quali fecero versare lacrime di pentimento ai loro autori medesimi? Che mai di più forzato, di più feroce, di più antisociale e di più anticristiano dei seguenti sensi espressi in altre composizioni non meno applaudile: « Ma voler immolare al pubblico ciò che si ama, ma voler combattere un altro sé stesso… cosiffatta virtù a noi soli apparteneva… Roma ha scelto il mio braccio: io nulla esamino, e combatterò il fratello con allegrezza così piena e sincera come quando ne sposai la sorella. » – A fortiori, qual uomo, qual cristiano, non risponderà coi Curiazii: « Io ringrazio gli Dei di non essere Romano, per conservare ancora qualche cosa d’umano! » – Nel secolo decintottavo, il teatro continuò a trar partito dal paganesimo. Quando la miniera fu esaurita, o che l’ingegno mancò, si composero tragedie, commedie, vaudevilles, drammi, melodrammi che del paganesimo non ritennero più se non ciò che ne è il fondo, il sensualismo. Ben tosto la forma stessa fu negletta, per meglio lasciar scorgere la schifosa nudità della passione. Di caduta in caduta il teatro, la letteratura, la poesia giunsero alle nauseabonde produzioni di Parny, di Pigault-Lebrun, di Vittore Ugo, di Scribe, di Soulié, d’Eugenio Sue e de fogliettonisti; a quest’ultimo punto si trovano! – Da siffatta unione di tutte le forze intellettuali per far risorgere in Europa il paganesimo letterario, e per farlo comparire agli occhi della gioventù e della società risplendente d’ogni genere di bellezza, nacque naturalmente che i Padri della Chiesa, dei quali il medio-evo si era così gloriosamente occupato, rimasero sepolti nei polverosi scaffali delle biblioteche. Appena se in quest’epoca si vede tradotto qualche discorso, qualche trattato di quei grandi uomini, i cui scritti sparsi in volgare idioma, avrebbero così potentemente contribuito a risvegliare la Fede ed a proteggere i costumi. All’opposto, Cicerone ha per traduttore il Manuzio; Tito Livio, il Nardi; Virgilio, il Caro; Ovidio, l’Anguillara, e così degli altri in tutto il restante d’Europa. – La stampa medesima negli Stati i più cattolici, la stampa di fresco inventata, non dà se non le lettere di San Gerolamo ed alcune altre opere cristiane che essa sembra pubblicare con rincrescimento, mentre lascia ai torchi di Amsterdam, di Ginevra e di Basilea, diretti da Erasmo e dai protestanti, la cura di pubblicare o piuttosto di corrompere i grandi monumenti dell’antichità cristiana, le opere dei santi Padri. Così, il primo libro greco stampato in Italia è la grammatica greca di Costantino Lascaris, e il Pindaro in-quarto è la prima opera che comparve in Roma, stampata a spese del famoso banchiere Chigi. Si vede Aldo Manuzio, il principe dei tipografi italiani lasciando in disparte quasi tutte le opere cristiane, consacrare il suo ingegno e la sua vita a riprodurre gli autori pagani, in ispecie, Virgilio, Luciano, Orazio, Giovenale, Lucano, Cicerone, Demostene, Omero e Sofocle. Non si direbbe forse che l’arte tipografica fosse stata data agli uomini solo per propagare il regno del paganesimo, o piuttosto non sembra forse che la stampa preludesse sin dal suo nascere a quanto avrebbe fatto ai dì nostri? – Tuttavia l’invasione pagana proseguiva il suo cammino. I modelli dell’antichità non erano più proposti soltanto all’ammirazione come tipo del bello e regola esclusiva del gusto: si davano quali regolatori dei costumi, come se l’Evangelio fosse sparito. – Non parlo dell’insegnamento classico, di cui si servivano per formare lo spirito e il cuore della gioventù; vengo ad una prova più diretta: Erasmo la somministra. Questo principe dei letterati del suo secolo, il cui gusto era legge all’intera Europa, Erasmo dice con una serietà in cui la demenza e l’empietà disputano con la ridicolezza: « Ho io fatto qualche progresso invecchiando? lo ignoro. Quello che so si è, che Cicerone non mi è mai tanto piaciuto quanto nella mia vecchiezza. Non solo la sua divina eloquenza, ma ancora la sua santità inspirano la mia anima e mi rendono migliore che io non sono. Perciò io non esito punto ad esortare la gioventù a consacrare i suoi begli anni, non dico già a leggere ed a rileggere le sue opere, ma ad impararle a menadito. Per me, che sono già al declinare de’miei giorni, sono felice e superbo di rientrare in grazia del mio Cicerone, e di rinnovare con esso lui un’antica amicizia, da troppo lungo tempo interrotta (1 Prœm. in XXII Tuscul.). – Questa sola dichiarazione basta per dimostrare a qual segno il fanatismo pagano erasi impadronito degli animi. Certo, in ogni altro tempo, un cristiano, un sacerdote, un religioso, (ed Erasmo era cristiano, sacerdote e religioso) avrebbe arrossato di dire ch’egli era diventalo migliore leggendo non già l’Evangelio, ma Cicerone; che nel punto di morte egli era felice e superbo di rientrare in grazia non già d’Iddio, ma di Cicerone; egli avrebbe arrossato di scrivere cotali pazzie a sacerdoti, a prelati romani alto locati in dignità, se le medesime pazzie non avessero avuto seguaci in tutti gli Stati ed in tutte le condizioni. Affinché la gioventù stessa, secondo il precetto di Erasmo potesse diventare più virtuosa, leggendo non già la Scrittura o le opere dei Padri, ma i maestri del paganesimo, si composero ciò che chiamansi i classici morali. Come capi d’opera del genere, citerò il Selectœ e profanis, in cui i pagani sono presentati quali i modelli finiti delle quattro virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la forza,la temperanza. Ora, questi modelli non si confessavano, non si comunicavano, non andavano a messa, non erano cristiani. Dunque il cristianesimo, coi suoi obblighi imbarazzanti per le passioni, non è punto necessario per essere virtuoso: tale si è agli occhi del giovinetto la conseguenza inevitabile di cosiffatto insegnamento. Che la cosa stia così, e che tale conseguenza sia diventata una massima nella pratica della vita, giammai la prova non ne fu più lampante che ai dì nostri. Quale è mai la filosofia dominante dell’età nostra? Non è egli forse l’eclettismo, il razionalismo? E tale filosofia non assevera forse che la religione altro non è se non un piedestallo, un orlo, un fabbricato che deve ben presto cadere? Non insegna forse di presente, che il mondo ha veduto una folla d’ uomini celebri per la virtù e formati solo dalla filosofia: Pitagora, Antistene, Socrate, Platone, gli stoici Catone, Condorcet, Deslutt de Tracy, Cabanis, ecc.? E tutti, da quei che abitano nei salons insino all’abitatore delle capanne, non ripetono forse in coro: « Si può essere virtuosi senza religione? » Mi sarà egli permesso di dire di passaggio, che, senza addarsene, Fénélon mena alla stessa conseguenza, dando a Telemaco tutti i sensi e tutte le virtù che solo il Cristianesimo può inspirare? Lo stesso principio ci valse un nuvolo d’altri scritti, quelli di Berquin in ispecie, in cui s’insegna ai fanciulli l’arte d’essere virtuosi senza religione; in cui i sensi naturali, i vantaggi umani tengono il luogo dei Sacramenti, dei precetti, delle promesse e delle minacce della Fede. Se altre prove abbisognassero di sì perniciosa invasione del paganesimo, aggiungerei che i letterati spinsero il culto per l’antichità pagana al punto di non più nominare le stesse cose religiose se non con nomi pagani, e di non temere di macchiare la santità del Cristianesimo colle ridicole favole della mitologia. Il Bembo, nelle sue lettere, fa dire a Leone X, ch’egli è diventato sommo pontefice pei decreti degli Dei immortali: se deorum immorlalium decretis factum esse pontificem. Altrove, chiama Nostro Signor Gesù Cristo un eroe, heroem, e la Santa Vergine la dea di Loreto, deam Lauretanam; la Fede, la persuasione, persuasionem; la scomunica, l’interdizione dall’acqua e dal fuoco, interdictionem aques et ignis. Per lui e per i suoi simili, non una parola era latina se non si rinveniva in Cicerone. Questa testimonianza è loro resa da Giovanni Lami, seguace della medesima opinione. Altri chiamano l’augusta Maria speranza degli Dei, spes Deorum; il Cielo, l’Olimpo, Olympum; l’inferno, l’Èrebo, Erebum; le anime dei giusti, manes pios; i sacerdoti, flamini, flamines; i vescovi archiflamini, archiflamines; le grandi solennità religiose, leclisternia; il sacro collegio, il Senato del Lazio, Latii Senatus; la tiara, Romulea infida. Invece di dire con tutti i cristiani « se piace a Dio » essi dicono « se piace agli Dei » si Diis placet. La gerarchia ecclesiastica è l’opera degli Dei, vario quos ordine Divum mancipal; la messa, il culto sacro degli Dei, sacra Deorum; l’acqua benedetta, l’acqua lustrale, lustrali bus undis, e le statue dei santi, simulacri degli Dei, simulacra sancta Deorum. Nulla sarebbe sì facile come il trovare nelle opere meramente letterarie una quantità d’altri esempi di somigliante pedanteria non men pericolosa che ridicola. Aggiungerò (ciò che diventa più grave) che l’eloquenza sacra, sdegnando la Scrittura e i Padri, sorgente feconda dei casti suoi ornamenti, tolse a prestito quasi tutti i suoi colori, i suoi esempi, le sue testimonianze alla storia pagana, e talvolta anche alla mitologia. Lo stesso avvenne dei libri ascetici. Pressoché ogni pagina offerse in greco ed in latino, quali esemplari di virtù o suggelli della verità, i fatti, le parole, i grandi uomini del paganesimo. Aggiungerei che la poesia non trattò più argomenti, anche cristiani, se non nello stile, nel metro, e cogli ornamenti pagani: dirò alcuni esempi tra mille. Il Sannazzaro e il Vida sono i due più famosi letterati di questa età, i quali impresero a cantare i misteri della religione. Ora, il primo, nel suo poema De partu Virginis, fa una mescolanza, che direi ridicola, se indecente non fosse, delle più auguste verità della Fede e delle inezie della favola. Tutto vi è pieno di Dei e di Dee, di Driadi e di Nereidi. Il nome del Nostro Signor Gesù Cristo non vi si rinviene una volta sola. Per cantare la Santa Vergine e Nostro Signore, vincitore della idolatria, il Sannazzaro comincia con invocare le Muse: O Musæ…quandoquidem genus e cœlo deducitis. Ciò non bastando implora la Vergine Santa, ch’ egli chiama la ferma speranza degli uomini e degli Dei, spes fida hominum, spes fida Deorum, alma Parens, e della quale fa una Dea e una regina degli Dei: Diva more, reginamque Deorum de more salutat. Il Padre Eterno annunzia l’intenzione sua di ricollocare gli uomini nel soggiorno degli Dei, Divum potius revocentur ad oras. L’angelo Gabriele trova la Vergine Santa a leggere, secondo il suo costume, non già Isaia, non già i Salmi, ma le Sibille, atque illi veteres de more sibyllæ in manibus; ei la saluta col nome di Dea e le dice di nulla temere, exue, Dea, metus animo. La notizia dell’incarnazione giunge agli Inferni; allora le anime dei giusti, le anime d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe esultano d’allegrezza. Perchè? Perché lasceranno le tenebrose rive d’Acheronte, e cesseranno di sentire 1’abbaiar di Cerbero, qui tristia linquant Tartara, et evectis fugiant Acheronta tenebris, immanemque ululatum Tergemini canis. Quanto segue oltrepassa qualsiasi immaginazione. Il poeta personifica il Giordano, e gli fa annunziare il mistero dell’Incarnazione, il Battesimo di Nostro Signore e i suoi miracoli. Ma da chi? da Proteo! Cœruleus Proteus…. hoc effudit Carmine voces : « Adveniet tibi, Jordanes, properantibus annis, adveniet, mi crede », inquit. Il secondo, non meno gran fabbricatore di versi, non pensa, non parla se non con Virgilio ch’ei sapeva egregiamente. Vescovo dotto, senza macchie, il Vida fu uno degli uomini posti nelle più favorevoli condizioni per ostare all’andazzo del suo secolo. Per tale riguardo, egli merita uno studio speciale: l’influsso del paganesimo sovr’esso ci dà la misura, a minima, di quello che fu sugli animi di men forte tempra. Ora, il dotto, il grave, il degno vescovo di Cremona ci rimane quale una viva prova che il Rinascimento, ripudiando l’eredità letteraria dei secoli di Fede, più non permetteva di scrivere sovra alcun argomento, grave o frivolo, religioso o profano, senza adoprare il linguaggio del paganesimo, senza porre di mezzo i suoi uomini e i suoi Dei. La Poetica del Vida, scritta in centoni virgiliani, non parla se non di Febo, delle Muse, del Parnasso e di Minerva. Più spesso forse che non in verun autore pagano, vi si trovano i nomi degli Dei e delle cose del paganesimo. Nel suo fanatismo, il Vida giunge perfino a fare di Virgilio una specie di Dio per l’eloquenza e per la santità: Verba Deo similis; nil mortale sonas. Salve, sanctissime vates; un Dio ch’egli onora; un Dio al quale promette, per sempre, corone, incensi, altari ed un culto sacro; un Dio insomma che il poeta deve invocare. Te colimus: tibi serta damus, tibi thura, tibi aras, et tibi rite sacrum semper dicemus honorem. Nos aspice, prassens, pectoribusque tuos casus infunde calores, adveniens pater, atque animis lete insere nostris. Lo stesso prelato compone gravemente un poema sul Giuoco degli scacchi. Non crediate mica che i giocatori sieno semplici mortali: sono re, imperatori, personaggi storici d’Oriente e d’Occidente. La partita è impegnata tra Apollo e Mercurio: essa si gioca nelle nozze dell’Oceano colla Terra. Giove è giudice del combattimento; sono spettatori Venere, Marte e Vulcano. La lotta si compie frammezzo i tiri da baro degli Immortali, e termina con vantaggio dei soldati neri, i quali trionfano con la inspirazione di Mercurio!! Dopo essersi esercitato sovra letterarii argomenti, il Vida tratta argomenti cristiani. La sua più importante opera si è la Cristiade. Litografia dell’Eneide, con interminabili discorsi, ecco che cos’è questo poema, quanto al disegno generale. San Giuseppe, poi San Giovanni, raccontano a Pilato, nel momento della Passione, tutta la storia di Nostro Signore. Lascio da parte l’anacronismo; altri vedrà se mi sia permesso di non parlare della mancanza di naturalezza e di a-tempo che riscontrasi in discorsi senza fine, rivolti a un giudice premuroso di farla finita e sopra pensiero per la sommossa che mugge nelle vie chiedendo la morte della vittima. Vengo alla forma tutta pagana, data ad un soggetto che sì poco la comporta. Dio Padre si rivela in tutti i nomi dati a Giove: egli è il padre degli Immortali, il possente signore della procella, del tuono e della pioggia, il monarca d’Olimpo: Superém sator, Superum pater nimbipotens, allisonans, imbripotens, regnator Olympi. Nostro Signore è sempre un Eroe: l’Eroe rimprovera Pietro perché gli vuole vietar di morire, increpuit dictis quem talibus heros; l’Eroe cammina circondato dai suoi compagni, multìs comitantibus heros instat; l’Eroe immobile sulla tomba di Lazzaro, prega suo padre, immobìlis heros orabat ; l’Eroe, entrato nel tempio, vede i profanatori, heros ingressus vidit; l’Eroe giunto al giardino degli Olivi, si trova accasciato da affligenti pensieri, curis confectus tristibus heros; l’Eroe è senza paura alla vista degli Ebrei che lo vengono a prendere, his nil trepidus compellans vocibus heros; l’Eroe pronuncia parole che convertono San Pietro, tmn monitus verborum, heros quæ extrema canebat, ingemuit; l’Eroe muore insultalo dal cattivo ladrone, ipse edam verbis morientem heroa superbis stringebat. Non è solo dalla sua penna episcopale che il Vida lascia cadere ad ogni momento il nome di Eroe per indicare l’Uomo Dio; egli pone questo nome profano sulle labbra di S. Giovanni. Narrando a Pilato le azioni del Divin Maestro, il prediletto discepolo gli dice : « L’Eroe, traversando una campagna fece seccare un fico sterile, heros qui hac forte tenebat; l’Eroe, alzando le mani al cielo, libera un ossesso, heros palmas in cœlum sustulit ambas; l’Eroe erasi ritirato nel deserto, se ciani subduxerat heros cœtibus; l’Eroe, assalito dal demonio rivela la sua divinità, ed elude tutti gli artifizi dell’ inimico: quale un corsiero, libero del morso, si slancia nella pianura e si ride dell’inseguirlo che fanno i servi mandati sulle sue orme; « Se protinus heros ipse Deum claro confessus numine coram irrita furia dolosque exibat semper apertos. Qualis, ubi excussis per plana evasit habenis, liber equus ludit famulos hinc inde sequentes». E San Giovanni Evangelista quegli che dice tutte queste cose! E ne dice ben altre. Per conoscerle, ei comincia con essere trasportato nel soggiorno degli Dei ; penetralia Divum mente subit. Ritornato in terra e narrando a Pilato il miracolo della moltiplicazione dei pani, dice che il popolo da cui il suo maestro era seguito nel deserto, si trovava privo da tre dì dei benefìzii di Cerere: eos tenia namque muneris expertes Cereris lux acta videbat. Finalmente accusa le Eumenidi d’ aver acceso 1’odio degli Ebrei contro di lui: Eumenides… circumeunt… agitantque furentes. – Sino al sedicesimo secolo nessuno aveva mai saputo che San Giovanni Evangelista avesse imparato mitologia nelle sue estasi; ma che sapevano i secoli barbari? Però il discepolo prediletto non ha detto tutto. Il poeta ci indica coi loro nomi, con le forme loro, tutti gli spiriti delle tenebre che spinsero gli Ebrei all’uccisione del Figliuolo di Dio: il primo è il re dell’Èrebo; vengono quindi le Gorgonidi, poscia le Siingi, seguite dai Centauri, dalle Idre e dalle Chimere; al retroguardo camminano le Scille e le sporche Arpìe. Arbiter ipse Èrebi… Gorgonas hi, Sphingesque obsceno corpore reddunt; Centaurosque, Hydrasque illi, ignivomasque Chimæras; centum olii Scyllas, ac fesdificas Harpyas. Ecco dunque una cosa che è sempre buona a sapersi. Ciò che non lo è meno, si è che la Maddalena deve attribuire le sue colpe a Venere ed alle Furie discese nella sua anima dietro l’infame Dea: sensibus illapsa est Veneris malesuada cupido, qua; mentem immutans Furiis subirci iniquis. Una di queste Furie aveva sette teste; è dessa che tormentava la sgraziata, quella che fu cacciata da Nostro Signore e ch’ei designa col suo nome mitologico: hæc Deus, hæc, inquit, capitum fœdissima septem, correptam misera; mentem vexabat Erinnis. – Quanto segue è ben altramente serio. La Fede ci insegna che è Dio il quale affidò a San Giuseppe la custodia della Santa Vergine, dandogliela per isposa. Il Vida ci dice che è la volontà degli Immortali, ei olim alma Parens fuerat Superém concredita iussis. Volete sapere che è mai la Vergine stessa? è una ninfa, Regia progenies, nymphœ dignatae superbo coniugio; la più bella delle ninfe, nympharum pulcherrima; è qualcosa di più, è una Dea, sub pedibusque Dece lumen dare candida luna. Si è a nome degli Dei che San Gioacchino ordina alla figliuola sua di maritarsi, iussa docens Superém. Sant’Anna, diventata simile ad una Baccante, in preda ad un delirio sacro, e, gettando urli, le indica il suo sposo: In medio Anna parens, subilo correpta furore, piena Deo tota, visu venerabile, in cede bacchatur, tollitque ingentem calo ululatum. – La poesia del Rinascimento si guarda bene (spregiando la semplicità dell’ Evangelio ) dal dire che Nostro Signore mutò 1’acqua in vino alle nozze di Cana; è necessario che il racconto de’ miracoli sia smaltato di qualche bellezza pagana, e 1′ acqua diventa il succo di Bacco: fontis aquam latices Racchi convertit in atros; è eziandio la tazza di Bacco quella che è presentata a Nostro Signore sulla croce: corrupti pocula Bacchi inficimi felle. Il pane azimo, il pane della Eucaristia, è chiamato Cerere senza mescolanza: sinceram Cererem. Finalmente, sia traviamento poetico, sia impotenza di rendere colla lingua latina pagana i misteri del Cristianesimo, sia insomma un fanatico desiderio di richiamare ovunque la forma virgiliana, il Vida si fa lecito di raccontare in questi termini l’istituzione della Santa Eucaristia : « Già l’Eroe prende il pane senza lievito in fretta preparato, lo rompe e lo divide fra tutti; poscia, empie una coppa di vino e d’acqua fresca, benedice la divina mescolanza ch’essa contiene, e la presenta spumeggiante ai suoi compagni dicendo : « Questa è la vera immagine del nostro corpo, la vera immagine del nostro sangue, che, vittima devota a mio padre, io spargerò solo per tutti gli uomini. – Io non voglio accusare il Vida di eresia; suppongo che il suo verso abbia un senso ortodosso, ma confesso di non saper come provare che queste parole: vera imago corporis, significhino « questo è il mio corpo ». Quanto io so, si è che San Tommaso parla ben altrimenti, e si può affermare ch’ei non avrebbe mai parlato così. Non sarebbe guari difficile il trovare nelle pagane espressioni del Vida molte altre inesattezze teologiche: tanto è vero ciò, che vedremo più lungi, che l’uso della lingua pagana, impotente ad esprimere le cristiane verità, è oltremodo acconcio a spianare la via all’ eresia. Aggiungiamo che dopo avere, secondo la moda dell’età, dato un calcio a tutta quanta la letteratura dei secoli di fede, il degno vescovo finì per pentirsene. Tormentato dal rimorso di avere impiegato parte di sua vita in opere profane, ei disapprova tutti gli errori che avrebbero potuto sfuggirgli e chiede perdono d’avere consacrato alle lettere profane un tempo ch’egli doveva a Dio. – Tali sono il Sannazzaro e il Vida, i due principi della poesia del Rinascimento. Ambedue, cristiani per il loro soggetto, sono affatto pagani per i ragionamenti, per 1’ordinatura, per i mezzi, per le massime, per il metro, per lo stile, per la elocuzione; e tutte e due spesero una grandissima copia di poesia e d’immaginazione in comporre elegantissime frivolezze. – D’ altra parte, il male non fu grande; poiché tale è la noia che i loro lavori inspirano, che non si possono leggere sino alla fine. Tuttavolta il loro esempio diventò funesto. Una folla di pretesi poeti si posero all’opera ed in Francia ed in Italia per rifare gl’inni della Chiesa. Agli occhi di codesti Vandali d’un novello genere, gli inni sacri, i quali, se ne togli qualche eccezione, sono capi d’opera di poesia cristiana, degni dei profondi studi e di tutta l’ammirazione degli uomini di gusto, non erano buoni se non ad essere rigettati fra la mondiglia, come cose barbare. Furono pertanto veduti costoro sostituire ai cauti sacri, scritti nello stile di Sant’Ambrogio, di San Gregorio, d’Innocenzo III, di San Bonaventura e di San Tommaso, nuovi componimenti elaborati nello stile e secondo il metro d’Orazio. Qui ancora, il Vida, precursore di Santeuil e di Coffin, spinto da uno zelo molto più grammaticale che episcopale, compose, per le solennità di Nostro Signore e dei Santi che si celebrano nel corso dell’anno, inni che sono vere odi di Orazio, meno l’ispirazione poetica. A parte la scelta delle parole e la misura , nulla vi si rinviene di grande, nulla di santo, nulla di pio; e leggendoli, il cuore si raffredda ben più che non si riscaldi per le cose celesti. – Finalmente, cosa deplorabile, si videro secolari, i quali insino allora avevano impiegato i loro ingegni nello scrivere in favore della religione; ecclesiastici, religiosi, vescovi eziandio, dimenticando e la dignità del loro carattere e i doveri della loro carica, consacrare a gara gli ingegni loro e le loro veglie nello spiegare, commentare, annotare gli autori pagani; spendere tesori di erudizione per far valere, come se si fosse trattato della Sacra Scrittura, ciascuna delle loro parole, per giustificare una variante in un epigramma di Marziale, in una commedia di Terenzio o di Aristofane; per celebrare le ricchezze d’un periodo di Cicerone, o per fare risaltare le infinite bellezze del Quadrupedante putrem di Virgilio e del Procumbit humi bos. Ciò che è viepiù deplorabile, furono visti dare un esempio, sgraziatamente troppo bene seguito dopo la loro età; furon visti tradurre nella loro integrità le opere le più licenziose del paganesimo, e spendere molto più tempo in cantare in poesie fuggitive o di polso, Giove, Venere, Marte, Minerva, Apollo, Diana e soprattutto Cupido, che non in difendere la religione e la società, le credenze ed i costumi cristiani, in allora cotanto violentemente assaliti. Ma un male forse maggiore di quelli che io ho indicato fu il discredito in cui essi gettarono la lingua e la letteratura cristiana. Si fu in allora, grazie a costoro, che quelle vennero chiamate barbare, e come tali considerate. Non uno di tal uomini, il quale non proclamasse come un assioma, che il genio, l’eloquenza, la poesia, la storia, la filosofia, non abitarono mai altri luoghi eccetto il Foro od il Pireo; non un solo, il quale non dicesse collo Scaligero, ch’egli amerebbe meglio aver composto l’ode d’ Orazio: Quem tu, Melpomene, semel, che non l’essere re di Francia. Taluno persino giunse ad un tale eccesso di dispregio per la lingua, per la poesia e per 1’eloquenza cristiana, ed a sì grande fanatismo per la lingua, per la poesia e per l’eloquenza pagana, che oltrepassa tutti i limiti conosciuti del ridicolo. Citerò tra gli altri il dotto religioso, l’ottimo padre Maffei, il quale, come ci racconta uno dei suoi confratelli, chiese sul serio al sommo pontefice il permesso di dire il suo breviario in greco, per tema di guastarsi il linguaggio leggendo il latino della Volgata e del Breviario romano. Se un uomo d’una pietà eminente, se un religioso esemplare poté giungere a tanto, giudichisi dei sensi di tanti altri i quali non avevano né la stessa scienza né la stessa pietà? Da questo rapido abbozzo, chiaro risulta che, sotto l’influsso del paganesimo classico, la moderna letteratura perdette il suo vero carattere, il carattere cristiano e nazionale; che invece di essere originale e indipendente, essa diventò imitatrice servile; invece di essere un prodotto del suolo, essa non è se non una produzione fittizia senza sapore e senza forza, come quei frutti esotici che si educano nelle nostre serre; che invece d’essere l’organo dello spiritualismo, essa è troppo sovente l’apostolo svergognato del sensualismo. Cesserà ella alfine questa parte indegna? Spoglierà essa la toga antica, uscirà essa dal mondo delle ombre e delle favole per entrare in quello delle realtà e della fede? Dio lo sa. Quello che noi sappiamo, si è che tutto è crollato intorno al suo trono; questo trono non può da solo rimanere ritto fra tante rovine. Bisogna che il mondo perisca, o bisogna che simil trono crolli alla sua volta, e che sui suoi frantumi s’innalzi il trono di una nuova letteratura, espressione vera della società restituita a se medesima, cioè diventata cattolica di nuovo,

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (4)

CAPITOLO VII

TERZA EPOCA.

Siffatto ordine, cosi perfettamente logico agli occhi della ragione e della fede, ebbe la disgrazia di spiacere alle persone, che, sapendolo o senza saperlo, ricondussero il paganesimo in Europa ed inaugurarono la terza epoca della nostra pubblica educazione. Ecco in brevi accenti la storia di sì inaudito rivolgimento, del quale noi proviamo anche ai dì nostri le conseguenze perniciose. Costantinopoli era caduta sotto i colpi di Maometto II: ciò fu nel 1453. Tristi reliquie d’una nazione dispersa ai quattro venti per aver tradito la fede dei suoi padri, i Greci fuggiaschi giungono in Occidente. Nel loro fardello gli esuli recan seco le opere dei filosofi, dei poeti, degli oratori, degli artisti pagani, di cui eglino sono ammiratori pazzi. Accolti dai Medici, i Greci pagano la gentile accoglienza ricevuta spiegando le opere dei loro antichi concittadini ed esaltando la gloria di quanto fu inspirato dal genio pagano. A sentirli, l’Europa non conobbe insino allora la letteratura, l’eloquenza, la filosofia, la poesia, le belle arti. « Barbaro, istruisciti: non cercar più i tuoi modelli né le tue ispirazioni nei tuoi pretesi grandi uomini, nei tuoi annali, nella tua religione. Roma pagana, la Grecia pagana soprattutto possono sole offerirli, in tutti i generi, capi d’opera degni delle tue meditazioni. Colà fuvvi il monopolio dell’ingegno, del sapere e dell’eloquenza; colà vissero gli uomini che tu devi imitare, ma che tu non eguaglierai mai. Fia tua gloria l’appressarti loro; non ti lusingare di andare più lungi: essi posero le colonne d’Ercole dell’umano sapere ». Ecco quanto si disse su tutti i tuoni dai nuovi maestri. Occultamente rosa dallo spirito di ribellione, triste frutto del grande scisma d’Occidente, l’Europa presta attento orecchio a questi discorsi: essa vi ravvisa un biasimo, un’ingiuria per il Cattolicesimo. Con tutto l’ardore d’un astio a lungo compresso, essa afferra l’occasione d’infrangere l’autorità letteraria di quello, aspettando di poter infrangere apertamente la sua autorità religiosa. Un eco immenso risponde alla seducente voce dei novelli dottori. Non si hanno più innanzi gli occhi se non i pagani di Roma e d’Atene; si divorano le loro opere, si esaltano alle nubi; non si conoscono più per l’umanità se non due secoli di luce, quello d’Augusto e quello di Pericle: tutti gli altri sono ascosi dal Carlo Dupin di allora sotto larghe zone di nero inchiostro. Nulla è bello, nulla è tollerabile nelle diverse forme dell’umano pensiero, nel linguaggio, nella poesia, nell’eloquenza, nella pittura, nella scultura, nell’architettura, tranne quanto reca il suggello del paganesimo. Gli uomini arrossano di non lo avere saputo più presto: se ne fa ammenda onorevole ingegnandosi di modellarsi sull’antichità. – Tanto per risparmiare all’infanzia una tale fatica quanto per assicurare il buon esito del felice Rinascimento, si prepara frettolosamente uno stampo perfettamente pagano, e vi si gettano le giovani generazioni. – Via i classici cristiani, via gli Atti dei martiri, le Scritture, i Padri della Chiesa che avevano formato i loro avi! La storia degli Dei dell’Olimpo, le favole di Fedro e di Esopo, Quinto Curzio, Ovidio, Virgilio, Orazio, Omero, Senofonte, Demostene, Cicerone, Aristofane; ecco oramai i soli modelli della gioventù cristiana, dei figliuoli dei cavalieri e dei martiri: « Stupiranno gli avvenire, dice un grave protestante dei nostri giorni, di sapere che una società la quale si diceva cristiana dedicò i sette od otto più begli anni della gioventù dei suoi figliuoli all’esclusivo studio dei pagani « Eppure è così. Sì, egli è un fatto che nell’età di cui parliamo vi fu una totale rottura della tradizionale catena dell’insegnamento, una esorbitante deviazione nel processo dello spirito umano; in una parola, un radicale cambiamento nella educazione della gioventù. Si ebbe un altro libro più classico ancora, e, se possibile è, più popolare delle opere stampate o manoscritte: voglio dire dell’arie in generale. Esclusivamente consacrata alla religione, l’Arte spiegava agli occhi dei dotti e degli ignoranti gli Atti dei martiri, i fatti della Scrittura e le storie de’santi: le pagine sì variate, sì intelligibili di questo nuovo libro si trovavano dovunque, nelle chiese e perfino nel focolare della capanna la più umile. Tale era il secondo libro classico, il secondo stampo cristiano delle giovani generazioni. – Ora, quanto si era fatto per la letteratura, si affrettarono a fare per le arti. Al tipo cristiano succede un tipo perfettamente pagano, e vi si riconduce la gioventù. Via tutte le glorie artistiche delle età di fede! Via i magnifici monumenti d’architettura, di pittura, di oreficeria, di cui l’Europa è coperta. I templi mutilati della Grecia e dell’Italia, le statue, i vasi, i resti di colonna, gli archi di trionfo, gli edifici per metà rovinati del paganesimo, gli affreschi dei suoi palazzi, le nudità delle sue ville e delle sue terme: ecco pel pittore, per lo scultore, per l’architetto, pel disegnatore, per l’orefice i veri libri classici ed il tipo esclusivo del bello. Qui, come per la letteratura, l’entusiasmo fu spinto sino al delirio: esso diventò una epidemia che invase l’intera Europa. – Voi avete veduto in qual modo fu rotto lo stampo in cui l’Europa era stata raffazzonata durante quindici secoli, e donde era uscita sì eroica, sì cavalleresca, sì forte, sì grande in ogni modo, in una parola, sì cristiana. Io vi rammemoro ora la vostra prima obbiezione e vi chiedo: Vi sembro io ancora troppo assoluto? Il cambiamento di stampo è egli stato meno assoluto di quanto io avevo detto? Raccogliete la vostra memoria e paragonate. Durante le due prime età, i classici, cioè i libri e le arti insieme, presentate come modelli all’infanzia, sono esclusivamente cristiane. Durante la terza età, sono esclusivamente pagane. Durante le due prime età, i classici propriamente detti sono: gli Atti dei martiri, la Sacra Scrittura, i Padri della Chiesa; gli autori pagani non sono studiati se non di seconda mano, e solo nell’adolescenza. Durante la terza età, i libri classici propriamente detti, sono: le Storie degli Dei del paganesimo, le favole del paganesimo, i libri dei grandi uomini del paganesimo; essi sono studiati principalmente, esclusivamente, e questo sin dalla prima infanzia. – Durante le due prime epoche, i giovinetti rimangono a lungo in seno alla loro famiglia, in cui sono potentemente nutriti del puro latte delle verità cristiane; ei non entrano nelle scuole se non per ricevere un alimento più sostanzioso, ma non meno cristiano. Durante la terza epoca, i fanciulli abbandonano di buon’ora il focolare domestico, in cui hanno già ricevuto un nutrimento metà cristiano, metà pagano: poscia entrano nelle pubbliche scuole, ove non trovano più se non un cibo esclusivamente pagano. Nelle due prime epoche i pagani non sono studiati se non con un’intenzione religiosa, e non già quali modelli di pensare, di sentire e di parlare. Nella terza epoca i pagani non sono per nulla studiati con religiosa intenzione, ma sì come modelli esclusivi della perfezione nell’arte di pensare, di sentire e di parlare. La mutazione di sistema, di forma, di stampo, può ella essere più compiuta?

CAPITOLO VIII

RISPOSTA ALLA SECONDA OBBIEZIONE

TESTIMONIANZA DEGLI UOMINI.

Voi non vi considerate per sconfitto, ed aggiungete: « Ammettendo la mutazione totale da voi indicata, io trovo che voi attribuite una esagerata influenza ad una semplice forma. Ora, il Rinascimento non è insomma altro che una nuova forma, data al pensiero ». Io non disputerò con voi per sapere se il Rinascimento fu una semplice forma o qualche cosa di più. Io parto dal fatto che voi non negate punto, cioè che il Rinascimento si fu l’introduzione del paganesimo nella educazione, Ora, io sostengo che, se ciò non è guari che una semplice forma, la forma reca seco il fondo, e che non esagero per nulla l’influenza da me attribuitale. Per sostenere il mio asserto, ho due sorta di testimonianze: gli uomini ed i fatti. – Gli uomini. Accusandomi di esagerare l’influenza disastrosa del paganesimo nella educazione, sapete voi chi è che accusate? Voi accusate uomini la cui autorità non è discutibile;uomini che dalla loro probità sono esclusi da ogni sospetto; uomini che dalla loro celebrità sono resi rispettabili ed ai loro amici ed ai nemici loro; uomini, cui la loro condizione pose più che altri mai in caso di portare una testimonianza irrecusabile su fatti ch’essi osservarono a lungo,ch’essi toccarono con mano, ch’essi videro con i loro occhi, e di cui parecchi furono vittime. Ho nominato i Padri della Chiesa, i Padri dell’Europa cristiana, le guide le più illuminate delle nazioni, i principi della virtù e della sapienza. Forse che Origene non ravvisava nel paganesimo classico se non una nuova forma data al pensiero, un modo d’istruzione senza pericolo pei giovinetti cristiani? Origene, il quale, parlando degli scrittori e soprattutto dei poeti profani, non teme dire che le opere loro, anche le più celebrate, sono tazze i cui orli sono dorati e il cui fondo è pieno d’un veleno mortifero? (Homil. 2, in Hier). Felice lui stesso, se, tenendosi sempre in guardia contro le opere di cui indicava con tanta eloquenza il pericolo, saputo avesse schivare il veleno dei filosofi pagani con tanta cura con quanta quello dei poeti! Ma no; il grande Origene, ingannato dalla filosofia di Platone, si lasciò trascinare da una folla di errori che scandalizzarono la Chiesa, ed i quali lasciano ancora dubbio a molti circa la sua eterna salvezza. – Il suo commilitone nella lotta in favore del Cristianesimo nascente, l’immortale Tertulliano, avrebbe forse considerato come cosa innocente lo studio dei pagani per parte dei giovinetti cristiani, egli che con tanta verità chiama i filosofi pagani « Patriarchi degli eretici, corruttori della dottrina della Chiesa? (Apud S. Hier; ad Clesiphont.) ». – Sant’Ireneo, il sapiente apologista della religione, da lui segnata col proprio sangue, è più formale ancora. È noto il celebre motto, con cui condannando tutta quanta la filosofia pagana nella persona del suo rappresentante il più accreditato, definisce Platone « artigiano di tutte le eresie (“Doleo Platonem fuisse omnium hæsereseon condimentarium”. De hæres.) ». Ecco qui un testimonio non meno irrecusabile. Lattanzio, che aveva studiato a lungo le belle lettere, ed il quale meglio che altri conosceva il segreto influsso dei libri classici, afferma, come cosa conosciuta ai suoi dì, che la fede in nessun uomo era tanto debole quanto in coloro che erano dediti alla letteratura pagana (homines litterali minus credunt”.). Confermando il pensiero di Lattanzio, Sant’Ambrogio sorge con energia contro coloro i quali, per darsi allo studio degli autori pagani, negligono le Sacre Scritture. « Non vi è pericolo mediocre nel tralasciare la parola di Dio per quella del secolo (“Non est mediocre periculum, cum habeas tanta eloquia Dei, illis prætermissis, loqui quæ sæculi sunt”. Sermo. XXII, in Ps. CXVIII) ». Se tale era siffatto pericolo per uomini maturi d’anni, quanto grande ei non sarebbe agli occhi di sì grande Dottore per giovinetti la cui tenera anima, e senza difesa, tutte le impressioni riceve con una facilità eguale alla fedeltà con cui essa le conserva? Vi citerò io San Giovanni Grisostomo, il quale così si esprime : « Non voglio che si diano ai giovinetti, per prime lezioni, le favole della mitologia…. Cominciate con l’imprimere nell’anima loro i principi della vera sapienza: voi non guadagnerete mai tanto ad insegnar loro le scienze profane che li condurranno alla fortuna, quanto ad insegnar loro la scienza che farà ad essi disprezzar la fortuna (Homil. xxi, in epist. ad Ephes.) ». – Alcune famiglie, allontanandosi da tali regole fortunatamente rispettate dal gran numero, il Santo Dottore le avverte in questi termini: « La prima età, voi dite, è quella dell’ignoranza; sì, e non vedete voi che ciò che la rende più profonda e più pericolosa, si è l’uso che avete di darle per suoi primi libri le storie di quegli eroi antichi che le si insegna ad ammirare, sebbene fossero ingolfati in tutte le passioni? Noi raccogliamo il frutto di simile educazione, la quale tende a popolare la società d’uomini sbrigliati; senza freno e senza costumi, avvezzi a trascinarsi nel fango del vizio (In epist. ad Eph. Homil. xxi, a. 1 et 2 opp,, t. xi, p. 183.)». San Basilio è ancor più formale di San Crisostomo. Egli vuole che i giovani prendano per punto di partenza i principi cristiani, onde giudicare sanamente delle parole, degli atti e delle massime dei pagani; il che suppone evidentemente una grande cognizione della religione, anteriormente acquistata. Soggiunge che la lettura degli autori profani è supremamente pericolosa, perché essa predica il sensualismo ed insegna ad ammirare uomini virtuosi soltanto in parole.Ma la testimonianza di San Gerolamo è più esplicita e più grave di tutte quelle che avete sentite. Insieme con Sant’Agostino egli è forse il Padre della Chiesa che ha maggiormente studiato, che ha meglio conosciuto e più giustamente apprezzato le opere pagane, nonché il pernicioso influsso che esse possono esercitare. Scrivendo al Papa San Damaso, esso pure molto versato nelle lettere latine, gli cita il testo di San Paolo: Non abitate nel tempio degli idoli; poi grida: « E non sentite voi il gran Paolo che vi dice in altri termini: « Non leggete né i filosofi, né gli oratori, né i poeti pagani; non vi riposate in su lo studio delle loro opere. Non ci rassicuriamo pel motivo che non crediamo punto alle cose che leggiamo. Egli è un delitto il bere ad un tempo al calice di Gesù Cristo ed al calice dei demoni (Epist. ad Damas. De duobus filiis.) ». In altri termini, il paganesimo ed il Cristianesimo sono inconciliabili: l’uno si è il sensualismo, l’altro lo spiritualismo; l’uno predica tutto quello che l’altro condanna. Nulla esser vi può di comune tra Gesù Cristo e Belial (Id. ad Eustoch. Oc custodiend. virginit., opp. t. IV, Ep. xvm, p. 12.).« Io stesso ho voluto fare, dice altrove, questa pericolosa prova, ed ecco gli amari frutti che ne raccolsi. Da vari anni avevo lascialo la paterna casa, mi era privato della società dei miei parenti, di mia sorella e dei miei amici; e, ciò che è più difficile, avevo rinunciato all’uso dei cibi delicati; tutto questo per guadagnarmi il Cielo. Avendo l’intenzione di recarmi a Gerusalemme per combattere le battaglie del Signore, non potevo far senza la biblioteca che mi avevo composto in Roma con estrema cura e con pena infinita. Perciò, disgraziato ch’io sono! mi privavo di tutto, digiunavo per leggere Cicerone. Dopo le frequenti veglie delle mie notti, dopo abbondanti lacrime versate in ricordanza dei miei passati errori, prendevo Plauto tra mani. Se talvolta, ritornando in me, provavo a leggere i Profeti, il loro stile incolto mi faceva orrore: e siccome i miei occhi infermi non scorgevano la luce, io credeva che la colpa non fosse dei miei occhi, ma sì del sole. « Mentre ero per tal guisa lo zimbello dell’antico serpente, fui di repente rapito in spirito e trascinato al tribunale del Supremo Giudice. Tale era la purezza della luce che usciva dalla sua Persona, nonché dagli Angeli dai quali Egli era circondato, che io rimasi prostrato contro terra senza osare di alzare gli occhi. Interrogato sulla mia condizione, risposi che ero cristiano. « Tu mentisci, replicò il Giudice; tu sei ciceroniano, e non cristiano; poscia ché colà dove è il tuo tesoro, ivi pure è il tuo cuore. » A queste parole, io mi tacqui, e il Giudice ordinò fossi percosso, ed i colpi che riceveva mi erano meno crudeli dei rimorsi dai quali era la mia coscienza lacerata. Mi rammentai di questa parola del profeta: Chi potrà lodarvi nell’inferno? Tuttavia co- minciai a gridare e a dire singhiozzando: « Signore, abbiate pietà di me! » Finalmente coloro che attorniavano il tribunale gittaronsi ai piedi del Giudice e Gli chiesero grazia per la mia giovinezza, e tempo per fare penitenza del mio errore, dicendogli che mi sottometteva al supplizio se mai ritornassi alla lettura degli autori pagani. Io stesso, in quella estremità, faceva promesse ancora più grandi; giurai, invocando il nome di Dio, che se mai m’accadesse di conservare libri pagani, volevo esser tenuto quale un apostata.« Appena pronunciato questo giuramento sono rilasciato, e ritorno in me stesso. Con grande stupore di quei che mi attorniavano apro gli occhi talmente molli di pianto, che ciò solo bastava a provare agli increduli la violenza del dolore che avevo sofferto. Non fu già quello un sogno od un vano parossismo, come quelli che talvolta si provano. Ne prendo a testimonio quel tribunale innanzi cui ero prostrato, ne prendo a testimonio la formidabile sentenza che mi agghiacciò di spavento. Perciò non mi accadrà mai più di espormi a subire una simile tortura, in cui mi ebbi le spalle afflitte da colpi dei quali provai a lungo il dolore, e dopo la quale studiai le Sacre Scritture con altrettanto ardore quanto n’avevo impiegato a studiare prima le opere profane (“Nec vero sopor il le fuerat, aut vana somnia, quibus sæpe deludimur. Testis est tribunal illud, ante, quod jacui; testis iudicium triste, quod limui: ita mihi uunquam contingat in lalem incidere quaestionem , liventes habuisse scapulas, plagas sensisse post somnum, et tarilo dehinc studio divina legisse, quanto non ante mortalia legeram”. Ad Eustoch., De custod. virginit., cp. XVIII, opp. IV, p. 43. Prolegom, in Daniel., et ad Pammach.) ». – Il santo Dottore fu fedele al suo giuramento. Non solo non gli accadde più di leggere alcun autore pagano, ma ei temette eziandio di citarne i passi che gli ritornavano naturalmente alla memoria. A coloro che gli dicevano ciò che oggidì si ripete, cioè che senza la cognizione di quegli autori, non si potrebbe ben parlare né ben scrivere, ei rispondeva: « Quanto voi ammirate, ed io lo disprezzo; e lo disprezzo poiché gustai la follia di Gesù Cristo: e la follia di Gesù Cristo, sappiatelo bene, è più sapiente di tutta quanta l’umana sapienza ».

CAPITOLO IX

SEGUITO DEL PRECEDENTE .

Sentiamo ora Sant’Agostino. Verun Padre della Chiesa adoprò mai tanìa forza e perseveranza a combattere il deplorando uso dei classici pagani quanto codesto ammirabile Dottore, il cui cuore così bello come l’ingegno voleva ad ogni costo preservare i giovanetti da un pericolo in cui ei medesimo aveva trovato miseramente la propria perdita. Ei comincia con indicare il motivo pel quale i suoi parenti gli facevano studiare i pagani autori; è esattamente lo stesso motivo che è allegato oggidì. « Mi si diceva, ei scrive, è colà che s’impara il bel parlare; è colà che si attinge l’eloquenza sì necessaria per persuadere e per esporre vittoriosamente i l proprio pensiero (1Conf., lib V) ». Ora ci dimostra con un esempio non solo la frivolezza, ma eziandio il pericolo di simile motivo. « E che! dice, non conosceremmo noi queste parole pioggia d’oro, girone, belletto, se Terenzio non ci parlasse d’un giovine dissoluto che si proponeva lo stesso Giove per modello di un’infamia? No, non è coll’imparare siffatta turpitudine che noi impariamo tali parole, ma con tali parole s’impara a commettere con maggiore coraggio simile infamia ». – Quindi, pieno di dolore e di indignazione, grida: « Guai a te, torrente del costume! Chi arresterà i i tuoi guasti? Quando sarai tu disseccato? E sino a quando trascinerai tu i figliuoli di Eva in quel mare immenso, formidabile, che appena traversano i meglio armati? Non è forse questa bella scienza della fàvola quella che ci mostra un Giove tuonante e adultero? È una finzione! gridano tutti i maestri. Finzione sinché vi piacerà; ma questa finzione fa che i delitti non sono più delitti, e che commettendo simili infamie si ha aria d’imitare non già uomini perversi, ma gli Dei immortali. « Eppure, oh fiume infernale! Si è coll’esca delle ricompense che s’imbarcano i figliuoli degli uomini sulla corrente dei tuoi fiotti per fare imparar loro di tali cose! lo non accuso le parole che sono vasi preziosi ed innocenti, ma sibbene il vino dell’errore e del vizio che ivi ci era presentato da maestri ubriachi; e se noi non bevevamo, eravamo percossi senza che ci fosse stato permesso di richiamarcene ad un giudice sobrio…. e poiché io imparava di tali cose con piacere, chiamavanmi giovinetto di grandi speranze (Conf. Lib. I c. 16) ». – Virgilio stesso, il più casto dei poeti latini, fece profonde ferite alla sua anima. « Io imparai, dice, studiandolo, molte utili parole che avrei altrettanto bene imparato leggendo cose men vane; ma inoltre imparai le avventure di non so quale Enea, e dimenticai i miei propri errori. Imparai a compiangere Didone, che s’era uccisa per aver troppo amato; ed io stesso, trovando la morte nel leggere quelle colpevoli follie, non avevo per me alcuna lacrima negli occhi. Quale deplorabile induramento! Se si voleva privarmi di cosiffatta lettura, piangevo di non aver nulla a piangere; ed una tale demenza chiamavasi le belle lettere! (“Talis dementia honestiores et uberiores littere putantur. Ibid. ib. c. 13.) ». – E voi, o maestri, professori, reggenti, i quali, anche ai dì nostri fate un caso capitale dello studio di ciò che voi chiamate la bella latinità; i quali non temete punto di proporre qual modelli Orazio, Catullo, Terenzio, ben più pericolosi che Virgilio non è; i quali date nota di barbaro a quanto non reca il suggello del loro linguaggio, sentite come Sant’Agostino giudica la vostra condotta: « Mi si faceva tenere quale una cosa capitale, a cui ero forzato applicarmi colla speranza delle ricompense o col timore dei castighi, l’imparare le parole piene di dolore e di collera di Giunone, impossente ad impedire Enea di approdare in Italia. Eravamo obbligati a dire in prosa alcune delle cose che il poeta aveva detto in verso: ed il più applaudito era colui che meglio avesse finto la collera ed il dolore di quella Dea immaginaria. Guardate, o Signore, mio Dio, guardate quale importanza i figliuoli degli uomini danno a sillabe e a lettere, ed ei dimenticano i vostri precetti! Di tal che biasimano più volentieri colui che avrà mancato di emettere un’aspirazione nel pronunciare una parola, che non colui che non avrà temuto di infrangere la vostra legge. Ve egli a stupirsi che tutte queste vanità mi abbiano allontanalo da voi, o mio Dio? Poiché non si cessava di proporre alla mia imitazione uomini che non si tralasciava di coprire di ridicolo, se, nel riferire le azioni loro, d’altra parte irreprensibili, essi avevano la disgrazia di commettere un barbarismo od un solecismo; mentre essi erano colmati di lodi allorché avevano l’ingegno di raccontare le infamie loro in un idioma corretto ed elegante? (Ibid. c. XVIII) ». – Quali furono pel giovine Agostino i frutti di questa educazione, così perfettamente simile alla nostra? Quelli che esser dovevano, quelli che saranno sempre: il predominio del sensualismo, l’indebolimento dello spiritualismo; in altri termini, l’immoralità precoce e il disgusto delle cose di Dio. « Quando io fui più innanzi negli anni, dice ei medesimo, mi proponeva di leggere le Scritture affin di sapere che si fossero. Ma io non era capace di penetrarne il senso; il mio orgoglio non si voleva sottomettere alle loro lezioni. Lo stile, i pensieri, tutto mi sembrava indegno d’essere paragonato alla maestà di Cicerone. La gonfiezza del mio spirito non poteva affarsi al loro linguaggio; il mio occhio non penetrava la profondità dei loro pensieri. La sapienza che vi si fa sentire è quella che si compiace coi pusilli; ed io non voleva essere pusillo: ed ebbro di me stesso, mi credeva qualche cosa ben grande (lib. III, c. 5). – Non dimentichiamo, la Storia d’Agostino è più o meno la storia di tutti i giovani; la storia del suo cuore è la storia del cuore umano. Dovremo dunque stupirci se sentiamo un sì grand’uomo alzare la sua voce possente e gridare a tutti i secoli: « Istruire i giovinetti con libri pagani non è solamente un insegnar cose inutili, ma eziandio un toglierli al Cielo e sacrificarli al demonio. Che sono mai tutte queste cose, se non vento e fumo? Non v’ha dunque altro modo di coltivare lo spirito e di formarlo all’eloquenza? Le vostre lodi, o Signore, con tanta eloquenza cantate nelle Scritture, avrebbero innalzato, raffermato il mio debole cuore, e l’avrebbero trattenuto dal diventare preda degli augelli impuri. Ah! vi è più di un modo di sacrificare l’uomo ai demoni. È dunque così che ei conviene educare i giovani? Sono eglino questi i modelli che loro si debbono presentare? Così operando, voi non offrite già né augelli, né animali, e nemmeno sangue umano; ma, ciò che è ben più abominevole, si è l’innocenza della gioventù che voi immolate sugli altari di Satana (Ib., et Epist. Ad Nectarium.) ».Poi, ad un tratto, vedendo la triste condizione dei giovinetti, che sì crudelmente vengono rapiti a Dio, prende a piangere, e grida: « Voi vedete ciò, o Signore, e Voi vi tacete, Voi che siete pieno di longanimità, di misericordia e di verità. Ma tacerete voi sempre? Non ritrarrete voi da questi pozzi dello abisso anime che sono fatte per voi e che han sete del vostro amore? ». Aggiungiamo che uno dei più amari rimorsi di sì gran Santo quello si fu d’avere ei medesimo insegnato retorica conforme al metodo pagano, e d’aver corrotto così, materializzandolo, il cuore dei suoi discepoli.Per evitare le ripetizioni, io non ritornerò sul proposito delle autorità del medio-evo. Noi abbiamo veduto che durante cotale età la solenne proscrizione dei classici pagani era una legge generale e fedelmente osservata. Citerò solo la lettera di San Gregorio il Grande a Desiderio, vescovo di Vienna nel Delfinato. Dimenticando la proibizione fatta dall’immortale pontefice a tutti i vescovi d’insegnare ai giovani la pagana letteratura, Desiderio aveva infranto quell’ordine che a ragione riguardavasi come importantissimo. Gregorio, avendolo saputo, gli scrisse nei termini seguenti: « Ci fu fatto sapere (il che non possiam rammentarci senza arrossire) che Vostra Fraternità insegna la grammatica a taluno. Simile cosa ci cagionò tanto dolore ed eccitò nell’anima nostra un così profondo disgusto, che le buone notizie che avevam ricevuto di voi si sono mutate in gemito e in dolore; poiché le lodi di Giove non potrebbero trovarsi nella bocca stessa colle lodi di Gesù Cristo. Considerate quale delitto, quale mostruosità non è mai il rinvenire in vescovi ciò che non si addice nemmeno ad un laico religioso. Ora, sebbene il nostro carissimo figliuolo, il sacerdote Candido, sia qui venuto dopo che ci fu annunziata tale nuova, e quantunque essendo egli stato accuratamente interrogato, abbia negato il fatto, e cercato di scusarvi eziandio, noi continuiamo tuttavia ad essere inquieti; e quanto più ella è cosa orribile il narrare tali cose di un sacerdote, tanto più noi amiamo sapere di certa scienza se elleno sono vere o no. Se dunque ci sarà dimostrato che quanto ci fu riferito è falso, e che voi non sciupate il tempo nell’occuparvi di bagattelle e di lettere profane, noi renderemo grazie a Dio il quale non ha permesso che il cuor vostro fosse macchiato dalle lodi blasfematorie d’uomini indegni di questo nome (Epist., lib. XI, cp. 54, opp. t. III, p. 1171, edit. novis.) ». In questa sì energica lettera, è l’insegnamento degli autori pagani ai giovani, quale è dai Padri della Chiesa indicato, che è condannato? No, poiché San Gregorio stesso lo approva altrove e poiché esso era praticato, come vedemmo, nelle scuole del medio-evo. Ciò che è condannato si è l’insegnamento della letteratura pagana, dato da un vescovo e dato ai fanciulli; il che è inescusabile, soggiunge il Pontefice, anche in un laico sinceramente religioso, cioè che capisce e la santità del cristiano e l’influsso fatale degli studi pagani sovra anime senza esperienza.A questa lunga catena tradizionale aggiungiamo un ultimo e brillante anello. Verso la metà del sedicesimo secolo, nel momento in cui il paganesimo risuscitato nella educazione invadeva Europa, uno di quegli uomini sapienti, quali l’illustre Società di Gesù non cessò mai dal produrre, il Padre Possevino, tremante per lo avvenire, faceva sentire queste energiche parole: « Un antico ha détto: « l’educazione non è poca cosa, essa è tutto; essa è l’uomo, la società, la religione ». E questo ha detto in un libro in cui egli rivela alle nazioni il segreto di loro grandezza e di loro rovina (Non parum sed totum est, qua quisque disciplina imbiutar a puero. Arist. Politic.). Infatti, noi vediamo che gli Ebrei, sebbene abitanti in mezzo di Roma, sebbene per la loro stessa dispersione siano vivente prova dello adempimento delle profezie e delle minacce di Nostro Signore contro Gerusalemme e contro la Sinagoga; sebbene abbiano tutto dì sotto gli occhi gli archi di trionfo di Tito e di Vespasiano, monumenti eterni di loro rovina; sebbene siano convinti da ogni sorta di prova dell’abolizione della legge loro, non si convertono. E perché? Perché sino dalla fanciullezza essi hanno ricevuto col latte il veleno dell’errore. Lo stesso vediamo nei Turchi, quali tutti rimangonsi ostinati nella loro superstizione e nelle loro insostenibili credenze. Ancora, perché? Perché l’educazione ha, per dir così, ribadito loro nel capo le false opinioni dei padri loro. « Quale pensate voi dunque essere la cagion formidabile che oggi precipita gli uomini nello abisso del sensualismo, della ingiustizia, della bestemmia, dell’empietà, dell’ateismo? Si è, nonne dubitate, che sin dalla fanciullezza si insegnò loro di tutto, eccetto la religione; si è che nei collegi, semenzaio degli Stati, loro si fece leggere e studiare di tutto, eccetto gli autori cristiani. Se vi si parla di religione, codesto insegnamento va unito coll’insegnamento impuro del paganesimo, vera perdita dell’ anima. A che mai può servire, io vi chiedo, il versare in una vasta botte un bicchiere di vino puro, delizioso, ben fatto, ed il versarvi in egual tempo torrenti di aceto e di vino guasto? In altri termini, che significa egli un po’ di catechismo per settimana coll’insegnamento giornaliero delle impurità e delle empietà pagane? Ecco però quanto si fa nel secolo nostro da un capo d’Europa all’altro! « Volete voi salvare la vostra repubblica? Mettete senza ritardo la scure alla radice del male; esiliate dalle scuole vostre gli autori pagani, i quali, col vano pretesto di insegnare ai figliuoli vostri la bella lingua latina, insegnano loro la lingua dell’inferno. Li vedete! Appena usciti di fanciullezza essi si danno allo studio della medicina o delle leggi, od al commercio, e ben presto dimenticano il po’ di latino che hanno imparato. Ma non dimenticano già i fatti, le massime impure da loro lette nei profani autori e da essi imparate egregiamente. Così fatte rimembranze rimangono loro talmente scolpite nella memoria, che per tutta la loro vita amano meglio leggere, dire, sentire cose vane e disoneste che non cose utili ed oneste: somiglianti a stomachi infermi, essi tosto rigettano i salutiferi insegnamenti della parola di Dio ed i sermoni e le religiose esortazioni che più tardi loro sono indirizzate (Ragionamento del modo di conservare lo Stato e la libertà ai Lucchesi.) ». L’eloquente scrittore chiede indi che cosa bisogni sostituire agli autori pagani, e risponde che fa d’uopo ritornare all’antico uso dei classici cristiani, uso praticato nelle università e nelle scuole del medioevo; uso approvato, comandato da Dio stesso, dai Padri, dai Concili e da mille altre ragioni; uso che consiste nel porre tra mano ai giovinetti gli Atti dei martiri, le Vite dei santi, la Scrittura e i Padri; dopo di che, sotto la direzione di maestri illuminati e cristiani, potrà la gioventù non solo senza pericolo, ma ancora con profitto studiare gli autori profani e giudicar sanamente delle loro dottrine, paragonandole alle dottrine cristiane delle quali sarà stata nutrita. Per rendere pratici questi salutari consigli e per opporre un argine qualsiasi al torrente del male, un confratello del Padre Possevino, il venerabile Canisio, fece stampare le lettere di San Gerolamo, ad uso delle scuole. Bisogna dirlo; questa raccolta, adottata in un grandissimo numero di ginnasi e di collegi sì in Alemagna sì nel resto d’Europa, ritardò l’invasione del paganesimo.Che dirò ancora? La Chiesa stessa fece sentire la sua gran voce e vietò espressamente di porre tra mano a giovanetti i libri pagani. A questo nuvolo di testimonianze, facil cosa sarebbe aggiungerne altre molte. Quelle che hanno deposto sembra che bastino per darmi diritto di chiedere se v’ha nella storia un fatto meglio provato della riprovazione quindici volte secolare del paganesimo nella educazione; se non v’ha presunzione né imprudenza nel non far caso alcuno degli avvertimenti solenni della sapienza, del senno, dell’ esperienza e della virtù; se agli occhi dei Padri della Chiesa e dei Pontefici il paganesimo classico non è se non una semplice forma, una forma innocente, una forma la quale non ha alcun sinistro influsso sulla gioventù, e dalla gioventù sulla letteratura, sulle arti, sulla filosofia, sulle scienze, sulla religione, sulla famiglia, sulla società; in una parola, sull’universo procedere delle cose umane?