CANONIZZAZIONE (3)

 [LA C. PAPALE O UNIVERSALE]

b) Periodo secondo : fino a Sisto V. Gregorio X ordina l’inquisitio per il processo di s. Margherita d’Ungheria (18 genn. 1270) a tre prelati ungheresi. Nel 1271 il processo era chiuso, ma a Roma giudicato insufficiente (il processo è andato perduto); pertanto Innocenzo V commise a due italiani esperti della Curia di istituire un secondo processo (1276) con gli « interrogatoria » mandati da Roma. Il processo è conservato, ma non ebbe poi seguito. Soltanto recentemente (1943) Margherita è stata canonizzata equipollentemente da Pio XII (v. appresso c. equipollente). – Onorio IV poco prima della sua morte (3 apr. 1287) nel convento di S. Sabina a Roma, ricevuta la notizia della morte di Ambrogio Sansedoni, domenicano senese (20 marzo 1287), circondato da fama di santità e di miracoli straordinari, ordinò subito a quattro domenicani di recarsi a Siena per iniziare le dovute indagini. I commissari, sopravvenuta la morte del Papa, continuarono, pur senza forma di processo, a riunire il materiale in proposito. Ma tutto si fermò lì. Quando poi nel 1442-1443 Eugenio IV fu sollecitato di procedere alla c., promise di farlo a Roma. Intanto, il 16 apr. 1443, concesse alla provincia romana dei Domenicani di solennizzare la festa di Ambrogio « velut si sanctus esset canonizatus »: ma una c. formale non ebbe mai luogo. – Bonifacio VIII, nel luglio 1297, a Orvieto, canonizzò s. Luigi IX, re di Francia (25 ag. 1270). Questa c. ha un certo sapore politico, perché fatta dal Papa in seguito alla sua rappacificazione con Filippo IV, re di Francia. – Clemente V, il 5 maggio 1313, canonizzò, in Avignone, s. Pietro de Murrone, Celestino V papa (19 maggio 1296). – Giovanni XXII, il 7 apr. 1317, canonizzò s. Ludovico vescovo di Tolosa (19 ag. 1297); il 17 apr. 1320, s. Tommaso Canteloup, vescovo di Herford (3 ott. 1282); c., il 18 luglio 1323, s. Tommaso d’Aquino (7 marzo 1274), sempre in Avignone. – Clemente VI, ancora in Avignone, i l 26 giugno 1347, canonizzò s. Ivo Hélory (19 maggio 1303) e, il 19 sett. 1351, s. Roberto de Furlande, abate di Chaise-Dieu (17 apr. 1067). – Urbano V, il 15 apr. 1369, canonizzò, in Avignone, s. Elzeario de Sabran, conte di Ariano (27 sett. 1323). La bolla di c. fu pubblicata da Gregorio XI il 15 genn. 1371. Era l’ultima c. fuori Roma. – Sotto Gregorio XI è degno di nota il caso di Carlo di Blois, conte di Bretagna, caduto nella battaglia di Auray il 29 sett. 1364. Il processo di c. fu costruito regolarmente ad Angers nel 1374 e spedito ad Avignone. Il Papa, secondo la relazione dell’ambasciatore veneziano, già in procinto di partire per Roma, decise di far la solenne c. a Marsiglia il giorno precedente la sua partenza che realmente avvenne il 2 ott. 1376: ma nessuna fonte ci attesta l’avvenuta c. La c. di s. Caterina, figlia di s. Brigida, posta da diversi autori al 1378, sotto Urbano VI, manca di ogni fondamento storico; la sua festa, permessa da Sisto IV, fu fissata da Leone X, il 21 marzo 1512, al 25 giugno, « donec ad eius canonizationem deveniatur ». Alla stessa epoca era viva in Francia la fama del taumaturgo Pietro, conte di Lussemburgo (2 ag. 1387). L’antipapa Clemente VII (Roberto di Ginevra), che l’aveva creato cardinale vescovo di Metz, commise a tre cardinali una prima indagine e, nel Concistoro del 16 giugno 1389, Pietro d’Ailly, a nome di Carlo VI, ne perorò la causa. Nominata nuovamente una commissione di cardinali, nel 1390 fu costruito il processo in base a non meno di 280 articoli, ma, dati i tempi turbinosi, tutto si fermò lì. Nel 1433 Eugenio IV riprese la causa, e il Concilio di Basilea nel 1435 istituì una nuova commissione, ma ancora una volta senza esito. Finalmente papa Clemente VII, il 7 apr. 1527, dopo iterate istanze, emanò una bolla in cui permise che il predetto Pietro e Luigi Aleman potessero esser venerati come « .. donec… ad canonizationem deventum fuerit ». Ma la c. non fu mai fatta. – Bonifacio IX, il 7 ott. 1391, canonizzò s. Brigida (23 luglio 1373), nella cappella del palazzo Vaticano, e il giorno seguente, domenica, ne celebrò la Messa solenne. – Martino V canonizzò, il 26 marzo 1425, s. Sebaldo eremita (19 ag., sec. VII o VIII). Egli ordinò anche l’inquisizione per Edvige, regina di Polonia (17 luglio 1399); nel 1426 Alberto Jastrzembiec, arcivescovo di Gnesna, nella sua qualità di visitatore apostolico del regno di Polonia, istituì di nuovo una sottocommissione per raccogliere testimonianze sulla regina; nel 1450 il cancelliere regio Giovanni Dlugos notò rassegnato che non c’era più speranza per la causa. – Eugenio IV celebrò, il 1 febbr. 1447, la c. di s. Nicola da Tolentino (10 sett. 1306), e, poiché il novello Santo apparteneva all’Ordine degli Eremiti agostiniani, terminata la funzione in s. Pietro, il Papa si recò in grandiosa processione alla chiesa di s. Agostino per celebrarvi la Messa. – Niccolò V, il 24 maggio 1450, canonizzò s. Bernardino dagli Albizeschi, da Siena (20 maggio 1444). – Callisto III, il 1 genn. del 1456, canonizzò s. Osmundo, vescovo di Salisbury (4 dic. 1099); il 29 giugno 1456 s. Vincenzo Ferreri (5 apr. 1419). La pubblicazione della bolla avvenne, sotto Pio II, il 1 ott. 1458. Il 15 ott. 1457 canonizzò s. Alberto da Trapani, carmelitano (7 ag. i307); la pubblicazione della bolla fu fatta da Sisto IV, il 31 maggio 1476. Pio II, il 29 giugno 1461, canonizzò s. Caterina Benincasa, da Siena (29 apr. 1380). – Paolo II nel 1466 ordinò il processo per s. Emma di Gurk (29 luglio 1045). In una lettera all’imperatore Federico III (1467) affermò che intendeva procedere alla c., ma solo nel 1938 si ebbe l’approvazione del culto col titolo di « santa ». Paolo II intervenne anche nella causa di s. Andrea Corsini (6 genn. 1373), caso quanto mai interessante per la storia della c. Andrea fu subito venerato a Firenze, e a lui si attribuì, nella guerra di Firenze contro Milano del 1440, la salvezza della città. Nell’anniversario della liberazione si espose solennemente il corpo. Il Papa visitò il suo sepolcro e acconsentì senz’altro a tutte le manifestazioni di venerazione ormai regolari. Paolo II finalmente, ad istanza di Firenze, formò la commissione di tre cardinali, allora necessaria per iniziare il processo di c. La causa fu ripresa sotto Clemente VIII e Paolo V, ma soltanto sotto Urbano VIII, nel 1629, si poté procedere alla formale c. Si vedrà come Urbano VIII stroncò una volta per sempre certe affermazioni di culto che certo apparivano non del tutto scevre di inconvenienti. – Sisto IV. E da notare il caso particolare dei protomartiri francescani del Marocco, Bernardo, Pietro, Ottone, Accursio e Adiuto (16 genn. 1220). Il Papa aveva concesso « vivæ vocis oraculo » di celebrarne la festa nelle chiese dell’Ordine francescano; ma levatesi varie opposizioni, il Papa emanò un breve i l7 ag. 1481, nel quale dichiarò espressamente che i frati Minori « ubicumque et solemniter ac publice » potevano celebrare questa festa. Questa concessione rientra quindi perfettamente nelle concessioni papali di un culto limitato, ma con tutte le prerogative di un culto di santi canonizzati: una c. « minore », se si vuole, ma sempre una c. Il 14 maggio 1482 canonizzò s. Bonaventura (14 luglio 1274). – Innocenzo VIII canonizzò solennemente, i l6 genn. 1485, s. Leopoldo III, duca d’Austria, della famiglia dei Babenberg (15 nov. 1136). – A Giulio II (1508) si ascrive un caso simile a quello di Sisto IV, per i martiri camaldolesi Benedetto, Giovanni, Matteo, Isacco e Cristiano (10 nov. 1003, presso Poznan). Però la notizia è una invenzione del sec. XVII. Il 15 dic. 1512 egli approvò il culto da secoli prestato a Notgero di S. Gallo, detto il Balbo, (6 apr. 912) per il monasterò di S. Gallo e per la diocesi di Costanza, con la clausola però « quod… propterea canonizatus aut alias approbatus non censeatur », dunque esclude positivamente l’effetto di una c. formale, a differenza di simili concessioni precedenti già ricordate. La c. formale già talmente radicata come atto supremo del Papa, che bisognava prevenire possibili malintesi derivanti da concessioni di grado minore. – Leone X, il 1 maggio 1519, canonizzò s. Francesco di Paola (2 apr. 1507) e, nel 1521, s. Casimiro, figlio di Casimiro IV il Grande, re di Polonia (4 marzo 1484). – Adriano VI, il 31 maggio 1523, canonizzò, primo caso di questo genere, in un’unica c. due santi insieme: s. Antonino, arcivescovo di Firenze (2 maggio 1459) e s. Bennone, vescovo di Meissen (16 giugno 1105 o 1107); la bolla però fu promulgata da Clemente VII il 26 nov. 1523. – Paolo III nel 1537 commise al nunzio di Sicilia di istituire il processo di c. di Guglielmo Cuffitella, eremita a Scicli (4 apr. 1411). Esaminatolo, il 26 febbr. 1538, il Papa permise per il momento il culto già esistente, ma con la clausola : « quod dictus Guglielmus, propter præmissa, canonizatus non censeatur»; la c. formale, non venne mai. Questi e simili casi sono i primi indizi di quella che in seguito doveva essere la beatificazione. – Sisto V canonizzò, il 2 luglio 1588, s. Diego da Alcalà (13 nov. 1463) ed è l’ultima c. secondo lo stile antico. La Congregazione dei Riti, istituita appena da qualche mese, non poté infatti intervenirvi in alcun modo. Durante il secondo periodo delle c. papali, si constata subito una decisa e completa affermazione di tali c. come unica forma legittima per la costituzione di un culto universale. Ma tuttavia, anche se nelle bolle pontificie generalmente la festa del nuovo santo viene prescritta in termini categorici, in realtà poche di quelle feste sono entrate nell’uso venerale della Chiesa; i culti rimasero circoscritti, de facto, a territori più o meno limitati. Qualche volta invece anche nelle stesse bolle papali tale limitazione viene espressamente stabilita, senza per questo derogare alla qualità di « santi » dei relativi canonizzati. Qualche volta però l’intervento papale è avvenuto, con espressa esclusione dell’effetto completo della c.; sono i primi indizi della futura beatificazione formale distinta dalla c. – La procedura e il rito della c. in questo periodo ci è noto in primo luogo attraverso alcune precise descrizioni. G. Gaetani Stefaneschi, nipote di Bonifacio VIII, cardinale nel 1295, m. nel 1341, lasciò una relazione sulla c. di s. Celestino V e di s. Tommaso Canteloup, in prosa; una seconda su s. Celestino, in versi, e una terza su s. Luigi di Tolosa, inserita nell’Ordo Romanus XIV (capp. 111 e 115). – Nella procedura canonica appare una novità che però in seguito non fu mantenuta, cioè tutta una serie di concistori per lo studio del processo, e la scelta di 7 o 8 prelati della Curia incaricati di esporre, il giorno della c., il contenuto del processo in forma di predica al popolo. Interessante la notizia che il Papa, nell’ultimo concistoro, nominava due cardinali, generalmente religiosi, con incarico di preparare i testi liturgici, uno le lezioni, l’altro le antifone, i responsori e l’Oremus. Appare poi un personaggio nuovo: il procuratore della causa della c., ordinariamente l’ambasciatore di uno Stato cattolico. Questi dovrà domandare al Papa a volersi degnare di ascoltare i prelati che peroreranno la causa del canonizzando; seguono le prediche dei 7 o 8 prelati al popolo; il Papa, dopo il canto del Confiteor, dà l’assoluzione e pubblica l’indulgenza. In un secondo tempo poi, in chiesa, il Papa stesso tiene il sermone e chiede che si preghi. Intonato il Veni Creator, si continua, dopo il canto, a pregare in silenzio; poi il Papa pronunzia la formula della c., canta il Te Deum, con l’Oremus del nuovo santo. Segue il Confiteor, con l’indulgenza di 7 anni e 7 quarantene, e la Messa solenne. – Ca. cento anni dopo lo Stefaneschi, il patriarca di Grado, Pietro Amely (Petrus Amelii; m. nel 1403), nel 1395 stese una relazione sulla c. di s. Brigida, inserita nell’Ordo Romanus XV (cap. 153). Da questa relazione si conoscono altre novità introdotte: dopo la proclamazione della c., i procuratori chiedono al Papa di rogare il pubblico istrumento dell’atto. Mentre si canta il Te Deum, vengono distribuite torce di peso diverso, secondo il grado della persona cui sono destinate, e si fa una grandiosa processione verso il palazzo Vaticano. Nella cappella si chiude la funzione con l’Oremus e l’indulgenza. Finalmente, durante la Messa, un’altra novità, la quale costituisce ancora oggi per il pubblico una delle più curiose attrattive della c. Dopo il Vangelo i tre cardinali commissari della causa escono dalla sacrestia di S. Pietro con le oblazioni: il primo porta due grandi torce dorate, il secondo due pani, coperti con panni recanti gli stemmi dei tre cardinali e di s. Brigida, il terzo due barilotti dorati, pieni di vino e con gli stessi stemmi. Seguono cinque procuratori e l’avvocato della causa, e ciascuno offre un canestrello verde con due colombe bianche e due tortore. Nel caso di s. Brigida, il Papa, per riguardo alla Santa tanto venerata, concesse l’indulgenza in forma di giubileo, cioè un’indulgenza plenaria. Importante la notizia dell’Amely che la causa ebbe tre cardinali commissari; da altre fonti successive sappiamo che essi furono scelti dai tre ordini: dei vescovi, preti e diaconi. I cardinali commissari, alla loro volta, avevano nominato sottocommissari (vescovi, abati o altri dignitari) con le facoltà necessarie per la costruzione del processo apostolico. Durante il sec. xv, l’esame dei processi di c., la rubricazione ecc., passò agli uditori di Rota, nominati sin dai tempi di Innocenzo III, per lo studio e la trattazione di certe cause. Dopo Bonifacio VIII gli uditori che formano già un collegio ben determinato, furono incaricati di esaminare i processi di c. Nella c. di s. Bonaventura appare per la prima volta la notizia del canto delle litanie dei santi. Per la c. di s. Francesco di Paola il noto cerimoniere pontificio Paris de Grassis rivide tutto il cerimoniale, nelle forme ormai tradizionali, rimasto in uso, nelle grandi linee, fino ad oggi.

c) Periodo terzo. – Evoluzione della procedura e della trattazione delle cause da parte della S. Congregazione dei Riti. Nel generale riordinamento della Curia voluto da Sisto V nel 1588, con il quale furono istituite 15 Congregazioni cardinalizie, la S. Congregazione dei Riti occupa il quinto posto. A questa il Papa affidò, fra l’altro, anche il compito: « diligentem quoque curam adhibeant cardinales circa sanctorum canonizationem ». Con questa semplice frase, venne affidato ufficialmente e stabilmente alla nuova Congregazione tutta la preparazione delle cause dei santi fino alla loro piena maturazione, quando cioè potevano essere presentate al Papa nei soliti concistori, per l’ultimo esame formale. Fino a questo momento lo studio immediato dei processi inviati nell’Urbe era stato affidato agli uditori di Rota; però gli uditori non funzionarono, nelle cause dei santi, come collegio, ma isolatamente. Un organo permanente, che sorvegliasse e accompagnasse ogni causa attraverso le varie fasi fino al termine, mancava. Accadde non di rado che un processo, portato in Curia e deposto nella casa di uno dei tre soliti cardinali commissari, per la morte di uno, andasse smarrito. Anche i processi venivano costruiti con criteri molto disparati. Ora, Sisto V, affidando tutta la materia della c. alla nuova Congregazione dei Riti, gettò le fondamenta per la formazione definitiva di quella procedura che gode giustamente in tutto il mondo la meritata fama. Era troppo evidente che agli inizi la Congregazione avesse bisogno di trovare la giusta strada, di raccogliere esperienze, di formarsi una prassi stabile, di trovare soluzioni, norme, applicazioni generiche in tanta varietà di materia. Questo periodo di orientamento e di stabilizzazione durò dal 1588 fino a tutto il pontificato di Urbano VIII (1623 – 44). Spetta a lui il merito di aver indirizzata la procedura canonica della c. a quella austerità e sicurezza che vige ancora. Nel 1642 egli fece pubblicare in un volumetto di 63 pagine tutti i decreti e i successivi schiarimenti emanati durante il suo lungo governo in materia di c.; porta il titolo: Urbani VIII O. M. Decreta servando in canonizatione et beatificatone sanctorum. Accedunt Instructiones declarationes quas Emi et Rmi S. R. E. Cardinal præsulesque romanæ Curiæ ad id muneris congregate ex eiusdem Summi Pontificis mandato condiderunt. – Si apre con due decreti della S. Inquisizione (13 marzo e 2 ott. 1625), fondamentali in materia di culto. Fino a quel momento erano nati continuamente nuovi culti. I grandi santi della Riforma cattolica, come s. Ignazio, s. Filippo Neri, s. Francesco Saverio, s. Teresa, suscitarono quasi subito una spontanea venerazione popolare che presto si trasformò in vero culto, anzi molto esteso, prima che la Chiesa si fosse pronunziata in merito alla loro santità. Urbano VIII vietò d’un colpo ogni culto ecclesiastico nuovo; anzi, d’allora in poi l’esistenza di un tale culto recente doveva costituire un impedimento alla procedura canonica. Così non pochi culti più o meno recenti furono allora troncati, altri si spensero da sé. Con ciò cessò qualunque spinta indisciplinata e pericolosa verso la c. Per simili ragioni gli stessi decreti vietarono la pubblicazione di libri o scritti sulla vita, sui miracoli, sul martirio, su rivelazioni ecc. di persone, morte in concetto di santità, senza previa approvazione ecclesiastica e senza debite proteste dell’autore di non voler in alcun modo prevenire il giudizio della Chiesa in questa materia. Per la stessa ragione fu vietato anche di porre alle sepolture di tali persone qualsiasi segno di culto religioso. In un supplemento ai sopraddetti decreti, fu permesso solo di accettare e di conservare, ma in luogo appartato e segreto, gli « ex-voto », affinché servissero, eventualmente, come attestato di fama di santità e di miracoli in una futura trattazione della causa. Considerato però il fatto che un culto già esistente poteva avere anche le sue ragioni giuridiche, fu stabilito che culti formati « per communem Ecclesiæ consensum, vel immemorabilis temporis scientia, ac tolerantia Sedis Apostolicæ, vel Ordinami », non venissero pregiudicati. Segue il celebre breve Cælestis Hierusalem cives (5 luglio 1634), nel quale si inculcano le prescrizioni dell’Inquisizione dell’anno 1625, aggiungendo poi ulteriori norme molto incisive per la procedura canonica della c.Anzitutto vengono proibite informazioni private sulla vita, virtù, miracoli o martirio di un servo di Dio, raccolte da qualsiasi autorità, per servire ad una futura c.Invece per prima cosa doveva esserci un processo canonico particolare sull’obbedienza prestata ai decreti urbaniani del non cultu; per culti formati legittimamente, come sopra fu detto, viene introdotto invece come normale lo spazio di 100 anni prima dell’anno 1634. Ogni interpretazione dei decreti urbaniani è riservata alla Santa Sede. Seguono le formule per le varie proteste degli autori, di cui sopra; si stabilisce, in conseguenza ai decreti stessi, una duplice via canonica di c., per viam cultus e per viam non cultus; l’ultima è d’ora in poi la via ordinaria, l’altra la via di eccezione: casus exceptus [a decretis urbanianis], distinzione basilare che vige ancor oggi. Urbano VIII stabilisce poi anche l’ordine progressivo degli atti fondamentali. Tre volte l’anno (genn. maggio, sett.) si terranno Congregazioni « coram Sanctissimo » (l’odierna Congregazione generale), in presenza dei cardinali dei Riti, del protonotario della Congregazione, del sacrista del Papa, del promotore della Fede, del segretario, degli uditori di Rota di turno per le cause in discussione. Quindici giorni prima delle Congregazioni papali si terranno Congregazioni particolari (le odierne Congregazioni preparatorie) nella casa del cardinale più anziano, per preparare la materia per la Congregazione papale; il cardinal proponente dovrà riferire sul merito della causa. La Congregazione papale tratterà la validità dei processi, le virtù e i miracoli. Nel caso che una Congregazione generale non bastasse ad esaurire l’argomento stabilito, si continuerà nelle susseguenti Congregazioni ordinarie e si riferirà al Papa. Le Congregazioni ordinarie invece saranno competenti, nelle cause dei santi, in tutto ciò che si riferisce all’ubbidienza ai decreti urbaniani, all’apertura dei processi, la deputazione, surrogazione ecc. dei giudici e cose simili, a patto che tutto venga riferito al Papa. Viene poi imposto il segreto di ufficio (p. 24) con le varie formule del relativo giuramento. Un altro punto che causò molti ritardi e non fu sempre ben interpretato, fu la prescrizione di Urbano VIII secondo cui (p. 27) non si poteva in alcun modo procedere « ad effectum canonizationis seu beatificationis, aut declarationis martyrii, nisi lapsis 50 annis ab obitu illius »; e anche dopo i 50 anni soltanto con un espresso permesso del Papa. Si permetteva però la costruzione dei processi ordinari, sia di quelli « in genere », come di quelli « in specie, ne pereant testes », anche prima del cinquantennio, ma i detti processi dovevano essere sigillati e conservati chiusi. Misura questa molto severa, ma sapientissima; la fama di santità, nata attorno ad un personaggio morto da poco, doveva subire, per dire così, la prova della sua consistenza reale. Nelle pp. 28-56 viene rapidamente descritta la procedura canonica relativa alle cause: lettere postulatorie da parte di prìncipi e personalità cospicue come base, la « signatura Commissionis » e la formula del relativo decreto; il giudizio sopra l’ubbidienza ai decreti urbaniani circa il non cultu, la concessione delle « litteræ remissioriales » per la formazione del processo ordinario « in genere » e la formula delle remissioriali; dopo un sommario giudizio, fatto « coram Sanctissimo », si concedono nuove lettere remissioriali per il processo ordinario « in specie ». Qualora capitasse di istruirlo nella stessa Roma, dovrà essere a ciò delegato il cardinal vicario, il quale, a sua volta, deputerà un dignitario dimorante in Roma, aiutato dal protonotario della Congregazione dei Riti, uso ancora in vigore. Agli uditori, il Papa raccomanda soprattutto di bene indagare sulla morte del servo di Dio e le sue circostanze, sull’origine della fama di santità, e circa eventuali scritti lasciati da lui, i quali, nel caso, devono essere raccolti ed esaminati per vedere se contengano nulla che possa ostacolare la causa. Da qui nacque la procedura particolare ancora vigente intorno agli scritti dei servi di Dio, altro punto molto importante che richiedeva una sistemazione. Finalmente viene stabilito che, dopo tutti gli esami dei processi, e dopo lo studio di tutta la procedura percorsa da una causa, prima di procedere alla c., si debba tenere una Congregazione particolare davanti al Papa, per deliberare, tutto valutato e considerato, « an sit procedendum ad canonizationem » ; è la Congregazione che oggi si chiama « super tuto ». – Le ultime pagine del libretto urbaniano contengono i testi di lettere circolari ai nunzi, patriarchi, arcivescovi, vescovi, prelati minori ecc. con un formale rinnovato divieto di assumere, nelle cause dei santi, informazioni private, extragiuridiche. Si ordina poi che gli originali dei processi si conservino sigillati nelle relative curie, mentre a Roma si devono inviare copie autenticate, il « transumptum ». Finalmente il Papa dichiara che, quando la S. Sede ha posta la mano ad una causa, essa è sottratta ad ogni ingerenza degli Ordinari qualora non ricevano una particolare autorizzazione da parte della Congregazione. Chiude il libro una serie di minute prescrizioni per gli uditori, il promotore della Fede, gli avvocati, ecc. – Questa raccolta del 1642 costituisce la «magna charta » in materia di c. , perfezionata in seguito in vari punti; nella sostanza però è ancor oggi il fondamento della procedura canonica della c.. – Dopo l’unica c. celebrata da Urbano VIII nel 1625, in seguito alle severe norme da lui emanate, si ebbe una stasi fino a Alessandro VII (1658); bisognava adattare la prassi alle norme e mettere tutta la procedura in nuova e più organica efficienza. A ciò servirono varie ulteriori prescrizioni delle quali presentiamo soltanto le più importanti. Fino a Innocenzo X (successore di Urbano VIII), i processi furono consegnati agli uditori di Rota che li studiarono « in casa »; ma ormai la Congregazione dei Riti prese nelle proprie mani il detto esame, soprattutto attraverso l’ufficio del promotore della Fede e del sottopromotore. Dal tempo di Alessandro VIII la serie delle « Congregationes » si è completata con una « Congregatio ante præparatoria »; le prime annotate nei protocolli della Congregazione dei Riti sono del 1691, sia per le virtù, come per i miracoli. D’ora innanzi si avrà quindi: 1° Congr. antepraep., in presenza dei consultori e dei prelati della Congregazione dei Riti, nella casa del cardinal ponente, allo scopo di procurargli la necessaria conoscenza della causa stessa; 2° la Congr. praepar., in Vaticano (allora anche al Quirinale), in presenza di tutti i cardinali della Congregazione dei Riti, dei consultori e prelati, per l’informazione dei cardinali; e, finalmente, 3° la Congr. generalis, in presenza del Papa, per informarlo sul merito della causa. Queste tre Congregazioni hanno luogo sia per la discussione delle virtù o martirio, come dei miracoli, e tale serie si chiude con un’ultima Congregazione generale, « super tuto », che apre la via o alla beatificazione, o alla c., secondo il grado dell’avanzamento della causa stessa. Con ciò i consultori della Congregazione furono posti sempre più in vista. Essi, insieme al promotore e sottopromotore della Fede, in una gara vicendevole di esami e di discussioni intorno ai punti deboli delle cause, esposti appunto dal promotore, specie di procuratore o pubblico ministero per garantire da parte della « Fede », ossia della Chiesa, l’incolumità del diritto e degli interessi morali e dottrinali, portarono la causa, mediante una continua e progressiva chiarificazione, allo stadio di perfetta maturazione per la definitiva sentenza della c. In seguito alla prassi introdotta da Urbano VIII, ed entro il suo secolo, si creò la piena separazione fra beatificazione e c.. Alessandro VII (2 ott. 1655) prescrisse che nelle lettere remissoriali, rilasciate agli Ordinari, fosse espresso un preciso termine di validità, oltrepassato il quale sarebbe stata necessaria una rinnovazione esplicita del mandato. Innocenzo XI (15 ott. 1675) emanò una serie di nuovi decreti, dopo lunga preparazione (Decreta novissima… servando in causis beatificationis et canonizationis sanctorum) con non pochi perfezionamenti. Va citata, fra l’altro, l’istituzione, nei processi, di « testes ex officio », da scegliersi dai giudici, indipendentemente dai postulatori, per garantire meglio la veracità delle cose. Furono introdotte severe misure per garantire l’assoluta segretezza degli interrogatòri, con chiusura e sigillo dopo ogni seduta, e con rinnovato giuramento in ogni apertura. Notevole l’introduzione di uno spazio di 10 anni fra la consegna di un processo alla Congregazione e la segnatura della Commissione, ulteriore inasprimento del cinquantennio urbaniano. – Seguono particolareggiate norme per le incombenze specifiche del sottopromotore, e prescrizioni circa gli avvocati delle cause. Lo stesso Innocenzo XI, con un decreto del 18 apr. 1682, diede anche una nuova e più chiara fisionomia alla segnatura della Commissione. Ormai l’originaria idea si era completamente trasformata. D’ora in poi la detta segnatura avrà per ragione il passaggio di una causa dalle mani dell’Ordinario alla S. Sede, e ciò in seguito ad un giudizio preliminare circa la fama di santità in generale, circa i miracoli o il fatto del martirio, per stabilire se la causa merita di essere presa in considerazione dalla Sede Apostolica. Pertanto questo atto prese il nuovo termine di Introductio causæ e fu giuridicamente fissato mediante un apposito decreto. Da questa determinazione invalse l’uso di conferire alle persone, di cui la causa era stata introdotta, il titolo onorifico di « venerabilis ». Però nel 1913 (26 ag.) Pio X, per ragioni di maggiore sicurezza, stabilì che tale titolo in futuro sarebbe riservato solo ai servi di Dio di cui era stata dichiarata l’eroicità delle virtù o il martirio: determinazione che entrò poi anche di diritto nel CIC. – Clemente XII (11 maggio 1733) represse vari e non indifferenti abusi e interferenze, determinò la incompatibilità fra gli incarichi di consultori, avvocati, postulatori ecc. ed escluse i consultori religiosi dalla votazione in una causa di un religioso della propria Congregazione. – Benedetto XIV (23 apr. 1741), in seguito soprattutto alla causa di Giovanna Francesca di Chantal, causa che si basò non tanto sopra testi oculari, ma sopra testi di informazione di seconda mano, e sopra documenti storici, stabilì che in tali cause, si esigessero non due, come ormai era di regola, ma tre o anche quattro miracoli, prima di poter procedere alla beatificazione, ordinanza che passò anche nel CIC. In questo stesso spazio di tempo, fra Urbano VIII e Benedetto XIV, si era venuto anche a determinare con maggiore precisione un elemento fondamentale per il giudizio sulla santità di una persona, il concetto cioè della « virtù eroica ». Certamente, anche nel medioevo si richiedeva, come attestano le bolle di c. di quell’epoca e le opere dei canonisti, una « excellentia virtutum », una « multiplex excellentia vitæ ». Ma mancava, per così dire, una specie di misura della santità, conforme alle possibilità umane di misurare cose soprannaturali. Tale misura fu trovata appunto nel concetto dell’eroicità delle virtù che proveniva dall’etica aristotelica; la letteratura ascetico-mistica e teologica l’aveva applicate alle virtù cristiane, il Collegio dei Salmanticensi in supplica a Clemente VIII per la c. di Teresa del Gesù ( 2 febbr. 1602) introdusse la prima volta il concetto dell’eroicità delle virtù nelle cause dei santi. – Anche gli uditori della Rota incominciarono (verso il 1614-16) a seguire questa idea nelle loro relazioni e la riassumono senz’altro, nella forma, rimasta classica: « itaque ad hunc effectum (cioè: per virtutes heroicæ in canonizandis requiruntur ». Urbano VIII nei suoi molteplici decreti non usa questo termine, invece ne parla nelle lettere apostoliche per la concessione, « ad interim », del titolo di beato a Gaetano da Thiene (1629) e a Giovanni di Dio (1630). L’eroicità delle virtù infatti non è altro che uno stato di perfezione o di santità che permette all’uomo che la possiede una certa facilità permanente di porre atti di virtù in grado superiore, e in forme abituale e normale. Ciò presuppone una completa trasformazione dell’interno dell’anima, la restaurazione, per quanto possibile, dell’uomo allo stato d’innocenza, sotto l’influsso dei doni dello Spirito Santo. – Ora, a noi non è dato fare una diretta introspezione nelle anime, ma possiamo dedurne, dagli atti esterni, lo stato interno. Qui sta il fondamento pratico, concreto del giudizio sull’eroicità delle virtù: i testimoni interrogati nei processi forniscono il materiale, cioè il racconto di una quantità di fatti ed episodi della vita del servo di Dio, il confronto dei quali permette una conclusione valida circa il movente interno da cui essi scaturiscono. Per queste ragioni l’idea dell’eroicità delle virtù entrò rapidamente nella trattazione delle cause di c. e tutta l’indagine svolta attraverso le tre ormai rituali adunanze, antepreparatoria, preparatoria e generale, converge ad appurare l’esistenza, nel soggetto, della virtù « in gradu heroico ». Nella stessa seconda meta del sec. XVII, anche la discussione ed elaborazioni teologica di questo concetto raggiunge l’apice: il trattato di Brancati da Lauria De virtute heroica (1668) è rimasto classico; il Lappi (1671) ne dedusse le conseguenze per le cause dei santi, e Benedetto XIV, nella sua opera monumentale sulla c., riunì tutti gli elementi opportuni sull’argomento in modo definitivo. Da questa evoluzione deriva anche il fatto che la conclusione giuridica, dopo la discussione sull’eroicità delle virtù, acquistò rapidamente un valore superiore; essa costituisce, infatti, un vero giudizio formale del Sommo Pontefice sulla realtà delle virtù eroiche nel soggetto, di cui si propone la causa, ed apre la via alla glorificazione suprema, quando viene appoggiata da miracoli, operati da Dio ad intercessione del servo di Dio. – In un primo tempo, dopo la discussione sulle virtù di un servo di Dio, quando il giudizio fosse stato favorevole e quando il Papa avesse dato il suo consenso, la cosa si notava semplicemente fra gli atti della Congregazione dei Riti; ma ben presto la decisione pontificia su questo punto si presentò in tutta la sua importanza fondamentale per una causa: quindi intorno ad essa si sviluppò un certo cerimoniale. – All’epoca di Clemente XI (1700-21) era già di uso che il Papa differisse alquanto la sua decisione, e solo dopo un certo intervallo di preghiera e di riflessione, in una prossima occasione festiva, aprisse la sua « mente » in presenza del segretario e del promotore generale della Fede, a ciò chiamati, e ordinasse la pubblicazione fra gli atti. Benedetto XIV qualche volta ne dettò personalmente il testo « verbum ad verbum ». La tipografia camerale ne curava poi la stampa e il testo veniva affisso alle porte delle chiese di Roma. Dopo il 1760 il testo di questi decreti divenne meno formalistico, e prese un tono più solenne, iniziandosi spesso con una citazione biblica. La lettura di questi decreti fu resa ancor più solenne, in quanto il Papa li fece leggere in pubblico, dopo una cappella papale o una visita pontificia in una delle chiese di Roma. Dal 1870 in poi la lettura si fece generalmente nella sala del Concistoro, in presenza di uno stuolo di invitati e di rappresentanze degli interessati alla causa; in queste occasioni il Papa soleva anche pronunziare un discorso. Celebri quelli di Pio XI. Ma dopo la sua malattia (1938) quest’uso cessò e non fu più ripreso e ora la lettura ha luogo in forma privata, in presenza del cardinal ponente, del segretario, del promotore generale e del postulatore della causa. Da notare che anche i decreti sull’introduzione della causa, sui miracoli e sopra il « Tuto » solevansi (almeno dopo il 1800) leggere con simili solennità. Ma attualmente anche questi decreti vengono pubblicati in forma privata. – Fra i vari decreti più recenti circa le cause di beatificazione e di c. rammentiamo solo quello di Pio X (26 ag. 1913: AAS, 5 [1913], pp. 436- 38) , con il quale restrinse l’uso del titolo venerabile ai servi di Dio, dei quali è stata riconosciuta la eroicità delle virtù o il fatto del martirio; prescrisse, nelle cause recenti, che venissero uditi nei processi anche tutti i testimoni contrari, “poena nullitatis”; e stabilì finalmente sagge norme per garantire meglio, nelle cause antiche, la raccolta e la disanima dei documenti. Finalmente con il motu proprio « Già da qualche tempo », Pio XI, in data 6 febbr. 1930, istituì, nella Congregazione dei Riti, la Sezione storica, organo stabile, incaricato di tutto ciò che concerne la preparazione delle cause antiche, e, comunque, di tutto ciò che ha attinenza alla storia e alla critica storica in rapporto agli affari da trattarsi nella Congregazione (revisione di lezioni storiche, revisione di libri liturgici, e simili). In tutto questo periodo il luogo dì celebrazione delle c. è la basilica Vaticana; tale uso è invalso sin dal ritorno dei papi da Avignone. Bonifacio IX, a causa di una sua indisposizione, celebrò la c. di s. Brigida nella cappella interna del palazzo pontificio vaticano, però il giorno seguente scese alla basilica Vaticana per la Messa solenne. Alessandro VII, quando prescrisse la solenne beatificazione, come atto conclusivo della prima fase verso la c., la volle in S. Pietro: « ut ibi fieret beatificatio, ubi fit canonizatio ». Benedetto XIII, quando consacrò solennemente la basilica del Laterano (1729), per risparmiare le spese, essendo la basilica magnificamente addobbata, vi celebrò la c. di s. Giovanni Nepomuceno e la beatificazione di s. Fedele da Sigmaringa (19 e 24 marzo). Anche Clemente XII, grande mecenate della detta basilica, vi celebrò l’unica c. del suo pontificato (1736) e la beatificazione di s. Giuseppe da Leonessa. – Benedetto XIV (13 dic. 1741) emanò una costituzione, nella quale stabilì che la c. e la beatificazione, qualora il Papa fosse presente a Roma, si celebrassero esclusivamente nella basilica Vaticana. Però le c. degli anni 1881 e 1888, sotto Leone XIII, causa gli avvenimenti politici del 1870 e degli anni seguenti, si celebrarono alla meglio nell’Aula delle benedizioni, sopra l’atrio di S. Pietro; solo nel 1897 si tornò alla basilica. Da notare ancora il caso che in una sola c. venissero canonizzati più santi. Sotto Gregorio XV, avverandosi il primo caso di una quintuplice c., fu deliberato e concluso di serbare l’ordine dell’antichità, cioè la data di morte, preferendo solo s. Ignazio di Loyola, come fondatore, al suo figlio spirituale, s. Francesco Saverio, onde si ebbe l’ordine seguente: Isidoro l’agricoltore, Ignazio, Francesco, Teresa d’Avila e Filippo Neri. Ma sotto Clemente X si chiese un parere al celebre canonista G. B. De Luca, il quale propose l’ordine gerarchico, principio accettato con il decreto del 6 dic. 1670: « servandum esse ordinem hierarchiæ ecclesiasticæ; et si plures sint eodem ordine, praeferatur dies mortis ». Finalmente, sotto Clemente XII (decreto del 17 apr. 1737), fu accordata la precedenza, entro lo stesso ordine gerarchico, ad un fondatore religioso. Tutti però precede un martire, essendo il martirio la testimonianza più eccelsa per il Cristo. – Giovano ora alcune notizie intorno ad alcuni particolari aspetti della celebrazione della c. La processione solenne che precede il Papa, quando discende dalle stanze pontificie in S. Pietro, è in qualche modo assai antica, dovendosi il Papa ricevere solennemente al suo arrivo già nel medioevo. Ma da quando le c. si celebrarono costantemente in S. Pietro, il Papa fu accompagnato da tutta la corte e la famiglia pontificia. Di ciò siamo certi già sin dal sec. XV. La processione per la c. di s. Giacinto si aprì con il cantico dell’Ave Maris Stella, uso rimasto fino ad oggi. L’uso di portare uno stendardo con l’immagine del novello santo, risale alla c. di s. Stanislao, vescovo e martire (1253), ed è attribuito addirittura ad un miracolo; si narra cioè che fosse apparsa improvvisamente, davanti al corteo, l’immagine del santo, il che indusse in seguito all’uso di un enorme stendardo, come si usa ancora. L’esposizione di un altro stendardo pendente dalla facciata di S. Pietro, risale almeno alla costruzione del nuovo S. Pietro. – La triplice postulazione rivolta al Papa per la c. appare nella sua forma piena sin dal 1482 (c. di s. Bonaventura). Il procuratore della causa, alla fine del medioevo e, fino a ca. il sec. XVIII, sempre l’ambasciatore di una potenza cattolica, assistito da un avvocato concistoriale, si rivolgeva al Papa, domandando instanter che volesse canonizzare il servo di Dio in parola. Vi rispondeva il segretario ai prìncipi e si intonavano le litanie dei santi. Gli stessi ripetevano la domanda instantius, rispondeva di nuovo il detto segretario e si intonava il Veni Creator Spiritus; finalmente, dopo la terza domanda instantissime, il Papa proferiva la definizione dopo la quale l’avvocato, per l’ambasciatore, chiedeva che ne venisse steso l’atto. Chiudeva tutto il Te Deum. Questo solenne rito fu mantenuto fino ai nostri giorni, quando, per abbreviare la lunghissima cerimonia, le litanie dei santi furono anticipate all’ingresso della processione, mentre le tre istanze sono state riunite in una sola, seguita dal Veni Creator e dalla definizione. Ancora ai tempi di Clemente XI la formula stessa della c. variava alquanto. Lo stesso Clemente XI, il quale amava molto predicare al popolo, tenne anche l’omelia dopo la c., uso che prima di lui non era sempre osservato, ma che divenne dopo di lui di regola. – Le oblazioni, cerimonia fra le più singolari e caratteristiche della c. , nella forma attuale, rimontano, come fu già detto, almeno a quella di s. Brigida (1391). Benedetto XIII, chiestone un parere dal b. card. Tommasi, soppresse l’uso delle oblazione degli animali; però Benedetto XIV lo restituì senz’altro e rimase in vigore fino ad oggi. Quanto alla sua origine, gli autori che asseriscono che lo stesso cerimoniere pontificio Pietro Amely, di cui ci resta la descrizione, ne fosse stato l’inventore, sono tratti in inganno da una frettolosa lettura; l’Amely dice solo che l’apparecchio fastoso della cappella pontificia per tale celebrazione era di sua invenzione; il rito stesso delle oblazioni, compreso quella degli animali, pare che sia più antico; ma ci mancano notizie. Le oblazioni delle candele, dei pani e del vino sono prese dal rituale della dedicazione delle chiese o della consacrazione dei vescovi. Le più o meno dotte deduzioni di autori antichi e moderni, circa il significato dell’oblazione degli animali sono senza fondamento reale. – Un’ultima parola circa l’addobbo sfarzoso usato nelle c. Già le varie notizie e descrizioni contenute nell’Ordo Rom., XIV e XV, nei diari di Paris de Grassis, nel cerimoniale romano di Marcello, ricordano unanimemente la ricchezza dell’addobbo e dell’illuminazione usata nelle c. Nella nuova basilica Vaticana, con la sua vastità, che si presta così magnificamente alle cerimonie pontificie, il disegno degli addobbi fu affidato ben presto agli artisti più rinomati. Basta consultare le incisioni inserite negli atti stampati delle c., per ammirare la varietà e la grandiosità di tali apparecchi, i quali, talvolta, cambiarono addirittura l’aspetto della basilica. Fra gli artisti più noti di cui si conservano i disegni, rammentiamo il Bernini, il Borromini, Carlo Fontana, il Vanvitelli, il Valadier, il Poletti e il Vespigniani. Da mezzo secolo non si varia più tale disegno. L’introduzione della illuminazione elettrica ha portato a fissare il numero dei lampadari e la loro disposizione (dicesi che ci siano ca. centomila lumi).

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CANONIZZAZIONE (2)

LA C. PAPALE O UNIVERSALE. – Il trapasso dalla prassi della c. vescovile alla c. papale è quasi impercettibile agli inizi. Questa, in un primo tempo, appare piuttosto casuale, e certamente non era intesa come un atto supremo e valevole per la Chiesa universale. Ma è chiaro che una c. fatta dal Papa aveva una maggiore autorità; e perciò in un secondo tempo le richieste di autorizzazioni papali di culto crebbero sempre più. Ma la procedura è la stessa come nella c. vescovile, e nella maggioranza dei casi il Papa si limita a dare il suo consenso, mentre fuori, sul luogo, si procede in seguito alla solita solenne elevazione ed inaugurazione del culto. I viaggi dei pontefici nei secc. XI e XIII diedero occasione ai Papi di procedere a tali elevazioni in persona. Insensibilmente la c. papale prese maggiore consistenza e valore canonico; si formò una procedura più rigida, e finalmente essa divenne la c. esclusiva e unicamente legittima. – Si può distinguere quindi un triplice periodo nello sviluppo della c. papale: a) fino a quando la decretale Audivimus (1170) di Alessandro III venne inserita nelle Decretali di Gregorio IX (1234); b) fino a Sisto V, che affidò alla S. Congregazione dei Riti il compito di preparare la c. papale; e) il periodo della c. papale secondo la prassi di detta Congregazione.

  1. a)Periodo primo: fino al tempo di Gregorio IX. — Da notare che le date fra parentesi che seguono i nomi dei singoli santi sono quelle della loro morte. Il primo Papa, intervenuto in una autorizzazione di culto fuori di Roma, sarebbe stato Innocenzo I (401-17), al quale sarebbero stati trasmessi gli atti del martirio di s. Vigilio di Trento (26 giugno 405), « ut sacris martyrum memorialibus inserantur »; ma l’autenticità degli atti, o almeno di questa notizia è discussa. Certo invece è che la definitiva traslazione del corpo di s. Severino, m. nel 482 nel Norico e trasportato dai suoi discepoli a Monte Feltre, da qui al Castellum Lucullanum [Pizzofalcone] presso Napoli), fu fatta « tunc sancti Gelasii dedis romanæ pontificis auctoritate » Æugippius, Vita Severini [ed. P. Knòll: CSEL, I X ] 65). Più o meno malsicure sono le notizie seguenti: Bonifacio IV (608-15), secondo un falso, avrebbe approvato « sua auctoritate » la vita di s. Mauro abate (15 genn. 584); Leone III, dietro istanza di Carlomagno, in occasione della sua visita a Verdun avrebbe elevato il corpo di s. Suitberto (1 marzo 713). A Papa Zaccaria (741-52) si attribuisce il permesso dell’elevazione dei martiri Chiliano, Colomanno e Totnano (8 giugno 689) a Würzburg; Adriano I (772-95) avrebbe approvato il culto di s. Albano, protomartire della Britannia (sotto Diocleziano), di ciò richiesto dal re Offa. Giovanni VIII (872-82) avrebbe elevato personalmente i corpi dei ss. Agricola, Silvestro, Desiderio, vescovi di Chalon-sur-Saòne del sec. Più sicura è la notizia che il vescovo Ugo di Würzburg procedette, il 14 ott. 983, all’elevazione del corpo di s. Burcardo (2 febbr. 754) « permisso Benedicti papæ » (Benedetto VII [974-83]). Giovanni XV (985-96) finalmente avrebbe autorizzato l’elevazione del corpo di s. Ladoaldo (687 o 688), celebrata a Gand 19 marzo 982 (la cronologia è però errata!). – Tralasciando altre simili notizie, difficili ad accertarsi, si passa alla prima, sicura c. papale di cui esiste ancora il documento pontificio, quella di s. Udalrico vescovo di Augusta (4 luglio 973), eseguita da Giovanni XV il 31 genn. 993, durante il Sinodo celebrato al Laterano. Tra i prelati era presente anche il vescovo di Augusta, il quale chiese ed ottenne di leggere davanti all’assemblea la vita ed i miracoli di Udalrico, e ne ebbe generale applauso. Il Papa, sotto la stessa data, ne stese un atto, esponendo l’accaduto e dichiarando degno di venerazione Udalrico. Il tutto rientra perfettamente nella cornice generale della procedura allora in uso, solo che l’attore fu il Papa. Comunque, si è soliti considerare questo atto come la prima c. papale « formale » nel senso presente della parola. A Gregorio V si attribuisce la c. di s. Adalberto, vescovo di Praga e martire (23 apr. 997), fatta lo stesso anno; certo è che egli eresse e dedicò a lui, che era stato suo amico, una chiesa sull’isola tiberina (poi S. Bartolomeo).– Benedetto VIIl permise, dietro istanza del conte Bonifacio, la costruzione di una chiesa in onore di s. Simeone monaco a Polirone presso Mantova (26 ott. 1016). Il Papa rispose: « Tractate eum ut sanctum ». Questa sarebbe la c. più rapida, avvenuta uno o due mesi dopo la morte del servo di Dio. – Giovanni XIX permise, ca. il 1024, l’elevazione di s. Abelardo, abate di Corbie (2 genn. 826) e due anni dopo quella di s. Bononio, abate di Lucedio (30 ag. 1026). – Benedetto IX concesse, verso il 1032, l’elevazione di s. Romualdo (16 giugno 1027). Molto più importante è l’altro suo intervento che, sotto tutti gli aspetti, costituisce storicamente il vero primo e perfetto atto di c. papale, cioè la c. di s. Simeone, recluso a Treviri (1 giugno 1035). Nella lettera al popolo tedesco il Papa espone, come gli fossero pervenute più volte notizie sulla vita e i miracoli del Santo, e come Poppone, vescovo di Treviri, gli avesse chiesto direttamente « ut quod nobis visum fuisset de celebratione eiusdem sanctissimi viri, salubri definizione nostræ apostolicæ auctoritatis statueremus atque decerneremus ». In una solenne adunanza « fraternitatis romani nostri cleri », in occasione del Natale (1041) il Papa, di comune consenso, decise: « eundem virum Simeonem… ab omnibus populis, tribubus et linguis sanctum procul dubio esse nominandum », stabilendo di celebrare la sua festa annualmente e di inserire il suo nome nel martirologio. È evidente, quanto differisca questo atto dai semplici permessi papali di elevazioni precedenti, soprattutto per l’espressa intenzione di una definizione di portata universale e obbligatoria per tutta la Chiesa. Però i tempi non erano ancora maturi per simili decisioni, e la c. di s. Simeone, in effetti, non superò i limiti delle solite c. vescovili. Notevole pure il caso di s. Wiborada, reclusa a s. Gallo (2 maggio 926). L’abate Hitto ne fece celebrare le solenni vigilie e celebrò la Messa sopra la sua tomba il giorno della deposizione; in seguito, come narra Eccheardo, « in sanctam eam levari iam bis nostris temporibus per duos papas decretatum est, et sub Norberto tandem impletum ». L’abate Norberto infatti, appoggiato dall’imperatore Enrico III, ottenne nel 1047 (5 genn.) da Clemente II, « ut canonizaret et prò sancta haberi præciperet et anniversarium diem ipsius solemnizandum institueret ». Come si vede, due precedenti concessioni papali non ebbero seguito, e solo una terza riuscì; da ciò si deduca il reale valore delle concessioni papali di elevazione. – Importante invece per la storia della c. papale è il pontificato di s. Leone IX, al quale i frequenti viaggi diedero occasione di celebrare personalmente varie elevazioni solenni. All’inizio del 1049, in occasione del consueto Sinodo Lateranense, dopo la lettura della vita, permise more solito l’elevazione di s. Deodato, vescovo di Nevers (19 giugno 679). Nell’estate dello stesso anno, nel Sinodo tenuto a Magonza, permise ugualmente il culto di s. Gervasio, vescovo di Liegi. Il 3 dic. successivo l’arcivescovo Ugone di Besançon, per speciale incarico del Papa, procedette solennemente alla elevazione dei corpi degli abati s. Romarico di Luxeuil (ca. 635) e Amato di Remiremont (ca. 625), nonché di Adelfo, Vescovo di Metz, dedicando ad essi la ricostruita chiesa di Remiremont. Molto interessante il caso di s. Gerardo, vescovo di Toul, predecessore del Papa su questa sede (23 apr. 994). Lo stesso Papa ne prese l’iniziativa; nel Sinodo Lateranense, 2 maggio 1050, presentò il caso all’assemblea, parlò della vita e dei miracoli del Santo, e, col generale applauso, decretò : « ut ex hoc sanctus habeatur… ubique terrarum, sicuti ceteri sancti », annunziando che egli in persona ne farebbe l’elevazione; ciò che fece realmente il 21 ott. dello stesso anno a Toul. Qui ci troviamo di nuovo di fronte ad una c. formale papale nel senso della piena autorità pontificia; infatti il Papa indirizzò una lettera « cunctis Ecclesiæ catholicæ filiis », firmata da tutti i componenti il sinodo romano. Incomincia così a delinearsi una distinzione fra la definizione pontificia e l’atto della elevazione, che fino allora, soprattutto nelle c. vescovili, era stato considerato come l’atto fondamentale. A Toul il Papa fece anche l’elevazione di un vescovo Romano di Toul, di cui però non si trova il nome negli elenchi autentici di questa sede. Durante il suo grande viaggio attraverso la Germania, il Papa, presente l’imperatore Enrico III, celebrò personalmente a Ratisbona (8 ott. 1052) l’elevazione dei vescovi s. Erardo (sec. VIII) e s. Wolfango (31 ott. 994). Benedetto XIV, nella sua nota grande opera sulla c. accolse anche come attendibile la notizia della elevazione, fatta da Leone IX a Padova, nel 1053, dei ss. Bellino, Fidenzio e Massimo, o, come altri vogliono, Giuliano, Massimo, Felicita e tre innocenti; ma la cosa è molto malsicura, come alcune altre notizie di questo genere, spiegabili facilmente dall’attività notevole di s. Leone IX nel campo della c.. Alessandro II, nel 1067 di passaggio per Milano, avrebbe celebrato l’elevazione di s. Arialdo, martire (27 giugno 1066), ma la notizia non è del tutto sicura. Nel 1070 permise l’elevazione di s. Teobaldo, eremita a Salanigo (30 giugno 1066), e diede al vescovo di Burgos la facoltà di procedere alla solenne elevazione dell’abate Ifiigo di Ona (1 giugno 1057). Gregorio VII permise (1073) l’elevazione solenne delle spoglie di s. Pascasio Radberto, abate di Corbie (26 apr. 860) da parte del vescovo Wito; nel 1083, su istanza del re Ladislao, concesse l’elevazione solenne dei ss. Gerardo Sagreda, vescovo di Czanàd, apostolo dei magiari (24 sett. 1046), Stefano, primo re d’Ungheria (15 ag. 1038) e suo figlio Emmerico (2 sett. 1031). – Urbano II permise l’elevazione di s. Godeleva, martire a Chistelles (6 giugno 1070); passando per Milano nel 1095 avrebbe fatto personalmente l’elevazione di s. Erlembaldo martire (10 apr. 1076). Nel Sinodo Romano del 1098 fu letta la vita del pellegrino s. Nicola di Trani (2 giugno 1094) e l’arcivescovo Bisanzio della stessa città chiese l’inserzione del suo nome nel catalogo dei santi: il Papa incaricò lo stesso Bisanzio di procedere a quanto era stato deciso, tornato che fosse a Trani. Il Martirologio romano dà anche s. Attilano, vescovo di Zamora (5 ott. 1009), come canonizzato dallo stesso Urbano II. – Pasquale II nel 1100 canonizzò s. Angilberto, abate di St-Riquier (18 marzo 814), autorizzandone 1’elevazione. Autorizzò pure l’elevazione del corpo di s. Canuto, re di Danimarca (10 luglio 1086), avvenuta il 19 apr. 1101. Il 4 giugno 1109, a Segni, dopo la solita lettura della vita, permise ai vescovi della regione di venerare come santo, Pietro vescovo di Anagni (4 ag. 1105). – Callisto II, eletto a Cluny il 2 febbr. 1119, il giorno dell’Epifania del 1120 procedette all’elevazione di s. Ugone, abate di Cluny (28 apr. 1109), da lui conosciuto. Nello stesso anno incaricò il card, di Palestrina, suo legato al Sinodo di Beauvais, di procedere all’elevazione di s. Arnolfo, vescovo di Soissons (14 ag. 1087). Quanto poi ad una presunta c. di s. Corrado, vescovo di Costanza (26 nov. 976), il Papa l’avrebbe declinata col riferirsi ad un concilio generale. Da notare il caso di s. Gerardo, vescovo di Potenza (30 ott. 1119). Il successore Manfredo, che riferisce il fatto, si recò a Roma con una delegazione del popolo per chiederne la c. Portato il caso in concistoro, Callisto lesse la vita del defunto e viva voce pronunziò la c., senza ulteriore documento; ma per attestarne l’autenticità ordinò ai vescovi presenti Pietro di Acerenza, Guido di Gravina, Leone di Marsico e insieme al card. di Palestrina, Guglielmo di recarsi a Potenza per proclamare l’avvenuta c. e la concessione di una indulgenza di 40 giorni. Tutto ciò dové avvenire tra i primi mesi del 1123 o 1124. La concessione di una indulgenza in occasione delle c. divenne ordinaria solo ca. un secolo dopo. – Innocenzo II, presente al Concilio plenario di Reims, il 29 ott. 1131, dopo la solita lettura della vita e dei miracoli, permise alla Chiesa di Hildesheim la venerazione del proprio vescovo s. Godeardo (4 maggio 1038, il 22 apr. 1134, dopo i preparativi del Concilio di Pistoia, il Papa, premessa la lettura della vita e dei miracoli, autorizzò la venerazione di s. Ugone, abate di Chaise-Dieu, vescovo di Grenoble (1 apr. 1132). Identica procedura al Concilio Lateranense del 1139, 19 apr., per s. Sturmio, abate di Fulda (17 dic. 779). – Eugenio III, in una solenne adunanza del clero in Trastevere, il 4 marzo 1146, procedette alla c. di s. Enrico imperatore (13 luglio 1024). Nella sua lettera di Papa ricorda di aver dato incarico a due cardinali legati in Germania, di prendere informazioni a Bamberga, ove era sepolto nella cattedrale di quel vescovado da lui fondato. – Ad Alessandro III si ascrive comunemente la riserva del diritto esclusivo della c. al solo Sommo Pontefice. La cosa è però ben diversa. Il 6 luglio 1170, Alessandro diresse a Canuto I, re di Svezia, al clero e al popolo svedese la lunga lettera Æterna et incommutabilis (Jaffé-Wattenbach, II, 13546: PL, 200, coll. 1259-61); verso la fine d’essa lettera il Papa viene a parlare di un caso particolare: « denique quiddam audivimus… », cioè di un tale che, ucciso in stato di ubriachezza, era stato venerato da alcuni come santo martire. A questo proposito il Papa insegna che : « etiamsi signa et miracula per eum plutima fierent, non liceret vobis prò sancto absque auctoritate Romanæ Ecclesiæ eum publice venerari ». Si trattava dunque di un caso particolare per il quale il Papa dava una sua direttiva, come i sommi pontefici solevano darne in tanti altri casi. Ma appena un decennio più tardi, certo dopo il 1179, un canonista inglese, solerte raccoglitore di decisioni pontificie, inserì nella sua collezione, detta « Cottoniana prima », anche l’« Audivimus » della lettera Æterna et incommutabilis con qualche accomodamento nel testo. Attraverso alcune altre raccolte di questo tipo, ma sempre di carattere privato, il testo finì, ca. il 1206 nella collezione privata di maestro Alano, inglese, professore di diritto a Bologna. Finalmente s. Raimondo di Peñafort, incaricato da Gregorio IX dell’edizione ufficiale delle Decretali, vi inserì anche l’« Audivimus » di Alessandro III, cosicché quel testo, in forza di tale inserzione (5 sett. 1234), divenne legge universale. L’ultima e definitiva fortuna dell’ « Audivimus » si ebbe nelle interpretazioni successive dei grandi canonisti, soprattutto di Sinibaldo Fieschi (Innocenzo IV) e di Enrico Bartolomei da Susa detto il «Cardinale ostiense », il quale nella sua Summa Aurea (1253) e nei suoi Commentaria (dopo il 1268) interpretò l’« Audivimus » nel senso di legge fondamentale del diritto pontificio della c. Questo punto importantissimo della storia della c. è stato soltanto recentemente messo in giusto rilievo per merito di S. Kuttner, La réserve papale du droit de Canonisation, in Revue historique du droit français et étranger, (nuova serie, 17 [1938], pp. 172-228; estratto, Parigi 1938). – Le c. di Alessandro III non differiscono del resto, affatto dalle precedenti; solo mezzo secolo più tardi le c. papali acquistano uno splendore e una risonanza universale tale che le elaborazioni canonisti che potevano innestare nel testo dell’ « Audivimus », in se stesso molto scarno, l’idea di una legge universale di riserva del diritto della c. al solo Sommo Pontefice. – La prima c. di Alessandro III fu quella di s. Edoardo confessore, re d’Inghilterra (4 genn. 1066), fatta ad Anagni (7 febbr. 1161) dove, in presenza della sua corte, dopo l’esame del « liber miraculorum », viste le lettere del predecessore Innocenzo al riguardo, procedette alla proclamazione richiesta; la lettera fu indirizzata a tutta l’Inghilterra il 7 nov. 1161. – Seguono due c. simili: a Tours il 9 giugno 1163, il Papa commise a Tommaso, arcivescovo di Canterbury, il futuro martire, di procedere, dopo la lettura e la vita e dei miracoli fatta in apposito concilio, alla c. di s. Anselmo di Canterbury (21 apr. 1109). Da Sens, ove risiedeva, nel 1164 il Papa diede analogo mandato per l’elevazione di s. Elena di Skòvde, martire svedese (ca.1160). Per incidenza è da notare nel dic. 1165 la c. di Carlomagno (28 genn. 814) compiuta da Pasquale III, l’antipapa che Federico Barbarossa imperatore aveva contrapposto ad Alessandro III. Pasquale commise a Rinaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia, il noto cancelliere imperiale, di procedere alla solenne elevazione di Carlo. E l’unico caso di una c. compiuta da un antipapa, che non esce dall’ambito delle c. «locali». – Nel 1169, a Benevento (8 nov.) segue la c. di s. Canuto, Knud Lavard, martire danese (7 genn. 1131). Importantissima invece la c. di s. Tommaso Becket arcivescovo di Canterbury (29 dic. 1170). Il fatto del suo martirio produsse un’enorme impressione in tutta l’Europa; il Papa, nel 1173, emanò da Segni due lettere di uguale tenore, di cui una diretta a tutti i prelati della Chiesa. Dice di aver conosciuto personalmente Tommaso, e di voler aspettare la relazione di due suoi cardinali legati, specialmente sui miracoli. Finalmente « in capite ieiunii » (21 febbr. 1173), presenti moltissimi ecclesiastici e laici « præfatum archiepiscopum solemniter canonizavimus ». È la prima che in un documento pontificio appare questo preciso termine. Ugualmente importante è la c. di s. Bernardo di Chiaravalle (20 ag. 1153). Il Papa, dopo iterate istanze dei Cistercensi, nella festa della Cattedra di s. Pietro (18 genn. 1174), ad Anagni, presente un largo stuolo di prelati, fatta leggere la vita di Bernardo decretò : « Beatorum Apostolorum Petri et Pauli meritis confisi, sanctorum cathalogo duximus adscribendum ». E la prima volta che si viene a conoscenza di una formula che si riferisce all’autorità apostolica, adoperata in questo atto. – Lucio II nel 1181, nella solita forma, concesse l’elevazione di s. Brunone, vescovo di Segni (18 luglio 1123). – Clemente III canonizzò, il 21 marzo 1189, s. Stefano di Thiers, eremita, fondatore della Congregazione di Grammont (8 nov. 1124). Molto interessante la c. di Ottone, vescovo di Bamberga, apostolo dei Pomerani (30 luglio 1139). In due lettere apostoliche, del 29 apr. e 1 maggio 1189, dirette a particolari prelati tedeschi, il Papa dichiarava di aver incaricato i due vescovi, di Merseburg e di Eichstadt, due abati e un canonico perché dopo una diligente inquisizione sulla vita e sui miracoli, con autorità apostolica lo dichiarassero canonizzato, « ipsum canonizatum, auctoritate freti apostolica, solemniter et publice nuntietis ». E una autentica c. per delega papale. Simile la c. di s. Malachia O’ Morgair, arcivescovo di Armagh (m. a Chiaravalle il 2 nov. 1148), fatta in base alla vita scritta da s. Bernardo e a molteplici altre informazioni, il 6 maggio 1190. – Celestino III, il 4 marzo 1192, su ripetute istanze del vescovo di Gubbio, dopo molte relazioni in proposito « de communi fratrum Consilio », e « Beatorum Petri et Pauli Apostolorum auctoritate », canonizzò s. Ubaldo, vescovo di Gubbio (14 maggio 1136), comandando di celebrarne la festa « apud vos ». Di simile tenore la lettera apostolica per la c. di s. Bernardo (meglio Bernward), vescovo di Hildesheim (26 ott. 1023), fatta in Roma a s. Pietro l’8 genn. 1192. Identica la c. di s. Giovanni Gualberto (13 luglio 1073) in data 24 ott. 1193. Del 27 apr. 1197 è la c. di s. Geraldo, abate di Sauve-Majeur presso Bordeaux(5 apr. 1105). Allo stesso Celestino si ascrive anche la c. di s. Bernardo degli Uberti, cardinale vescovo di Parma, vallombrosano (4 die. 1133), ma Clemente XI nel 1714 rifiutò di estenderne la festa a tutta la Chiesa perché non si era in grado di provare storicamente l’avvenuta c. formale. Più sicura appare la c. di s. Rodosindo, vescovo, di Dumnium in Galizia (1° marzo 977), fatta probabilmente nel 1196. Innocenzo III, il 12 genn. 1199, canonizzò s. Omobono di Cremona (13 nov. 1197), e nella sua lettera il Papa diede per la prima volta, in un documento ufficiale, un breve sunto della vita del Santo e dei miracoli, attestando ch’esso era stato composto su testimonianze giurate. Il 3 apr. 1200 canonizzò s. Cunegonda, imperatrice, moglie di s. Enrico (3 marzo 1040). Del 1202 è la c. di s. Gilberto, abate di Sempringham (4 febbr. 1189). Molto interessante il caso di s. Guglielmo, eremita di Malavalle, presso Grosseto (10 febbr. 1157). Già Alessandro II aveva ordinato, su istanza del vescovo di Grosseto, che nella sua diocesi fosse celebrata la solenne ufficiatura per detto Santo « ad interim », senza procedere all’atto della c. espressa. Innocenzo (1202, 8 maggio), dopo iterate istanze, rinnova il permesso di continuare a celebrare la festa. Benedetto XIV nega in questo fatto il carattere della c.: nondimeno crediamo che ancora si tratti di una c. locale. Il 14 maggio 1203, a Ferentino, canonizzò s. Vulstano, vescovo di Worcester (19 genn. 1095). Il Papa aveva incaricato una commissione di due vescovi e di due abati di recarsi a Worcester, di indire un digiuno di tre giorni e di procedere poi all’esame dei miracoli. Si tenne conto di una vita scritta cento anni prima in vecchio inglese, autenticata e sigillata. Il tutto fu portato a Roma per l’esame. In base a ciò il Papa celebrò la c. e pubblicò anche l’orazione del nuovo Santo. I l 2 luglio 1204 fu fatta l’elevazione del corpo di s. Procopio, abate di Sàzawa, da parte del card. Guido di S. Maria in Trastevere, in base all’ordine del Papa « ut corpus beati viri solemnizatum canonizetur ». – Onorio III, i l 17 maggio 1218, a S. Pietro in Vaticano, canonizzò s. Guglielmo, arcivescovo di Bourges, poi monaco e abate cistercense (10 genn. 1209). Il 18 febbr. 1220 da Viterbo annunziò a tutto il popolo cristiano la c. di s. Ugone, certosino, vescovo di Lincoln (il 7 nov. 1200), dopo l’ormai solita «commissio inquisitionis» In data 8 genn. 1222 si ebbe la concessione ai monaci cistercensi di Molesme di venerare « tamquam sanctum » il loro abate s. Roberto (14 apr. 1111) . Il 21 genn. 1224 al Laterano procedette alla c. di s. Guglielmo, abate cistercense di Roskilde in Danimarca (6 apr. 1203). Un caso di speciale interesse è la c. di s. Lorenzo O’Toole, arcivescovo di Dublino (14 nov. 1181), celebrata a Rieti l’11 dic. 1225. Al suo sepolcro, a Rouen, si erano verificati molti miracoli: pertanto il Papa ordinò all’arcivescovo di detta città di fare la solita inchiesta insieme con altri ecclesiastici, i quali raccolsero le debite testimonianze. Ma quanto alla vita del Santo, i commissari trasmisero la loro commissione all’arcivescovo di Dublino il quale, trattenuto alla corte inglese, delegò altri suoi dignitari, i quali fecero a Dublino l’inchiesta indicata e, sigillata, la trasmisero a Rouen, da dove tutto il materiale passò a Roma per la verifica e la decisione. In questo fatto si ha il primo caso di quello che oggi si chiama « processo rogatoriale ». E del 18 marzo 1226 nel Concilio Lateranense la c. di s. Guglielmo Fitzherbert, arcivescovo di York (8 giugno 1154)1 dopo le solite istanze ed inquisizioni. Ad Onorio III si attribuisce anche la c. di Ugone, abate cistercense di Bonnevaux (1 apr. 1191) e di Giovanni eremita, priore di S. Maria di Gualdo. Le inquisizioni ormai necessarie furono fatte per il primo il 2 die. 1221 e per il secondo il 3 giugno precedente, ma nessun documento ci resta che attesti l’avvenuta c. Un altro caso simile è quello di Giovanni Cacciafronte, abate benedettino di Vicenza, ucciso il 16 marzo 1183. Onorio indisse la «commissio inquisitionis», si fece anche un processo a Cremona, dove era nato, ma non si andò più avanti. – Gregorio IX. Universale eco suscitò la c. di s. Francesco di Assisi (4 ott. 1226); il Papa la proclamò a Perugia e l’annunziò con due lettere, una al clero, l’altra al popolo universo (16 luglio 1228 e 21 febbr. 1229); la cerimonia relativa fu fatta dal Papa ad Assisi ai primi di luglio 1228. Nella piazza davanti alla chiesa egli tenne il sermone, e, portata in chiesa la salma, al canto del Te Deum, celebrò la Messa del novello Santo. La formula di questa c. ci è conservata, ed è certamente la più antica che si conosca. La festa del Santo fu imposta a tutta la Chiesa e subito universalmente accettata. Sebbene il Papa fosse stato suo amico volle nondimeno che fosse istituito il solito processo di inchiesta sulla vita ed i miracoli (il primo processo di c. completamente conservato e pubblicato) e che tutto procedesse secondo l’uso ormai tradizionale. Lo stesso si deve dire della c. di s. Antonio di Padova (13 giugno 1231) fatta a Spoleto il 1° giugno 1232 e pubblicata con tre lettere nelle quali il Papa accenna alla « commissio inquisitionis ». Il 18 giugno 1232 al Laterano fu canonizzato un santo antico, con culto plurisecolare : s. Virgilio, vescovo di Salisburgo (27 sett. 780), con la concessione di una indulgenza per la festa e l’ottava. Caso interessante questo, perché conferma il valore che era venuto acquistando l’istituto della c. papale. Segue la c. di s. Domenico di Guzman (6 agosto 1221), fatta a Rieti il 3 luglio 1234 con la festa estesa alla Chiesa universale e con l’indulgenza di un anno. – Altra e. di un personaggio, celebre in tutto il mondo cristiano di allora, è quella di s. Elisabetta di Turingia (19 nov. 1231), fatta nella chiesa dei Domenicani a Perugia il 27 maggio 1235. La lettera papale è del 1° giugno successivo, ed anche questa volta la festa fu estesa alla Chiesa universale « districte præcipiendo »,, ma senza effetto reale. Sotto Gregorio IX fu istituito anche il processo per Odone di Novara, abate certosino (14 genn. 1230). Si conosce la « commissio inquisitionis » in data 10 dic. 1240 e il relativo processo; ma tutto si fermò, forse per la morte del Papa. Non si può tacere finalmente, perché anche molto istruttivo, il caso di s. Ildegarda, badessa benedettina (17 sett. 1233). La sua fama in vita era già universalmente nota e, dopo morta, si parlò di un numero grande di miracoli avvenuti per sua intercessione. Gregorio IX nominò la commissione e, il 16 dic. 1233, indisse il processo che fu mandato a Roma sigillato. Trovate insufficienti le deposizioni, si ordinò un nuovo esame di testi, di cui non ci è pervenuta notizia. Innocenzo IV poi, nel 1243, rinnovò la commissione ma senza effetto pratico. Dopo nuove insistenze, Giovanni XXII, nel 1317, diede nuove lettere di commissione, ma la cosa era divenuta sempre più difficile per la mancanza di testimonianze orali e per le esigenze sempre maggiori richieste nei processi. Così la celebre Santa non è stata mai canonizzata formalmente. Un caso simile è quello di s. Brunone, vescovo di Wùrzburg (27 maggio 1045). Gregorio IX emanò per lui la solita commissione, il 1 maggio 1238, ma il processo portato a Roma non fu giudicato soddisfacente. Innocenzo IV pertanto ordinò una nuova inquisizione (Lione, 5 Nov. 1245), ma una c. formale non ebbe mai luogo. Indubbiamente Gregorio IX, esimio canonista, diede alla c. papale un’importanza nuova. – Dopo il brevissimo governo di Celestino IV, seguì sul trono papale la grande figura di Sinibaldo Fieschi, Innocenzo IV (1243-54). Già professore di diritto a Bologna, da Papa scrisse l’Apparatus super V libros decretalium, commentario che ebbe subito larghissima diffusione e fama, sebbene egli dichiarasse espressamente di averlo scritto da uomo privato. Le osservazioni e definizioni del Fieschi circa la c. divennero perciò la base di tutti i canonisti successivi. Egli stabilì definitivamente l’« Audivimus » di Alessandro III come leggere della c. papale, di cui diede anche la prima precisa definizione, divenuta classica fra i canonisti. Essa consiste nel « canonice et regulariter statuere quod aliquis sanctus honoretur pro sancto », cioè con tutte le prerogative di un culto pubblico e universale. In questa universalità appunto riconosce Innocenzo IV la radice della riserva pontificia della c: «Solus Papa potest canonizare sanctos », poiché solo il Papa esercita una giurisdizione universale sopra tutta la Chiesa. Ma per pervenire alla c., occorrono le prove giuridiche « de fide et excellentia vitæ et miraculis ». Egli stesso canonizzò, il 16 dic. 1246 a Lione, il vescovo di Canterbury, s. Edmondo Rich, orginario di Abington (16 nov. 1240), e nella Pasqua del 1247, ancora a Lione, s. Guglielmo Pinchon, vescovo di St-Brieuc (20 luglio di anno incerto tra il 1234 e il 1241). Più grandiosa riuscì la c. di s. Pietro Martire (6 apr. 1252), la cui cerimonia fu celebrata a Perugia nel piazzale davanti la chiesa dei Domenicani nella Pasqua del 1253. Il Papa pubblicò due lettere di tenore generale, una da Perugia il 24 marzo 1253, l’altra da Anagni l’8 ag. 1254. Importante è l’asserto del Papa di avere proceduto alla c. « post inquisitionem sollertem, studiosam examinationem, discussionem solemnem… auctoritate beatorum Petri et Pauli Apostolorum ac nostra ». Seguì ad Assisi, l’8 sett. 1253, la c. di s. Stanislao, vescovo di Cracovia, martire (8 maggio 1079). Tutta la celebrazione solenne si svolse completamente nella grande basilica di S. Francesco. D’ora innanzi la c. si svolgerà interamente come rito liturgico. In seguito poi alla commissione, data da Innocenzo IV, furono costruiti, tra il 1251 e 1254, i processi per Giovanni Buono (23 ott. 1249), eremita, ma, per cause a noi ignote, la c. non si fece mai. – Alessandro IV celebrò un’altra c. celebre, quella di s. Chiara di Assisi, che egli stesso aveva assistita in morte (12 ag. 1253). La solennità si svolse ad Anagni nel secondo anniversario della sua morte, 12 ag. 1255. – Urbano IV canonizzò a Viterbo il 22 genn. 1262 s. Riccardo de Wych, vescovo di Chichester (3 apr. 1253). Come il Papa dice nella lettera sulla causa: l’Inquisitio era stata ordinata da Innocenzo IV e « diligenti examine discussa » prima dal cardinale vescovo di Frascati, Ottone di Chateauroux, e finalmente « per nos et per fratres » vale dire dai cardinali. Si vede come la procedura diventava sempre più severa. –Clemente IV procedette alla c. di s. Edvige, granduchessa della Slesia (15 ott. 1243), fatta a Viterbo il 26 marzo 1267. – Questo periodo si chiude con la grande figura del card. Ostiense, di cui si è già parlato. La sua Summa aurea e soprattutto il suo Commentarium restituiscono il termine di uno sviluppo plurisecolare. Dalla metà del sec. XIII si può datare il secondo periodo della storia della c. dei santi, de facto e de iure ormai riservata alla S. Sede. Con questa riserva però non cessò il sorgere di nuovi culti liturgici locali, senza che arrivassero mai alla c. – Come s’è visto, dai primi, sporadici interventi di alcuni Papi, più casuali che altro, si pervenne insensibilmente ad attribuire alla c. papale un valore più elevato ed esclusivo. Mentre agli inizi si trattò prevalentemente di permessi o di commissioni pontificie per procedere all’elevazione di un santo, questo elemento, fin allora di importanza capitale, passò in seconda linea; incominciò a prevalere la semplice e formale dichiarazione pontificia della c. fatta. Così la procedura, agli inizi assai rudimentale, acquistò una vera consistenza giuridica assumendo i vari elementi della procedura canonica, sviluppatasi per i vari processi curiali. – Agli inizi bastò la lettura di una vita e dei miracoli davanti al Papa e ad un sinodo o qualche altra solenne riunione del clero, per provocare, di comune consenso degli astanti, il permesso papale all’elevazione. Ma nelle rispettive lettere pontificie ben presto si rileva la tendenza di dare più risalto all’atto papale conferendogli un valore universale. L’esame poi dei miracoli, attinente in qualche modo ad una definizione di un intervento divino, portò all’idea trattarsi, nelle c., di « negotium maius Ecclesiae », spettante al Papa e alla sua Curia. La sola lettura di una semplice vita non bastò più; la S. Sede prese l’iniziativa e chiese da parte sua più ampie informazioni. Nel 1146 a proposito di Eugenio III, , per s. Enrico, si sa per la prima volta che il Papa si servì a questo scopo dei suoi legati. Nel 1189 con Clemente III, appare la prima volta il termine « commissio », cioè l’espresso incarico dato dal Papa a determinate persone per l’inquisitio sulla vita e sui miracoli. – Sotto Innocenzo III (per s. Omobono) si viene per la prima volta informati che l’inquisizione si basò sopra testimonianze giurate. Rapidamente si introducono nella procedura preparatoria alla c. tutte le cautele giuridiche allora in uso per gli altri processi, esposti, ad es., magistralmente dal noto Guglielmo Durando, vescovo di Mende, nel suo Speculum iuris, uscito nel 1272 e nel 1287. Anche nel processo per la c. appariscono il giuramento detto «de calumnia», gli «interrogatoria», gli «articuli», preparati d’ufficio alla Curia papale e trasmessi, insieme con la « commissio », ai commissari. Le sigillazioni degli atti dopo ogni seduta rimontano a questa stessa età. Nello stesso modo poi, come gli altri processi, anche quelli per la c. furono affidati ai chierici della Curia, in genere ai cappellani papali, per la revisione e la rubricazione; seguiva un esame preliminare da parte di un cardinale e, finalmente, la proposizione in concistoro. Anche la celebrazione liturgica della c. ebbe in questo periodo la sua evoluzione sostanziale. Agli inizi si trattò di un semplice atto giuridico, di una sentenza del Papa, proferita in sinodo, senza ulteriori celebrazioni liturgiche. Queste, cioè la solenne elevazione con Messa ecc., avvenivano nel luogo ove riposavano le spoglie del santo. Solo nel 1131 con Innocenzo II (c. di s. Godeardo), si viene a sapere che la proclamazione della c. si chiuse con il canto del «Te Deum laudamus». Nel 1192 (con la c. di s. Ubaldo) ci è conservata la prima notizia che Celestino III, in seguito alla c., celebrò anche la Messa in onore del novello Santo. Da alcuni cenni contenuti nelle varie lettere pontificie per le c., si può dedurre che si era sviluppata una certa formula rituale per la proclamazione di un santo; si inserirono i nomi degli Apostoli Pietro e Paolo (primo accenno nel 1174, sotto Alessandro III, per s. Bernardo); nel 1228 (per s. Francesco), si è conservata la formula completa: « Ad laudem et gloriam omnipotentis Dei, Patris et Filii et Spiritus Sancti, et gloriosæ Virginis Mariæ, et beatorum Apostolorum Petri et Pauli, et ad honorem Ecclesiæ Romanæ ». Sotto Onorio III (1218), incominciano le prime concessioni di indulgenze in occasione della c., 40 giorni (per s. Guglielmo di Bourges). Gregorio IX concedette, nel 1228, per s. Antonio, la prima volta un anno di indulgenza. Per s. Elisabetta (1235), l’indulgenza è salita a un anno e 40 giorni. Dal 1228 (s. Francesco) divenne regola che il Papa facesse al popolo un sermone, poi leggesse o facesse leggere i miracoli, e pronunciasse finalmente la formula della c., chiudendo la celebrazione con la Messa. Inoltre si sa che in quell’epoca generalmente fu d’uso già il canto del « Veni S. Spiritus » per implorare l’aiuto divino, affinché « Deus non permittat ipsum (papam) errare in hoc negotio », così l’Ostiense.

[Continua … ]

 

 

 

CANONIZZAZIONE (1)

Cominciamo oggi ad approfondire un tema abbastanza dibattuto e per il quale ci sono molte idee confuse, a partire dalla nozione che nella canonizzazione il Papa non impegni la sua Infallibilità! Si sentono in giro voci assurde, come quella che la Chiesa possa proclamare santo un beota, un empio, un omosessuale, un massone 33°, e proporlo come esempio di santità, modello di virtù eroiche [come ad esempio quella di avere tre amanti contemporaneamente in Vaticano]. Quindi secondo tali eretiche idiozie la Chiesa, Sposa di Cristo, Madre e Maestra infallibile dei popoli, può tranquillamente ingannare e propinare latte velenoso ai suoi figli che Essa ama teneramente. E molti di questi oligofrenici fanta-teologi modernisti (senza offesa per gli oligofrenici) si pretendono addirittura cattolici tradizionalisti! Poveri ignari dannati già in terra! A tal punto ci siamo decisi a pubblicare la voce “Canonizzazione” dall’Enciclopedia Cattolica, l’ultima opera “cattolica” pubblicata in Vaticano prima dell’avvento degli sciacalli masso-ecumenisti, in modo che almeno i “veri” pochi Cattolici (quelli di Papa Gregorio XVIII), possano attingere alla “verità” conosciuta, senza incorrere nel peccato contro lo Spirito Santo. La “voce” non è sempre di agevole lettura, pertanto l’abbiamo divisa in 4 parti, in modo da poterla approfondire con calma e con cognizione di causa.

CANONIZZAZIONE (1)

[Encicl. Cattolica vol III, coll. 569- e segg. ]

La “Canonizzazione” è un atto o sentenza definitiva con la quale il Sommo Pontefice decreta che un servo di Dio, già annoverato tra i beati, venga inserito nel catalogo dei Santi e si veneri nella Chiesa universale con il culto dovuto a tutti i canonizzati.

.I

LA CANONIZZAZIONE NELLA PRASSI DEL DIRITTO CANONICO ODIERNO. 

Dalla definizione si scorge subito la differenza che corre tra la beatificazione (v.) e la c. I n quella il culto è limitato ad una città, diocesi, regione o famiglia religiosa, ed è unicamente permissivo, in questa invece è esteso a tutto l’orbe cattolico, ed è precettivo. Ma la vera differenza sta, come scrive Benedetto XIV, in « quell’ultima e definitiva sentenza della santità » che impone il culto dovuto ai santi nella Chiesa universale: sentenza che il Sommo Pontefice pronuncia per la c., e giammai per la beatificazione. Una delle note caratteristiche della Chiesa infatti è la santità: essa è santa, perché è santo il suo Fondatore, santa la sua dottrina, santa la finalità che persegue, e santa perché ha la virtù di generare in ogni secolo legioni di santi che, con la vita, le virtù, con l’apostolato e con i miracoli compiuti per la loro intercessione, vengono a confermare la santità stessa della Chiesa. Assertore, custode e giudice di questa santità non è che il Vicario di Cristo; ed a lui solo, che presiede a tutta la Chiesa ed ha il diritto di proporre ciò che si deve credere ed operare in cose concernenti la religione, spetta di giudicare chi debba essere ritenuto ed onorato come santo. Ed in questo giudizio il Papa non può errare. Benedetto XIV, incomparabile maestro in materia, insegna che egli riterrebbe « se non eretico, certamente temerario, scandaloso a tutta la Chiesa, ingiurioso verso i santi, sospetto di eresia, assertore di erronea proposizione, chi osasse affermare che il Pontefice in questa o quella c. abbia errato, e che questo o quel santo da lui canonizzato non dovesse onorarsi con culto di dulia », cioè per ragione della sua dignità nell’ordine soprannaturale. – Del resto la sentenza definitiva, con la quale il Papa proclama la santità dei servi di Dio, oltre che trovare la sua prima ed alta ragione nell’assistenza speciale dello Spirito Santo che lo illumina, è appoggiata solidamente a tutto un complesso di investigazioni, di studi, di fatti che dimostrano con quanto discernimento e con quanta prudenza proceda la Chiesa nelle cause di c., le quali vanno annoverate tra le maggiori e le più gravi che siano di sua competenza. Infatti la via normale ed ordinaria è quella di non iniziare una causa di c., se prima non consti che il servo di Dio sia stato già riconosciuto come beato. E se per un istante si richiami quanto fu detto sotto la voce beatificazione, si vedrà quale lunga e severa indagine venga adoperata, prima che un servo di Dio ottenga il titolo e gli onori di beato. Malgrado questo complesso di ricerche e di accertamenti, si richiedono altri due miracoli verificatisi dopo la beatificazione, i quali passano sotto il controllo di più medici e chirurgi nominati d’ufficio, e sono discussi e vagliati prima da una commissione medica e poi da due prelati, consultori e cardinali in tre o più Congregazioni, l’ultima delle quali è presieduta dal Papa. Approvati i miracoli, e promulgato il decreto nel quale è stabilito che si può con sicurezza procedere alla c., s’inizia un’altra serie di atti che si svolgono in tre Concistori; poiché la Santa Sede desidera che, in un affare di tanta gravità, al giudizio consultivo della Sacra Congregazione dei Riti si aggiunga il giudizio parimenti consultivo del Sacro Concistoro. Si comincia con il Concistoro segreto, dove, oltreché i cardinali della Sacra Congregazione dei Riti, convengono tutti i cardinali residenti in Roma, i quali, dopo avere ascoltato la relazione del cardinale Prefetto della stessa Congregazione intorno alla vita e miracoli e agli atti fino a quel momento compiuti, interrogati dal Sommo Pontefice se piaccia ad essi che si proceda alla solenne e, rispondono placet o non placet. In seguito si tiene un Concistoro pubblico, dove uno degli avvocati concistoriali espone in elegante latino la vita e i miracoli del beato, la cui c. viene supplicata. Terminata la orazione dell’Avvocato, il Segretario delle Lettere latine in nome del Papa risponde che Sua Santità esorta tutti, perché con i digiuni e con le preghiere invochino i lumi divini, prima che il sacro Collegio dei cardinali e l’Episcopato abbiano manifestato il loro proposito. Ed a questo scopo è indetto un Concistoro semipubblico, al quale, oltre tutti i cardinali, sono invitati i patriarchi, gli arcivescovi, vescovi e abati nullius residenti in Roma, perché, dopo aver preso cognizione di un compendio della vita del beato unitamente ai relativi atti, scritto per cura del Segretario dei Riti, diano il loro suffragio. Quest’ultimo Concistoro si apre e poi si chiude con una breve allocuzione del Papa che annunzia il giorno, in cui nella basilica di S. Pietro con solenne apparato e cerimonie compirà l’atto della c. Nel giorno fissato il Pontefice pronuncia al cospetto del mondo cattolico la sentenza definitiva, con la quale inscrive il nome del beato nel catalogo dei santi, ed ordina che la sua memoria venga onorata ogni anno dalla Chiesa universale. – Quanto finora esposto, riguarda la c. formale. Ma vi è anche una c. equipollente, riservata a quei servi di Dio che, essendo già in possesso di un culto prima dei decreti di Urbano VIII, vennero beatificati con la beatificazione equipollente in virtù di un decreto pontificio che attestava il fatto del culto immemorabile e la eroicità delle virtù o il martirio. Ma perché dalla beatificazione equipollente si passi alla c. equipollente, sono necessari tre miracoli avvenuti dopo che il servo di Dio è stato beatificato. Vi sono altresì casi oggi rarissimi, nei quali il Papa procede alla c. equipollente senza il sussidio dei miracoli; e ciò avviene qualora si tratti di personaggi insigni, la cui santità di vita o il cui glorioso martirio sono dimostrati dai processi con tanta ampiezza e sicurezza di prove, da escludere qualsiasi dubbio.

BIBL.: F. Contelori, Tractatus et praxis de Canonizatione sanctorum, Lione 1634; Benedetto X I V , De Servorum Dei Beatificatione et de Beatorum Canonizatione, Prato 1839; Codex Postulatorum, Roma 1934; Norme da seguirsi nella compilazione delle Posizioni riguardanti le Cause dei Servi di Dio e Regolamento annesso, ivi 1943 (raccoglie le varie norme emanate dalla S. Congregazione dei Riti negli ultimi tempi). Carlo Salotti

II . LA C. NELLA STORIA.

SOMMARIO: I. Le origini della c., il culto dei martiri. – II. L’inizio del culto dei «non»-martiri. – III. La c. vescovile. – IV . La c. papale o universale. – V. Elenco delle c. preparate dalla S. Congregazione dei Riti, da Clemente VIII (1594) fino a Pio XII. – VI. La c. equipollente. – VII. C. e Chiesa.

  1. LE ORIGINI DELLA C., IL CULTO DEI MARTIRI. La Chiesa antica considerò il martirio come l’espressione massima della fede e della carità, quindi della perfezione cristiana; perciò venerò i martiri come i più vicini amici di Dio e come i più potenti intercessori per noi. Questa venerazione si basa sul fatto pubblico del martirio, ed è legata ad un duplice elemento: locale e temporale. Il culto cioè era vincolato al luogo del martirio o della sepoltura del martire, e alla data del martirio stesso. La memoria di un martire, a differenza della memoria di un defunto qualsiasi, non fu celebrata soltanto dai parenti e congiunti, ma dalla stessa comunità cristiana, e l’anniversario fu indicato nei relativi calendari. Inoltre, mentre nella pietà verso i defunti prevalse l’idea della nostra intercessione presso Dio per la loro salute, la celebrazione del martire era festiva, e si implorava la sua intercessione in favore dei vivi. Il primo esempio storicamente documentato di una festa anniversaria per un martire è quello della Chiesa di Smirne per s. Policarpo, morto nel 156 (Martyrologium Policarpi, 18: ed. R. Knopf – G. Kruger, ausgewàhlte Màrtyrerakten, 2a ed., Tubinga 1929.) – Il fatto del martirio era di dominio pubblico; ne era stata testimonio oculare la stessa comunità cristiana! Non occorreva quindi, ordinariamente parlando, alcun atto specifico di riconoscimento dell’autorità ecclesiastica. Solo in certi casi particolari, quando cioè anche delle sette si vantarono di avere dei martiri, soprattutto in Africa, una certa vigilanza dell’autorità ecclesiastica parve opportuna (v. MARTIRI). – Come s’è detto, le comunità cristiane tennero una specie di elenco dei propri martiri, annotando il nome, la data del martirio e il luogo della sepoltura. Ce lo attesta, ad es., s. Cipriano, ricordando al suo clero: « Dies eorum quibus excedunt, adnotate, ut commemorationem eorum inter memorias martyrum celebrare possimus » (Epistolæ, 12, 2, ed. J.M.J. Hartel : CSEL, III, 303). Da qui l’origine dei martirologi e calendari. Si ha un esempio di tali elenchi nella Depositici martyrum della Chiesa romana, inserita nel Cronografo del 354. Ma i nomi dei martiri passarono anche più direttamente nel culto, vennero cioè inseriti nei dittici locali, letti durante il santo sacrificio. Il continuo contatto fra le varie chiese diede occasione per una prima diffusione del culto di un martire fuori del luogo di origine; i loro nomi incominciarono a migrare in calendari e martirologi di altre chiese, e certi martiri celebri furono accolti anche nei dittici di quelle. – L’epoca aurea del culto dei martiri furono i primi secoli dopo la pace costantiniana: basta accennare alla decorazione splendida dei loro sepolcri, all’erezione di memorie, chiese e basiliche, spesso grandiose, sopra la loro tomba, o in loro onore; ai pellegrinaggi, alle solennità liturgiche delle loro feste, ai panegirici recitati in loro onore. L’uso di origine orientale della traslazione e della divisione delle loro reliquie si diffuse poi anche nell’Occidente e si moltiplicarono i centri dei culti dei martiri. S. Stefano protomartire, dacché furono rinvenute le sue spoglie (415), s. Giovanni Battista, o S. Lorenzo, diacono romano, e molti altri, ebbero un culto che si estese rapidamente a tutta la Chiesa. Papi di origine orientale introdussero molti culti di martiri a Roma; con le migrazioni di intere popolazioni a causa delle invasioni barbariche seguirono talvolta quelle delle reliquie e del culto di un martire (ad es., s. Quirino da Sciscia a Roma, s. Severino dal Norico al napoletano); tutto ciò per uno sviluppo organico e naturale, senza preventivi interventi da parte dei vescovi. Solo di tanto in tanto occorreva moderare alquanto uno zelo troppo ardente e meno cauto del popolo. – In questo periodo non si può certo ancora parlare di c. nel senso canonico moderno. Il culto solenne e liturgico dei martiri era il frutto di una evoluzione spontanea e logica che si fondava da una parte sulla notorietà storica del fatto del martirio che rendeva il defunto direttamente simile a Cristo, e d’altra parte sopra i due elementi fondamentali per l’origine del culto: data e luogo del martirio.

II L’INIZIO DEL CULTO DEI « NON » MARTIRI

Il periodo delle persecuzioni non era ancora terminato quando un altro gruppo di defunti incominciò ad attirare la speciale venerazione da parte delle comunità cristiane, cioè i « confessori », vale a dire cristiani deferiti all’autorità civile per la loro fede, ma che, per varie circostanze, o non avevano subito il martirio, o vi erano sopravvissuti. Le testimonianze circa la venerazione particolare verso questi confessori (nel senso primitivo della parola) sono molto numerose; e alla sua morte un confessore della fede poteva divenire facilmente l’oggetto di una venerazione simile a quella prestata da un vero martire. Fra gli esempi più noti basta ricordare: Dionigi di Milano (359); Eusebio di Vercelli (370); Atanasio (373); Melezio di Antiochia (381) Giovanni Crisostomo (407). Però si osserva facilmente che alcuni di questi personaggi, si distinsero non solo per quanto soffersero per la fede, ma anche per la strenua difesa di essa sul campo politico e dottrinale e per loro vita ed attività, sicché, appena morti, si creò attorno ad essi subito una fama non dissimile a quella goduta dai martiri. Ci sono poi altri personaggi, i quali, senza essere stati confessori della fede nel senso primitivo, eccelsero talmente per la dottrina, la vita esemplare, l’attività molteplice, politico-ecclesiastica o sociale, che anch’essi, dopo la morte, furono presto circondati da onori analoghi a quelli resi ai martiri; basti nominare Gregorio Taumaturgo (270), Efrem siro (373), Basilio Magno (379), Ambrogio di Milano, Martino di Tours (397), Girolamo (420) e Agostino (430), per tacere di tanti altri.Ma c’è di più. Si era andato sviluppando, nella stessa epoca, e in una scala larghissima, la pratica dell’ascetismo e del monachismo. L’Oriente riecheggiò ben presto della fama degli eremiti e dei cenobiti, e presto anche l’Occidente ne conobbe alcune grandi figure (Atanasio, ad es., il grande esiliato). Antonio abate (356) era conosciuto in tutto il mondo cristiano, attraverso la celebre biografia scritta da s. Atanasio, dove tutti potevano leggere che Antonio era da equipararsi ai martiri antichi, non per effusione di sangue, ma per un martirio non meno autentico e reale, quello cioè dell’ardua e continua conquista della perfezione (Vita, cap. 47: PG 26, 912). Venerazione simile godettero altri grandi asceti e monaci, come, ad es., Ilarione (372); Paolo di Tebe (381); Simeone lo stilita (459). Anche l’anniversario della loro morte venne celebrato liturgicamente, presso le loro tombe sorsero spesso santuari di fama straordinaria, mete di pellegrinaggi rinomati; le loro reliquie furono venerate e ricercate, le chiese in loro onore si moltiplicarono. I primi « non » martiri, che entrarono nel culto liturgico della Chiesa di Roma, sono stati, come pare, Silvestro papa e Martino di Tours. Durante i secc. VI – IX non pochi altri santi « non » martiri furono accolti nei calendari romani, in Roma ebbero i loro oratòri, monasteri e chiese, e passarono di qui oltralpe, e viceversa. Questo movimento di culto fu in gran parte favorito dai Papi di origine non romana, dai molti monaci emigrati in Occidente, o dallo scambio di reliquie, e dalla diffusione delle leggende e delle passioni, ecc.Altro elemento che non si deve sottovalutare e che operò molto in profondità e vastità, è l’opera letteraria dei Padri e degli scrittori ecclesiastici, i quali svilupparono e diffusero sistematicamente la teoria del « martirio incruento », rappresentato appunto dalla vita penitente, ascetica e monastica, o comunque dalla vita di perfezione cristiana. Tale teoria divenne la dottrina comune in tutto il Medioevo e influisce anche oggi. Basteranno alcuni pochi riscontri, rimandando per il resto alla bibliografia notata sotto. Paolino di Nola sollecita per s. Felice, presbitero nolano, la gloria di martire: « Martyrium sine cæde placet , si prompta ferendimensque fidesque Deo caleant; passura voluta sufficit, et summa est meriti testatio voti » (S. Paulini carmina [ed. J . M . J . Hartel : CSEL: XXIX], carm. 14, v. 10-12, p. 46). S. Girolamo non si perita a crivere ad Eustochio: « Mater tua longo martyrio coronata est. Non solum effusio sanguinis in confessione reputatur sed devotæ quoque mentis servitus cotidianum martyrium est » (Epistolæ [ed. I . Hilberg], CSEL: LV, ep. 108, n.31, p. 349). Di Martino di Tours dice Sulpicio Severo: implevit tamen sine cruore martyrium »; nella sua festa si riscontrano ancora la salmodia ed altri elementi Iiturgici propri dei martiri. – [BIBL.: H . Dclehaye, Sanctus, essai sur le eulte des saints dans l’antiquité, Bruxelles 1927, pp. 109-21, 162-89: D. Gougaud, Dévotions et pratiques ascétiques du moyen age, Maredsous 1929, p. 200-19; H. Delehaye, Les origines du eulte des martyrs, 2a ed., Bruxelles 1933, p. 50 sgg. ; M. Vi!ler-K. Rahner, Aszese und Mystik in der Vàterzeit, Friburgo in Br. 1939, pp. 29-59; H. Leclereq, Saint, in DACL, XV (1949), coll. 373-462.]

III. LA c. VESCOVILE. – Fra i secc. VI e X, mentre l’Oriente si distaccava sempre più dall’Occidente, la dissoluzione dell’impero romano e l’immigrazione dei popoli barbarici, con la relativa necessità di convertirli alla fede cattolica, posero la Chiesa di fronte a compiti nuovi e ardui. È l’epoca dei grandi vescovi, dei monaci missionari, dei re convertiti che finiscono persino nel chiostro, delle regine e principesse fondatrici di monasteri e chiese e poi esse stesse badesse o monache, degli eremiti e dei pellegrini; un mondo in fermento e in movimento, con profondi contrasti fra violenza e santità, in mezzo a popoli giovani, di forte immaginativa, entusiasti della nuova fede, ammiratori degli eroi della carità e della illibatezza evangelica. In questo periodo, oltre una rifioritura del culto dei santi martiri, nascono un po’ da per tutto nuovi culti di santi: bastava al popolo spesso la fama di vita penitente, la fondazione di un monastero con le sue benefiche conseguenze, una grande beneficenza verso i poveri, talvolta una morte violenta, anche se non sempre per stretto motivo di fede, e soprattutto la fama di miracoli, per far nascere un nuovo culto: voce popolare di santa vita, e credito di miracoli sono i due punti di partenza per questi culti dell’alto medio evo. Le grandi chiese considerarono ordinariamente i loro fondatori e primi vescovi come altrettanti santi; lo stesso vale per le figure di grandi abati. In tutti i casi se ne raccolgono le memorie, se ne scrivono le leggende, senza troppe preoccupazioni di critica; i calendari e i martirologi di quei secoli si arricchiscono con sempre nuovi nomi, nelle chiese si moltiplicano gli altari e il numero delle feste aumenta rapidamente. Di tanto in tanto occorreva anche reprimere facili abusi. Carlomagno, ad es., dovette prendere delle misure contro i culti abusivi ( MGH , Capitularia, II, 56: « Ut falsa nomina martyrum et incertæ sanctorum memoriæ non venerentur »; il Concilio di Francoforte [794]: « Ut nulli novi sancti colantur aut invocentur nec memoriæ eorum per vias erigantur, sed ii soli in ecclesia venerandi sint, qui ex auctoritate passionum aut vitæ merito electi sunt »; MGH, Capitularia, II, 170; il Concilio di Magonza [813]: «Deinceps corpora sanctorum de loco ad locum nullus præsumat transferre sine Consilio principis vel episcoporum et sanctæ synodis licentìa»; Mansi, XIV, 75). Dalle varie e molteplici notizie su questa materia, risulta che si stava formando in questi secoli una certa prassi più o meno uniforme, attraverso la quale veniva autorizzato un nuovo culto. Il punto di partenza rimane sempre la fama pubblica, la vox populi, che subito dopo la morte del servo di Dio correva alla tomba, ne invocava l’intercessione e ne proclamava l’effetto taumaturgico. Allora era avvisato il vescovo competente; in sua presenza, anzi, spesso in occasione di un sinodo diocesano o provinciale, si leggeva una vita del defunto e soprattutto la storia dei miracoli (primissimo nucleo dei futuri processi) e in seguito all’avvenuta approvazione, si procedeva all’esumazione del corpo per dargli una sepoltura più onorevole: la elevatio. Ma spesso seguiva subito o più tardi un altro passo: la translatio, cioè la nuova deposizione del corpo santo davanti o accanto ad un altare o addirittura sotto o sopra l’altare, il quale prendeva il nome dal santo ivi venerato; anzi, alle volte la stessa chiesa era ampliata o ricostruita e dedicata precisamente al santo elevato o traslato. Dall’elevazione o traslazione in poi veniva celebrata regolarmente la festa liturgica, spesso con grande solennità, non solo nella località dove sorgeva l’altare o la chiesa, ma in tutta la diocesi, la regione, la provincia, o in tutta la famiglia religiosa. – Gli elementi principali dunque di questa procedura che si era andata formando in epoca merovingia e aveva preso una certa consistenza in èra carolingia, sono: pubblica fama di santità e di miracoli (o di martirio), presentazione al vescovo diocesano o al sinodo (diocesano, provinciale) di una vita appositamente composta, con particolare rilievo dei miracoli, attribuiti al « santo », approvazione ossia consenso ufficiale al culto che si apre con l’elevazione o la traslazione. Vale a dire si crea un punto fisso del culto: l’altare proprio del nuovo santo, ovvero la sua chiesa, dove viene celebrata regolarmente la festa liturgica. Il culto può restare limitato o può espandersi più o meno rapidamente e largamente; questo è un elemento secondario, l’essenziale è l’intervento ufficiale dell’autorità ecclesiastica competente, cioè, in quell’età, del vescovo ordinario, in forza della sua autorità propria, resa più evidente, spesso, anche dal concorso dei vescovi vicini, o di un sinodo. Siamo in tal modo dinanzi ad una disciplina ecclesiastica ordinaria e normale, riconosciuta universalmente, quindi legittima e valida a tutti gli effetti: cioè la c. vescovile, o locale, ovvero particolare, come alcuni preferiscono nominarla, unica ed esclusiva dal sec. VI al XII e continuata talvolta fino al sec. XIV. Un esempio molto tardo, per citarne uno, abbiamo ancora nel 1215, nella c. di s. Pietro di Trevi, celebrata prout poterat dal vescovo di Anagni, Pietro, in presenza dei prelati vicini. A s. Pier Damiani (m. nel 1072) questa prassi era ben nota ed egli ne parla come di cosa ordinaria (cf. Opusculum VI, cap. 19: PL 145, 142). – Per concludere: per più di 5 e 6 secoli (secc. VI-XII) la c. vescovile era la c. normale e unica in uso nella Chiesa latina. Accanto ad essa, come si vedrà subito, la c. papale crebbe molto lentamente e ci volle molto tempo e molto lavoro dottrinale e canonistico prima che essa riuscisse a soppiantare la c. medioevale ordinaria, compiuta dai vescovi. Da notare sopra tutto che la c. vescovile dava inizio ad un culto vero e proprio di santo, cioè alla celebrazione della festa liturgica, all’erezione o dedica di altari e di chiese, all’uso del nome nel Battesimo e via dicendo, senz’alcun limite. L’estensione geografica più o meno vasta di questi culti è un elemento secondario e puramente accessorio. Bisogna evitare di applicare a quei tempi i concetti giuridici moderni; del resto, anche la c. papale formale, sebbene obblighi tutta la Chiesa a venerare un santo, non implica per nulla l’imposizione della sua festa a tutta la Chiesa. – [BIBL.: Oltre i libri del p. H . Delehaye, citati sopra, cf. St. Beissel, Die Verehrung der Heiligen und ihrer Reliquien in Deutschland, 2 voll., Friburgo in Br. 1890, 1892; E. Marignon, Etudes sur la civilisation française, II: Le culte des saints sous les Mérovingiens, Parigi 1899.].

[Nota redaz. Il carattere rosso è redazionale. … “se non eretico, certamente temerario, scandaloso a tutta la Chiesa, ingiurioso verso i santi, sospetto di eresia, assertore di erronea proposizione, chi osasse affermare che il Pontefice in questa o quella c. abbia errato, e che questo o quel santo da lui canonizzato non dovesse onorarsi con culto di dulia… Questa asserzione di S. S. Benedetto XIV [P. Lambertini] merita un breve commento. Se noi assistiamo anche oggi a canonizzazioni “strane”, che lasciano dubbi, o meglio, danno certezze quasi matematiche, non è perché il Papa abbia errato, ma semplicemente perché la canonizzazione è finta ed invalida, fatta dai burattini del B’nai B’rith, dagli antipapi insediati dall’anticristo! punto.]

[Continua…]

 

 

UN’ENCICLICA al giorno, toglie l’APOSTATA-SCISMATICO di torno: “SATIS COGNITUM” di S. S. Leone XIII

S. S. LEONE XIII

“Satis cognitum”

Lettera Enciclica

(L’unità della Chiesa)

29 giugno 1896

 [Questa grande, straordinaria Enciclica di S. S. Leone XIII, è in grado da sola, di spazzar via tutti i “fecalomi ecumenici” vomitati da tanti scellerati apostati modernisti, sia “di sinistra” [gli aderenti agli obbrobri del “novus ordo”], che “di destra”, i finti tradizionalisti [gli abominevoli sedevacantisti, i tesisti sede(cerebro)privazionisti del fasullo vescovo francese, i “fratelli” ed i nipotini spirituali del cavaliere kadosh, gli eredi di Feeney l'”idrofilo”, ed altri eretici “cani sciolti”], mediante una catechesi assolutamente puntuale, chiara, con riferimenti amplissimi alla santa Scrittura, alla Tradizione apostolica, agli scritti dei Padri della Chiesa, mostrando una fermezza teologica senza pari, senza tentennamenti o ermeneutiche confuse, assoluta, infallibile ed irreformabile. Un documento Magisteriale di importanza primaria nella storia della Chiesa Cattolica, inconfutabile, a meno che non si voglia apertamente dichiarare di essere non fuori, ma “lontani” mille miglia dalla Chiesa Cattolica. L’argomento di fondo è l’ “UNITA’ della CHIESA, e vengono illustrati concetti dogmatici inerenti all’assetto del “Corpo mistico di Cristo”, al ruolo dei Vescovi, e soprattutto del Vicario di Cristo in terra, il PAPA. Qui non c’è spazio per i “vomiti dell’ECUMENISMO MASSONICO”; è un documento non proprio breve, da rileggere più volte, con calma, magari a tratti e a più riprese, da fissare nella mente per sfuggire alle mille trappole dei blateranti affabulatori modernisti di obbedienza massonica e delle conventicole adoranti lucifero ed i suoi luogotenenti infernali. Vale la pena soffermarvisi e impiegare un po’ di tempo, ne va della salvezza eterna della nostra anima! E poi … si può respirare a pieni polmoni “aria cattolica”, ci disintossicheremo un po’ dai miasmi pestilenziali del massonismo dai quali tutti siamo avvolti! …

Satis cognitum vobis est, cogitationum et curarum Nostrarum partem

“Vi è ben noto come non piccola parte dei nostri pensieri e delle nostre cure è rivolta ad ottenere con ogni studio il ritorno dei traviati all’ovile del Sommo Pastore delle anime, Gesù Cristo. Tenendo presente questo, credemmo opportuno con salutare consiglio e proposito che gioverebbe non poco disegnare l’immagine e i lineamenti della Chiesa, tra i quali degnissima di speciale considerazione è l’unità, che il divino Autore in perpetuo le impresse come carattere di verità e di forza. La nativa bellezza della Chiesa deve impressionare molto gli animi di chi la contempla: ne è inverosimile che basti la sua contemplazione a togliere di mezzo l’ignoranza e a sanare le false e preconcette opinioni, specialmente di coloro che senza loro colpa sono in errore: che anzi può destarsi negli uomini un amore verso la Chiesa simile alla carità, con la quale Gesù Cristo, redimendola col suo sangue divino, la fece sua sposa: “Cristo ha amato la Chiesa, e per essa ha dato se stesso” (Ef V,25). A quanti faranno ritorno all’amantissima madre, finora non bene conosciuta, o malamente abbandonata, se questo ritorno non costerà loro il sangue, che pure fu il prezzo con il quale Cristo la conquistò, ma qualche fatica o molestia, molto più lieve a sopportarsi, questo almeno sia loro chiaro e palese, che non è un tale peso ad essi imposto dalla volontà dell’uomo, ma da un volere e comando divino; e di conseguenza, mediante la grazia celeste, facilmente conosceranno per esperienza quanto sia vera la sua affermazione: “Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero” (Mt XI,30). Per questo, avendo riposta grandissima speranza nel “Padre dei lumi“, da cui discende “ogni bel dono e ogni regalo perfetto” (Gc 1,17), di tutto cuore lo supplichiamo, affinché Egli, “che solo fa crescere” (1Cor III,6), voglia benignamente concederci la forza di persuadere. – Benché Dio possa per sé operare con la sua virtù quanto operano le nature create, tuttavia Egli volle con benigno consiglio della sua Provvidenza servirsi degli uomini per aiutare gli uomini; e come nell’ordine naturale si serve dell’opera e del contributo dell’uomo per comunicare alle cose la perfezione conveniente così pure si comporta per dare all’uomo la santità e la salute. Ora è chiaro che tra gli uomini non vi può essere comunicazione di sorta se non attraverso le cose esterne e sensibili. Per la qual cosa il Figlio di Dio assunse l’umana natura e “sussistendo nella natura di Dio … spogliò se stesso, prendendo la natura di servo, divenendo simile agli uomini” (Fil II,6-7), e così, dimorando in terra, personalmente insegnò la sua dottrina e i precetti della sua legge. – E poiché conveniva che la sua divina missione fosse perenne, perciò Egli riunì intorno a sé dei discepoli della sua dottrina, e li fece partecipi del suo potere; e avendo su di essi chiamato dal cielo lo Spirito di verità, comandò loro di percorrere tutta la terra, predicando fedelmente quanto Egli aveva insegnato e comandato, affinché tutto il genere umano potesse conseguire la santità in terra e la felicità eterna nel cielo. – Per questa ragione e in virtù di questo principio fu generata la Chiesa, la quale, se si considera l’ultimo fine a cui mira, e le cause prossime della santità, è certamente spirituale; ma se si considerano i membri che la compongono e i mezzi che conducono al conseguimento dei doni spirituali, è esterna e necessariamente visibile. Gli Apostoli ricevettero la missione d’insegnare attraverso segni, che si percepiscono dalla vista e dall’udito, e non altrimenti essi l’eseguirono se non con detti e con fatti, che fanno impressione sui sensi. E così la loro voce, percuotendo esternamente gli orecchi, produsse la fede negli animi: “La fede viene dalla predicazione, e la predicazione si fa per mandato di Cristo” (Rm X,17). E sebbene la stessa fede, o l’assenso alla prima e suprema verità, per sé sia contenuta nella mente, tuttavia occorre che si manifesti con un’esplicita professione: “Col cuore si crede per avere la giustizia, e con la bocca si professa la fede per ottenere la salvezza” (Rm X,10). Così pure non vi è nulla per l’uomo di più interno della grazia celeste, che produce la santità, ma gli ordinari e principali strumenti per la partecipazione della medesima sono esterni: li chiamiamo Sacramenti, che vengono amministrati con certi riti da persone, scelte appositamente a tale scopo. Comandò Gesù Cristo agli Apostoli e ai loro successori in perpetuo che istruissero e dirigessero le genti, e comandò a queste che ne ricevessero la dottrina e fossero sottomesse e obbedienti al loro potere. Ma questi mutui diritti e doveri nel Cristianesimo non avrebbero potuto non solo mantenersi, ma neppure iniziarsi, se non attraverso i sensi, interpreti e indicatori delle cose. – Ed è per questo che spesso le sacre Scritture chiamano la Chiesa ora “corpo”, ora “corpo di Cristo”. “Ora voi siete il corpo di Cristo” (1Cor 12,27). Come corpo essa è visibile, e in quanto è di Cristo, è un corpo vivo, operoso e vitale, poiché Gesù Cristo la custodisce e la sostenta con l’immensa sua virtù, come la vite alimenta e rende fruttiferi i suoi tralci. Come negli animali il principio di vita è interno e del tutto nascosto, e tuttavia si rivela e si manifesta per il moto e l’atteggiamento delle membra, così pure nella Chiesa il principio di vita soprannaturale si manifesta con evidenza per le sue stesse operazioni. – E da ciò deriva che sono in un grande e fatale errore coloro, i quali si foggiano in mente a proprio capriccio una Chiesa quasi latente e per nulla visibile; come anche coloro che l’hanno in conto di umana istituzione con un certo ordinamento di disciplina e di riti esterni, ma senza la perenne comunicazione dei doni della Grazia divina, e senza quelle cose che con aperta e quotidiana manifestazione attestino che la sua vita è derivata da Dio. Ora tanto ripugna che l’una o l’altra cosa sia la Chiesa di Gesù Cristo, quanto che l’uomo sia solo corpo o solo spirito. L’insieme e l’unione di queste due parti è del tutto necessaria alla Chiesa, come alla natura umana l’intima unione dell’anima e del corpo. Non è la Chiesa come un corpo morto, ma è il corpo di Cristo informato di vita soprannaturale. E come Cristo, nostro Capo ed esemplare, non è tutto Lui, se in Lui si considera o la sola natura umana visibile, come fanno i fotiniani e i nestoriani, o solamente la divina natura invisibile, come sogliono fare i monofisiti, ma è uno solo per l’una e l’altra natura visibile e invisibile e nelle quali sussiste; così il suo corpo mistico non è vera Chiesa se non per questo, che le sue parti visibili derivano forza e vita dai doni soprannaturali e dagli altri elementi da cui sgorga la loro ragione di essere e la loro natura propria. E poiché la Chiesa è quello che è per volontà e istituzione divina, ha da rimanere tale in perpetuo; e se tale non rimanesse, non sarebbe certamente fondata in perpetuo, e il fine stesso, a cui essa tende, verrebbe circoscritto da determinati confini di tempo e di luogo: ma l’una e l’altra cosa ripugna alla verità. Questa unione dunque di cose visibili e invisibili, appunto perché naturale e congenita per divino volere nella Chiesa, deve necessariamente perdurare, finché durerà la Chiesa. Perciò il Crisostomo diceva: “Non allontanarti dalla Chiesa, poiché nulla vi è più forte della Chiesa. La tua speranza è la Chiesa, la tua salute è la Chiesa, il tuo rifugio è la Chiesa. Essa è più alta del cielo, più vasta della terra. Non invecchia mai, ma è sempre giovane. Infatti per dimostrare la sua fermezza e stabilità la Scrittura la chiama monte“. E Agostino: “Credono (i gentili) che la religione cristiana deve vivere in questo mondo fino a un certo tempo, e poi, non più. Fino a tanto che nasce e tramonta il sole, essa durerà come il sole, cioè, fino a tanto che durerà il volgere dei secoli, non verrà meno la Chiesa di Dio, o il corpo di Cristo, sulla terra“. La stessa cosa dice altrove: “Vacillerà la Chiesa, se vacillerà il fondamento: ma come mai vacillerà Cristo? … Non vacillando Cristo, neppure essa declinerà in eterno. Dove sono coloro che dicono che è perita nel mondo la Chiesa, mentre essa neppure può inclinarsi?“. – Di questi fondamenti deve servirsi chiunque cerca la verità. La Chiesa fu istituita e formata da Cristo Signore: e perciò quando si cerca quale sia la sua natura, occorre anzitutto conoscere quello che Cristo ha voluto e ha fatto. Secondo questa norma si deve specialmente esaminare l’unità della Chiesa, di cui ci parve bene dare in questa lettera un cenno a comune vantaggio. – Che la vera Chiesa di Gesù Cristo sia una, è cosa a tutti così nota, per le chiare e molteplici testimonianze della sacra Scrittura, che nessun cristiano osa contraddirla. Però nel giudicare e stabilire la natura dell’unità, vari errori sviano molti dal retto sentiero. Non solo l’origine, ma tutta la costituzione della Chiesa appartiene a quel genere di cose che liberamente si effettuano dagli uomini, e quindi tutto l’esame deve basarsi sui fatti, e si deve cercare non in che modo la Chiesa possa essere una sola, ma come una sola l’ha voluta Chi l’ha fondata. – Ora se si osserva ciò che fece, Gesù Cristo non formò la sua Chiesa in modo che abbracciasse più comunità dello stesso genere, ma distinte e non collegate insieme con quei vincoli che formano una sola e individua Chiesa, a quel modo che nel recitare il simbolo della fede noi diciamo “Credo la chiesa una…“. “La Chiesa ebbe in sorte una sola natura, ed essendo una, gli eretici vogliono scinderla in molte. Affermiamo dunque che è unica l’antica e cattolica Chiesa nel suo essere e nella comune credenza, nel suo principio e per la sua eccellenza…“. – Del resto anche l’eminenza della Chiesa, come principio di costruzione, risulta dalla sua unità, superando ogni altra cosa, e nulla avendo di simile a sé o di uguale”. E infatti Gesù Cristo, parlando di questo mistico edificio, non parla che di una Chiesa, che Egli chiama sua: “Edificherò la mia chiesa“. Se ne pensi qualunque altra fuori di questa, non essendo fondata da Gesù Cristo, non può essere la vera chiesa di Cristo. E questo diventa ancor più evidente, se si considera l’intento del divino Autore. Che cosa infatti Egli ebbe di mira, che cosa volle nel fondare la chiesa? Trasmetterle l’ufficio e la missione che Egli ebbe dal Padre, perché la continuasse. Questo Egli aveva stabilito di fare, e questo fece: “Come il Padre ha mandato me, cosi io mando voi” (Gv XX,21). “Come tu hai mandato me nel mondo, così pure li ho mandati nel mondo” (Gv XVII,18). Ora ufficio di Cristo è di salvare ciò che era perito, cioè non alcune genti e città, ma tutto il genere umano senza distinzione di tempi e di luoghi: “Venne il Figlio dell’uomo … affinché il mondo sia salvato per opera di lui” (Gv III,17). “Infatti non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, per il quale noi possiamo essere salvi” (At IV,12). È pertanto dovere della Chiesa diffondere largamente in tutti gli uomini e propagare in tutte le età la salute e insieme tutti i benefici che ne provengono. Per questo è necessario che sia unica, secondo il volere del suo Autore, in tutto il mondo e in tutti i tempi. Perché potesse essere più d’una, converrebbe che si estendesse fuori del mondo, e che s’immaginasse un nuovo e non mai udito genere umano. – Che la Chiesa dovesse essere una, che in ogni tempo dovesse abbracciare quanti sono nel mondo, vide e vaticinò Isaia, quando in una visione del futuro egli la vide sotto l’apparenza di un monte di smisurata altezza, che esprimeva l’immagine, della casa del Signore, cioè della Chiesa. “E avverrà negli ultimi giorni che il monte della casa del Signore si ergerà sulla sommità dei monti” (Is II,2). Ora uno è il monte sovrastante gli altri monti, una la casa del Signore, a cui concorreranno tutte le genti per avere la norma del vivere. “E tutte le genti affluiranno ad esso … e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci ammaestrerà intorno alle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri” (IsII2,2-3). Accennando a questo testo Ottato di Milevi dice: “Sta scritto nel profeta Isaia: Da Sion uscirà la legge, e la parola di Dio da Gerusalemme. Non nel monte Sion dunque Isaia vede la valle, ma nel monte santo, che è la Chiesa, il qual monte per tutto l’orbe romano sotto ogni ciclo innalza il capo. È pertanto la Chiesa quella Sion spirituale, nella quale Cristo è costituito Re dal Padre, che in tutto il mondo esiste, e in cui la Chiesa cattolica è una“. E Agostino dice: “Che vi è di più visibile di un monte? Eppure vi sono monti in qualche parte della terra a noi sconosciuti. … Ma non così quel monte che ha di sé riempita tutta la superficie della terra, e di cui si dice che è fondato sulle vette dei monti“. Inoltre il Figlio di Dio volle che la Chiesa fosse il suo mistico Corpo, a cui Egli come capo si unisce a somiglianza del corpo umano che assunse. E come Egli prese un unico corpo mortale, che offrì ai tormenti e alla morte per pagare il prezzo dell’umano riscatto, così pure Egli ha un solo corpo mistico, nel quale e per il quale rende gli uomini capaci della santità e della salute eterna. “Lui (Cristo) costituì (Dio) capo sopra tutta la Chiesa, che è il corpo di Lui” (Ef 1.22-23). – Membra separate e disperse non possono aderire al capo per formare insieme un corpo. Ora Paolo dice: “Come tutte le membra del corpo, benché molte, formano tuttavia un solo corpo; così anche Cristo” (1Cor XII,12). E perciò dice di questo corpo mistico che è “connesso e collegato”. “Il capo è Cristo, da cui tutto il corpo è ben connesso e solidamente collegato, per tutte le congiunture del rifornimento secondo l’attività proporzionata a ciascun membro” (Ef IV,15-16). Quindi, se qualche membro si divide e vaga disperso dagli altri, non può rimanere congiunto con lo stesso e unico capo. “Uno è Dio, dice san Cipriano, Cristo è uno, una la Chiesa, una la sua fede, uno il suo popolo, congiunto col glutine della concordia in una solida unità di corpo. Non si può scindere l’unità, né sciogliere la compagine di un corpo per sé uno“. – E per meglio rappresentare la Chiesa una, la paragona al corpo animato, le cui membra non possono vivere altrimenti che congiunte col capo, da cui derivano la loro virtù vitale; separate che siano, necessariamente muoiono. “Non si possono (alla Chiesa) lacerare e strappare le viscere, e non può essere fatta a pezzi. Tutto ciò che viene strappato dalla matrice non può avere per sé spirito e vita“. Ora che somiglianza ha mai un corpo morto con uno vivo? E san Paolo dice: “Nessuno odia il suo corpo, ma lo nutre e lo custodisce, come Cristo fa con la Chiesa, perché siamo membri del suo corpo, carne della sua carne, ossa delle sue ossa” (Ef V,29-30). Se dunque si vuol formare un’altra chiesa, un altro corpo, gli si dia un altro capo, un altro Cristo. “Guardate bene, dice sant’Agostino, quello che dovete evitare, guardate quello che dovete osservare, guardate quello che dovete temere. Accade che nel corpo umano, anzi dal corpo umano, si tagli via qualche membro, una mano, un dito, un piede; forse che l’anima segue il membro reciso? Quand’esso era unito al corpo, viveva; tagliato, perde la vita. Non altrimenti l’uomo cristiano è cattolico in quanto vive nel corpo (della Chiesa), tagliatene fuori, diviene eretico; ora lo spirito non segue un membro amputato“. È dunque la Chiesa di Cristo unica e perpetua. Chiunque se ne separa, devia dalla volontà e dal precetto di Cristo nostro Signore, e, abbandonata la via della salute, corre alla rovina. “Chiunque, dice san Cipriano, segregato dalla (vera) Chiesa, si unisce alla adulterina, si allontana dalle promesse (fatte) alla Chiesa, né giungerà al premio di Cristo chi abbandona la Chiesa di Cristo. Chi non mantiene questa unità, non osserva la legge di Dio, non ha la fede del Padre e del Figlio, non raggiunge la vita e la salvezza“. – Ora colui che la fece unica, la fece una, cioè, tale che quanti fossero in essa, si mantenessero associati con strettissimi vincoli insieme in modo da formare un popolo, un regno, un corpo: “Un solo corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati ad una sola speranza, grazie alla vostra vocazione” (Ef IV,4). Gesù Cristo confermò e consacrò in modo solenne questa sua volontà poco prima di morire, così pregando il Padre suo: “Io non prego solamente per essi, ma anche per quelli che mediante la loro parola crederanno in me, affinché anch’essi siano una sola cosa in noi … affinché giungano a perfetta unità” (Gv XVII,20-21.23). Che anzi volle che l’unità fosse tra i suoi seguaci così intima e perfetta che in qualche modo imitasse la sua unione col Padre: “Prego … affinché tutti siano una cosa sola, come tu, o Padre, sei in me, e io in te” (Gv XVII,21). Necessario fondamento di tanta e così assoluta concordia tra gli uomini è il consenso e l’unione delle menti, da cui nasce naturalmente l’armonia delle volontà e la somiglianza delle azioni. E perciò volle, nel suo divino consiglio, che ci fosse nella Chiesa l’unità della fede: virtù che tiene il primo luogo tra i vincoli che ci legano a Dio, e da cui riceviamo il nome di fedeli. “Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef IV,5), che è quanto dire, che, come uno solo è il Signore, uno il battesimo, così anche una sola deve essere la fede di tutti i Cristiani in tutto il mondo. Pertanto l’apostolo Paolo non solo prega, ma domanda e scongiura che tutti abbiano lo stesso sentimento, e fuggano la discordia delle opinioni: “O fratelli, in nome del Signore nostro Gesù Cristo, io vi scongiuro, che tutti teniate uno stesso linguaggio, e non siano tra voi divisioni, ma siate perfettamente uniti in uno stesso sentimento e in uno stesso pensiero” (1 Cor 1,10). E questi testi non hanno certamente bisogno d’interpretazione, poiché parlano chiaramente. Del resto che una debba essere la fede, quanti si professano Cristiani comunemente ne convengono. Quello piuttosto che è di massimo rilievo, anzi assolutamente necessario e in cui molti s’ingannano, è di conoscere quale sia questa specie e forma di unità. La qual cosa, come abbiamo fatto più innanzi in simile assunto, si deve discutere non già con argomenti di probabilità e con congetture, ma con la certa scienza dei fatti, ossia si deve giudicare e stabilire quale sia quell’unità di fede, che Gesù Cristo ci ha comandato. – La celeste dottrina di Gesù Cristo, benché in gran parte fissata nella sacra Scrittura, non poteva tuttavia, se fosse stata lasciata all’arbitrio dell’uomo, vincolare le menti. Infatti poteva accadere che desse luogo a varie e differenti interpretazioni: e ciò non solo per sé stessa e per i misteri della sua dottrina, ma anche per la varietà delle menti umane e il turbamento delle passioni, aberranti in contrarie parti. Dalla differenza dell’interpretare nascono necessariamente le divergenze nel sentire: e quindi le controversie, i dissidi, le contese, quali ne vide la stessa età prossima all’origine della Chiesa. Degli eretici scrive s. Ireneo: “Essi confessano, è vero, le Scritture, ma ne pervertono il senso“. E s. Agostino: “Non sono nate le eresie e certi dogmi perversi, che irretiscono le anime e le precipitano nel profondo, se non quando le sacre Scritture non furono bene intese“. Per armonizzare dunque le menti allo scopo di produrre e mantenere l’accordo delle sentenze, oltre le sacre Scritture, era sempre necessario un altro “principio”. – Lo esige la divina sapienza: poiché Dio non poteva volere che vi fosse una sola fede, se non avesse provveduto un qualche mezzo adatto per conservare questa unità: ciò che le sacre Scritture, come diremo fra poco, apertamente dichiarano. È certo che l’infinita potenza di Dio non è legata e vincolata ad alcuna cosa, e usa tutte le cose come strumenti docili e obbedienti. Si deve dunque esaminare quale sia questo principio esterno che Cristo ha prescelto per trarre quanti sono in suo potere. Quindi occorre richiamare gli inizi della religione cristiana. – Rammentiamo cose a noi attestate dalle divine Scritture e a tutti note. Gesù Cristo con la sua virtù taumaturgica prova la sua divinità e la sua missione divina; ammaestra con la parola le moltitudini, e comanda a tutti con promessa di premi e minaccia di pene eterne, perché a Lui che insegna prestino fede. “Se io non faccio le opere del Padre mio, non credetemi” (Gv X.37). “Se non avessi operato in loro cose che nessun altro fece, non avrebbero colpa” (Gv XV,24). “Se poi faccio tali cose, e non mi volete credere, credete almeno alle mie opere” (Gv X,38). Tutto ciò che Egli comanda, lo comanda con la stessa autorità, e nell’esigere l’assenso dell’intelletto niente eccettua, niente distingue. Quelli dunque che avevano udito Gesù, se si volevano salvare, erano obbligati a ricevere non solo la sua dottrina in genere, ma ad assentire pienamente a tutte le cose da Lui insegnate: poiché ripugna che anche in una cosa sola non si creda a Dio. – Giunto il tempo di ritornare al cielo, egli manda con quello stesso potere, con cui era stato inviato dal Padre, i suoi apostoli, ordinando loro di spandere e diffondere la sua dottrina: “A me fu dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque, e ammaestrate tutte le genti… insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato” (Mt XXVIII,18-20). Saranno salvi quanti obbediranno agli apostoli, e riprovati quanti negheranno loro obbedienza. “Chi crede e si fa battezzare si salverà; chi non crede sarà condannato” (Mc XVI,16). Ora, essendo cosa sommamente conveniente alla provvidenza di Dio di non prescegliere alcuno a un grande ed eccellente ufficio senza dargli ad un tempo quanto gli occorre per ben adempierlo, per questo Gesù Cristo promise che avrebbe mandato ai suoi apostoli lo Spirito di verità, e che quello Spirito sarebbe rimasto in essi perpetuamente. “Se vado, vi manderò (il Confortatore) … quando però verrà lui, lo Spirito di verità, vi guiderà per tutta intera la verità” (Gv XVI,7-13). “E io pregherò il Padre, e vi darà un altro Confortatore, affinché rimanga sempre con voi, lo Spirito di verità” (Gv XIV,16-17). “Egli renderà a me testimonianza; e voi pure mi renderete testimonianza” (Gv XV,26-27). Quindi comanda che la dottrina degli apostoli sia ricevuta con religioso ossequio e santamente osservata come la sua propria. “Chi ascolta voi, ascolta me; e chi rigetta voi, rigetta me” (Lc X,16). Per questo gli apostoli sono ambasciatori di Gesù Cristo, come egli lo è del Padre: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). Di conseguenza, come dovevano gli apostoli e i discepoli essere ossequienti ai detti di Gesù Cristo, così lo debbono essere a quelli degli apostoli quanti vengono istruiti da loro per divino mandato. Quindi non è lecito ripudiare uno solo degli ammaestramenti degli apostoli, come non si può rigettare alcuna cosa della dottrina di Cristo. – E veramente la voce degli apostoli, investiti dello Spirito Santo, largamente risuonò dappertutto. Ovunque essi si fermassero, ivi sempre si presentavano come ambasciatori di Cristo: “Per Lui (Gesù Cristo) ricevemmo la grazia e l’apostolato per sottomettere alla fede nel nome di lui tutte le genti” (Rm 1,5). E la loro divina legazione veniva autenticata da Dio con miracoli. “Essi poi se ne andarono a predicare da per tutto, con la cooperazione del Signore che confermava il loro insegnamento con i miracoli, che l’accompagnavano” (Mc XVI,20). E quale insegnamento? Quello senza dubbio che in sé conteneva quanto essi avevano imparato dal Maestro: infatti apertamente davanti a tutti essi protestano che non potevano tacere le cose che avevano vedute o udite. – Ma, come abbiamo detto altrove, questa missione apostolica non era tale che potesse terminare con la persona degli apostoli o venisse meno con l’andar del tempo, essendo essa una missione universale e istituita per la salvezza del genere umano. Agli apostoli infatti Gesù Cristo comandò che predicassero “l’evangelo ad ogni creatura”, che portassero “il suo nome innanzi alle genti e ai re”, e che fossero “suoi testimoni sino all’estremità della terra”. E promise loro per l’adempimento di sì grande missione la sua assistenza, non già per alcuni anni o epoche determinate, ma per tutto il tempo sino “alla fine del mondo”. A questo proposito san Girolamo dice: “Colui che promette di essere coi suoi discepoli sino alla fine del mondo, fa chiaramente intendere che essi sempre vivranno, e che Egli non si allontanerà mai dai credenti“. Le quali cose come mai si sarebbero potute verificare nei soli apostoli, soggetti anch’essi per l’umana condizione alla morte? Era dunque nei disegni della provvidenza divina che il Magistero, istituito da Gesù Cristo, non finisse con la vita degli apostoli, ma fosse perpetuo. Infatti noi lo vediamo propagarsi e passare per tradizione, diremo così, di mano in mano. Gli apostoli perciò consacrarono dei vescovi, e nominatamente designarono coloro che dovevano succedere loro fra non molto nel “ministero della parola”. – Né si tennero paghi di tanto; ma imposero anche ai loro successori che scegliessero persone idonee, le quali, investite della medesima autorità, avessero lo stesso incarico e ufficio d’insegnare. “Tu, o figlio mio, prendi forza nella grazia, che è in Cristo Gesù, e gli insegnamenti da me avuti in presenza di molti testimoni, trasmettili a uomini fidati, capaci di ammaestrare anche gli altri” (2Tm II,1-2). E perciò come Cristo fu mandato da Dio, e gli apostoli da Cristo, così i vescovi e quanti successero agli apostoli, sono mandati dagli apostoli. “Gli apostoli furono costituiti per noi predicatori dell’evangelo dal Signore nostro Gesù Cristo, e Gesù Cristo fu mandato da Dio. Cristo perciò fu mandato da Dio, e gli apostoli da Cristo, e l’una e l’altra cosa con ordine fu compiuta per volontà di Dio… Predicando poi la parola nelle regioni e nelle città, costituirono vescovi e diaconi dei credenti coloro che erano stati le primizie dei convertiti, dopo averne provata la capacità… Costituirono i suddetti e quindi ordinarono, che, alla loro morte, altri uomini capaci prendessero il loro posto nel ministero“. È dunque indispensabile da un lato che sia costante e immutabile l’ufficio d’insegnare quanto Cristo insegnò, e dall’altro che sia pure costante e immutabile il dovere di ricevere e professare tutta la dottrina degli apostoli. Il che splendidamente s. Cipriano illustra con queste parole: “Quando nostro Signore Gesù Cristo nel suo evangelo affermò che erano suoi nemici quelli che non erano con lui, non additò alcuna specie di eresia, ma mostrò come suoi avversari tutti coloro che, non essendo ne raccogliendo con Lui, disperdevano il suo gregge, dicendo: Chi non è con me, è contro di me; chi non raccoglie con me, disperde“. – Ammaestrata da tali precetti, la Chiesa, memore del suo ufficio, con ogni zelo e sforzo non si è mai tanto preoccupata che di tutelare in ogni sua parte l’integrità della fede e di ritenere ribelli e espellere da sé quanti non la pensassero come lei in un articolo qualunque della sua dottrina. Gli ariani, i montanisti, i novaziani, i quartadecumani, gli eutichiani, non avevano certamente abbandonata in tutto la dottrina Cattolica, ma solo in qualche parte: e tuttavia chi ignora che essi sono stati dichiarati eretici ed espulsi dal seno della Chiesa? Allo stesso modo vennero in seguito condannati quanti furono in vari tempi promotori di perverse dottrine. “Niente vi può essere di più pericoloso di questi eretici, i quali, mentre percorrono il tutto (della dottrina) senza errori, con una sola parola, come con una stilla di veleno, infettano la pura e schietta fede della divina e poi apostolica tradizione“. Tale appunto fu sempre il modo di comportarsi della Chiesa, e ciò anche per l’unanime giudizio dei santi padri, i quali ebbero sempre in conto di scomunicati ed eretici tutti coloro, che anche per poco si allontanarono dalla dottrina proposta dal legittimo magistero. Epifanie, Agostino, Teodoreto ci diedero un lungo catalogo delle eresie dei loro tempi. Agostino poi osserva che errori d’ogni specie possono pullulare; e se qualcuno aderisce ad uno solo di essi, per questo si separa dall’unità cattolica: “Chi crede a queste cose (cioè le eresie indicate), per ciò stesso non deve credersi o dirsi di essere Cristiano Cattolico. Vi possono essere e formarsi anche altre eresie, che non sono ricordate in questa nostra opera; se uno aderisse a qualcuna di esse, non sarebbe cristiano cattolico“. – E il beato Paolo nella Lettera agli Efesini insiste sul modo di tutelare l’unità, di cui parliamo, come fu stabilito per divino volere. Egli dapprima ci esorta a conservare con grande cura la concordia degli animi: “Studiatevi di conservare l’unità dello spirito mediante il vincolo della pace” (Ef IV,3ss); e, poiché gli animi non possono essere per la carità in tutto concordi, quando gli intelletti non consentano nella fede, vuole che in tutti vi sia una sola fede: “Un solo Signore, una sola fede“; e così perfettamente una, che rimuova ogni pericolo di errare: “Allora non saremo più fanciulli sbalzati e portati qua e là da ogni vento di dottrina, tra i raggiri degli uomini e la scaltrezza a inoculare l’errore“. E questo, egli dice, si deve osservare non per qualche tempo, ma “finché tutti insieme non giungiamo all’unità della fede … alla misura della piena statura di Cristo“. – Ma di questa unità, dove Gesù Cristo pose il principio per stabilirla e il presidio per conservarla? In questo che “è lui che alcuni costituì apostoli … altri pastori e dottori, per rendere i santi capaci di compiere il loro ministero, affinchè sia edificato il corpo di Cristo” (Ef IV,11-12). Per la qual cosa fin dalla più remota antichità i dottori e padri della Chiesa solevano seguire questa regola e ad una voce difenderla. Così dice Origene: “Ogni volta che (gli eretici) mostrano le scritture canoniche, che ogni cristiano ammette e crede, sembrano dire: Ecco la parola di verità. Ma noi non dobbiamo credere loro, né allontanarci dalla prima tradizione ecclesiastica, né credere diversamente, se non come per successione le chiese di Dio ci hanno tramandato“. E Ireneo afferma: “La vera dottrina è quella degli apostoli … secondo le successioni dei vescovi … trattazione ripiena delle Scritture, custodita con diligenza e senza inganno, che giunse fino a noi“. Tertulliano dice: “E certo che ogni dottrina, che sia conforme a quelle tenute dalle primitive chiese apostoliche, è veritiera e senza dubbio afferma ciò che le chiese ricevettero dagli apostoli, gli apostoli da Cristo e Cristo ricevette da Dio… Abbiamo comunione con le chiese apostoliche; in nessuna di esse vi è una dottrina diversa: questa è la testimonianza verace“. Ilario poi afferma: “(Cristo, insegnando dalla barca) vuole indicare che quelli che sono fuori della Chiesa, non possono capire la parola divina. La barca infatti è la figura della Chiesa; quelli che sono fuori di essa, e quelli che stanno sterili e inutili sulla riva, non possono comprendere la parola di vita posta e predicata in essa“. Rufino loda Gregorio Nazianzeno e Basilio, perché “si dedicavano solamente allo studio dei libri della s. Scrittura, e li interpretavano non seguendo la propria intelligenza, ma secondo l’autorità e gli scritti degli autori precedenti, che a loro volta avevano ricevuto le regole dell’interpretazione dalla successione apostolica“. – Da quanto si è detto appare dunque che Gesù Cristo istituì nella Chiesa “un vivo, autentico e perenne magistero”, che Egli stesso rafforzò col suo potere, lo informò dello Spirito di verità e l’autenticò coi miracoli; e volle e comandò che i precetti della sua dottrina fossero ricevuti come suoi. Quante volte dunque questo magistero dichiara che questo o quel dogma è contenuto nel corpo della dottrina divinamente rivelata, ciascuno lo deve tenere per vero, poiché, se potesse essere falso, ne seguirebbe che Dio stesso sarebbe autore dell’errore dell’uomo, il che ripugna: “O Signore, se vi è errore, siamo stati da te ingannati”. Quindi, rimossa ogni ragione di dubitare, a chi mai sarà lecito ripudiare una sola di queste verità, senza che egli venga per questo stesso a cadere in eresia e senza che, essendo separato dalla chiesa, rigetti in blocco tutta la dottrina cristiana? – Tale è infatti la natura della fede, che nulla tanto le ripugna come ammetterne un dogma e ripudiarne un altro. Infatti la Chiesa professa che la fede è una “virtù soprannaturale, con la quale, ispirati e aiutati dalla grazia di Dio, crediamo che sono vere le cose da Lui rivelate, non già per l’intrinseca verità delle medesime conosciuta con il lume naturale della ragione, ma per l’autorità dello stesso Dio rivelante, che non può ingannare né essere ingannato“. Se dunque si conosce che una verità è stata rivelata da Dio, e tuttavia non si crede, ne segue che nulla affatto si crede per fede divina. Infatti quello stesso che l’apostolo Giacomo sentenzia del delitto in materia di costumi, deve affermarsi di un’opinione erronea in materia di fede: “Chiunque avrà mancato in un punto solo, si è reso colpevole di tutti” (Gc II,10). Anzi a più forte ragione deve dirsi di questa che di quello. Infatti meno propriamente si dice violata tutta la legge da colui che la trasgredì in una cosa sola, non potendosi vedere in lui, se non interpretandone la volontà, un disprezzo della maestà di Dio legislatore. Invece colui che, anche in un punto solo, non assente alle verità rivelate, ha perduto del tutto la fede, in quanto ricusa di venerare Dio come somma verità e “proprio motivo di fede”: perciò sant’Agostino dice: “In molte cose concordano con me, in alcune poche con me non concordano; ma per quelle poche cose in cui non convengono con me, a nulla approdano loro le molte in cui con me convengono“. – E con ragione; perché coloro che della dottrina cristiana prendono quello che a loro piace, si basano non sulla fede, ma sul proprio giudizio: e non “rendendo soggetto ogni intelletto all’obbedienza a Cristo” (2Cor X,5) obbediscono più propriamente a loro stessi che a Dio. “Voi – diceva Agostino – che nell’evangelo credete quello che volete, e non credete quello che non volete, credete a voi stessi piuttosto che all’evangelo“. – Per questo i padri del concilio Vaticano nulla hanno decretato di nuovo, ma solo ebbero in vista l’istituzione divina, l’antica e costante dottrina della Chiesa e la stessa natura della fede, quando decretarono: “Per fede divina e cattolica si deve credere tutto ciò che si contiene nella parola di Dio scritta o tramandata, e viene proposto dalla Chiesa o con solenne definizione o con ordinario e universale Magistero come verità da Dio rivelata“. Pertanto essendo chiaro che Dio vuole assolutamente nella sua Chiesa l’unità della fede, e sapendosi quale essa sia e con quale principio deve essere tutelata per divino comando, ci sia permesso d’indirizzare a quanti non persistono nel voler chiudere gli orecchi alla verità, le seguenti parole di Agostino: “Vedendo noi tanta abbondanza di aiuti da parte di Dio, tanto profitto e frutto, dubiteremo di chiuderci nel seno di quella Chiesa, la quale, anche per confessione del genere umano, dalla sede apostolica per la successione dei vescovi, nonostante che intorno a lei latrino vanamente gli eretici, già condannati sia dall’opinione popolare, sia dal grave giudizio dei concili, sia dalla grandezza dei miracoli, è giunta all’apice dell’autorità? Il negarle il primato, è proprio o di una somma empietà, o di una precipitosa arroganza. … E se ogni arte, per quanto vile e facile, perché si possa apprendere, richiede un insegnante o un maestro: che v’è di più superbamente temerario che non voler conoscere i libri contenenti i divini misteri dai loro interpreti, o, non conoscendoli, volerli condannare?“. – È dunque senza dubbio compito della chiesa custodire la dottrina di Cristo e propagarla inalterata e incorrotta. E neppure questo è tutto, anzi nemmeno in ciò si racchiude il fine, per cui la chiesa fu stabilita. Infatti, come Gesù Cristo si è sacrificato per la salvezza del genere umano, e a questo scopo ha diretto quanto ha insegnato e operato, così volle che la chiesa cercasse nella verità della dottrina quanto fosse necessario alla santificazione e alla salute eterna degli uomini. – Ora la sola fede non basta a raggiungere così grande ed eccelsa meta, ma si richiede sia la pietà e la religione, che specialmente consiste nel divin Sacrificio e nella partecipazione dei Sacramenti, sia la santità delle leggi e della disciplina. Tutte queste cose deve contenere in sé la Chiesa, come quella che perpetua l’ufficio del Salvatore. Essa sola dà ai mortali quella Religione perfetta, che Egli volle in lei incarnare, e soltanto essa amministra quelle cose, le quali, secondo l’ordine della Provvidenza, sono gli strumenti della salvezza. – E a quel modo che la celeste dottrina non fu lasciata in balia dell’ingegno e della volontà dell’uomo, ma, insegnata al principio da Cristo, venne poi affidata, come già si disse, al Magistero della Chiesa, così non ai singoli individui del popolo cristiano, ma a persone scelte fu comunicato da Dio il potere di operare e amministrare i divini misteri, insieme al potere di reggere e governare. Infatti non ad altri che agli Apostoli e ai loro legittimi successori si riferiscono quelle parole di Gesù Cristo: “Andate per tutto il mondo e predicate l’evangelo … battezzandoli. … Fate questo in memoria di me. … A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi“. Allo stesso modo solo agli Apostoli e ai loro successori comandò che pascessero il suo gregge, cioè, che governassero tutta la cristianità, e per conseguenza comandò ai semplici fedeli che dovessero essere a loro soggetti e obbedienti. I quali uffici apostolici vengono tutti da san Paolo compendiati in questa sentenza: “Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1Cor IV,1). – Per questo Gesù Cristo invitò tutti i mortali, presenti e futuri, a seguirlo come Salvatore e Capo, e non solo come singoli individui, ma anche come associati e uniti insieme realmente e di cuore, tanto da formare di una moltitudine un popolo giuridicamente costituito in società, e uno per l’unità di fede, di fine, di mezzi e di gerarchia. Così egli pose nella Chiesa tutti quei naturali principi che danno origine all’umana società, in cui gli individui raggiungono la perfezione propria della loro natura; egli pose infatti nella Chiesa quanto occorre, perché coloro che vogliono essere figli adottivi di Dio, possano conseguire una perfezione conforme alla loro dignità e ottenere la salute. La Chiesa dunque, come accennammo altrove, è guida alle cose celesti, e ad Essa Dio diede l’incarico di provvedere e stabilire quanto concerne la Religione, e di governare con potere proprio e con tutta libertà la società cristiana. Per questo, o non conoscono bene la Chiesa, o la calunniano, coloro che l’accusano di volersi intromettere nelle cose civili o invadere i diritti dello stato. Anzi Dio ha fatto sì che la Chiesa fosse di gran lunga superiore a tutte le altre società; infatti il fine a cui tende è tanto più eccelso di quello a cui mirano le altre società, quanto la grazia supera la natura e i beni immortali superano quelli caduchi. – La Chiesa è una società “divina” nella sua origine; “soprannaturale” nel suo fine e nei mezzi immediatamente a quello ordinati; ed è “umana”, perché si compone di uomini. Infatti la vediamo spesso indicata nella sacra Scrittura con nomi che designano una società perfetta; poiché viene detta “casa di Dio, città posta sul monte”, dove è necessario che si raccolgano tutte le genti, e anche “ovile”, in cui devono riunirsi tutte le pecorelle di Cristo sotto un solo pastore, anzi “regno che Dio fondò”, e che “durerà in eterno”, e infine “corpo” di Cristo, “mistico”, sì, ma però vivo, perfettamente composto e risultante di molti membri, i quali non hanno la stessa operazione e tuttavia si mantengono uniti insieme sotto lo stesso capo, che li regge e governa. Non si può pensare tra gli uomini una vera e perfetta società senza un sommo potere che la regga. Deve dunque Gesù Cristo aver preposto alla Chiesa un sommo Reggitore, a cui tutta la moltitudine dei cristiani sia sottomessa e obbedisca. Per la qual cosa come per l’unità della Chiesa, in quanto è “riunione dei fedeli”, si richiede necessariamente l’unità della fede, così per l’unità della medesima, in quanto è una società divinamente costituita, si esige per diritto divino “l’unità di governo”, la quale produce e in sé racchiude “l’unità della comunione”. “Ora l’unità della Chiesa è riposta in queste due cose: nella mutua unione dei membri della Chiesa, cioè nella comunione e nella corrispondenza di tutti i membri della Chiesa con un solo capo”. – Da questo si può capire che gli uomini si separano dall’unità della Chiesa non meno con lo scisma che con l’eresia. “Tra l’eresia e lo scisma corre, per comune avviso, questa differenza, che l’eresia ha un perverso dogma, lo scisma invece si separa dalla Chiesa per una scissura episcopale“. E in ciò concorda anche il Crisostomo, dicendo: “Io dico e professo che non è minor male lo scindere la Chiesa, che cadere nell’eresia“. Quindi, se non può esser giusta qualsiasi eresia, per la stessa ragione non c’è scisma che si possa giustificare. “Non vi è nulla di più grave del sacrilegio di uno scisma … non vi è mai giusta necessità di rompere l’unità“.

Quale sia poi questo potere, a cui debbono tutti i Cristiani obbedire, non si può altrimenti determinare che dopo avere esaminata e conosciuta la volontà di Cristo. Certamente Cristo è Re in eterno, e perpetuamente, benché invisibile, tutela e governa dal cielo il suo regno; ma poiché volle che questo fosse visibile, dovette designare chi, dopo la sua ascensione al cielo, facesse le sue veci in terra. “Chiunque affermasse – dice san Tommaso – che il solo capo e il solo Pastore della chiesa è Cristo, che è l’unico sposo dell’unica Chiesa, non si esprimerebbe con precisione. Infatti è evidente che è Lui che opera i sacramenti della Chiesa, che battezza, che rimette i peccati, che, vero sacerdote, s’immolò sull’altare della Croce, e per la cui virtù ogni giorno si consacra il suo corpo sull’altare; e tuttavia, poiché non sarebbe stato corporalmente e personalmente presente a tutti i fedeli per l’avvenire, elesse dei ministri, per mezzo dei quali potesse dispensare quanto è stato indicato, come già si è detto sopra (cap. 74). Per la stessa ragione, prima di privare la Chiesa della sua corporale presenza, gli fu necessario destinare qualcuno che in suo luogo ne avesse cura. Quindi disse a Pietro prima dell’ascensione: “Pasci le mie pecore“. Gesù Cristo dunque diede alla Chiesa per sommo reggitore Pietro, e nello stesso tempo stabilì che questo principato, istituito in perpetuo per la comune salvezza, si trasmettesse per eredità ai successori, nei quali lo stesso Pietro con perenne autorità sopravvive. E infatti fece quell’insigne promessa a Pietro, e a nessun altro: “Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa(Mt XVI,18)”. –  “A Pietro il Signore ha parlato, a lui solo, perché da uno solo fondasse l’unità“. “(Gesù) chiama Lui e suo padre per nome (beato te, Simone, figlio di Jona), ma poi non sopporta che si chiami ancora Simone, già fin d’ora reclamandolo come suo per i suoi fini, e con significativo paragone volle che si chiamasse Pietro da pietra, perché sopra di lui avrebbe fondato la sua Chiesa“. Dalla citata profezia di Cristo è evidente che per volere e ordinazione di Dio la Chiesa si fonda sul beato Pietro, come l’edificio sul suo fondamento. Ora la natura e la forza del fondamento consiste nel far sì che le diverse parti dell’edificio si mantengano collegate insieme, e che all’opera sia necessario quel vincolo di stabilità e fermezza, senza cui ogni edificio cade in rovina. È dunque proprio di Pietro sorreggere e conservare unita e ferma in indissolubile compagine la Chiesa. Ma chi potrebbe adempiere un compito così grave senza il potere di comandare, proibire e giudicare, che veramente e propriamente si dice “giurisdizione”? Infatti solo in virtù di questo potere si reggono le città e gli stati. Un primato di onore e quella tenue facoltà di consigliare e di ammonire, che si dice “direzione”, non possono giovare molto né all’unità né alla fermezza. Il potere, di cui parliamo, ci viene dichiarato e confermato da quelle parole: “E le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”. – “A chi si riferisce – domanda Origene – la parola essa? Alla pietra su cui Cristo edifica la Chiesa, o alla stessa Chiesa? Ambigua è la frase: vorrà dire che siano una stessa cosa la pietra e la Chiesa? Questo appunto io credo vero; poiché né contro la pietra, su cui Cristo edifica la Chiesa, né contro di questa prevarranno le porte dell’inferno“. La forza perciò di quella sentenza è questa: qualunque violenza o artificio usino i nemici visibili e invisibili, non sarà mai che la Chiesa soccomba e perisca: “La Chiesa, essendo edificio di Cristo, che sapientemente edificò la sua casa sulla pietra, non può essere preda delle porte dell’inferno, che possono sì prevalere contro ogni uomo che sia fuori della pietra e della Chiesa, ma non contro di essa“. Dunque Dio affidò la sua chiesa a Pietro, affinché egli quale invitto tutore la conservasse perpetuamente incolume. – Quindi lo investì del necessario potere, poiché per tutelare una società qualunque di uomini è indispensabile a chi deve tutelarla il diritto di comandare. Gesù inoltre aggiunse: “E a te io darò le chiavi del regno dei cieli”. Egli continua a parlare della chiesa, che poc’anzi aveva chiamata sua, e che aveva affermato di voler stabilire su Pietro come sopra il fondamento. La Chiesa è raffigurata non solo come un “edificio”, ma anche come un “regno”, e nessuno ignora che le chiavi sono il simbolo del comando; perciò quando Gesù promise a Pietro le “chiavi del regno dei cieli”, gli promise che gli avrebbe dato la Somma Autorità e il supremo potere sulla Chiesa: “II Figlio (del Padre) diede l’incarico (a Pietro) di diffondere per tutto il mondo la conoscenza del Padre e di se stesso, e a un uomo mortale diede ogni potere in cielo, quando gli affidò le chiavi, ed estese la Chiesa per tutto il mondo e la indicò più stabile dei cieli“. – Concordano con queste le altre parole di Cristo: “E ciò che legherai sulla terra, resterà legato nei cieli; e ciò che scioglierai sulla terra, resterà sciolto nei cieli“. Le parole metaforiche di legare e di sciogliere indicano il diritto di far leggi e insieme il potere di giudicare e di punire; e detto potere si afferma così ampio e di tanta forza, che qualunque cosa venga da esso decretata, verrà da Dio confermata. Pertanto è sommo e del tutto libero, come quello che non ha superiore in terra, e che abbraccia tutta la chiesa e le cose tutte che a questa furono affidate. – Cristo Signore mantiene poi la sua promessa dopo la sua risurrezione, quando, avendo per ben tre volte domandato a Pietro se lo amasse, gli dice con tono di chi comanda: “Pasci i miei agnelli… Pasci le mie pecore” (Gv XXI,16-17); Cristo volle così a lui affidate, come a pastore, tutte le pecore che entrerebbero nel suo ovile. “Il Signore non dubita – dice sant’Ambrosio – perché lo interroga non per sapere, ma per insegnare a noi che, ormai sul punto di essere portato in cielo, ce lo lasciava come vicario del suo amore. … E perciò, poiché è solo fra tutti a dare la testimonianza, a tutti viene anteposto … affinché giunto a piena perfezione guidasse anche quanti hanno raggiunto la piena perfezione“. Ufficio e dovere del pastore è quello di guidare il gregge e di procurare il suo benessere con la salubrità dei pascoli, con l’allontanarlo dai pericoli, preservarlo dalle insidie e difenderlo dalla violenza: in breve, col reggerlo e governarlo. Essendo dunque Pietro il pastore preposto a tutto il gregge di Cristo, egli ricevette il potere di governare tutti gli uomini, alla cui salvezza Gesù Cristo aveva provveduto col suo sangue: “Perché – dice il Crisostomo – sparse Egli il suo sangue? Per redimere quelle pecore, che affidò a Pietro e ai suoi successori“. – E poiché è necessario che tutti i cristiani siano tra loro uniti per la comunione di una fede immutabile, perciò Cristo Signore, con la forza della sua preghiera, impetrò a Pietro che nell’esercizio del suo sommo potere non errasse mai nella fede: “Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede” (Lc XXII,32); e gli comandò che nel bisogno comunicasse ai suoi fratelli luce e forza: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc XXII,32). Volle insomma che colui che era destinato a fondamento della Chiesa, fosse anche il baluardo della fede. “Non poteva – dice sant’Ambrogio – rafforzare la fede di colui, al quale di propria autorità dava il regno, e che additò, chiamandolo pietra, quale fondamento della chiesa?“. Gesù volle che certi nomi, significanti grandi cose, che “a lui per propria potestà convengono, fossero rivolti anche a Pietro per partecipazione con se stesso“, affinché dalla comunanza dei titoli apparisse anche quella dei poteri. E cosi colui che è “pietra angolare, su cui l’intero edificio ben connesso va innalzandosi per formare il tempio santo del Signore” (Ef II,21), stabilisce Pietro quale pietra fondamentale della chiesa. “Avendo ascoltato [sei pietra] è stato encomiato. Benché sia pietra, però, non è pietra come Cristo, ma come Pietro. Cristo infatti è essenzialmente la pietra inconcussa; e Pietro lo è per (questa) pietra. Infatti Gesù dona le sue cariche onorifiche, ma non si esaurisce… È sacerdote, e fa i sacerdoti… è pietra, e fa la pietra“. Il Re stesso della Chiesa, che “tiene la chiave di Davide, e quando apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre” (Ap III,7), consegnate a Pietro le “chiavi”, lo dichiara principe della società cristiana. E così pure il sommo pastore, che chiama se stesso buon pastore (Gv X,11), dà a Pietro il governo “dei suoi agnelli e delle sue pecore”: “Pasci gli agnelli, pasci le pecore”. – E il Crisostomo commenta: “Esimio era (Pietro) tra gli apostoli, bocca dei discepoli, capo del loro collegio… E (Gesù) per mostrargli che conveniva credere per l’avvenire a lui, dimenticata la negazione, affida a lui il governo dei fratelli, dicendo: Se mi ami, presiedi ai fratelli“. Finalmente colui che ci conferma “in ogni opera buona e in ogni buona parola” (2Ts II,16), comandò a Pietro che “confermasse i suoi fratelli”. Giustamente Leone Magno diceva: “Di tutto il mondo il solo Pietro viene eletto per essere preposto e alla chiamata di tutte le genti, e a tutti gli apostoli e a tutti i padri della Chiesa: affinché, per quanto siano molti nel popolo di Dio i sacerdoti e molti i pastori, tutti nondimeno siano retti da Pietro, benché Cristo per lui principalmente li governa tutti“. E Gregorio Magno così scriveva all’imperatore Maurizio Augusto: “È evidente a quanti conoscono l’evangelo, che per la parola del Signore è stata affidata la cura di tutta la Chiesa all’apostolo Pietro, primo di tutti gli apostoli… Egli ricevette le chiavi del regno dei cieli, a lui è dato il potere di legare e di sciogliere, a lui ancora la cura e il principato di tutta la Chiesa“. – Ora, essendo questo principato contenuto nella stessa costituzione e ordinamento della chiesa, come parte principale, o piuttosto come principio di unità e fondamento della sua perpetua esistenza, non poteva perire con Pietro, ma doveva trasmettersi dall’uno all’altro ai suoi successori. Perciò san Leone diceva: “Rimane quindi quanto Gesù ha disposto veramente, e il beato Pietro, perseverando nella ricevuta forza della pietra, non lascia il comando della Chiesa“. Per la qual cosa i vescovi, che succedono a Pietro nell’episcopato romano, ottengono “di diritto divino” la suprema autorità su tutta la Chiesa. “Noi definiamo – dicono i padri del Concilio di Firenze – che la santa sede apostolica e il vescovo di Roma hanno su tutto l’orbe il primato, e che lo stesso vescovo di Roma è successore del beato Pietro, primo degli apostoli, vero Vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani, a cui nella persona del beato Pietro fu dato da Cristo pieno potere di pascere, reggere e governare tutta la chiesa, come si afferma negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni“. E il concilio Lateranense IV definisce: “La chiesa romana, per disposizione del Signore, primeggia su tutte le altre per l’ordinaria sua potestà, come quella che è madre e maestra di tutti i cristiani“. – E questi decreti erano stati preceduti dal consenso di tutta l’antichità, la quale venerò sempre i vescovi romani come legittimi successori del beato Pietro. E chi ignora le tante e sì splendide testimonianze dei santi padri a questo proposito? Luminosa è quella di Ireneo, il quale, parlando della Chiesa romana, dice: “A questa Chiesa per una più degna supremazia è necessario che concordi ogni chiesa“. E Cipriano, parlando della medesima, la chiama “radice e madre della chiesa cattolica“, “cattedra di Pietro e chiesa principale da cui è sorta l’unità del sacerdozio“. La chiama “cattedra” di Pietro, perché vi siede il successore di Pietro; “Chiesa principale”, per il primato conferito a Pietro e ai suoi successori; “da cui è sorta l’unità”, perché la causa efficiente dell’unità nel Cristianesimo è la Chiesa romana. E così Girolamo si rivolge a Damaso: “Io parlo col successore del pescatore e discepolo della croce… Alla tua beatitudine, cioè, alla cattedra di Pietro, io per la comunione mi associo. So bene che su quella pietra è edificata la Chiesa“. E riconosceva sempre un Cattolico dalla unione che aveva con la sede romana di Pietro; e diceva: “Se alcuno è unito alla cattedra di Pietro, è dalla mia parte“. Allo stesso modo Agostino attesta che “nella chiesa romana sempre fiorì il principato della Cattedra apostolica“, e nega che sia cattolico chiunque dissenta dalla fede romana: “Non credere di avere la vera fede cattolica, se non insegni la necessità di avere la fede romana“. La stessa cosa afferma Cipriano: “Avere comunione con Cornelio è lo stesso che avere comunione con la Chiesa Cattolica“. Pure Massimo Abate insegna che è segno caratteristico della vera fede e della vera comunione l’obbedienza al vescovo di Roma: “Perciò se non vuoi essere eretico non accontenti questo o quello…. S’affretti ad accontentare la sede romana. Fatto questo, comunemente e ovunque tutti lo riterranno pio e retto. Infatti parla inutilmente e invano chi fa diversamente, e non soddisfa il beatissimo Papa della santissima Chiesa romana, cioè la sede apostolica“. E ne dà la seguente ragione; “Essa ricevette e ha il comando, l’autorità e il potere di legare e di sciogliere dallo stesso Verbo di Dio incarnato, e anche da tutti i concili, secondo i sacri canoni, fra tutte le chiese sante di Dio che si trovano sulla terra. Quando lega o scioglie qualcosa, anche in cielo è ratificato dal Verbo, che comanda ai celesti principati“. – Quello dunque che già esisteva nella fede cristiana, quello che non un popolo solo o una sola età, ma tutte le età, e l’Oriente insieme e l’Occidente abitualmente riconoscevano e osservavano, venne dal presbitero Filippo, rappresentante del Papa, ricordato al Concilio di Efeso, senza che alcuno sorgesse a contraddirlo; “Nessuno può dubitare, anzi è noto a tutti, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa cattolica, ricevette da Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, le chiavi del regno, e gli fu dato il potere di sciogliere e di ritenere i peccati, a lui, che finora e per sempre vive ed esercita il potere nei suoi successori“. Allo stesso argomento si riferisce la sentenza del Concilio di Calcedonia: “Pietro attraverso Leone… ha parlato” a cui fa eco la voce del Concilio Costantinopolitano III: “Il sommo principe degli apostoli era d’accordo con noi; avemmo con noi infatti il suo imitatore e successore nella sede… sembrava carta e inchiostro, e invece Pietro parlava attraverso Agatone“. – Nella formula della professione cattolica proposta da Ormisda sul principio del secolo VI, e sottoscritta dall’imperatore Giustiniano e dai patriarchii Epifanie, Giovanni e Menna viene dichiarato con gravi e forti parole: “Poiché non si può tralasciare l’affermazione di nostro Signore Gesù Cristo: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, … quanto è stato detto è provato dai fatti, poiché nella sede apostolica la religione cattolica è stata sempre conservata senza macchia“. – Non vogliamo citare più a lungo le singole testimonianze; ma ci basterà qui ricordare la formula di fede che professò Michele Paleologo nel Secondo Concilio di Lione: “La santa chiesa romana ha un sommo e pieno primato e principato su tutta la Chiesa cattolica, e (il Paleologo) con tutta verità e umiltà riconosce che essa lo ha ricevuto con piena potestà dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, principe e capo degli apostoli, del quale è successore il vescovo di Roma. E poiché questi sopra tutti è tenuto a difendere la verità della fede, così, se nasceranno questioni intorno alla medesima, egli dovrà con sua sentenza definirle“. – Sebbene sia somma e piena la potestà di Pietro, non si creda tuttavia che essa sia la sola. Infatti colui che pose Pietro a fondamento della Chiesa, “elesse anche dodici… che nominò apostoli” (Lc 6,13). Come è necessario che l’autorità di Pietro si perpetui nel vescovo di Roma, così i vescovi, come successori degli apostoli, ne ereditano l’ordinaria potestà, e quindi l’ordine episcopale necessariamente tocca l’intima costituzione della Chiesa. Benché essi non abbiano una somma, piena e universale autorità, tuttavia non devono ritenersi come dei semplici “vicari” dei vescovi di Roma, poiché hanno una potestà propria, e con verità si dicono presuli “ordinari” dei popoli che reggono. – Però, siccome il successore di Pietro è uno solo, e i successori degli apostoli sono molti, è conveniente che si veda quali siano per divina costituzione le relazioni di questi con quello. – E in primo luogo, è certa ed evidente la necessità dell’unione dei vescovi col successore di Pietro; poiché, sciolto questo vincolo, necessariamente si discioglie e si disperde la stessa moltitudine dei cristiani, in modo da non poter formare in alcun modo un solo corpo e un solo gregge. “La salute della Chiesa dipende dalla dignità del sommo sacerdote, e se non gli si dà un potere speciale e superiore a tutti, vi saranno nella Chiesa tanti scismi, quanti sono i sacerdoti“. Pertanto è bene avvertire che niente fu conferito agli apostoli separatamente da Pietro, ma molte cose a Pietro separatamente dagli apostoli. – Giovanni Crisostomo, nel commentare l’affermazione di Cristo (Gv XXI,15), si domanda: “Perché Cristo, lasciati gli altri, parla di queste cose solamente a Pietro?“; e risponde: “Perché era il primo fra gli apostoli, la bocca dei discepoli, il capo del loro collegio“. Egli infatti era il solo designato da Cristo a fondamento della chiesa; a lui era data la facoltà di “legare” e di “sciogliere”; il solo, al quale era dato di “pascere”; invece, quanto di autorità e di ministero ricevettero gli apostoli, lo ricevettero unitamente a Pietro: “Se la condiscendenza divina volle che alcuna cosa fosse a lui comune con gli altri prìncipi (apostoli), non concedette se non per lui quello che non negò agli altri… Avendo da solo ricevuto molte cose, nulla passò in alcuno senza la sua partecipazione“, Perciò è evidente che i vescovi decadono dal diritto e dalla potestà di governare, quando volutamente si separino da Pietro e dai suoi successori; infatti allora si distaccano per scisma dal fondamento, su cui deve basarsi tutto l’edificio; sono esclusi quindi dallo stesso “edificio”, e per la Stessa causa separati dall’”ovile”, la cui guida è il pastore supremo, e banditi dal “regno”, le cui chiavi furono date per volere divino al solo Pietro. – E in questo Noi riconosciamo ancora il celeste disegno e la mente divina che presiedette alla costituzione della società cristiana; cioè, che il divino Autore, avendo stabilita nella chiesa l’unità della fede, del governo e della comunione, elesse Pietro e i suoi successori, perché fosse attuato in essi il principio e il centro dell’unità. Afferma san Cipriano: “Dice il Signore a Pietro: Io ti dico, che tu sei Pietro… Sopra uno solo edifica la Chiesa. E benché a tutti gli apostoli, dopo la sua risurrezione, dia uguale potestà, e dica: Come il Padre ha mandato me…, tuttavia per manifestare l’unità, dispose autorevolmente che l’origine della stessa unità cominciasse da uno solo“. E Ottato di Milevi dice: “Non puoi negare di sapere che nella città di Roma a Pietro per primo fu conferita la cattedra episcopale, sulla quale sedette il capo di tutti gli apostoli, Pietro; affinché in quella sola cattedra l’unità fosse mantenuta da tutti e così neppure gli altri apostoli difendessero le proprie cattedre contro di quella, tanto da essere scismatico e in peccato, chi ne ponesse un’altra contro l’unica cattedra“. E perciò Cipriano afferma che sia lo scisma sia l’eresia nascono dal fatto che non si presta la dovuta obbedienza alla suprema potestà: “Non da altro infatti sono sorte le eresie e sono nati gli scismi, se non perché non si obbedisce al sacerdote, e non si pensa che nella chiesa vi è un solo sacerdote e un solo giudice vicario di Cristo“. Nessuno dunque che non sia unito a Pietro può partecipare dell’autorità, essendo assurdo pensare che possa comandare nella chiesa chi è fuori di essa. Perciò Ottato di Milevi rimproverava i donatisti, dicendo: “Contro le porte (dell’inferno) leggiamo che ricevette le chiavi di salute Pietro, nostro principe, a cui fu detto da Cristo: A te darò le chiavi del regno dei cieli, e le porte dell’inferno non le vinceranno. Perché dunque pretendete di usurpare le chiavi del regno dei cieli, voi che militate contro la cattedra di Pietro?“. – Ma l’ordine episcopale allora solamente si deve credere unito a Pietro, come Cristo comanda, se a Pietro è sottomesso e gli obbedisce: altrimenti diventerà necessariamente una moltitudine confusa e disordinata. Per ben conservare l’unità della fede e della comunione non basta un primato di onore, né una sopraintendenza nella Chiesa, ma è assolutamente necessaria una vera e somma autorità, a cui tutta la comunità obbedisca. – E a che altro il Figlio di Dio mirò, quando al “solo” Pietro promise le chiavi del regno dei cieli? L’espressione biblica e il consenso unanime dei padri non lasciano punto dubitare che col nome di “chiavi” venga in quel luogo significato il supremo potere. Né in altro modo è lecito interpretare quanto viene attribuito separatamente a Pietro, e agli apostoli uniti a Pietro. Se la facoltà di legare, di sciogliere, di pascere fa sì che ognuno dei vescovi, successori degli apostoli, governi con vera potestà il suo popolo, certamente la stessa facoltà deve produrre il medesimo effetto in colui, al quale fu assegnato da Dio l’ufficio di pascere gli “agnelli” e le “pecore”. “(Cristo) costituì Pietro non solamente pastore, ma Pastore dei pastori; Pietro pasce dunque gli agnelli, e pasce anche le pecore; pasce i figli e pasce anche le madri; regge i sudditi e regge anche i prelati, poiché oltre gli agnelli e le pecore non vi è nulla nella chiesa“. Si spiegano quindi le espressioni usate dagli antichi riguardo al beato Pietro, e che significano tutte apertamente un sommo grado di dignità e di potere. Viene indicato spesso coi titoli di principe dell’adunanza dei discepoli, principe dei santi apostoli, corifeo del loro coro, bocca di tutti gli apostoli, capo di quella famiglia, preposto a tutto il mondo, primo fra gli apostoli, baluardo della Chiesa; i quali titoli sembra che san Bernardo voglia racchiudere in queste parole al papa Eugenio: “Chi sei tu? Il gran sacerdote, il sommo pontefice. Tu sei il primo dei vescovi, tu l’erede degli apostoli…. Tu sei colui, a cui furono consegnate le chiavi, a cui furono affidate le pecore. Vi sono pure altri portieri del cielo e pastori dei greggi; ma tu hai ereditato un nome tanto più glorioso quanto più diversamente da essi hai ereditato l’uno e l’altro nome. Ogni pastore ha il suo gregge particolare a lui assegnato; a tè tutti i greggi vennero affidati, a te solo l’unico, tutto il gregge, non solo delle pecorelle, ma anche dei pastori; tu solo di tutti sei il pastore. Mi domandi in che modo io lo provi? Dalla parola del Signore. Infatti a chi, non dico dei vescovi, ma ancora degli apostoli, furono in un modo così assoluto e indefinito affidate le pecore? Se mi ami, o Pietro, pasci le mie pecore, Quali? Popoli di questa o di quella città, o regione, o regno? Le mie pecore, disse. A chi non è manifesto non avergli egli assegnate alcune, ma tutte? Nulla si eccettua, ove nulla si distingue“. – È cosa contraria alla verità e apertamente ripugna alla costituzione divina il dire che i “singoli” vescovi sono soggetti alla giurisdizione dei Papi, e non già tutto il corpo episcopale; poiché tutta la ragion d’essere del fondamento sta nel dare a tutto l’edificio, piuttosto che a “singole sue parti”, unità e saldezza. Il che nel caso nostro è tanto più vero, in quanto Cristo Signore volle che per la virtù appunto del fondamento le porte dell’inferno non prevalessero contro la Chiesa; e questa promessa divina com’è a tutti manifesto, si deve intendere di tutta la chiesa e non delle singole sue parti, le quali possono essere vinte dal furore dell’inferno, e parecchie infatti lo furono. È inoltre necessario che chi è preposto a tutto il gregge non solo abbia il comando sulle singole pecore, ma anche su di esse riunite insieme. Che l’ovile avrà forse da reggere e da guidare il pastore? Forse i successori degli apostoli, uniti in corpo, saranno il fondamento, su cui il successore di Pietro si appoggi per avere fermezza? Chi possiede le chiavi del regno dei cieli, non ha soltanto potere e autorità sopra le singole regioni, ma su tutte insieme; e come ciascun vescovo nella sua diocesi presiede con vera potestà non solo ai singoli individui, ma a tutta la comunità, così pure i papi, il cui potere abbraccia tutta la cristianità, hanno soggette e obbedienti alla loro autorità tutte le parti di questa, anche insieme raccolte. Cristo Signore, come già si disse ripetutamente, concesse a Pietro e ai suoi successori che fossero suoi vicari, ed esercitassero perpetuamente nella chiesa quel potere che egli aveva esercitato nella sua vita mortale. Si dirà forse che il collegio apostolico sia stato superiore al suo maestro? – La Chiesa non cessò mai in alcun tempo di riconoscere e di attestare questo potere, di cui parliamo, sopra il corpo episcopale, potere sì chiaramente indicato dalla sacra Scrittura. Ecco come parlano in questa materia i concili: “Noi leggiamo che il vescovo di Roma ha giudicato i prelati di tutte le chiese, ma che egli sia stato da alcuno di essi giudicato noi non lo leggiamo“. E se ne dà la seguente ragione: “Non vi è un’autorità superiore alla sede apostolica“. Gelasio, parlando dei decreti dei concili, così scrive: “Come fu nullo tutto ciò che non venne approvato dalla prima sede, così ciò che essa ha creduto di dover sentenziare fu ammesso da tutta la Chiesa“. Infatti fu sempre privilegio dei vescovi di Roma confermare o invalidare le decisioni e i decreti dei concili. Leone Magno annullò gli atti del conciliabolo di Efeso; Damaso rigettò quelli del conciliabolo di Rimini, e Adriano II quelli del conciliabolo di Costantinopoli. Il canone XXVIII del Concilio di Calcedonia, perché privo dell’assenso e della volontà della sede apostolica, rimase, com’è noto, senz’alcun valore. Con ragione dunque Leone X nel Concilio Lateranense V sentenziò: “Solo il vescovo di Roma, temporaneamente in carica, ha il pieno diritto e il potere, come avente l’autorità su tutti i concili, di indire, trasferire, sciogliere i concili; e questo è evidente, non solo per testimonianza della sacra Scrittura, dei detti dei padri e degli altri vescovi di Roma e decreti dei sacri canoni ma anche per l’ammissione degli stessi concili“. E per verità al solo Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare e di sciogliere; ma non si legge in alcun luogo che gli apostoli ricevessero questo sommo potere “senza Pietro” e “contro Pietro”. Davvero non così l’hanno ricevuto da Gesù Cristo. – E per questo, col decreto del Concilio Vaticano intorno alla ragione e alla forza del primato del vescovo di Roma, non fu introdotto un nuovo dogma, ma asserita l’antica e costante fede di tutti i secoli (del cristianesimo). Né il sottostare a un doppio potere arreca confusione nel governo. Anzitutto la sapienza di Dio, per disposizione della quale questa forma di governo venne stabilita, ce ne vieta anche il semplice sospetto. E poi si deve osservare che l’ordine e le relazioni vengono turbate solamente, se nel popolo vi sono due magistrati dello stesso grado, e indipendenti l’uno dall’altro. Ma il potere del vescovo di Roma è supremo, universale e indipendente, mentre quello dei vescovi è ristretto entro certi confini e non è del tutto indipendente. “Non è conveniente che due siano costituiti sopra lo stesso gregge con poteri uguali; ma non ripugna che due, dei quali uno è superiore all’altro, siano costituiti sullo stesso popolo; così sullo stesso popolo vi sono immediatamente e il parroco e il vescovo e il Papa“. I Vescovi di Roma, memori del loro ufficio, vogliono meglio degli altri conservare nella Chiesa tutto ciò che fu divinamente istituito; e quindi come tutelano la loro autorità con quella cura e vigilanza che si conviene, così sempre si preoccuparono e si preoccupano perché l’autorità dei vescovi sia mantenuta; anzi reputano fatto a sé tutto l’onore e l’ossequio che si rende ai medesimi. Per questo san Gregorio Magno diceva: “E mio onore l’onore della Chiesa universale. Mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Io sono veramente onorato, allorquando a ognuno di loro non si nega il dovuto onore“. – Con quanto si è detto finora abbiamo fedelmente espressa, secondo la divina costituzione, l’immagine e la forma della chiesa. Abbiamo ragionato a lungo dell’unità, e spiegato in che cosa essa consista e con quale principio il divino Autore abbia voluto conservarla. Non dubitiamo punto che la Nostra voce apostolica sia ascoltata da coloro che per favore e grazia di Dio, essendo nati nel seno della Chiesa Cattolica, vivono in essa: “Le mie pecore ascoltano la mia voce” (Gv X,27); né dubitiamo che essi ne trarranno incitamento a istruirsi più profondamente e ad unirsi con maggiore affetto ai propri pastori e per essi al supremo Pastore, affinché possano con più sicurezza rimanere nell’unico ovile e cogliere maggiore ricchezza di frutti salutari. Senonché, fissando il Nostro sguardo “al promotore e coronatore della fede, a Gesù” (Eb XII, 2), di cui, benché impari a tanta dignità e ufficio, sosteniamo la vicaria potestà, il cuore s’infiamma della sua carità; e a Noi non senza ragione applichiamo quello che Cristo disse di se stesso: “Ho altre pecore, che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che le raduni e ascolteranno la mia voce” (Gv X,16). Non ricusino dunque di ascoltarci e di assecondare il Nostro paterno amore quanti hanno in abominio l’empietà, sì largamente diffusa, e riconoscono e confessano Gesù Cristo Figlio di Dio e Salvatore del genere umano, e tuttavia vanno errando lontano dalla sua sposa. Quelli che ricevono Cristo, è necessario che lo ricevano tutto intero: “Tutto il Cristo è capo e corpo (insieme); è capo l’unigenito Figlio di Dio; suo corpo è la Chiesa; lo sposo e la sposa, due in una carne. Chiunque intorno allo stesso capo discorda dalla sacra Scrittura, ancorché concordi in tutti quei punti in cui è designata la Chiesa, non è nella Chiesa. E così pure, chiunque ammette tutto ciò che nella Scrittura si dice dello stesso capo, ma non è unito in comunione con la Chiesa, non è nella chiesa“. Con lo stesso affetto l’animo Nostro vola a coloro che il pestilente soffio dell’empietà non ha del tutto corrotto; essi almeno desiderano grandemente questo, che il vero Dio, creatore del cielo e della terra, sia loro Padre. Costoro considerino attentamente e comprendano che non possono essere annoverati tra i figli di Dio, se non riconoscono come loro fratello Gesù Cristo, e insieme come loro madre la chiesa. A tutti dunque amorosamente ci rivolgiamo con le parole dello stesso Agostino: “Amiamo Dio nostro Signore, amiamo la sua Chiesa; quello come padre, questa come madre. Nessuno dica: Sì, vado dagli idoli, consulto gli invasati e gli indovini, e tuttavia non abbandono la Chiesa di Dio: sono cattolico. Tenendo la madre, hai offeso il padre! Un altro dice: Non consulto alcun indovino, non cerco gli invasati, non cerco sacrileghe divinazioni, non vado ad adorare i demoni, non servo agli dei di pietra; però sono dalla parte di Donato. Che ti giova non avere offeso il padre, se questi vendica la madre offesa? Che ti vale confessare il Signore, onorare Dio, predicarlo, riconoscere il suo Figlio e confessare che siede alla destra del Padre, se bestemmi la sua Chiesa?… Se tu avessi un patrono, a cui ogni giorno prestassi ossequio; e tuttavia manifestassi una sola colpa della sua consorte, avresti tu l’ardire di entrare in casa sua? Abbiate dunque, carissimi, abbiate tutti concordemente Dio per padre, e per madre la Chiesa“. – Avendo piena fiducia in Dio misericordioso, che può muovere efficacemente il cuore degli uomini e spingerli come e dove vuole, con tutto l’affetto raccomandiamo alla sua bontà tutti coloro a cui rivolgemmo la Nostra esposizione. E come pegno dei celesti doni e attestato della Nostra benevolenza, a voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo amorevolmente impartiamo nel Signore l’apostolica benedizione.

Roma, presso S. Pietro, il giorno 29 giugno dell’anno 1896, decimonono del Nostro pontificato.

 

DOMENICA II dopo PENTECOSTE

Introitus Ps XVII:19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.] Ps XVII:2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus. [Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.] Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis. [Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III:13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

I Omelia

[Mons. Bonomelli. Omelia, vol III – Torino 1899, Omel. V]

“Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere stati tramutati dalla morte alla vita, perciò amiamo i fratelli. Chi non ama, resta nella morte. Chiunque odia il fratello suo è un micidiale; ora voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna in sé. In questo poi abbiamo conosciuto la carità di Dio, ch’Egli diede per noi la sua vita, e noi dobbiamo per i fratelli dare la vita. Ora se alcuno ha dei beni di questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio alberga in costui? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non in parole e colla lingua, ma coi fatti e colla verità. „ (S. Giovanni, I . c. III, vers. 13-18). –

Voi stessi avrete compreso, che queste sentenze debbono appartenere all’apostolo della carità, S. Giovanni. Gli scritti di questo diletto discepolo di Gesù Cristo, e specialmente la prima delle sue lettere, dalla quale è tolto il brano che avete udito, hanno un carattere tale, una fisionomia sì spiccata, che è impossibile non riconoscerne tostamente l’autore. – Pressoché tutte le sue sentenze sono un’armonia continuata, una variazione stupenda di due soli motivi fondamentali, l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Nessuno degli autori ispirati del nuovo Testamento meglio di lui mise in luce l’indole e la natura della legge di grazia, che è l’amore, secondo quella sentenza di nostro Signore, che disse: “La legge ed i profeti si compendiano nella carità “Ex quo universa lex pendet et prophetæ”.– Nessuna meraviglia pertanto che negli scritti di Giovanni, e nominatamente nella prima lettera, siano frequentissime le ripetizioni. Narra S. Girolamo, che l’evangelista e l’Apostolo della carità, già nonagenario, era portato a braccia dai discepoli in mezzo alla radunanza dei fedeli, affinché rivolgesse loro qualche parola di edificazione. Ed egli non faceva che ripetere queste parole: “Miei figlioletti, amatevi tra di voi. „ Annoiati i fedeli, gli domandarono, perché dicesse sempre la stessa cosa; ed egli, scrive S. Girolamo, diede una risposta degna di lui: “Perché, disse, è comando del Signore, e se questo si osserva, basta. „ La lettera, che abbiamo di lui, sì direbbe essere la fedele ripetizione della esortazione, che l’Apostolo faceva alle pie adunanze, delle quali fa cenno Girolamo. – Se voi pertanto udrete, anche in questa omelia. ripetuta più e più volte la stessa verità dell’amore fraterno, non vogliate meravigliarvi: né annoiarvi: è precetto del Signore, e se questo si adempie, basta. Seguitiamo dunque il maestro e l’Apostolo della carità, e meditiamone le sante parole. Perché possiate intendere meglio la spiegazione dei versetti sopra riferiti, è mestieri rifarci alquanto indietro e rilevare il nesso che corre tra loro. Quelli che fan male, dice S. Giovanni, perciò stesso che fan male, si mostrano seguaci del demonio, e figli di Dio si palesano quelli che fanno bene. Il grande annunzio, portato sulla terra da Gesù Cristo è l’amore dei fratelli. Il mondo, cioè i cattivi, i seguaci del demonio odiano naturalmente i buoni, i figli di Dio: essi cominciano da Caino, che odiò ed uccise il fratel suo, Abele e continuano sino a noi. Per il che, dice Giovanni: “Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. „ È questa la ripetizione alla lettera d’una sentenza di Gesù Cristo che leggiamo nel Vangelo dello stesso Giovanni: ” Voi non siete del mondo, anzi io vi ho eletti dal mondo, per questo il mondo vi odia „ (XV, 19). Il santo Apostolo non vuole che ci meravigliamo di questo odio del mondo contro i discepoli di Gesù; eppure a me sembra cosa piena di meraviglia, perché quasi incredibile. Questi cristiani, a somiglianza del divino loro Maestro, non fan male a chicchessia; amano tutti come fratelli, a tutti fanno quel bene che possono, anche ai loro nemici più implacabili: sono umili, modesti, pazienti, casti, adorni di tutte le virtù, formano lo stupore degli stessi pagani. Nessuno dunque poteva odiarli, tutti dovevano amarli, od alla men peggio tollerarli. Nondimeno essi sono fieramente odiati, e S. Giovanni afferma che nessuno doveva stupirne: “Nolite mirari si odit vos mundus”. Come ciò? Come si spiega questa contraddizione manifesta del mondo? Il mondo, cioè gli uomini tristi generalmente odiano i buoni e li devono odiare: le tenebre sono nemiche della luce e i tristi sono nemici dei buoni; la virtù di questi è un rimprovero continuo e amaro per quelli: la condotta dei buoni è la condanna dei malvagi, sveglia nei loro cuori il rimorso, li umilia, li offende, li ferisce, e perciò non vorrebbero vederli, né udirli, e se fosse possibile li vorrebbero sbanditi dalla terra. L’odio dei malvagi contro dei buoni, più che dalla ragione, e dalla riflessione, deriva dall’istinto, nasce dalla natura delle cose; è l’odio del lupo per l’agnello, del cane che si getta sulla lepre: non provocati e nemmeno stimolati dalla fame, il lupo sbrana l’agnello, il cane insegue e addenta la lepre, e l’uomo tristo si strugge di odio contro il virtuoso. Il mondo ha odiato e perseguitato gli Apostoli, tutti i Santi, il Santo dei santi, Gesù Cristo: e noi stupiremo che odi e perseguiti quelli che camminano dietro a Lui? – Il mondo ci odia, come Caino odiò Abele, e i Giudei odiarono Cristo: quale conforto possiamo avere? Questo: “Noi sappiamo di essere stati tramutati dalla morte alla vita „ – Che importa a noi l’essere odiati e perseguitati da questo mondo perverso? Noi camminavamo nelle tenebre dell’errore: eravamo noi pure figli di questo mondo riprovato e morti a Dio; ora, per sua grazia, siamo usciti da queste tenebre, ci siamo separati da questo mondo, siamo sfuggiti alla morte, e pel Battesimo e per la fede siamo entrati nel regno della vita. E come lo sappiamo noi? Quale prova ne abbiamo? Questa è sicurissima: “Che amiamo i fratelli, – Quoniam diligimus fratres„ Segno infallibile che abbiamo la vita della grazia, a cui risponderà a suo tempo la vita della gloria, è il sentire in noi stessi l’amore verso de’ fratelli. Non dubito punto, che con la parola fratelli, qui usata, S. Giovanni intenda non solo i fratelli nella fede, ma tutti indistintamente gli uomini, anche non credenti e nemici, perché anche questi sono fratelli. E invero S. Giovanni in questo luogo vuol mettere sottocchio ai suoi lettori cristiani il contrassegno indubitato, ch’essi sono nel regno della vita divina, e lo mette nella carità fraterna. Se questa carità fosse stata circoscritta ai pochi cristiani, che allora esistevano, ad esclusione di tutti gli altri, come poteva essere un segno ch’essi erano trasportati nel regno della vita, nel regno di Gesù Cristo? Anche gli Ebrei, anche i pagani, fino ad un certo punto si amavano tra loro, almeno i congiunti, almeno gli amici, i conoscenti, i connazionali, mase noi pigliamo questa parola “fratelli, nel senso amplissimo, in quantoché abbraccia tutti gli uomini, allora ci dà veramente il carattere sovraumano e divino della carità. “Noi, così S. Giovanni, abbiamo una prova d’essere figli di Dio in questo che amiamo tutti gli uomini e tutti li teniamo in conto di fratelli, anche quando ci odiano, ci calunniano e ci perseguitano. „ Questo amore universale, sì generoso e sì costante all’uomo è impossibile con le sole forze della natura: esso non può venire che dall’alto, da Dio stesso, è dono al tutto suo, e perciò in esso noi abbiamo la certezza d’essere veri seguaci di Gesù Cristo, e d’avere nei nostri cuori la sua grazia: “Nos scimus, quoniam translati sumus de morte ad vitàm, quoniam diligimus fratres”. – Accennata la carità verso dei fratelli, questo segno caratteristico dei discepoli di Gesù e della trasformazione meravigliosa operata dalla grazia, S. Giovanni, seguendo il suo stile, dirò meglio, il bisogno del suo cuore, mostra il pregio di questa virtù, e scrive: “Chi non ama, dimora nella morte: „ “Qui non diligit, manet in morte”. Chi non ama, cioè chi non ha l’amore dei fratelli, l’amore operoso, che scaturisce dalla grazia, è in peccato, e perciò, ancorché vivo nel corpo, è morto nell’animo. L’anima, per fermo, è immortale per se stessa, come apprendiamo dalla fede e sappiamo dalla ragione: ma priva della grazia, è separata da Dio, e perciò priva della fonte d’ogni vita. Il corpo come e perché è vivo? È vivo in quanto e perché è unito all’anima, che tutto lo penetra ed informa. Separate l’anima dal corpo: che vedete voi? Esso è morto, e va tosto disfacendosi. Così fate che l’anima sia separata dalla grazia, ossia da Dio, essa è come morta. Ora non apparisce la sua morte agli occhi del corpo, come nella stagione invernale non apparisce quali siano gli alberi vivi e quali morti: ma aspettate la bella stagione ed allora vedrete morti i morti e vivi i vivi, Similmente quanto all’anima, e per ragion dell’anima anche quanto al corpo: aspettate la seconda venuta di Gesù Cristo, aspettate: Rispunti il sole di eterna giustizia e vedrete che cosa voglia dire la morte dell’anima e del suo compagno eterno. – L’anima senza la grazia o senza la carità, è in stato di morte. Questa idea della morte desta nello scrittore ispirato un’altra idea analoga, ma che rischiara e ribadisce la prima: “Chiunque odia il fratel suo è omicida. Parmi chiaro che per S. Giovanni il non avere amore per i fratelli è un odiarli, ancorché per sé il non amare non sia sempre odiare, giacché si concepisce uno stato di indifferenza, quasi medio tra l’amore e l’odio. Ma in questo luogo l’Apostolo dice chiaramente: “Chi non ama, odia, e chi odia il fratello è omicida. „ Omicida di chi? Di sé o del fratello? Si può intendere che è omicida di sè, perché non avendo in sé la carità verso il fratello, anzi odiandolo, pecca gravemente, e perciò uccide l’anima sua, e in questo senso disse benissimo S. Ambrogio, che “chi odia, anzitutto uccide se stesso, „ Qui odit, non alium prius quam seipsum occidit”. Ma non sembra questo il senso più ovvio e naturale della sentenza apostolica: essa sembra esigere che l’ucciso non sia chi odia, ma l’odiato. Ma come può dire che chi odia il fratello lo uccide? Non è questa una esagerazione? Tra l’odiare e l’uccidere una persona corre una differenza grandissima. E vero l’odio non è l’omicidio, e guai al mondo se l’uno fosse sempre l’altro: ma ricordiamoci, o fratelli, di un’altra sentenza del Vangelo simile a questa: “Chi avrà rimirata una donna con desiderio di lei, dice Gesù Cristo, ha già commesso peccato con lei in cuor suo „ (Matt. V, 28). Il che vuol dire, che il solo pensiero deliberato di commettere peccato, dinanzi a Dio è come commesso, perché Dio vede e giudica i cuori; similmente in questo luogo S. Giovanni vuol dire: badate, o figliuoli, di non albergare nel vostro cuore odio contro il fratello, perché quell’odio vi porterà a volere il suo male e a desiderare di torgli la vita e a toglierla di fatto. Ed in vero, donde le risse, i ferimenti e gli omicidi? Dall’odio. L’odio partorisce l’omicidio e in quanto ne è causa si può chiamare omicida chi lo accoglie in cuore. Scrive S. Girolamo (Epist. 36 Ad castor.). Grazie a Dio, non sono molti quelli che odiano il fratello: ma quelli che lo vedono di mal occhio, che nutrono rancore contro di lui, che non sanno dimenticare un’offesa ricevuta, spesso immaginaria, che tengono chiuso cuore con lui e se non l’odiano, certo non l’amano, pur troppo sono molti, e non è il caso anche tra persone che si reputano devote. Che dire di costoro? Dio solo legge nei cuori e pesa sulla sua bilancia le colpe degli uomini: ma ciò che è indubitato è, che di questo difetto di carità comunemente non si tiene calcolo o leggero, tantoché le stesse persone non se ne curano. Eppure vi è sempre colpa e tale che spesso apre la via all’odio manifesto. Carissimi! stiamo in guardia e non lasciamo penetrare nel nostro cuore questo mal seme, che traligna facilmente in odio. – Ora, domanda l’Apostolo, qual è la pena riserbata all’omicida? La morte. Dunque, chi odia non può avere la vita eterna. E qui S. Giovanni torna da capo all’idea della carità ed al modello supremo della carità, che è Gesù Cristo, ed esclama: “E in questo noi abbiamo conosciuto la carità di Dio, che Egli diede per noi la sua vita. „ Gli uomini troppo spesso odiano e tolgono la vitaai fratelli loro: Gesù Cristo per contrario ama tutti gli uomini, e li ama per guisa che dà per essi la sua vita. Quale e quanta carità! Qual modello da imitare! E non è fuor di proposito l’osservare come San Giovanni in questo luogo chiami Gesù Cristo Dio, giacché dice espressamente, che noi abbiamo conosciuto l’amore di Dio nel fatto che Egli egli diede la sua vita per noi. Ora chi diede la sua vita e si immolò per noi? Gesù Cristo! Dunque Gesù Cristo in questa sentenza è chiamato Dio. E che dobbiamo apprendere da Gesù Cristo, modello supremo di carità? ” Egli diede per noi la sua vita e noi dobbiamo porre la nostra per i fratelli. „ Questa sentenza di nostro Signore significa forse che noi possiamo sacrificare la vita dell’anima, la vita eterna per la salvezza spirituale dei fratelli nostri? Più che una follia sarebbe un’empia bestemmia il solo pensarlo: la vita dell’ anima è il supremo nostro bene, e per esso tutto devesi sacrificare, non mai esso ad altro bene quale che sia. La vita, di cui parla S. Giovanni e che noi dobbiamo sacrificare per i fratelli, non può essere che la vita del corpo. Ma come? direte voi. Siamo noi obbligati a dare la vita per i fratelli nostri? È questo un Debemus, come dice il sacro testo? E sempre? Ma in tal caso noi saremmo tenuti ad amare il prossimo più di noi stessi, mentre il Vangelo e la stessa natura ci impongono di amare il prossimo come noi stessi, cioè ad imitazione dell’amore, che dobbiamo a noi medesimi. – La risposta è piana e manifesta. L’ ordine della carità vuole che amiamo noi stèssi più dei fratelli, perché ciascuno è più prossimo a sé che non io sia il fratello, e perciò per regola ordinaria nessuno è tenuto a dare la sua vita per salvare quella del fratello. E se lo fa, che diremo noi? Se per salvare chi travolto dalla corrente d’un fiume, chi è circondato da un incendio, altri si getta nel fiume e si slancia tra le fiamme, diremo che viola l’ordine della carità, che merita biasimo? Ce ne guardi il cielo: nessuno è obbligato a far questo, onde se non lo fa, non pecca, perché non viola nessuna legge: ma se 1o fa noi lo saluteremo come un eroe e ci inchineremo riverenti dinanzi a tanta grandezza d’animo, a questo martire glorioso della carità, a questo imitatore del divino Maestro, che diede la vita per noi! – E se accadesse che per salvare la vita spirituale del fratello fosse necessario far getto della mia temporale, sarei io tenuto ad immolarla? Senza dubbio sarei tenuto ad immolarla quando fossi tenuto per ufficio, che tengo. Onde in ogni tempo noi vedemmo sacerdoti, parrochi, vescovi, pastori di anime non esitare un istante a sfidare la morte al capezzale degli appestati negli ospedali e nei lazzaretti per offrir loro i conforti della Religione. Se il soldato, fedele al suo dovere, non paventa la morte sui campi di battaglia per la difesa della patria, per gli interessi della terra, come potremmo esitar noi ad affrontare la morte, allorché si tratta degli interessi del cielo, dell’acquisto della patria superna? No, non vi è sulla terra spettacolo più sublime di colui che offre il sacrificio della propria vita per salvare la vita temporale del fratello: che dovrà essere quando l’offre per salvare non la vita temporale, ma 1’eterna del fratello? – Dopo aver parlato della carità verso dei fratelli in genere e del supremo suo grado, che consiste in dare per essi, se è necessario, anche la vita, il nostro Apostolo discende alla pratica applicazione più comune della carità, e così prosegue: “Se alcuno ha beni in questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio albergherà in costui? „ – La carità, la vera carità si manifesta nelle opere: vuoi tu conoscere se questa carità alberga nel tuo cuore? Guarda alle opere: la bontà dell’albero si conosce e si giudica dai frutti e non dalle foglie. Vedi tu il fratello che soffre la fame? che mal vestito trema dal freddo? che non ha tetto, che lo copra? Che non ha un giaciglio su cui passare la notte? Che infermo non ha chi lo assista? che soffre e non ha chi lo conforti? Qui si vedrà alla prova la tua carità. A te sfamarlo, vestirlo, trarlo, soccorrerlo colla limosina, o meglio ancora, se è possibile, col dargli lavoro, limosina che non umilia: a te, se non puoi aiutarlo del tuo, farti suo avvocato presso chi può soccorrerlo: a te rivolgergli una parola di consiglio, di conforto, aprirgli il tuo cuore affinché egli ti apra il suo. – Il mondo, atterrito, ode grida di minaccia e vede turbe di uomini, che si aggirano per le vie chiedenti pane o lavoro: vede un esercito immenso di sofferenti, che aspettano o vagheggiano 1’ora dello sconvolgimento sociale: il fragore della bufera (che vale dissimularlo?) più e più si avvicina: la marea monta, monta sempre e finirà col passare come un torrente di lava, su tutto il continente, distruggendo tutto ciò che troverà sul suo passaggio. Vi è un rimedio, che ci salvi da tanta rovina? Sì, vi è; ma non è riposto nei discorsi, nei trattati, nei libri dei dotti e nemmeno nelle leggi e nella forza armata, a difesa delle leggi. Esso sta riposto nella gran legge della carità: gli istruiti, i ricchi, i grandi si abbassino, amino davvero i loro fratelli, li ammaestrino, li soccorrano: li soccorrano nel loro superfluo, e sopratutto si mescolino a loro, formino con essi una sola famiglia per quella carità, che tutto pareggia, e la bufera sarà dissipata. La soluzione del tremendo problema, che si agita intorno a noi, è tutta in questi due periodi di S. Giovanni: “Se qualcuno ha beni di questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuderà il suo cuore verso di lui, come mai la carità di Dio albergherà in esso? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non con parole e con la lingua, ma colle opere e in verità. „ Ecco il rimedio infallibile ai mali, che ci minacciano; ecco la vera e pratica soluzione del problema che ci affanna: la eguaglianza, figlia non della forza e della ingiustizia, ma della carità volontaria. – Chiuderò la mia omelia, ripetendo le parole di due Padri della Chiesa: il primo parla al Vescovo e, fatta proporzione, ai preti; l’altro a voi, o laici. Udite il primo, S. Bernardo: “Guai a te, vescovo. Non ti è lecito spiegar lusso con i beni della Chiesa e sprecare in cose superflue: non ti è lecito arricchire: non ti è lecito portare in alto i consanguinei: non ti è lecito fabbricare palazzi: tutto ciò che oltre il vitto necessario ed il semplice vestito tieni dalla Chiesa, non è tuo: è rapina, è sacrilegio! „ – Udite il secondo, o laici: ” Forse che tu non sei spogliatore, tu, che reputi tuo ciò che hai ricevuto per distribuirlo altrui? Quel pane, che tieni per te, è pane dell’affamato: appartiene all’ignudo quella veste, che conservi nell’armadio: allo scalzo spettano quei calzari, che si consumano in casa tua: è denaro del povero quello che crudelmente possiedi. Ondeché tu fai ingiuria a tanti poveri, quanti sono quelli, ai quali potresti porgere soccorso. „

Graduale

Ps CXIX:1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me. [Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

V. Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja [O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja. [Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. R. Gloria tibi, Domine! Luc XIV:16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit coenam meam”.

Omelia II

Omelia della DOMENICA II dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Numero dei Peccati.

E perché al primo rifiuto degl’invitati nell’odierna parabola vien fulminata sentenza fatale di esclusione perpetua dal regno di Dio? Un uomo di qualità, imbandita una grande cena, mandò il suo servo ad invitare molti. Il primo di questi invitati si scusò con dire, aver lui fatto acquisto di una villa, e conveniva si conducesse sul luogo a vederla. Il secondo allegò per scusa aver comprato cinque paia di buoi, e doveva andar a provarli se erano idonei all’aratro. Disse il terzo, che di fresco aveva presa moglie, e gli era impossibile venir al convito. Offeso da questi villani rifiuti quel personaggio, altamente si protestò che niun di costoro si sarebbe mai più assiso alla sua mensa, mai più avrebbe gustato della sua cena. Quest’uomo qualificato, al dir di S. Cirillo e del magno Gregorio, riportati dall’angelico dottor S. Tommaso (in Cat. Aurea), egli è Dio che ha imbandita una lauta mensa delle carni immacolate del divino agnello, ha spedito il suo servo, cioè i ministri della sua Chiesa ad invitar tutti i fedeli, a partecipare di così santo e salutare convito; ma molti ingrati corrispondono a tanta bontà con un rifiuto. E perché, io ripeto, dopo il primo rifiuto gl’invitati dell’indicata parabola sono fulminati con fatale sentenza? Ecco, uditori, una risposta, che racchiude una spaventosissima verità. Compirono con quel rifiuto la misura della loro malvagità. Che in fatti vi sia un certo numero di peccati da Dio stabilito universalmente per tutti, dopo il quale non resti più luogo a perdono, e qual possa essere in particolare per ciascuno quello stesso numero, è ciò che formerà il soggetto della presente spiegazione.

Che il grande Iddio, che tutto ordina dispone ed eseguisce in numero, peso e misura, abbia determinato un certo numero di peccati, compiuto il quale più non accordi perdono, è cosa certa, dice S. Agostino, comprovata dal giudizio di Dio medesimo nelle divine Scritture: “Esse certum peccatorum numerum atque mensuram, ipsius Dei iudicio certissime comprobatur”. Promette infatti Iddio ad Abramo la fertilissima terra di Canaan, ma tu, soggiunge non entrerai al possesso della medesima, finché non sian compiute le iniquità degli Amorrei: “Necdum enim completæ sunt iniquitates Amorrhæorum” (Ge. XV, 16), Gesù Cristo, rinfacciando ai caparbi scribi e ai superbi farisei l’empietà delle loro massime, e la scostumatezza delle loro opere. Compite, dice ad essi, compite la misura dei malvagi vostri genitori: “et vos implete mensuram patrum vestrorum” (Matth. XXV, 32). Lo stesso finalmente conferma l’apostolo nella prima sua epistola (cap. II, 15) a quei di Tessalonica. A rendervi più sensibile questa importantissima verità fatevi tornare a mente l’universale diluvio, allorché Iddio, per castigare con esempio inaudito il peccato della disonestà, tutta sommerse l’umana generazione. Poteva l’onnipotente Iddio in un sol giorno, in un’ora, in un istante affogare nell’acque il mondo intero, pure volle impiegarvi lo spazio di giorni quaranta di pioggia dirotta. Fu questo, dice S. Giovanni Crisostomo, un tratto di misericordia, acciocché in vista di un castigo che aveva cominciamento e progresso, potessero i rei aver tempo a salvarsi; ma fu altresì ripiglia Origene, un atto di sua tremenda giustizia; perciocché nei primi giorni andarono in fondo quei che compito avevano il numero de’ propri peccati, e così nei giorni susseguenti gradatamente restarono sommersi coloro che ripiena avevano la misura dei loro delitti: “Quam mensurasn credendam et fuisse completam ab iis , qui diluvio perierunt(Orig.). Mi chiedete ora qual sia per ciascuno in particolare questa determinata misura? Questa per alcuni è più ampia, per altri è più ristretta. Apriamo di nuovo le divine Scritture: ah, diceva Iddio a Mosè, io voglio una volta disfarmi queste tue genti; e assegnando la cagione della sua collera. È già la decima volta, soggiunge, che questa malnata genìa provoca, il mio furore: “Tentaverunt me iam per decem vices” (Num. XIV, 22). – Lo stesso Dio, parlando dei popoli di Damasco, dice ad Amos profèta: Io perdonerò a questo popolo le sue scelleratezze la prima, la seconda, la terza volta, e non più: “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum” (Am. I, 3). Ma, Signore, non siete sempre il Dio delle misericordie tanto la prima, che la seconda, la quarta e la centesima fiata? Io sono in natura, in sostanza, in ogni tempo, ma per il popolo di Damasco nol sarò in effetto, se non fino alla terza volta, ma non per la quarta. “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum”. Ecco dunque per gli Ebrei nel deserto, che la loro misura arriva fino a dieci, e per quel di Damasco fino a tre. Vi sono o esser vi possono ancor più corte misure? O giudizi di Dio tremendi, profondi, inscrutabili! Vi sono purtroppo numeri più ristretti, misure più scarse. Per alcuni talvolta il primo peccato è l’ultimo. Così avvenne agli Angeli nel cielo empireo, così agl’invitati nell’odierna parabola. – Fissate bene le prove di questa formidabile verità, ditemi, fedeli amatissimi, siete voi nello stato d’innocenza? Mi giova il crederlo. Ah! se così, tenetevi ben cara questa gemma preziosa, guardatevi bene di macchiare la candida stola della vostra battesimale integrità, perché il primo peccato potrebbe forse essere l’ultimo, potrebbe cadere su voi quel fulmine improvviso e irreparabile, che colpì gli Angeli prevaricatori, e i convitati dell’odierno Vangelo, come già vi accennai. Se poi, perduta la prima tavola dell’innocenza, vi siete appigliati alla seconda della penitenza, se, abbandonata la strada di perdizione, vi siete incamminati in quella della salute, deh! Per pietà non tornate addietro, non date un passo, non mettete un piede fuor di questa via, perché il primo passo potrebb’essere per voi un precipizio, una caduta, che vi sprofondasse nel baratro sempiterno.Se finalmente foste ancora nello stato di peccato, stato d’inimicizia con Dio, stato di dannazione, uscite per carità da stato sì pericoloso, non aggiungete colpa a colpa, peccato a peccato; perché la bilancia che sta in mano alla divina giustizia è già carica dal peso de’ vostri reati e va ondeggiando, sostenuta, a non preponderare a vostro danno, dalla divina misericordia; ma un altro peccato, che vi si accresca, può farla tracollare a vostra rovina. – Forse alcun di voi andrà dicendo fra sé: “conviene dire che la misura de’ miei peccati sia ben dilatata ed estesa: poiché dopo tanti che ne ho commessi senza numero, senza fine, in ogni genere, in ogni modo, la giustizia di Dio non mi ha fatto sentire neppure il fischio del suo flagello; invece io vivo sano, vegeto, robusto e prosperoso. – Perdonatemi se vi compiango, e uditemi con pazienza. Un orologio montato a svegliarino corre con un leggiero moto e poco si fa sentire tutta la notte, ma giunto al punto fissato da chi lo caricò, ecco un’improvvisa rivoluzione di ruote, uno strepito di martelli, un sì forte trambusto, che sveglia chi anche profondamente dormiva. – Voi al presente dormite tranquillo in seno al peccato, sentite però a qualche ora un leggiero movimento, il rimorso cioè della rea coscienza, che non sa tacere; pur proseguite il vostro sonno, o piuttosto il vostro letargo; ma al giungere di quel punto fatale determinato dal padrone della vita e della morte, si scaricherà su di voi la giusta sua collera, vi sveglierete dalla profonda letargia, aprirete gli occhi, e vedrete il mondo che vi fugge, la morte che v’incalza, l’eternità che vi assorbe, l’ira di Dio che vi sta sopra in atto di fulminarvi, e sprofondarvi all’abisso. Succederà a voi come a tanti pari vostri, uomini di bel tempo, che nel fior dell’età, nel più bello dei loro sozzi piaceri, venuto il fatal punto, furono all’improvviso precipitati all’inferno: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto, notate bene, et in puncto ad inferna discendunt” [finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi] (Job. XXI, 13). Questo terribile punto fissato dalla mano dell’Onnipotente, arrivò già per i superbi e rivoltosi Core, Datan e Abiron, “si aprì loro la terra sotto de’ piedi, e vivi vivi piombarono nel profondo dell’inferno”: “Descenderuntque vivi in infernum” (Num. XVI, 33). Questo formidabile punto non preveduto arrivò per l’incestuoso Ammone, e la mano di Dio lo colse sedente a lauto convito, che fu il palco funesto della sua morte. Questo punto non preveduto giunse per l’empio Baldassarre, e la divina vendetta lo colpì, mentre giaceva in un profondo sonno, trucidato dalle spade nemiche de’ Medi e dei Persiani. Questo punto arrivò per Sisara generale di grande armata, addormentato nel padiglione di Giaele, da lungo chiodo dall’una all’altra tempia miseramente trafitto. Questo punto arrivò per l’orgoglioso Oloferne, mentre sepolto nel sonno e nel vino, lasciò la testa sotto la spada della forte Giuditta. Questo punto, a finirla, arrivò per tanti libertini dei nostri tempi, increduli, scostumati, scandalosi, da noi conosciuti, che nella debolezza dei loro animi, e nella bruttezza dei loro vizi affettavano spirito forte, e mascherato patriottismo, colpiti da improvvisa morte nel fiore degli anni, senza sacramenti, senza un segno di religione, senza un atto di cristiana pietà. Per tutti quest’infelici, non è egli evidente che si avverò l’oracolo dello Spirito Santo per bocca di Giobbe: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto – notate di nuovo – et in puncto ad inferna descendunt”? Questo divino oracolo, questa tremenda minaccia si compirà in chiunque mette la sua felicità nelle terrene cose, nei vietati piaceri, nello sfogo delle brutali passioni, in chiunque non teme Dio, non si cura di Dio, calpesta le sue leggi e mena una vita peggiore delle bestie insensate. Sì, miserabili, seguite pure la via del piacere, vedrete ove andrà a terminare: impegolatevi nelle crapule, ubriacatevi nelle sensualità, coronatevi di rose; anche i montoni s’incoronano di fiori, e si lasciano carolare sul prato, ma son già destinati alla scure ed al macello. Cantino pure nella prigione quei scioperati malfattori, si divertano con giuochi villani, con tresche brutali; intanto la sentenza del loro supplizio è già pronunziata dal giudice e spiccata dal tribunale, ed essi nol sanno, e proseguono a ridere ed a cantare. Voi li compiangete; ma ecco il vostro caso precisamente (perdonatemi se vi parlo con evangelica libertà pel bene che vi voglio, per l’amore che vi porto), ecco, diceva, precisamente il caso vostro. È fissato, peccatori restii, il punto di vostra sorte, siete posti sulla bilancia come Baldassarre, tanti peccati farete e non più, tanti saranno i vostri giorni e non più: suonerà per voi l’ultima ora, la vostra sentenza è già scritta in cielo, la vostra condanna è in moto, già ne sento il tuono, già ne veggo il fulmine diretto a togliervi di questa terra, e ad inabissarvi all’inferno. – Ma dove mi trasporta l’amore di giovarvi, peccatori miei cari? Perdonate lo zelo di chi vi amareggia a fin di sanarvi, di chi vi minaccia a fin di salvarvi. Confortate il vostro cuore, e ditegli ch’è ancor luogo a sperare. La misura de vostri peccati è ampia, è vero, ma non è ancor compita: si compie, dice S. Agostino, quando una improvvisa morte colpisce un’anima impenitente; ma fin che Dio vi soffre in vita, è segno che non sono ancor chiuse le viscere della sua misericordia. Cessate da quest’ora dal più peccare: cancellate or ch’è tempo accettevole il chirografo delle colpe con lacrime di contrizione sincera, provvedete ai vostri novissimi, riformate la vostra condotta, intraprendete la via di salute: all’invito che oggi vi fa per mia bocca Iddio pietoso, non allegate scuse, come i convitati dell’odierno Vangelo: un rifiuto vi può costare la vita temporale ed eterna: ricordatevi che il primo peccato può essere l’ultimo, e il sigillo fatale della vostra eterna riprovazione. Che Iddio vi guardi!

Credo …

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps VI:5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam. [O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem. [Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

Communio

Ps XII:6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi. [Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza.]

A. K. Emmerich sullo Scisma del 1958 di Roncalli dal “vero” Papa.

La Venerabile A. K. Emmerich

“Quando il tempo del regno dell’Anticristo sarà vicino, apparirà una falsa religione (nata da una “rivolta” [II Tess., II: 3-4] al Conclave del 1958 – ndr.-) che sarà opposta all’unità di Dio con la sua Chiesa, QUESTO SARA’ IL PIU’ GRANDE SCISMA CHE IL MONDO ABBIA MAI CONOSCIUTO. Più sarà vicino il tempo della fine, più l’oscurità di satana si diffonderà sulla terra, ed allora sempre più alto sarà il numero dei figli della corruzione mentre il numero dei giusti diminuirà corrispondentemente … “.

Immagine della falsa chiesa attuale, di cui resta solo la facciata … ma dietro: solo macerie!

Profezia di Anne Catherine Emmerich, del 22 ottobre 1823 (da “La vita di Anne Catherine Emmerich” del Rev. Carl Schmoger CSSR) sul “più grande scisma … mai avvenuto, causato dall’agente dell’Anticristo Angelo Roncalli [l’antipapa Giovanni XXIII], con l’usurpazione del Papato del Vicario di Cristo canonicamente eletto, Gregorio XVII, al Conclave del 1958. La profezia dice: “apparirà una falsa religione che sarà opposta all’Unità di Dio e della sua Chiesa”. I “nemici della Croce”, con l’odio più intenso, si sono sempre concentrati sul punto centrale dell’UNITÀ cattolica, il PAPATO (colpito il quale, le pecore sarebbero state disperse).

L’agente della Massoneria il 33° Roncalli, con i suoi mentori,  l’antipapa Giovanni XXIII [stesso nome di un altro antipapa, altrettanto fasullo ma … innocuo]

S. S. GREGORIO XVII [26.10.1958-2.5.1991]

“Nella Passione di Cristo nessuno si alzò per dire una sola parola in difesa di Nostro Signore Gesù Cristo; nella Passione della Chiesa, chi si è alzato a proteggere il vero Papa Gregorio XVII in Esilio? Nessuno”. -fr. Khoat Tran (scritto 05/20/06)

Nicola di Fluh (XV Secolo) : “La Chiesa sarà punita perché la maggioranza dei suoi membri, in alto o in basso, diventerà molto pervertita. La Chiesa affonderà sempre più profondamente fino a che alla fine sembrerà essere estinta e la successione Di Pietro e degli altri Apostoli essere decaduta, ma …  dopo questo, sarà vittoriosamente esaltata oltre ogni dubbio “.

” … Si trovano quindi in un pericoloso errore quelli che ritengono di poter aderire a Cristo, Capo della Chiesa, pur non aderendo fedelmente al suo Vicario in terra [S. S. GREGORIO XVIII – ndr. -]. Sottratto infatti questo visibile Capo e spezzati i visibili vincoli dell’unità, essi oscurano e deformano talmente il Corpo mistico del Redentore, da non potersi più né vedere né rinvenire il porto della salute eterna.] (Pio XII: Mystici corporis Christi-29 giugno 1943).

Ilario poi afferma: “(Cristo, insegnando dalla barca) vuole indicare che quelli che sono fuori della Chiesa [ad es. i Modernisti del “novus ordo”, o i sedevacantisti o sedeprivazionisti “tesisti”, oppure le fraternità paramassoniche del cavaliere kadosh, etc. etc.- ndr.-] non possono capire la parola divina. La barca infatti è la figura della Chiesa; quelli che sono fuori di Essa, e quelli che stanno sterili e inutili sulla riva, non possono comprendere la parola di vita posta e predicata in Essa (…) Da questo si può capire che gli uomini si separano dall’unità della Chiesa non meno con lo scisma che con l’eresia. “Tra l’eresia e lo scisma corre, per comune avviso, questa differenza, che l’eresia ha un perverso dogma, lo scisma invece si separa dalla Chiesa per una scissura episcopale“. E in ciò concorda anche il Crisostomo, dicendo: “Io dico e professo che non è minor male lo scindere la Chiesa, che cadere nell’eresia“. Quindi, se non può esser giusta qualsiasi eresia, per la stessa ragione non c’è scisma che si possa giustificare. Non vi è nulla di più grave del sacrilegio di uno scisma … non vi è mai giusta necessità di rompere l’unità“(…) “e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”. – “A chi si riferisce – domanda Origene – la parola essa? Alla pietra su cui Cristo edifica la Chiesa, o alla stessa Chiesa? Ambigua è la frase: vorrà dire che siano una stessa cosa la pietra e la Chiesa? Questo appunto io credo vero; poiché né contro la pietra, su cui Cristo edifica la Chiesa, né contro di questa prevarranno le porte dell’inferno“. La forza perciò di quella sentenza è questa: qualunque violenza o artificio usino i nemici visibili e invisibili, non sarà mai che la Chiesa soccomba e perisca: “La Chiesa, essendo edificio di Cristo, che sapientemente edificò la sua casa sulla pietra, non può essere preda delle porte dell’inferno, che possono sì prevalere contro ogni uomo che sia fuori della pietra e della Chiesa, ma non contro di essa (….)La stessa cosa afferma Cipriano: “Avere comunione con Cornelio (cioè con il “vero” Papa -ndr.-) è lo stesso che avere comunione con la Chiesa Cattolica” (…) poiché nella sede apostolica la Religione cattolica è stata sempre conservata senza macchia“(….)”La salute della Chiesa dipende dalla dignità del Sommo Sacerdote, e se non gli si dà un potere speciale e superiore a tutti, vi saranno nella Chiesa tanti scismi, quanti sono i sacerdoti“(….)  E perciò Cipriano afferma che sia lo scisma sia l’eresia nascono dal fatto che non si presta la dovuta obbedienza alla suprema potestà: “Non da altro infatti sono sorte le eresie e sono nati gli scismi, se non perché non si obbedisce al sacerdote, e non si pensa che nella Chiesa vi è un solo sacerdote e un solo giudice Vicario di Cristo (….) Perché dunque pretendete di usurpare le chiavi del regno dei cieli, voi che militate contro la cattedra di Pietro (….) Con ragione dunque Leone X nel Concilio Lateranense V sentenziò: “Solo il vescovo di Roma, temporaneamente in carica, ha il pieno diritto e il potere, come avente l’autorità su tutti i concili, di indire, trasferire, sciogliere i concili; e questo è evidente, non solo per testimonianza della sacra Scrittura, dei detti dei padri e degli altri vescovi di Roma e decreti dei sacri canoni ma anche per l’ammissione degli stessi concili” [pertanto il Conciliabolo c.d. Vaticano II è totalmente invalido, non essendo avallato dal Papa allora regnante, anche se esiliato, cioè GREGORIO XVII]  (….)  Non ricusino dunque di ascoltarci e di assecondare il Nostro paterno amore quanti hanno in abominio l’empietà, sì largamente diffusa, e riconoscono e confessano Gesù Cristo Figlio di Dio e Salvatore del genere umano, e tuttavia vanno errando lontano dalla sua sposa (….) E così pure, chiunque ammette tutto ciò che nella Scrittura si dice dello stesso Capo, ma non è unito in comunione con la Chiesa, non è nella Chiesa (….) Che ti vale confessare il Signore, onorare Dio, predicarlo, riconoscere il suo Figlio e confessare che siede alla destra del Padre, se bestemmi la sua Chiesa? [S. S. LEONE XIII: Satis Cognitum – 29 giugno 1896].

SANTA BRIGIDA DI SVEZIA e le orazioni mai approvate dalla Chiesa

S. BRIGIDA VEDOVA

(1303-1373)

8 OTTOBRE.

[da: “I Santi”; Alba, Pia Società S. Paolo – ROMA, 1933-impr.]

Brigida nacque da Brigero, principe di Svezia, e da Sigrida, discendente dai re dei Goti. Assai presto perdette la madre e venne allevata dalla zia. Si dice che fino a tre anni rimase muta, età in cui miracolosamente le si sciolse la lingua e cominciò a parlare in modo perfetto. Non ancora decenne, per aver udito un discorso sopra la passione di Gesù Cristo, rimase molto impressionata, e nella notte seguente, ebbe la visione di Gesù Cristo appeso alla croce, tutto coperto di sangue. Nello stesso tempo sentì una voce. «Guardami, figliuola mia, ecco quel che fanno quelli che mi disprezzano, e che sono insensibili all’amore che ho per loro ». Da quel tempo in poi non poté più pensare al mistero della Passione senza emettere sospiri e sciogliersi in lacrime. – A sedici anni il padre la maritò con un giovine signore, chiamato Ulfone, principe di Nerizia. Brigida, vedendosi così giovane, e sentendosi impreparata a tale passo, pregò ed ottenne dal padre un anno di dilazione, prima di coabitare col marito. Così i due sposi di vicendevole condenso passarono nella continenza il primo anno del loro matrimonio. La nostra santa lo impiegò tutto nel chiedere a Dio con fervorose preghiere, con lacrime e con digiuni, che si degnasse di non lasciarla mai deviare dai suoi precetti, di benedire il suo matrimonio, e di santificare in quel nuovo stato lei, il marito ed i figliuoli che le avrebbe dato. – I due sposi santificarono il vincolo matrimoniale coll’ascriversi al terz’Ordine di S. Francesco. La loro casa divenne subito una specie di monastero in cui i due consorti vivevano nelle pratiche austere della penitenza. Ebbero quattro figli e quattro figlie, dei quali gli ultimi due morirono bambini e due diedero la vita nelle crociate per la liberazione della Terra Santa. Delle quattro figlie, due si santificarono nello stato matrimoniale, e due si resero religiose di cui una, Caterina, è stata dalla Chiesa dichiarata santa. – Tutte le premure di Brigida furono rivolte ad allevare i figlioli nel timor di Dio, ed instillare loro tutte le virtù necessarie alla salute eterna. Dopo la nascita degli otto figli, indusse insensibilmente il marito a rinunciare all’onorevole carica di consigliere del re, per attendere più intensamente alla propria santificazione, e si obbligarono, per voto, di passare il restante della loro vita nella continenza. Fondarono un ospedale dove andavano spesse volte a servire i malati colla proprie mani. Santa Brigida, soprattutto, si dava alla cura dei poveri e degli infermi come di propri figlioli. Dopo la morte del marito, rimase più libera di darsi interamente alla penitenza ed alle opere di Dio. Fondò un monastero a Wastein ove rimase due anni per dare le direttive necessarie per un ottimo avvenire del medesimo. Poi venne a Roma, dove la tomba dei principi degli Apostoli, e le catacombe, olezzanti di profumo di tanti martiri, potevano somministrarle un pascolo più abbondante alla sua pietà. Spinta da un ardente amore per Gesù Cristo Crocifisso, fece un pellegrinaggio in Terra Santa. Quivi bagnò colle lagrime i luoghi santificati alla presenza del Salvatore e tinti dal suo preziosissimo sangue. Ritornata a Roma, fu assalita da un complesso di malattie, che sopportò con ammirabile pazienza. Sentendosi vicina a morire, si fece distendere sopra un cilicio per ricevere gli ultimi Sacramenti. Morì ai 23 di luglio nel 1373 all’età di 71 anno. – S. Brigida va in special modo ricordata per le grandi rivelazioni ricevute dal Salvatore e da Maria SS.

VIRTÙ. — S. Brigida è un perfetto modello, specialmente nelle virtù famigliari, come figliola, come sposa, come madre e come vedova.

PREGHIERA. — O Signore, Dio nostro, che per mezzo del tuo Figlio unigenito, hai rivelato alla beata Brigida i segreti celesti, concedi a noi tuoi servi per intercessione di lei di godere della letizia della manifestazione della tua eterna gloria. Così sia.

Ad S. Birgittam Reginam Sueciae, Vid.

Preghiera per gli scismatici e gli eretici fuori dalla Chiesa Cattolica.

Con cuore confidente ci volgiamo a voi, beata
Brigida, per domandare in questi tempi di ostilità
e di miscredenza la vostra intercessione in
favore di quelli, che sono separati dalla Chiesa
di Gesù Cristo. Per la chiara cognizione, che
Voi aveste dei crudeli patimenti del nostro crocifisso
Salvatore, prezzo della nostra redenzione,
vi supplichiamo di ottenere la grazia della fede
a coloro che sono fuori dell’unico ovile, così che
le disperse pecorelle possano ritornare all’unico
vero Pastore, Gesù Cristo nostro Signore.
Amen.
Santa Brigida, intrepida nel servizio di Dio,
pregate per noi.

Santa Brigida, paziente nelle
sofferenze e nelle umiliazioni, pregate per noi.

Santa Brigida, mirabile nell’amore verso Gesù e Maria, pregate per noi.
Pater, Ave, Gloria.

Indulgentia trecentorum dierum semel in die

(S. C. Indulg., 5 iul. 1905; S. Paen. Ap., 23 oct.  1928).

 

 

(Le presunte orazioni rivelate da Nostro Signore a Santa Brigida di Svezia non hanno mai avuto approvazione. – La Chiesa non ha mai approvato in particolare le promesse relative ritenendole apocrife: decr.  AAS, 1899 pp. 243; Monit. III, S. Off. 28 Jan. 1954)

 

 

 

 

CORPUS DOMINI : Messa – LAUDA SION, Letture ed Omelia di S. S. GREGORIO XVII

Messa

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios 1 Cor XI:23-29

Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Jesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem. Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo e dat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, judícium sibi mánducat et bibit: non dijúdicans corpus Dómini.”

[Fratelli: Io stesso ho appreso dal Signore quello che ho insegnato a voi: il Signore Gesú, nella stessa notte nella quale veniva tradito: prese il pane, e rendendo grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà immolato per voi: fate questo in memoria di me. Similmente, dopo cena, prese il calice, dicendo: Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, tutte le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me. Infatti, tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a quando Egli verrà. Chiunque perciò avrà mangiato questo pane e bevuto questo calice indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Dunque, l’uomo esamini sé stesso e poi mangi di quel pane e beva di quel calice: chi infatti mangia e beve indegnamente, mangia e beve la sua condanna, non riconoscendo il corpo del Signore.]

Sequentia [Thomæ de Aquino]

Lauda, Sion, Salvatórem,

lauda ducem et pastórem

in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:

quia major omni laude,

nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,

panis vivus et vitális

hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ

turbæ fratrum duodénæ

datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,

sit jucúnda, sit decóra

mentis jubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,

in qua mensæ prima recólitur

hujus institútio.

In hac mensa novi Regis,

novum Pascha novæ legis

Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,

umbram fugat véritas,

noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,

faciéndum hoc expréssit

in sui memóriam.

Docti sacris institútis,

panem, vinum in salútis

consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,

quod in carnem transit panis

et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,

animosa fírmat fides,

præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,

signis tantum, et non rebus,

latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:

manet tamen Christus totus

sub utráque spécie.

A suménte non concísus,

non confráctus, non divísus:

ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:

quantum isti, tantum ille:

nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali

sorte tamen inæquáli,

vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:

vide, paris sumptiónis

quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,

ne vacílles, sed meménto,

tantum esse sub fragménto,

quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:

signi tantum fit fractúra:

qua nec status nec statúra

signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,

factus cibus viatórum:

vere panis filiórum,

non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,

cum Isaac immolátur:

agnus paschæ deputátur:

datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,

Jesu, nostri miserére:

tu nos pasce, nos tuére:

tu nos bona fac vidére

in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:

qui nos pascis hic mortáles:

tuos ibi commensáles,

coherédes et sodáles

fac sanctórum cívium. Amen. Allelúja.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum Joánnem.

R. Gloria tibi, Domine! – Joann VI:51-59

“In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Ego sum panis vivus, qui de cælo descendi. Si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in aeternum : et panis quem ego dabo, caro mea est pro mundi vita. Litigabant ergo Judaei ad invicem, dicentes: Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? Dixit ergo eis Jesus: Amen, amen dico vobis : nisi manducaveritis carnem Filii hominis, et biberitis ejus sanguinem, non habebitis vitam in vobis. Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, habet vitam aeternam : et ego resuscitabo eum in novissimo die. Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem e bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicu misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qu mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qu de coelo descéndit. Non sicu manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum. [In quel tempo: Gesú disse alle turbe dei Giudei: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.[ Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.]

Omelia di

S. S. GREGORIO XVII (1975)

Avete sentito leggere un tratto (Gv VI, 51-58) di quello che è accaduto a Cafarnao un anno prima dell’istituzione dell’Eucaristia, quando Gesù cioè tenne il celebre e lungo discorso sull’Eucaristia. Il tratto che avete sentito leggere vi ha presentato la difficoltà degli uditori ad accettare una simile verità. Gli uditori avevano questo torto: non si ricordavano che poco prima Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci, dimostrando con questo di essere padrone tanto della sostanza che della quantità e di poterne disporre da Creatore a Suo piacimento. Questo era il loro torto. In questo torto non sarebbe caduto Pietro, – questo non l’abbiamo lettolo -, che terminò l’incidente, non comprendendo nulla anche lui, ma dicendo a Gesù: “Signore, da chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv VI, 68). – Pur avendo torto, c’era un motivo d’interrogazione, non di contestazione, e il motivo d’interrogazione era questo: “Ma, Signore, come mai ti metti sotto apparenze così semplici come quelle di un pane, di una ostia, niente di più umile, di più comune, Signore?”. La domanda, non la contestazione, la domanda poteva essere ragionevole. In noi la stessa domanda, che potrebbe essere ragionevole, fa questo effetto purtroppo, e io sono qui a protestare fortemente contro questo effetto: che, non interpretando l’umiltà con la quale Dio si manifesta a noi e la delicatezza suprema, noi usiamo il massimo di irriverenza verso la Santissima Eucaristia, il massimo. E io sono qui a protestare con tutta l’anima contro questo. Non con voi che siete qui, cari, ma potrebbe essere che anche voi abbiate bisogno di sentire questa protesta. In altri termini, l’umiltà e la delicatezza divina nel trattare con noi uomini ci fa da dimenticare la maestà di Dio, perché nell’Eucaristia è presente Gesù Cristo Dio. E pertanto accanto all’umiltà e alla delicatezza della manifestazione e del sacro segno va ricordata la Maestà divina per trarre tutte le conseguenze. – Perché questa umiltà divina? E tutto uno stile di Dio che meriterebbe un lungo e interessantissimo discorso, perché è una delle linee principali della Provvidenza Divina nel trattare con gli uomini. Dio ci parla continuamente attraverso la creazione: il sole che sorge, l’alba rosata, la primavera che esplode, l’estate che matura, l’autunno che dà i suoi frutti, l’inverno che dà il suo raccoglimento e, per via dei contrasti, fa amare quello che è caldo, tutto, ma dolcemente, parla del Creatore. Non si arriva di conseguenza del Creatore se non si mette un’attenzione volontaria, libera, e Dio è delicato proprio per lasciare a noi il merito di questa iniziativa, di questo non primo, ma secondo passo (il primo lo fa sempre la Grazia Sua all’interno di noi), il merito di questo secondo passo. Dio non vuole con impressioni cogenti, violente, diminuire il valore del nostro atto libero e del nostro merito: questa è la ragione. Ho detto che meriterebbe un ben lungo discorso, e forse in altre occasioni lo faremo. Ma mi importa proseguire nel tema che propongo a voi questa mattina. – Sì, l’Eucaristia si presenta dolcissimamente umile, cosa comune all’esterno, segno che non viola nessuno dei limiti della nostra debolezza, ma c’è la maestà di Dio lì e dobbiamo rispettarla! La maestà: che cos’è? E una parola che è nella testa degli uomini generalmente confusa da un’idea di grandezza, di impotenza da parte nostra, di superiorità e basta, un’idea che sconvolge, che noi ricordiamo unicamente per darla alle cose che riteniamo massime in questo mondo, ma è difficile che se ne abbia una idea precisa. Ora, la maestà è quella qualità per cui Dio si alza all’infinito sopra delle Sue creature; questa è la maestà. Noi abbiamo degli elementi per parlarne, certamente, ma sempre come quando si parte da una riva e si cerca di solcare un mare che va all’infinito. Noi vediamo il sole, le altre stelle, le vediamo – in genere non le guardiamo, almeno per quanto mi consta -, però, se si osservano, si sente una grandezza tale, la grandezza dataci dall’idea di spazio, e l’idea di spazio lancia verso l’immenso. Noi siamo oppressi dal rotare degli anni, dei giorni, dei mesi, delle ore, del tempo; la storia in fondo dà questa impressione, è la prima che essa dà: che tutto quanto passa, che tutto quanto incalza, che tutto quanto ha fretta e tutto quanto lascia nella polvere, nel silenzio e, quaggiù, nella morte; ma il tempo è la sponda dalla quale si parte per avere l’idea dell’eternità. Le cose a noi sembrano mirabili, grandi; i colori si prestano, le forme, tutte le forme si prestano a questo, congegnando così l’impressione esterna della bellezza della quale è ripieno il mondo: e tutto questo costituisce una sponda che ci spinge un’altra volta sul mare infinito, quello dell’eterna bellezza. – Quando tuona il fulmine, quando il terremoto scuote, quando l’alluvione irrompe, noi abbiamo impressioni orribili e orrende, ma sentiamo la grandezza: sono le piccole rivelazioni della presenza di Dio; qualche volta sono anche un castigo, ma sono delle rivelazioni con le quali Dio, non presentando un elemento cogente all’intelligenza, perché deve rimanere libera, ma al sentimento esterno, a quel sentimento fisico che hanno anche gli animali, comune con noi, che è di fuga – e noi lo chiamiamo anche spavento -: ed è una sponda anche questa dalla quale si può partire come per un mare immenso per vedere di quanto Iddio stia al di sopra di noi. Fratelli miei, potrei continuare, ma il tempo limimitato. Dio ci dà gli elementi per la maestà, ce la richiama. – Parliamo di noi che la dimentichiamo. Quando io vedo gente che contesta d’inchinarsi davanti al Santissimo Sacramento, mi chiedo fino a che punto sia decaduta la potenza intellettuale e logica degli uomini, fino a che punto! Quando io devo constatare che bisogna proteggere il culto alla Santissima Eucaristia anche contro coloro che lo dovrebbero promuovere, piangerei. Ma siamo diventati così ciechi, siamo diventati così poveri di spirito nel senso deteriore, da non ricordarci di intendere almeno qualche volta in vita questo supremo richiamo che ci viene da tutto il creato? Se questa cattedrale crollasse e desse a noi, schiacciandoci, un segno della potenza che ha la forza di gravità o dell’attrazione della terra, sarebbe piccola e futile cosa davanti all’onnipotenza di Dio: ma abbiamo bisogno che ci cadano le cattedrali sulla testa per capire che dobbiamo adorare Colui che si degna di stare nei piccoli, umili tabernacoli – che spesso cerchiamo di rendere più spogli e miserabili -, che si degna di restare per amore nostro? A questo punto mi par di sentire una voce che dice: “Ma il senso della maestà ci opprime”. E credete che sia un male? Non è affatto un male! Se dobbiamo essere anche e fortemente richiamati al più elementare senso di giustizia verso Chi ci ha creato e redento, ben venga. Però non è questa la risposta. – Ho detto che Dio si manifesta a noi in modo umile e dolce per amore. L’Eucaristia è un atto d’amore di Dio, che ha voluto scegliere il pane e il segno della manducazione, dell’assimilazione, che è la forma più grande con la quale una creatura si può inverare nell’altra, per indicare fino a che punto Dio vuole essere unito a noi e noi uniti a Lui. E per amore! – E concludo col dire che l’amore, quando è tale, è un amore adorazione alla maestà di Dio. E non c’è da scomporsi; la logica va perfettamente a posto: in Dio, perfezione eterna ed assoluta, amore e maestà si identificano. Se s’identificano in Lui, non c’è affatto difficoltà che l’atto di adorazione in noi sia amore e l’atto di amore sia adorazione.

 

 

 

FESTA DEL CORPUS DOMINI

[J.-J. “Catechismo di Perseveranza”; vol. IV, Torino, 1881]

Corpus Domini. — Antichità, universalità di questa festa. — Parte ch’ella occupa nel culto cattolico. — Istituzione della festa particolare del Santo Sacramento. — Beata Giuliana. — Miracolo di Bolsena. — Scopo di questa festa. — Uffizio di questo giorno. — Processione. — Disposizioni con le quali si deve assistervi. — Miracolo di Faverney.

I . Eccellenza della festa del SS. Sacramento. — Questa festa è nata col mondo, al pari della festa della SS. Trinità. La celebrarono i Patriarchi con offrire i sacrifici simboleggianti la gran Vittima; tutti i popoli pure ne rinnovavano la ricordanza sopra i loro sanguinosi altari; perché dall’idea primitivamente rivelata d’una vittima senza macchia, capace di espiare i delitti, invalse nel genere umano l’idea del sacrificio. Come, di grazia, avrebbe potuto cadere in mente dell’uomo lo strano pensiero che Dio poteva esser placato dal sangue d’un animale? Quindi tutti i sacrifici antichi erano figure dell’augusto sacrificio del Calvario: poco importa, che la cognizione di questo profondo mistero sia stata alterata nel Paganesimo, non perciò il fatto è meno certo. [M. de Maistre, Schiarimenti circa i Sacrifici]. Ma in modo speciale dopo la pubblicazione del Vangelo la festa dell’Eucaristia è divenuta permanente sopra la terra. Fedeli all’ordine del loro Maestro di rinnovare il sacrificio misterioso della Cena e di celebrarla in memoria di lui, gli Apostoli hanno resa la festa dell’Eucaristia antica ed universale quanto la Chiesa. Partendo da quell’epoca il sangue divino non ha cessato un momento solo di scorrere su tutti i punti del globo.Osservate la meravigliosa armonia che esiste tra le due feste dell’Eucaristia e della Trinità. L’adorabile Trinità è l’oggetto essenziale e primario di tutta la Religione e di tutte le feste; e l’augusta Eucaristia è il sacrificio perpetuo e il culto il più santo che sia prestato alla Trinità in tutte le feste: in altre parole, tutto l’anno è la festa della Trinità che adoriamo e dell’Eucaristia per la quale principalmente l’adoriamo. Vi sarà egli dopo di ciò luogo a meravigliarsi che siasi tanto indugiato a stabilire de’ giorni speciali per onorare questi due grandi misteri? Se la Chiesa finalmente ciò ha fatto, non è però stato suo intendimento di escludere l’Eucaristia o la Trinità dalle altre feste, o di opporsi a queste feste perpetue. Ella anzi ha voluto rinnovare nella mente dei popoli due verità fondamentali; 1° che le tre Persone divine sono il solo ed unico oggetto delle nostre adorazioni, che a questo solo si riferisce tutto il culto cristiano; 2° che l’onore il più essenziale che si presti alla Trinità in tutte le feste è il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo. Cosi Dio, termine del culto cattolico; Gesù Cristo, mediatore tra Dio e l’uomo e Pontefice del culto cattolico, ecco tutta la liturgia, tutta la Religione! Conoscete voi cosa alcuna più sublime, e ad un tempo più semplice ? Ove trovare una sorgente più feconda di alti pensieri, di nobili sentimenti, di determinazioni generose? Oh! quanto sono da compiangere coloro che non conoscono le bellezze né le ricchezze del Cristianesimo!In antico il Giovedì santo era la festa del Santo Sacramento, come è tuttora; poiché i nostri padri nella fede si comunicavano tutti nel Giovedì santo. Per memoria di ciò anche adesso la Messa nel Giovedì santo è accompagnata da tutte le cerimonie e da tutta la pompa d’una gran festa, quantunque la Chiesa sia allora nel duolo e nelle lacrime. Finalmente egli è perciò, che secondo il rito romano non si dice in tal giorno che una sola Messa a fine di rappresentare più vivamente la memoria dell’ultima Cena; tutti i sacerdoti si comunicano per mano del celebrante, come gli Apostoli si comunicarono per mano di Gesù Cristo.

Instituzione della festa del Corpus Domini. — Era giunto il tempo in cui una festa solenne doveva essere aggiunta al Giovedì santo, per onorare l’augusto Sacramento dei nostri altari. E qui pure osservate, come siano tutte le istituzioni della Chiesa in armonia con i bisogni della Religione e della società. Nel decimo terzo secolo sbucarono fuori certuni che osarono impugnare il più amabile tra i nostri misteri, quello che è quasi il cuore del Cattolicismo, e per conseguenza la pietra fondamentale della società. Alle bestemmie e agli oltraggi dei novatori bisognava opporre una luminosa manifestazione della fede nella presenza reale di Gesù Cristo tra gli uomini : alle loro derisioni sacrileghe, le testimonianze autentiche di rispetto e di amore; alle loro orribili profanazioni, una solenne espiazione. Wicleffo, Zuinglio, Calvino, acerrimi nemici del mistero d’amore, contro voi e contro i vostri settari sarà instituita la gran festa del Santo Sacramento. Dio lo vuole; ma a chi manifesterà egli il proprio intendimento? Fermiamoci qui un momento a considerare l’applicazione di quella legge divina formulata dal grande Apostolo da queste parole: Le cose deboli del mondo elesse Iddio per confondere le forti [1 Cor. I, 27]. La gloria di tutto appartiene a Dio; Dio è geloso di averla; Ei non la cede ad alcuno, ed ecco perché Ei si vale dei più deboli mezzi per operare grandi cose. La fragilità dell’arnese prova la potenza dell’artefice, e obbliga l’uomo ad esclamare: Al solo Dio onore e gloria pe’ secoli de’ secoli [1Tim. I, 17]. E questa legge si compie non solo nell’ordine religioso ma in tutti gli altri.Giova qui, poiché se ne presenta l’occasione, di provarlo con fatti. Percorrete la storia del mondo. Un popolo intero geme sotto la schiavitù del Faraone: di qual mezzo si varrà Dio per liberarlo ? Dell’oscuro pastore di Mardian, di Mosè. Un gigante spaventevole porta la costernazione nell’esercito d’Israello: chi lo atterrerà? Il giovine pastore di Betlemme, David. Oloferne, Aman minacciano di sterminare la nazione santa: chi spezzerà l’orgoglio di quei superbi? Due imbelli femmine, Giuditta ed Ester. Si tratta di far cadere il mondo pagano inginocchiato davanti alla Croce: chi saranno gli stromenti di questo prodigio? Dodici pescatori. Quindi troveremo e s. Gregorio VII, e sant’Ignazio, e santa Teresa, e san Vincenzo dei Paoli ed altri, quasi vivi monumenti posti di distanza in distanza sopra il cammino dei secoli, i quali ci dicono che la legge divina è sempre in vigore: Le cose deboli del del mondo elesse Iddio per confondere le forti. Ecco per l’ordine religioso.Non meno splendidamente la stessa legge si adempie negli altri ordini. Nell’ordini sociale, p. e. si tratta di unire i popoli disgiunti da vasti mari, e di rendere passibili e sicuri i viaggi a traverso oceani senza limiti e senza sentieri: di qual mezzo si varrà Dio per operare questo prodigio? D’un poco di calamita e di ferro, cioè detta bussola! Si tratta di scoprire o piuttosto indovinare un mondo perduto in mezzo all’oceano; chi è riserbato a questa gloria? Un semplice pescatore delle adiacenze di Genova, Cristoforo Colombo. Per operare in guerra i più micidiali effetti, che chiede il Dio degli eserciti? Un poco di salnitro, che è la polvere incendiaria. Vuol Egli in commercio arricchire intere province e far sussistere milioni di uomini? Ggli basta un verme, il baco da seta. Che appresta Egli nelle arti e nell’industria per operare incredibili meraviglie? Un poco di fumo il vapore. E voi stupite ch’egli tenga lo stesso metodo nell’ordine soprannaturale? Egli è in questo specialmente che debbono scomparire i mezzi affinché si palesi l’onnipotente sua mano. A dir breve, nell’ordine della grazia e in quello della natura, Dio è tutto, e vuole che lo sappiamo. Con questa lezione Ei dice a tutti: monarchi e sudditi, ricchi e poveri, dotti e indotti, se volete essere istrumenti di qualche cosa di grande, siate umili. ‘Questa legge riceve una luminosa applicazione nell’istituzione della festa della santa Eucaristia. Abbiamo poc’anzi notato, esser ciò avvenuto nel secolo decimoterzo. In quel tempo viveva all’ombra di un piccolo chiostro una religiosa ignota al mondo, umile, oscura , e sopra lei l’Onnipotente gittò lo sguardo per l’effettuazione del magnifico suo disegno. Presso la città di Liegi era il convento delle Ospitaliere del monte Corniglione. Tra le caste colombe che lo abitavano, si trovava una novizia, giovinetta di sedici anni, poveramente nata nel villaggio di Retina nel 1193, che aveva nome Giuliana. Essendo quell’angelo della terra un giorno in orazione, lo Sposo delle anime pure, quegli che si diletta di comunicarsi alle anime umili, le fece conoscere che desiderava venisse instituita una festa solenne per onorarlo nel Sacramento dell’amor suo. Fosse timidezza, fosse timore d’illusione, la devota giovinetta serbò per quasi vent’anni in cuore questa rivelazione, e soltanto procurava col raddoppiare la propria devozione verso Gesù Cristo nel Santo Sacramento di supplire a ciò che la Chiesa non aveva ancor fatto. Essendo stata nel 1230 eletta priora del monastero del monte Corniglione, ella si sentì più vivamente sollecitata a spiegarsi. La prima persona a cui ella si confidò fu un canonico di san Martino di Liegi, rispettatissimo da tutti, a cagione della santità della sua vita. Essa lo persuase a partecipare questo progetto ai teologi e ai pastori della Chiesa. Il canonico adempié tal missione con molto zelo, e riuscì favorevolmente presso quasi tutti coloro a cui si diresse. Egli invogliò specialmente a questa pia impresa il vescovo di Cambrai e il cancelliere della Chiesa di Parigi, ma sopra tutti il provinciale dei Domenicani di Liegi, che fu in seguito cardinale e arcidiacono di Liegi, vescovo di Verdun, patriarca di Gerusalemme, e finalmente Papa col nome di Urbano IV. La beata Giuliana, assicurata dall’approvazione di tanti personaggi ragguardevoli per dottrina e per devozione, fece comporre un uffizio del Santo Sacramento di cui ella stessa suggerì l’idea e il piano, e lo fece approvare dai principali teologi del paese. – Nel 1246 il vescovo di Liegi promulgò nel suo sinodo l’istituzione di una festa particolare del santo Sacramento, di cui ordinò la celebrazione pubblica e solenne in tutta la propria diocesi. Una grave malattia sopraggiuntagli lo impedì di ridurre ad effetto somigliante istituzione per mezzo di una pastorale ch’egli era sul punto di pubblicare. Non morì però senza avere la soddisfazione di veder celebrare in sua presenza l’uffizio della nuova festa, e i canonici di San Martino furono i primi a solennizzarla nella città di Liegi nel 1247. Ma le opere sante debbono soffrire contraddizione, e Dio lo permette affinché gl’istrumenti ch’egli adopera non attribuiscano che a Lui solo il successo; e questo prezioso suggello non mancò all’opera della beata Giovanna. La persecuzione di cui ella fu scopo, unita alla morte del vescovo di Liegi, sospesero la celebrazione della nuova festa. In questo frattempo Giuliana morì, e sembrava che la sua intrapresa dovesse morire con lei. E questo era inevitabile, se non fosse ella stata che l’opera dell’uomo; ma nel 1258, due anni dopo la di lei morte, una monaca della città di Liegi, che era stata sua confidente, sollecitò vivamente il nuovo vescovo ad interporsi presso il Pontefice, affinché introducesse in tutta la Chiesa la festa del SS. Sacramento, quale era osservata a san Martino di Liegi. L’innalzamento di Urbano IV al sommo Pontificato fu riguardato come una circostanza favorevole a questa impresa, di cui egli aveva in addietro approvato lo scopo ed i mezzi. Ciò nondimeno il Vicario di Gesù Cristo, seguendo il saggio stile della Chiesa Romana, non annuì così di subito alle istanze che gli si facevano, e volle prender tempo affine di esaminare una proposta di tale importanza. Con ciò successero dilazioni a dilazioni, quand’ecco un miracolo dei più sorprendenti toglie i dubbi del santo Padre ed affretta l’adempimento del pio voto. Trovavasi Urbano IV in compagnia del sacro collegio, ad Orvieto, piccola città a venti leghe circa da Roma, e prossima a Bolsena. Quivi mentre un sacerdote celebrava la Messa nella chiesa, ancora oggigiorno esistente, di santa Caterina, lasciò cadere per inavvertenza qualche goccia del sangue prezioso sul corporale. Volendo egli perciò rimediare a tale sconcio, piegò e ripiegò più volte il sacro lino per modo che venisse assorbito il sangue adorabile. Ma nell’aprire il corporale si ritrova che il sangue ha penetrato in tutte le piegature, ed ha lasciato impresso in color di sangue l’ostia sacra perfettamente disegnata. La fama del miracolo arrivò in poche ore ad Orvieto dove, per ordine del sommo Pontefice, venne tosto recato il miracoloso corporale. Si autenticò il prodigio; sicché il corporale, racchiuso in un reliquiario, vero capo-lavoro del Medio-Evo, conservasi tuttora in quella Cattedrale. – Cede allora il Pontefice alle istanze, istituì la festa del santo Sacramento, e volle che fosse celebrata come festa di primo ordine; assegnandole il giovedì dopo l’ottava di Pentecoste, e ciò per due motivi: 1° per esser quello il primo giovedì libero dagli uffizi del tempo pasquale; 2° perché conveniva assegnare quel giorno della settimana nel quale Gesù Cristo aveva instituito l’Eucaristia. S’ignora l’anno ed il giorno in cui fu data la Bolla d’istituzione, e soltanto sappiamo che il breve da Urbano IV diretto alla beata Eva, monaca di san Martino di Liegi, è dell’anno l264

III. Obbietto della festa. — Confondere la perfidia degli eretici, risarcire gli oltraggi commessi contro il Signore, attestare altamente la fede cattolica nella di Lui presenza reale, sono codesti, i principali motivi d’istituzione espressi nella Bolla. « Certamente, soggiunge il Papa, il Giovedì santo è la vera festa del santo Sacramento, ma in quel giorno essendo la Chiesa tutta occupata nel piangere la morte del proprio Sposo, nel riconciliare i penitenti, nel consacrare il santo Crisma, si reputò ben fatto statuire un altro giorno affinché la santa Chiesa potesse manifestare tutto il suo giubilo e supplire a quanto non si è potuto compiere nel Giovedì santo. Del resto tutte le solennità dell’anno sono le solennità dell’Eucaristia: e questa festa particolare non è stata instituita che per supplire alle mancanze e alla negligenza di cui si è potuto rendersi colpevoli nella festa generale. [Proprium eiusdem solemnitatis offlcium per B. Thomam de Aquino tunc ipsa Curia existentem eompositum edidit. Bull. Sixti IV. Apud. Bened. XIV. II, p. 366].

Liturgia. — Instituita pertanto la festa del santo Sacramento, non si trattava fuorché di trovare un dotto poeta degno del mistero d’amore; e la Provvidenza lo aveva già disposto. In quel tempo fioriva uno de’ più bei geni che siano comparsi sopra la terra, e si chiamava Tommaso d’Aquino. Questo grand’uomo. gloria del suo secolo e soprannominato il “Dottore angelico” per la purità della vita e per la sublimità dell’ingegno, ebbe da Urbano IV l’ordine di comporre l’uffizio del santo Sacramento. Tommaso si accinse all’opera, e abbandonandosi alle inspirazioni del proprio cuore, del proprio genio e della propria fede, compose l’uffizio che si canta ancora attualmente, e che è un immortale capo-lavoro, ove la poesia, la devozione é la fede si contrastano la palma. – Egli è perciò a giusto titolo riguardato come il più regolare e il più bello di tutti gli uffizi della Chiesa, tanto per l’energia e la grazia delle espressioni, che manifestano a vicenda i sentimenti della devozione la più tenera e la dottrina la più esatta circa il mistero dell’Eucaristia, quanto per la giusta proporzione delle parti, e per la precisione de’ rapporti tra i simboli del vecchio Testamento e la verità del nuovo. – Simile al grano di senapa, l’opera della beata Giuliana di monte Corniglione era cresciuta successivamente dall’umile cella del monastero fino al trono pontificio, e doveva crescere ancora, ma col tempo e in mezzo alle tempeste. In fatti essendo morto nel 2 ottobre 1264 Urbano IV, Dio permise che nessuno dei suoi successori immediati affrettasse l’esecuzione del decreto; sicché pel corso di quarant’anni poche furono le chiese, oltre quella di Liegi, ove fosse celebrata la nuova festa, che rimase quindi negletta fino al Concilio generale di Vienne tenuto nel 1311: in esso papa Clemente V, volendo finalmente darle tutto lo splendore e tutta la stabilità ch’essa meritava, fece accettare e confermare la Bolla d’istituzione data da Urbano IV. L’augusta solennità fu accettata da tutti i Padri del Concilio, che rappresentava la Chiesa universale, e ciò in presenza dei re di Francia, d’Inghilterra e d’Aragona. Così fu stabilita quella specie di trionfo che la Chiesa preparava in antecedenza, e che doveva sempre durare in risarcimento degli oltraggi che il più augusto e il più amabile dei nostri misteri doveva ricevere per parte dei settari e degli empi dei secoli seguenti.

Processione. – La parte più splendente degli uffici del santo Sacramento, e quella che maggiormente contribuisce a distinguere questa festa da tutte le altre, è la solenne processione nella quale il Salvatore è portato in trionfo con augusto apparecchio e con magnifica pompa, che per altro deve essere tutta religiosa. Questa processione stabilita dal Papa Giovanni XXII è stata solennemente approvata e caldamente raccomandata dal sacro Concilio di Trento [Sess. XIII, c. 9. — Questa processione sembra originata da quella ch’ebbe luogo per trasferire da Bolsena ad Orvieto il miracoloso corporale]. – Tutto concorre a renderla pomposa, e sembra che fino tutta la natura abbia voluto prendervi parte. È questo il momento delle belle giornate; è la stagione delle rose e dei gigli; è l’epoca nella quale milioni di augelletti, tuttora coperti della lanugine dell’infanzia provano il primo loro volo ed i primi gorgheggi. Nulla è più grazioso della processione del santo Sacramento nei villaggi, quando le campagne, gli alberi, i prati verdeggiano in tutto lo splendore del loro ornamento, e riflettono la propria bellezza sopra le stazioni rusticali; nulla è più imponente nelle città fortificate, ove il rimbombo del cannone accompagna il canto degli inni sacri; nulla è più solenne nelle città marittime, ove dall’oceano sembra ricevere le impressioni dell’infinito.

Modo di santificarla. — Ma che cosa debbo io fare per corrispondere ai desideri di quel Dio che vi è portato in trionfo? Primieramente assistere e far parte della processione: sì, farne parte, perché l’uomo s’innalza sempre quando si umilia davanti a Dio. Inoltre la riconoscenza per questo Dio Salvatore, che si degna percorrere le nostre pubbliche strade e piazze, spargendo, come già un tempo i beneficii sul suo cammino, non deve forse attaccarmi a’ suoi passi, e per così dire incatenarmi al suo carro trionfale? Uomini orgogliosi, che sdegnate di camminare al seguito del gran Re, che credereste avvilirvi mescolandovi alle pie schiere delle processioni, siete voi sempre così schizzinosi? Non siete voi forse quelli che noi vediamo, a guisa di vili schiavi, incatenati a vicenda al carro dell’ambizione e della voluttà, seguire coi piedi nel fango l’orma tortuosa che lascia il vizio sul proprio cammino? Sì; ben vi sta veramente di esser superbi con Dio! Io dunque assisterò alle processioni. La presenza del mio Dio mi inspira con qual rispetto, con quale raccoglimento io debba contenermivi; la sua infinita bontà parla al mio cuore e sollecita la mia riconoscenza. I fiori spicciolati per la via, l’incenso che s’innalza in vortici verso il cielo, i sacri cantici che echeggiano per l’aere m’invitano all’amore, allo spirito di devozione, di ringraziamento e di preghiera. E mentre quelle stazioni che incontrerò di tratto in tratto m’indurranno ad ammirare l’infinita benignità del Signore del mondo, che si compiace di fermarvisi, mi avvertiranno in pari tempo che anche il mio cuore deve essere una stazione, ove le semplici virtù debbono esalare i proprii profumi. Io lascerò dunque che la mia fede agisca, e ciò sarà bastante. Oltre a ciò quelle onde di popolo, che, sospinte da curiosità e da impulso profano, si accalcano sul passaggio dell’augusto corteggio, mi porgeranno occasione di atteggiarmi a compunzione e a fervore. Io dirò, non già come Giovanni e Giacomo, ripieni di sdegno : « Maestro, vuoi tu che noi chiamiamo sopra le loro teste colpevoli il fuoco del cielo ? » ma sebbene mormorerò le affettuose parole dell’Agnello divino confitto sopra la croce: « Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno». E così, figlio fedele della famiglia cattolica, io non avrò come tanti altri arrossito di venerare e di seguire il Padre mio; ed Egli se ne lamenterà, quando, arbitro supremo, verrà a giudicare i vivi e i morti. Ah! se il mio cuore sarà adesso tutto per Lui, io farò parte di quella processione solenne ed ultima, che si alzerà raggiante verso il cielo al seguito di Gesù trionfante, mentre gli orgogliosi spregiatori di Gesù umiliato piomberanno vergognosi e maledetti negli ardenti abissi. – Non potremmo terminar meglio questa lezione, quanto con riferire uno de’ tanti miracoli con i quali Nostro Signore si è degnato fortificare la fede dei suoi figli verso la realtà della sua presenza nell’augusto Sacramento dell’altare.

VII. Miracolo di Faverney. — L’anno mille seicento e otto, a quel tempo miserando in cui la Chiesa tuttora piangeva per gli attentati sacrileghi, che i Calvinisti avano con le armi alla mano commessi in Francia, durante molti anni, sulla Persona medesima di Gesù Cristo, di cui ricusavano ammettere la presenza reale nel Santo Sacramento dell’altare, piacque alla bontà di Dio, per consolazione de’ fedeli e per confusione degli eretici, di far conoscere la verità di questo augusto mistero per mezzo del più luminoso miracolo. In occasione di certe indulgenze concesse dal Santo Padre, i religiosi benedettini di Faverney, piccola città della diocesi di Besanzone, avevano per costume la vigilia di Pente coste, che in quell’anno cadeva al 25 maggio, di preparare nella loro Chiesa abbaziale una cappella, ornata con modesta ma nobile magnificenza, sul cui altare sorgeva un tabernacolo, ove erano due ostie consacrate, chiuse in un ostensorio d’argento. In quel giorno, 25 di maggio, era stato esposto il Santo Sacramento; ed ecco che al sopraggiungere della notte, allorché atutti si furono ritirati e fu chiusa la chiesa, essendo rimaste sull’altare due candele accese, le loro scintille diedero fuoco, come è da credersi, alle guarnizioni ed agli addobbi del piccolo tempio. Ben presto un denso fumo si sparge da per tutto; e le sacre suppellettili della cappella, tovaglie, tappeti, tabernacolo, tutto viene consunto, né rimangono che ceneri e carboni accesi. Chi potrebbe esprimere il dolore che provarono i religiosi quando l’indomani si recarono alla chiesa! Oh potenza di Dio! Quale spettacolo! Mentre compresi da terrore volgono intorno gli sguardi, ecco apparir loro al di sopra di quel mucchio di ceneri ardenti l’ostensorio miracolosamente sospeso in mezzo alla chiesa. Nel momento la nuova si diffonde di questo miracolo: una folla di gente di Faverney e di altri luoghi circonvicini accorre in quantità immensa, restando sempre l’ostensorio, ove stavano le due sante ostie, sospeso in aria. Il martedì, terza festa di Pentecoste, diversi pastori erano venuti con ì loro parrocchiani per celebrare la santa Messa in quella Chiesa, ed uno di loro celebrava all’altar maggiore. L’augusto sacrificio era per terminare, quando il cero acceso davanti al Santo Sacramento si spegne ad un tratto; lo riaccendono e si rispegne; lo riaccendono di nuovo e di nuovo si spegne per ben tre volte. Quest’avvenimento avvertiva gli astanti che alzassero gli occhi all’ostensorio, affinché tutti vedessero ciò che stava per accadere. Dopo la prima elevazione nel momento che quel sacerdote deponeva l’ostia sacra sopra l’altare, l’ostensorio, ch’era rimasto sospeso in aria per trentatrè ore, discese insensibilmente e si fermò sopra un corporale che gli era stato disteso sotto. Quanto è ammirabile, o mio Dio, la vostra provvidenza! Con questo miracolo il Signore voleva preservare gli avi nostri dagli errori dei Calvinisti, e voleva confermarli sempre più nella Religione Cattolica, con far loro conoscere per mezzo d’uno dei più sorprendenti prodigi la verità di quanto ella c’insegna circa gli argomenti della presenza reale di Gesù Cristo nel Santo Sacramento, della santa Messa e delle indulgenze; articoli tutti di fede che i Calvinisti contraddicono e rigettano. Nella informazione giuridica che monsignore di Rye, allora arcivescovo di Besanzone, fece stendere a questo proposito, ei ricevé il deposto e la firma di cinquanta delle più rispettabili persone tra quelle ch’erano stati testimoni di quel fatto miracoloso. Ogni anno l’uffizio del 30 ottobre lo rammenta alla memoria e alla riconoscenza dei fedeli della diocesi di Besanzone. – Quanto a noi, che scriviamo queste pagine, non mai si cancellerà dalla nostra memoria quella processione solenne del giorno dopo la Pentecoste, nella quale la città di Faverney celebra annualmente la ricordanza del miracolo. Nel 1827, noi avemmo la fortuna di portarvi in mano l’ostia miracolosa, e di presentarla all’adorazione d’un popolo numeroso.

[Anche la città di Torino è illustre nei fasti ecclesiastici per un solenne miracolo avvenuto il 6 giugno 1435, il quale le valse il titolo glorioso di Città del Sacramento. Nella terra d’Exilles, nel Delfinato, alcuni ribaldi saccheggiarono una chiesa, e tra i molti oggetti tolsero un Ostensorio con entro un’Ostia consacrata. Delle spoglie involate caricarono un giumento per trasportarsi non si sa dove. Nel giorno sovra indicato i sacrileghi attraversavano Torino, e come giunsero nella piazza a fianco della chiesa dello Spirito Santo, allora dedicata a san Silvestro, erano le ore 5 pomeridiane, il giumento improvvisamente fermossi e stramazzò, e né grida, né spinte valsero più a muoverlo dal luogo. In questo, ecco uno dei cestoni, ond’era carico, sciogliersi da sé, ed uscirne fuori un Ostensorio, che, salendo in aria a vista di tutti, si tenne in alto mirabilmente sospeso. Dopo qualche tempo l’Ostia santa sprigionavasi dall’Ostensorio e questo scendeva a terra, mentre quella raggiante come il sole rimanevasi immobile, librata in aria a vista d’un immenso affollato popolo, che commosso, estatico, prostrato a terra ammirava il grande prodigio e adorava il Sacramentato Signore. Nè per soli pochi istanti si protrasse il miracolo, ma dovette durare assai lungo tempo, perché tutta Torino fu in movimento e si chiusero le botteghe e cessarono tutte le occupazioni, perché tutti vollero recarsi sul luogo ad essere testimoni del fatto stupendo. Appena ne ebbe avviso il vescovo mons. Ludovico Romagnano, fatto radunare il Capitolo Metropolitano e quanto il clero poté raccogliere, recossi processionalmente sul luogo, e tutti si posero in atto di adorazione. Mosso il Prelato da una ispirazione si fece recare un calice, lo levò verso l’Ostia santa, ed allora essa lenta, lenta vi discese, e trionfalmente e con tutto il fervore della devozione inspirata dal miracolo, fu portata alla Cattedrale. Un fatto cosi strepitoso accaduto in pieno giorno, alla vista di tutto un popolo descritto e circostanziato da testimoni oculari nazionali ed esteri, i documenti deposti negli archivi ecclesiastici e civili, i monumenti perenni che ne esistono cioè: le istituzioni che ne derivarono, le lapidi incise, un tempio appositamente eretto, la festa e la processione annuale che sempre fu in tal giorno celebrata, convincono ognuno, che sia sano d’intelletto, che nulla vi può essere di più accertato al mondo. Gli empi stessi, i quali, per confutare un tale avvenimento, non sanno usare altr’arma che quella ridicolissima del ridicolo, ci dimostrano che non sanno trovare armi più valide, epperò confermano la nostra fede. Nel 1853 se ne celebrava con vera magnificenza il 4° anniversario secolare: in tale occasione la fede dei Torinesi si palesò spontanea, imponente e consolante.]

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate instituita la festa del Corpus Domini; fatemi la grazia ch’io la celebri con tutta la devozione necessaria, per ringraziarvi della vostra bontà e risarcirvi degli oltraggi, fin nell’adorabile Sacramento dei nostri altari. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso, per amor di Dio, ed in prova di questo amore io assisterò alla benedizione ogni giorno dell’ottava del Corpus Domini.

IL DEMONIO CAUSA E PRINCIPIO DELLE MALATTIE -3-

Il demonio,

CAUSA E PRINCIPIO DELLE MALATTIE.

MEZZI PER GUARIRLE. 1890-3-

DI UN PRETE DEL CLERO DI PARGI

Riassunto

Ai giorni nostri, per ridare la salute ai malati, non si conoscono più che i soli mezzi naturali. Essi sono insegnati, è vero, da Dio stesso, nell’arte medica di cui Egli è fautore, poiché i libri santi ci dicono che « Egli ha tratto dalla terra i rimedi della medicina: “Altissimus creavit de terra medicinam” » (Eccl. XXXVIII). Ma quando la medicina è impotente ed inefficace nel guarire le malattie naturali, non è allora che dobbiamo ricorrere a Dio solo? Asa, re di Giuda, quando era malato fu biasimato perché riponeva fiducia solo nei rimedi che utilizzava, e non in Dio (II Re; XII, 16). Vi fu un tempo in cui c’erano i taumaturghi, fautori di grandi cose sulla terra. Si andava da loro, una volta, come verso il Salvatore stesso. Ma oggi, questi Santi, sono nel mondo o nella solitudine del chiostro? Che Dio ce li faccia dunque conoscere, e che operino meraviglie nel suo nome! Perché noi vogliamo credere che ci siano ancora uomini dei miracoli; delle anime penitenti, mortificate, distaccate da tutto, che vivono per Dio solo, e di conseguenza molto potenti sul suo cuore. Manifesta o nascosta nell’ombra, la santità, oggi, non è più rara che in altri tempi. La santa Chiesa non ne è meno ricca. E se non si sente dire più che tal santo, tal prete, tal vescovo guarisce le malattie, è perché la fede si è affievolita tra di noi. Essa è sottoposta alla ragione, piena di dubbi ed esitazioni, si chiedono resoconti e spiegazioni a Dio, invece di abbassare la nostra povera e debole ragione davanti alla sua saggezza infinita. Si può mai essere esauditi nelle proprie preghiere con tali disposizioni? È dunque a causa della nostra incredulità che non otteniamo nessuna grazia da Dio. Si dirà forse che i miracoli non sono più necessari come nei primi secoli della Chiesa. Innanzitutto, è un miracolo propriamente detto il cacciare lo spirito di malattia dal corpo di un cristiano? E anche se ce ne fosse uno, Dio non ha detto che non ne sarebbero più stati fatti. Perché avrebbe seminato a profusione per un periodo di tempo così lungo; e perché ora dovrebbe cambiare sistema per attirare anime a Lui, soprattutto quando Egli ha annunciato che i suoi discepoli faranno cose più grandi di Lui: “majora”? Quali sarebbero dunque queste grandi cose oltre alle guarigioni che Egli moltiplicava davanti i suoi piedi? È passato il tempo in cui si diceva: « è proibito a Dio far miracolo in questo luogo ». Il nostro secolo, scettico, beffardo, divorato dall’ateismo e dal sensualismo, non ha dunque più bisogno di essere attirato a Dio dalle opere soprannaturali dei suoi santi? Dio l’avrebbe abbandonato al suo senso riprovato, alle sue passioni ignominiose, ai suoi immondi piaceri, come dice San Paolo? … “Tradidit eos in reprobum sensum, in immunditiam, in passiones ignominiæ” (Rom. I). Noi non lo crediamo. Dio ci da ogni giorno il segno della sua bontà. I fedeli dovrebbero dunque domandare la benedizione del Prete nella loro malattia, anche quando non abbia alcun carattere di gravità, nel timore che sia provocata dal demonio. Io dico: Benedizione ed una preghiera, e non una semplice visita di cortesia. Il corpo del Cristiano appartiene a Dio: esso è il suo tempio, è santificato dal santo Battesimo e dalla ricezione degli altri Sacramenti; le sue membra sono membra di Gesù-Cristo … e, quando questo corpo, minato dalla sofferenza, è disteso su di un letto di dolore, non potrebbe essere alleviato, guarito anche, dalla preghiera? Noi siamo convinti del contrario. La Chiesa benedice le lenzuola e gli abiti che devono servire sia a rivestire il malato, sia a fasciare le sue piaghe; che sarà dunque se il Prete benedice lo stesso malato, e prega su di lui? La Chiesa ha ancora delle preghiere per benedire la terra, i campi, per ripulirla dagli insetti e dalle bestie che divorano i raccolti. Essa ne ha per benedire le vigne, il vino, il sale, le uova, una fontana, un pozzo, una casa, un letto, una scuderia, una stalla e gli animali che ospita, un naviglio, una ferrovia e molte altre cose ancora. Essa ne ha anche per deviare ed allontanare i temporali, la grandine, lo spirito di tempesta “spiritus procellarum” … e non potremmo allontanare, scacciare lo spirito di malattia dal corpo di un Cristiano? Siamo uomini di poca fede! Un giorno, nostro Signore Gesù-Cristo era sul lago di Tiberiade. Si levò una furiosa tempesta e la barca sulla quale si trovava era sul punto di affondare nei flutti. Risvegliato dal suo sonno misterioso da San Pietro, Gesù si alzò e comandò agli spiriti dell’aria ed agli spiriti dell’acqua che provocavano questa tempesta e si fece calma. Egli disse, e lo spirito di tempesta si placò; “dixit et stetit spiritus procellæ” (Ps. CVI). Un’altra volta Gesù-Cristo comandò alla febbre di lasciare la suocera di san Pietro “imperavit febri”, personifica la febbre; le parla, la comanda, e la febbre obbedisce. Agiamo come il Maestro, imitiamolo, parliamo alla malattia e allo spirito che la fa nascere; comandiamogli uscire dai corpi in nome di Gesù. Egli ci obbedirà, ed il malato sarà guarito. Noi lo diciamo ancora: Nostro Signore Gesù-Cristo ha dato questo potere a tutti, e se abbiamo una fede viva che ci raccomanda, esaudirà le nostre preghiere. Persone poco illuminate diranno forse, che questo libricino insegna la superstizione: lasciateli dire ed agite. Noi crediamo che queste pagine siano irrifiutabili, perché sono basate sul Vangelo e sull’esempio di tutti i Santi. Non c’è dunque alcuna superstizione nella loro applicazione, poiché al contrario hanno come scopo il combattere contro il nemico. In tutte le epoche del Cristianesimo, la santa Chiesa ha incoraggiato la preghiera e tutti gli altri mezzi per distruggere la perniciosa influenza di satana sugli uomini e sulle cose. È così che in Italia, nel secolo XV, san Bernardino consigliava ai Cristiani del suo tempo, di scrivere il santo nome di Gesù sopra una pergamena, una medaglia, una specie di Agnus-Dei in cera, o altro materiale forte e resistente, e portarlo su di sé per essere liberato dalla malattia, o da altri malori occasionati dallo spirito malvagio. Il Papa Martivo V incoraggiava questo pio uso. Tutti sanno forse che la festa di San Giovanni Battista è d’obbligo a Roma. La veglia, dopo i primi vespri, il Cardinale-Arcivescovo della Basilica benedice nella sacrestia di S. Giovanni in Laterano, dei chiodi di garofano che i malati hanno la pia abitudine di portare sul petto, in un sacchetto, in forma di scapolare, per ottenere la guarigione più pronta. Si dirà che questi pii usi siano frutto di superstizione? No, senza dubbio, ed è evidente che una preghiera fatta su di un malato deve avere nel guarire almeno pari efficacia di questi pii oggetti. Si obietterà forse che la Chiesa sola è depositaria della potenza di Gesù-Cristo, e che solo così essa può delegare uno dei suoi ministri per esorcizzare chi è posseduto dal demonio. Questa verità è incontestabile poiché anche il Concilio di Laodicea vieta a coloro che non sono comandati dal Vescovo, di fare alcun esorcismo. E la disciplina attuale della Chiesa non permette agli stessi esorcisti di esercitare il loro potere senza il permesso del Vescovo. Ma la Chiesa non vieta di cercare, con la preghiera ed una viva fede, di sottrarsi alla malizia ed all’ossessione di questo nemico dell’uomo e di cacciarlo da dove è. Anzi Essa ci spinge: « Resistete al demonio, ed egli fuggirà lontano da voi » dice l’Apostolo Giacomo (IV- 27). E con lui ci dice San Pietro: « Vegliate, perché il vostro avversario, il diavolo, gira intorno a voi come un leone ruggente, cercando la preda da divorare. Resistetegli e siate forti e valorosi nella fede »! l’Apostolo s. Paolo aggiunge: « diffidate, per non cadere in balìa di satana, di cui non ignoriamo le macchinazioni. » (2 Cor. II-11). Come dunque resistergli se non con la preghiera? Inoltre, le malattie causate da lui non costituiscono la possessione propriamente detta. Se le nostre preghiere, che non sono altro che l’elaborazione di queste grandi parole: Vade retro satana!, e non sono degli esorcismi, restano inefficaci, possiamo, volendo, sempre ricorrere alla Chiesa ed ai mezzi che Essa dispone. Il mondo Cristiano è pieno di libri di preghiere che hanno come scopo di guarire le malattie dell’anima, sempre causate dal demonio, e non ce n’è uno solo che contenga delle preghiere per guarire le malattie del corpo, cosa che ugualmente è causato dallo spirito malvagio. Ecco perché abbiamo scritto questo, unicamente per coloro che hanno fede, perché non c’è che la fede che libera. Possa far loro del bene. I Cristiani dei primi secoli portavano ogni giorno battaglia a satana; e questo nemico dell’uomo e di ogni bene, era sempre vinto. Ricominciamo e continuiamo la lotta, armiamoci di preghiera e dello scudo della fede e a nostra volta, saremo vincitori. « Va dunque, mio piccolo libro campi la “tua santa missione, penetra dappertutto, nei palazzi e nelle baracche, presso i sapienti e gli ignoranti. Stai nelle mani del ricco, del povero, dei maestri, dei servi e degli operai. Attraverso di te lo spirito cattivo sia messo in fuga, che le piaghe e le malattie del corpo siano guarite. Porta la gioia nelle anime, la speranza e la consolazione in tutte le famiglie cristiane e confermali nella fede nel Nostro Signore Gesù-Cristo. Così sia.

Avviso Importante

Prima di imporre le mani, di fare dei segni di Croce e pregare sul malato, occorre raccogliersi, chiedere a Dio interiormente, perdono per i propri peccati, pregarLo di esaudire la preghiera che si sta per indirizzarGli. Bisogna anche far raccogliere il malato, se possibile, eccitare nella sua anima la fede, la fiducia, il pentimento delle proprie colpe, e invitarlo a vivere cristianamente se si vuole rendere degno di ottenere la sua guarigione. Se si hanno reliquie di santi, un crocifisso, una medaglia, si potranno appoggiare sulla parte malata durante la preghiera. Si dovrà recitare la preghiera, imporre le mani e fare il segno della Croce sul male, finché sia ottenuta la guarigione. Dio, dice S. Agostino, vuole essere importunato “Deus vult importuniri”. Si potranno fare le preghiere che si vorranno, sia mentali che verbali. Tuttavia abbiamo creduto opportuno suggerirne alcune di molto brevi, molto semplici, per aiutare le persone, soprattutto quelle di campagna, che non hanno l’abitudine di pregare. Noi riportiamo anche, quasi testualmente, diverse preghiere che si dicono e si recitano dappertutto. Queste preghiere sono di un’altra epoca e ci richiamano le antiche formule popolari. Noi aggiungiamo che le parole di queste preghiere, come pure le stesse preghiere, non hanno alcuna virtù, né naturale né sovrannaturale per produrre le guarigioni che si domandano a Dio. Credere il contrario sarebbe superstizione, ed una religione falsa e malintesa. Il lettore noterà che nelle preghiere, noi parliamo al male, cioè al demonio che lo provoca e le genera. Noi gli chiediamo con grande autorità di uscire dal corpo che attacca, e rende malato. Noi imitiamo in questo Nostro Signore che in diverse circostanze comandò alla malattia, e in particolare quando ordinò alla febbre di uscire dal corpo della suocera di S. Pietro. Noi imitiamo ancora la santa Chiesa, che negli esorcismi del Battesimo, comanda imperiosamente al demonio di uscire dal corpo e dall’anima del bambino che si battezza. È su questo esempio e sull’esempio di tutti i Santi, che noi assumiamo un tono imperativo e che diciamo al male, di qualunque tipo esso sia: « Esci, fuggi e lascia questo corpo che tu rendi malato. Io te lo comando e te lo ordino nel nome di Nostro Signore Gesù-Cristo.»

№ 1.

— Preghiera per arrestare le perdite e gli sputi di sangue (emottisi o emoftoe), provenienti da piaghe, da lesioni interne o esterne, o da qualunque altra provenienza:

Signore Gesù, appena entrato nel mondo, Voi avete versato il vostro sangue, alla circoncisione, per la salvezza degli uomini; nel giardino dell’agonia avete sudato sangue; nella sala del pretorio, gli aguzzini lo hanno fatto zampillare sui loro corpi; la corona di spine ha insanguinato il vostro capo; sulla croce avete svuotato le vostre vene e dato sangue fino all’ultima goccia per la nostra redenzione. In nome di questa effusione del vostro sangue divino che avete sparso per la nostra salvezza, comandate che colui che è nelle vele della vostra creatura qui presente, si arresti e cessi di colare; che le piaghe si fermino e si cicatrizzino nel vostro nome, e che gli venga resa la salute. Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo, e per la potenza del segno della croce. E così sia”.

№ 2.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione della gotta, dei reumatismi, della paralisi, delle distorsioni, delle contusioni, ed altre malattie delle gambe.

Mio Dio! Quando penso che i vostri piedi divini si sono affaticati per predicare il vostro santo Vangelo, e per correre dietro ai peccatori per convertirli, io non posso che amarVi, adorarvi, e benedirvi. In ricordo dei vostri divini viaggi, in nome delle fatiche che avete sopportato percorrendo la terra santa, degnatevi o mio Dio! Dall’alto del cielo, di stendere le vostre mani divine sulla vostra creatura malata; in passato avete guarito gli zoppi, i paralitici e tutti coloro che avevano perso l’uso dei loro arti; guaritelo, e ditegli queste parole che avete pronunziato così spesso: « la tua fede sia ricompensata; sii liberato da ogni infermità: alzati e cammina ».”

[Fate il segno della croce sul male e dite:] “male, qualunque sia la tua origine e la tua natura, ritirati, te lo comando nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E così sia”.

№ 3.

— Preghiera di una donna per ottenere da Dio un felice parto.

[La donna che sta per diventare madre deve leggere ella stessa, o farsi leggere questa preghiera alla quale si unirà quando giungeranno i dolori del parto.]

“Santa Elisabetta, voi che avete messo al mondo San Giovanni Battista; Sant’Anna, che avete partorito la Vergine Santissima; Santa Vergine Maria, voi che siete la Madre del divino Salvatore, pregate per me e per il bimbo che sto per mettere al mondo. Alleviate i dolori, assistetemi nei dolori strazianti del parto. Bimbo che ancora sei nel seno di tua madre, Gesù-Cristo ti chiama; la Santa Chiesa ti reclama. Vieni a ricevere lo Spirito Santo nel battesimo: vieni a purificare la tua anima con l’acqua santa che cancella il peccato originale, e che rende figlio di Dio e della Chiesa. Vieni, ed entra nel mondo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così sia.”

№ 4.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione di tutte le malattie dei bambini: le convulsioni, il croup, l’angina, la meningite, la pertosse, etc.

“O dolce Gesù, che avete amato così teneramente i bambini; vi piaccia benedirli ed abbracciarli, voi che avete detto che colui che crederà in voi e sarà battezzato, potrà nel vostro Nome e per virtù divina, cacciare il demonio e guarire le malattie imponendo loro le mani; abbiate pietà di noi che ricorriamo a Voi; abbiate pietà del bambino innocente sul quale impongo le mani, nel Nome vostro, e guaritelo dalla malattia che lo affligge e lo tormenta. Male, qualunque tu sia, nel nome del Signore Nostro Gesù-Cristo, esci da questo bambino, io te lo ordino, e te lo comando nel Nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, e per tutte la potenza di questo segno di croce.”

№ 5 .

— Preghiera per ottenere da Dio, per intercessione di san Marculfo, la guarigione della scrofolosi.

“O San Marculfo, voi che guarivate la crofolosi nel corso della vostra vita mortale; voi che, per grazia di Dio, avete comunicato ai vostri Re cristianissimi il potere di guarire, con un semplice tocco, questa malattia nel giorno della loro consacrazione nella città di Reims quando pronunziavano queste parole: « il Re ti tocca, Dio ti guarisce ». Io vi supplico, in nome del Signore Nostro Gesù-Cristo, e per i meriti della sua Santa Madre, ottenete la guarigione di … (dire il nome della persona), chiudete e cicatrizzate le sue piaghe; purificate il suo sangue, e fate che lo spirito di malattia non abbia alcuna azione sul suo corpo. Io vi chiedo questa grazia, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen”.

[Si possono lavare le piaghe con acqua benedetta].

N. B. — San Marculfo era abate di Nanteuil, e morì nel 558. Egli è molto venerato nella Chiesa di Saint-Nicolas, à Blois. Vi si viene in pellegrinaggio anche da molto lontano il 1 maggio.

№ 6.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione dall’epilessia.

Dio mio, voi vedete quanto grande sia l’afflizione della vostra creatura soggetta a questa crudele malattia; voi conoscete le angosce del suo cuore e le continue apprensioni nelle quali ella vive. Come quando avete un tempo guarito il fanciullo del Vangelo, ella teme di cadere nell’acqua, nel fuoco, o in altri pericoli quando è attaccata da questo male. Mio Dio, ve ne scongiuro, guarite questa povera creatura; cancellate dal suo corpo questo male sì funesto per la sua salute e la sua tranquillità. Io vi chiedo questa grazia, o Signore Gesù! In nome della vostra grande bontà verso coloro che vi pregano e vi invocano con fede. Male, qualunque sia il tuo principio o la tua natura, io ti ordino di lasciare il corpo di questa persona e di non rientravi mai più; io te lo comando nella mia qualità di cristiano, benché indegno e peccatore. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e per la virtù della santa Croce. Amen.

№ 7.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione del mal di denti, dello scorbuto e delle malattie della bocca.

 “Santa Vergine e Immacolata Madre di Dio, che vi degnate di aver pietà di tutti gli afflitti, voi che siete chiamata la Salute degli infermi, il soccorso dei Cristiani, e che non avete mai respinto nessuno. E voi sant’Apollonia, che siete stata martirizzata per il Nostro Signore Gesù-Cristo, e prima di essere bruciata col il fuoco che consumò il vostro corpo, avete ricevuto, sull’esempio del nostro divino Maestro, tanti colpi sul vostro viso, tanto che le vostre mascelle furono fratturate; voi, alla quale furono strappati tutti i denti, l’uno dopo l’altro, per farvi più soffrire, ottenete da Dio la guarigione di questa persona malata. Che la sua fede sia ricompensata e che il suo male sparisca. Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Amen”.

№ 8.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione della sordità.

“Signore Gesù, la vostra potenza non ha limiti, poiché Voi siete Dio. Io imploro la vostra assistenza affinché scacciate lo spirito di sordità che affligge la vostra creatura qui presente. Privata del senso dell’udito, e non potendo intendere né la vostra parola né quella degli uomini, comandate alle sue orecchie di aprirsi, come avete già fatto quando eravate sulla terra. Guarite questa povera creatura uscita dalle vostre mani, e restituitele l’uso dell’udito. Ripetete in suo favore questa grande e potente parola: « apritevi, » ed essa sarà guarita. Spirito di sordità, esci da queste orecchie per la potenza di questa segno di croce, nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Che Dio ricompensi la vostra fede e vi guarisca. Amen.

№ 9.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione dell’idropisia, dell’anémia, degli erpeti o altre malattie causate da difetto o alterazione del sangue.

“O Mio Dio! Voi che toccate con le vostre divine mani i malati per guarirli; Voi che avete ridato salute all’idropico ed ai lebbrosi con una semplice parola, guardate all’afflizione della vostra creatura. Considerate la malattia che la affligge e degnatevi di rendergli la salute. Comandate dunque, o Signore, al suo male di sparire e rendete al suo sangue la sua originaria forza e la sua primitiva purezza. Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Amen”.

№ 10.

— Preghiera per ottenere la guarigione dei mali degli occhi.

San Placido, discepolo di san Benedetto, la recitava su coloro che avevano perso la vista (Dom Guéranger).

“O Signore Gesù, Voi che siete il mediatore tra Dio e gli uomini, Voi che siete disceso sulla terra per illuminare l’intelligenza ed i cuori di tutti; Voi che avete reso la vista ai ciechi, e che avete dato a San Benedetto la virtù di guarire tutte le malattie e tutte le ferite, degnatevi, per i meriti suoi, di rendere la vista a questo malato, affinché vedendo la grandezza delle vostre opere, vi tema e vi adori come il Signore sovrano di tutte le cose. Nel nome del Signore Nostro Gesù-Cristo e per i meriti di San Benedetto, siate guarito; che i vostri occhi si aprano e vedano la luce del giorno. Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo (si devono fare i segni di croce sulle palpebre chiuse). Amen”.

№ 11.

— Preghiera per ottenere da Dio la grazia di essere preservati dal colera, dal tifo, dal vaiolo e da altre malattie contagiose.

“O Dio Onnipotente, che date la vita e la salute, noi cadiamo alle vostre ginocchia per implorare la vostra misericordia. Pieni di pentimento per i nostri peccati, noi veniamo a Voi a cercare un rifugio contro le afflizioni che ci opprimono. Cessate dalla vostra collera che noi abbiamo certamente meritato per le nostre colpe. Noi siamo vostre creature, fateci da scudo e protezione contro questo soffio avvelenato che percorre la nostra contrada coprendola di lutto e di lacrime. Purificate l’aria che respiriamo, e preservateci da questa malattia contagiosa. Comandate all’Angelo sterminatore, ministro della vostra giustizia e delle vostre vendette, di non colpirci ancora con la sua spada. Fateci grazia; noi confessiamo i nostri peccati che ci hanno attirato questo terribile flagello. Abbiate pietà di noi, San Carlo Borromeo che avete fatto prodigi di carità durante la peste che desolava la vostra città di Milano; anche voi, gran Santo Rocco che non si invoca invano in siffatte circostanze, pregate Dio per noi, affinché non siamo più vittime di questa malattia contagiosa. Amen.”  [Occorre portare su di sé una medaglia della vergine Santissima, di San Benedetto o simili.]

№ 12.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione dalle febbri intermittenti, tifoidi, mucose o altre.

“Che lo Potenza di Dio Padre, la Sapienza di Dio Figlio, la Virtù di Dio Spirito Santo, la potenza di questo segno della Croce, vi guarisca di ogni sorta di febbre che agita e brucia il vostro corpo. Febbre, qualunque tu sia, qualunque il tuo principio e la tua natura, tu che hai obbedito al comando di Nostro Signore Gesù-Cristo, quando ti ordinò di lasciare il corpo della suocera di San Pietro, nel nome dello stesso Signore Gesù-Cristo, io ti ordino di lasciare il corpo di questa persona malata e di non rientrarvi mai più. Santa Vergine Maria, Voi che siete stata concepita senza peccato, pregate per questo malato, affinché sia guarito nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo! Amen”.

№ 13.

Preghiera per ottenere da Dio la guarigione dalle ustioni.

[Questa preghiera è molto comune, diffusa, e gode tra il popolo di una grande reputazione di efficacia. Noi abbiamo creduto opportuno riportarla qui quasi testualmente:]

“Fuoco creato da Dio, io ti ordino e ti comando nel suo Nome, di perdere il tuo calore, di lenire i cocenti ardori. Ferma i tuoi danni e non dar luogo ad alcuna piaga su questo corpo. Gran San Lorenzo, voi che siete stato su di una graticola rovente senza avvertire dolore per la grazia divina che era in voi, domandate a Dio che esaudisca la nostra preghiera, che ricompensi la fede di questo malato, affinché guarisca nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Amen.

№ 14.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione delle malattie del petto: raffreddori, bronchite, asma, catarro, laringite

“O Signore Gesù, Voi che avete sofferto fino alla morte per espiare i nostri peccati; noi pure dovremmo soffrire in unione con voi per essere glorificati con voi nel cielo, come insegnano i Libri sacri; ma conoscendo la vostra compassione per i malati, io vi domando la guarigione di questa persona; comandate al male di sparire, come lo faceste Voi nel vostro soggiorno terreno, per i malati che facevano a Voi ricorso. Diffondete la vostra grazia su di ella; comandate allo spirito di malattia di uscire dal suo corpo e non farvi più ritorno. Male, qualunque tu sia e qualunque sia il tuo principio e la tua natura, esci da questo petto. Io te lo comando nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Amen”.

№ 15.

— Preghiera a San Friacrio, per ottenere da Dio, per sua intercessione, la guarigione delle ulcere, dei cancri, tumori, antrace, ascesso, patereccio, altre lesioni interne o esterne.

“O gran Santo, che avete ricevuto da Nostro Signore Gesù-Cristo il potere di guarire tutte le lesioni e tutte le piaghe, specialmente i tumori, le ulcere ed i cancri; io vi prego e vi invoco affinché scongiuriate questo male, e comandiate alla piaga di fermarsi, di cicatrizzarsi, affinché non generi alcuna corruzione, e che cessi le sue devastazioni. Male, qualunque tu sia, che tu provenga dal demonio o da una causa naturale, io ti comando, nel nome di San Friacrio, di lasciare il corpo di questa creatura di Dio. Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Amen.”

№ 16.

Preghiera all’Arcangelo Raffaele per ottenere la guarigione da tutte le malattie, specialmente quelle degli occhi.

“O San Raffaele, il cui nome secondo i santi libri vuol dire: medico di Dio; voi che siete stato incaricato di accompagnare il giovane Tobi nel suo viaggio presso il popolo dei Medi, e che avete restituito la vista a suo padre, noi vi invochiamo e ci prostriamo ai vostri piedi per implorare la vostra assistenza. Tobi ed i suoi genitori sono stati aiutati e soccorsi da voi, voi avete esaudito i loro voti ed i loro desideri. Sul loro esempio anche noi vi invochiamo; noi vi preghiamo di essere nostro protettore dopo Dio, poiché voi siete il medico caritatevole che Egli invia a coloro che hanno fede e fiducia. Guarite dunque questa persona malata; restituitegli la salute ed ella testimonierà a Dio la sua riconoscenza vivendo cristianamente.” [Dire tre volte: San Raffaele, pregate per noi!]

№ 17.

— Preghiera a san Pietro d’Alcantara, per ottenere da Dio la guarigione di tutte le malattie e per ogni sorta di grazie.

“O gran Santo, voi che siete ora seduto nella Gloria presso Dio! Voi che dovete alle vostre grandi mortificazioni ed alle penitenze rigorose che facevate quaggiù, la felicità di cui ora godete in cielo: degnatevi di ricordare ciò che il Signore ha rivelato a Santa Teresa nei vostri riguardi. Nostro Signore Gesù-Cristo ha promesso a questa grande Santa che qualunque Gli si chiedesse nel vostro nome, una grazia, un favore, un soccorso, una protezione, una guarigione, questa sarebbe stata accordata. Oggi voi vedete la mia pena e le mie sofferenze. Io vengo dunque a supplicarvi, o grande Santo, di essere il mio avvocato presso nostro Signore Gesù-Cristo, affinchè per vostra intercessione si degni di accordarmi ciò che Gli domando. Amen”.

№ 18.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione da ogni tipo di malattie.

Signore Gesù, consolatore dei fedeli, Dio pieno di compassione e di misericordia per i peccatori, io vengo ai vostri piedi per implorare la vostra grande e immensa bontà in favore di questo povero malato che giace sul suo letto di dolore. Degnatevi di visitarlo, Signore, come avete visitato un tempo la suocera del vostro grande Apostolo, Simon-Pietro; siategli propizio e favorevole; degnatevi di grarirlo dal male che lo affligge, e rendetegli la primitiva salute… [E imponendo la mano sulla testa della persona malata, facendo il segno della croce, si dirà]: Che il Signore Gesù-Cristo stia al vostro fianco per difendervi; che Egli sia in voi perché vi conservi, che sia davanti a voi per guidarvi; che stia dietro a voi per sostenervi, e che sia sopra di voi perché vi benedica e vi guarisca. Amen”. [questa preghiera si trova nel rituale di Parigi].

№ 19.

— Preghiera per essere preservato dalla rabbia, dalle punture velenose dei serpenti, vipere, mosche carbonchiose; o per ottenerne la guarigione.

“O Beato San Uberto, dal settimo secolo vi si invoca in ogni luogo affinchè portiate soccorso a tutti coloro che fanno ricorso a voi; noi, la mia famiglia e me, veniamo a metterci sotto la vostra protezione, alfine di essere preservati dalla puntura o dal morso delle bestie velenose. Proteggeteci, e preservateci da tutti questi generi di danni. Preservate pure le bestie della nostra stalla, affinché non siano attaccate e ne restino immuni. E se ci arriva questo malanno, dall’alto del cielo ove siete, inviateci, col permesso di Dio, la vostra influenza sulla piaga e sul veleno che essa contiene, alfine di paralizzarne gli effetti mortali. Noi vi chiediamo questa grazia, o mio Dio! Per la virtù e la potenza che avete dato al vostro servo. – « Santo Uberto, pregate per noi »”.[ripetere tre volte:]

№ 20.

— Preghiera per ottenere da Dio la guarigione dalle malattie della vigna, delle patate, o di altri frutti; ed anche pre preservare i campi ed i raccolti dalle gelate, dalla grandine, dagli insetti nocivi, fillossera ed altre calamità.

 “O Gesù, pieno di bontà, voi che avete moltiplicato i cinque pani di9 orzo ed i pesciolini, per il popolo che era con voi nel deserto, voi che siete la provvidenza per il ricco ed il povero, e che avete sempre alleviato tutte le miserie, benedite dall’alto del cielo questa terra che noi bagniamo con il nostro sudore per la nostra sussistenza. Siate il protettore ed il medico di queste piante e di questi raccolti che noi vi affidiamo. Distruggetene gli insetti ed allontanate le malattie che potrebbero distruggerle, che né il gelo, né la grandine abbiano azione su di esse. Noi vi chiediamo queste grazie per i vostri meriti infiniti, o Signore Gesù. Amen.” [Si può aspergere da sé il proprio campo con acqua benedetta. Si può anche piantare nel mezzo una piccola croce in legno, o depositarvi qualche medaglia della Santa Vergine o di San Benedetto.]

№ 21.

— Preghiera per preservare le greggi da tutte le malattie e da ogni malanno.

O Santa Genoveffa di Parigi, ed anche voi, Santa Germana Cusin, pastorella di Pibrac,; voi che, nella vostra infanzia pascolavate le greggi; degnatevi di ascoltare la preghiera che indirizzo a voi affinché proteggiate questo gregge che mi è stato affidato. Ottenete da Dio che sia preservato da ogni attacco, sia di bestie nocive, sia da malattie, sia da malefici e sortilegi. Gesù buon Pastore, esaudite la preghiera dei vostri santi servitori che sono con voi in cielo, affinché il male non attacchi mai queste pecore e questi agnelli, Santa Genoveffa, Santa Germana Cousin, pregate per noi.” [Dire: 5 Pater ed Ave.]

№ 22.

Preghiera indirizzata a San Biagio, vescovo e martire del VI secolo, per ottenere da Dio, per sua in recessione, la guarigione di tutti gli animali malate: cavalli, buoi e vacche, montoni e tutte le bestie da cortile.

 “O Dio mio! Voi che avete dato tutti gli animali per l’uso ed il nutrimento dell’uomo, degnatevi di benedire tutti quelli che mi appartengono e sono affidati alle mie cure, qualunque sia la loro specie. Accordatemi la grazia che siano preservati da tutte le malattie, che il demonio non abbia alcuna azione malefica su di essi; che si moltiplichino incessantemente, e che i loro prodotti servano al mio uso ed a ricompensare il mio lavoro. Grande San Biagio, voi che avete saputo comandare ed addolcire le bestie più crudeli delle foreste; voi, che venite ovunque invocato per ottenere da Dio la guarigione degli animali malati, presentate la mia domanda al Signore e fate che per vostra intercessione, essa sia esaudita, nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Amen.”

№ 23.

— Preghiera indirizzata alla Vergine Santissima da Guglielmo d’Auvergne, Vescovo di Parigi.

[Essa è molto efficace per ottenere la guarigione di ogni specie di malattia, sia del corpo che dello spirito, o per essere preservato da ogni male.].

“O Madre di Dio, io ricorro a Voi, vi supplico di non respingermi. Tutti i cristiani non vi chiamano forse Madre di misericordia? Voi siete così amata da Dio che Egli accoglie tutte le vostre richieste. La vostra bontà non ha mai fatto difetto a nessuno. Voi avete sempre ricevuto con incomparabile affabilità ogni peccatore, benché enormi fossero le sue colpe, quando a Voi si è raccomandato. Ah!, non è senza ragione che la Chiesa vi proclama sua avvocata e rifugio dei miserabili! Voi siete la dispensatrice della misericordia, e le mie colpe non potranno impedirvi di adempiere alla consolante funzione di cui siete incaricata, funzione che vi costituisce avvocata e mediatrice di pace, l’unica speranza e sicuro rifugio dei derelitti. Poiché voi avete dato alla luce il benessere dell’universo, la fonte della misericordia, non sarà mai detto che voi abbiate rifiutato la vostra assistenza a un infelice che vi ha invocato a suo soccorso. Poiché la vostra missione è quella di ristabilire la pace tra l’uomo e Dio, la vostra compassione deve spingervi a soccorrermi. Oh! Che essa sia ben al di sopra di tutti i miei peccati! Amen.”

№ 24.

— Preghiera a san Giuseppe.

“Ricordatevi, nostro buonissimo, amabilissimo, dolcissimo e misericordioso padre San Giuseppe, che la grande santa Teresa assicura di non essere mai ricorsa alla vostra protezione senza essere esaudito. Animato dalla medesima fiducia, o mio amatissimo San Giuseppe, io corro, vengo a Voi, e gemente sotto il peso opprimente dei miei numerosi peccati, io mi prosterno ai vostri piedi, o padre compassionevole! Non rigettate le mie povere e debolissime preghiere, ma ascoltatele con favore e degnatevi di esaudirle. Amen.”

№ 25.

— Preghiera a sant’Antonio di Padova.

“O Sant’Antonio di Padova, voi che possedete e vedete Dio faccia a faccia, e che, malgrado l’estasi, oramai eterna, nella quale voi vivete in cielo, avete ancora compassione di coloro che sono quaggiù nelle sollecitudini della propria vita; Voi, che secondo la testimonianza di San Bonaventura, non siete mai invocato invano nei pericoli, nelle calamità pubbliche e nelle divisioni familiari; Voi che mettete in fuga i demoni, che restituite la salute ai malati che vi pregano con fiducia, Voi che, in una parola, fate ritrovare ciò che è stato perduto, sia nell’ordine spirituale che nell’ordine temporale, vogliate, ve ne prego, chiedere a Dio per me che mi allontani i pericoli che mi minacciano e che mi faccia ritrovare tutto ciò che ho perso. Amen”. [dire cinque Pater e Ave.]

№ 26.

—Preghiera a san Michele Arcangelo.

“O Glorioso San Michele, principe della milizia celeste, protettore della Chiesa Universale, ed in particolare della Francia, difendeteci dai tanti nemici visibili ed invisibili che ci circondano. Non permettete che ci portino ad offendere Dio, proteggeteci contro le insidie e gli inganni che seminano lungo i nostri passi. Combatteteli, e metteteli in fuga quando vengono per fare del male, sia al nostro corpo con le malattie, sia alla nostra anima con le cattive passioni che cercano di far nascere in essa. Trionfate della loro malizia; assisteteci nelle lotte ed i combattimenti della vita, e soprattutto nel momento della morte. E così sia. « O Glorioso San Michele, pregate per noi che ricorriamo a voi”.»

[NOTA: Ai nostri tempi il problema relativo al reperimento di un Sacerdote Cattolico ed all’uso dei Sacramentali (in primo luogo l’acqua benedetta) si è ulteriormente complicato, e questo deve renderci estremamente prudenti. Abbiamo letto sopra che una guarigione possa dipendere, avendo fede, dall’azione di un Sacerdote Cattolico o di acqua benedetta. Ma si badi bene: un SACERDOTE CATTOLICO!!!, un “vero” sacerdote della Chiesa Cattolica, unica depositaria del deposito della Fede in cui solamente esiste la COMUNIONE DEI SANTI, dai cui meriti, oltre a quelli principali di Gesù Cristo e della Vergine Maria, è formato il bagaglio dal quale attingere grazie per impetrare ogni bene spirituale. Da evitare come la peste, e forse ancor più, sono i falsi e sacrileghi preti apostati e scismatici del “novus ordo” che operano, consci o meno, nella sinagoga di satana ai comandi di noti esponenti degli “Illuminati”. Allo stesso modo da schivare da lungi e con orrore, sono i discendenti ancor più falsi e sacrileghi del cavaliere Kadosh Lienart e del suo “compariello” il mai-monsignore di Sion-Econe, o altri scalmanati “cani sciolti” [senza offesa per i cani!] senza missione o giurisdizione, quindi, secondo la definizione di Gesù, ladri e briganti che si introducono come lupi rapaci con vello da pecora, nell’ovile dei Cristiani, dalle porte laterali, dalle crepe dei muri o dal camino! Se non si è certi di avere a che fare con Preti “veri” della Chiesa Cattolica con missione e giurisdizione da Papa Gregorio XVII o XVIII, conviene affidarsi esclusivamente alle preghiere ed ai segni di Croce ed imposizione delle mani, oltre che ad una viva fede in Gesù-Cristo, in attesa che il Padrone della messe ci invii un suo “vero” ed efficace operaio. Ovviamente ogni preghiera viene resa illecita e sacrilega dal partecipare ad un falso culto modernista o “tradizionalista”-non autorizzato ed illecito.]