Introitus Ps XXXII:5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini coeli firmáti sunt, allelúja, allelúja.
[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]
Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio. [Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]
V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. – R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini coeli firmáti sunt, allelúja, allelúja [Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]
Oratio
V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus. Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.
[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].
Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Petri II:21-25 Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum. [Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle ànime vostre]. R. Deo gratias.
Omelia
II DOMENICA DOPO PASQUA
[Bonomelli, Om. Vol II, XVII]
Queste poche sentenze si leggono nella prima lettera di S. Pietro. Voi dovete sapere che del Principe degli Apostoli ci rimangono soltanto due lettere, la seconda brevissima, che sono, come potete bene immaginare, un vero tesoro di dottrina sacra. La prima lettera fu scritta da S. Pietro in Roma, allorché si trovava colà con Marco, suo interprete e scrittore del Vangelo che porta il suo nome, dopo la fuga dal carcere di Gerusalemme, narrata nel capo XII degli Atti apostolici. La lettera fu scritta circa dodici anni dopo l’Ascensione di nostro Signore, e indirizzata alle varie Chiese già stabilite nell’Asia Minore, nelle provincie del Ponto, della Galazia, della Cappadocia e della Bitinia. – L’argomento di questa lettera, somigliantissima in ogni cosa a quella di S. Paolo ai Romani ed agli Efesini, è pratico e semplicissimo. Egli esorta i nuovi credenti, la maggior parte dei quali doveva essere di Ebrei convertiti poc’anzi, ad informare la loro vita secondo i principii del Vangelo, incoraggiandoli a tollerare l’odio, le vessazioni e le persecuzioni colla speranza del premio e a ricambiare i tristi, i nemici colla carità affine di guadagnarli. Premesse queste comuni, ma non inutili osservazioni, è da venire alla interpretazione dei cinque versetti, che sopra vi ho riportati; S. Pietro nei versetti, che precedono, con l’affetto d’un padre amorosissimo esorta quei novelli cristiani, usciti dal mosaismo e dal paganesimo, a nutrirsi, come bambini, del latte della divina parola, a star fermi sulla pietra fondamentale, che è Cristo, a raffrenare le cupidigie, e con una santa vita a guadagnare i pagani; poi ricorda loro il dovere di vivere sottomessi alle podestà della terra: eccita i servi ad ubbidire ai padroni anche cattivi e, se è necessario, a gloriarsi di soffrire ingiustamente. A questo punto pervenuto colle sue esortazioni, S. Pietro, come S. Paolo, mette innanzi ai suoi cari, il grande, l’eterno, l’incomparabile modello di tutte queste virtù, che è Gesù Cristo, e così continua: “Gesù Cristo ha patito per noi, lasciandovi esempio, affinché seguitiate le sue orme”. È egli possibile, o cari, vivere sulla terra ed esercitare la virtù senza patire nel corpo e nello spirito, dal mondo, dai nemici e da noi stessi? No: vivere ed esercitare la virtù vuol dire lottare, e per conseguenza soffrire: chi pensa altrimenti si inganna ad occhi aperti. Ora Iddio, per nostro conforto ed ammaestramento, volle che il Figliuol suo Gesù Cristo ci camminasse innanzi per l’aspra via; Egli ha patito, e più di tutti gli uomini, ed ha patito, non per sé, ma sì per noi, soddisfacendo per noi alla divina giustizia. È questo il primo scopo della Passione e morte di Gesù Cristo, pagare il prezzo dovuto pel nostro riscatto. Noi eravamo colpevoli: ai colpevoli è dovuta la pena, perché la giustizia lo vuole: al nostro luogo si mette l’amabile Gesù, e quella pena, che doveva cadere sopra di noi, cade sopra di Lui, come disse sì bene Isaia: “Disciplina pacis nostra, super eum,” onde il suo patire affranca noi. – Ma la Passione e la morte di Gesù Cristo ha un altro scopo strettamente congiunto al primo, ed è quello di darci esempio nel cammino della Croce. Esortare, incoraggiare altri colla parola a correre animosamente la gran via della croce, è bella e santa cosa, ma facile: mettersi per essa e percorrerla è opera assai più difficile, ma più efficace, e Gesù Cristo la volle compire. Vedetelo: Egli soffre nel corpo, cominciando dalla culla alla tomba: soffre il freddo, il caldo, la fame, la fatica nell’officina, nei viaggi della sua vita pubblica: soffre la povertà e tutto ciò che necessariamente va congiunto colla povertà: soffre le percosse, i flagelli, in una parola, la morte di croce. Ma i dolori del corpo sono ben poca cosa in confronto di quelli che soffre nello spirito. Egli è Dio e l’anima di Gesù, rischiarata perennemente dai fulgori della divinità, vede ogni cosa con perfetta certezza e chiarezza: occhio umano non vide, né vedrà mai più addentro le cose divine ed umane dell’occhio di Gesù. Egli vede l’ignoranza degli uomini, le loro colpe, la malignità dei suoi nemici, le iniquità tutte, che allagano la terra: vede il passato, il presente, il futuro: vede la rovina di tante anime, opera delle sue mani, e per le quali immola se stesso: vede la gloria del Padre suo conculcata: vede la propria dignità e maestà di Figlio di Dio disconosciuta, calpestata. Qual dolore! quale strazio pel suo cuore! Dolore e strazio tanto più crudele ed atroce in quanto che nessuno lo comprende e pochissimi lo raddolciscono, ed Egli è costretto a divorarlo in silenzio: Gesù è veramente l’uomo dei dolori! l’uomo dei dolori continui, intimi, ineffabili nel corpo e nello spirito, e come tale Egli raccoglie sopra di sé gli occhi di tutta questa immensa progenie di Adamo, che va incessantemente dolorando in questa via di esilio e, Lui rimirando, si conforta e apprende come ha da patire. Ah fratelli miei! Se allorché il dolore si aggrava sopra di noi e quasi ci schiaccia non avessimo dinanzi agli occhi questo Gesù l’uomo dei dolori, il re dei martiri, che sarebbe di noi? Rimirar Lui santo, innocentissimo, eppure saziato di obbrobri, agonizzante sulla croce, è sentirci confortati a correre la via dei patimenti, ch’Egli ha segnato col suo sangue! Sappiamo per fede che “Gesù non fece peccato alcuno, né sulle sue labbra fu mai trovata frode.” Con questa osservazione san Pietro rincalza la verità. Noi tutti soffriamo più o meno, ma nessuno di noi soffrirà mai come Gesù Cristo; è già un argomento efficacissimo ad imitarLo: ma vi è di più. Noi soffriamo e alcune volte soffriamo assai. Ma chi siamo noi? Povere creature, e Gesù è il Figlio di Dio! Quale confronto! Non basta: noi soffriamo e sia pure moltissimo. Chi siamo noi? Non solo povere creature, ma peccatori, e se poniamo sulla bilancia da una parte i nostri dolori, e dall’altra i nostri peccati, troviamo che questi di gran lunga superano quelli, e che se Iddio volesse proporzionare i dolori ai peccati nostri, noi ne saremmo certamente schiacciati. Eppure, Gesù che sofferse quel cumulo di dolori atrocissimi, che dicemmo, era santo, innocente, immacolato: ombra di colpa non fu mai, né poteva essere in Lui, perché l’Uomo-Dio non può peccare. Quale incoraggiamento per noi a patire, avendo innanzi agli occhi tanto modello, per noi rei di tante colpe e meritevoli d’ogni supplizio! – Né qui si ferma il Principe degli Apostoli. Dopo d’aver confortati noi peccatori a patire coll’esempio di Gesù innocentissimo, tocca del modo con cui Gesù patì, e in questo pure vuole che ci modelliamo sopra di Lui. “Gesù oltraggiato, non oltraggiava; soffrendo, non minacciava.” Con queste parole il sacro Scrittore credo abbia voluto abbracciare tutta la vita di Gesù, senza alludere a qualche fatto particolare: Gesù fu crudelmente oltraggiato allorché i Giudei più volte e pubblicamente lo dissero amico dei pubblicani e dei peccatori, bevitore, samaritano, posseduto dal demonio, eccitatore di tumulti, nemico di Cesare, malfattore, seduttore, bestemmiatore, peggiore d’un ladrone e d’un omicida; eppure Gesù a tanti insulti, a sì sanguinose ingiurie non oppose che il silenzio e risposte piene di dignità e di mansuetudine: a chi Lo straziava non fece minacce, ma come agnello si lasciò condurre alla morte. Ecco come pativa Gesù, l’innocentissimo Gesù, ed ecco come dobbiamo patire noi pure. Ma che avviene, o cari? che vediamo noi? che facciamo? Troppo spesso alla più lieve offesa, e forse non sempre immeritata, ci risentiamo, leviamo alti lamenti, mettiamo a rumore il vicinato, gridiamo, strepitiamo, vogliamo giustizia, sbuffiamo d’ira, rompiamo in insulti e, non piaccia a Dio, in bestemmie, in imprecazioni! Oh come abbiamo bisogno di meditare il divino modello, Gesù Cristo, che oltraggiato, non oltraggiava, soffrendo, non minacciava! Come è bella, nobile e degna di ammirazione la calma tranquilla e dignitosa del cristiano in faccia a chi lo offende ed insulta! La pazienza e la carità non vietano che domandiamo giustizia e riparazione delle offese ricevute, e in certi casi può essere un dovere l’esigerla, ma è sempre indegno del cristiano rispondere coll’ingiuria all’ingiuria, colle invettive alle invettive. S. Pietro, proseguendo a parlare del supremo nostro modello, Gesù Cristo, dice: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Ponete mente, o dilettissimi, a queste parole: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Esse vi dicono, che Gesù Cristo patì e morì, non forzatamente, ma liberamente: Egli stesso si diede in mano de’ suoi nemici, incatenò, se posso dirlo, la sua onnipotenza, e lasciò che facessero ogni lor volere della propria Persona. L’aveva detto in termini Gesù Cristo: “Io metto l’anima mia per ripigliarla: niuno me la toglie, ma la do da me stesso, ed ho potere di darla e di ripigliarla” (Giov. x, 15 seg.). Non poteva più chiaramente affermare la sua libertà di patire e non patire, di morire e non morire. E invero: se Gesù Cristo non fosse stato perfettamente libero e di patire e di morire, non sarebbe stato perfetto uomo, la sua Passione non avrebbe avuto merito alcuno e sarebbe stato ridicolo il proporlo a noi come esempio da seguire. Chi è colui, in balia del quale Gesù si diede e che Lo giudicò ingiustamente? Accennandosi qui un giudice ingiusto, in singolare, che pronunciò sentenza contro Gesù Cristo, sembra fuor di dubbio che questi sia Pilato. E’ vero, Lo giudicarono Anna, Caifa, i capi del popolo, Erode, e Lo giudicarono ingiustissimamente; ma di quelli, ancorché più colpevoli, S. Pietro non si cura, perché la loro sentenza non poteva essere eseguita, se quella di Pilato non si aggiungeva: onde fu la sua che trasse a morte Gesù Cristo, e perciò di lui particolarmente si parla. — Gesù si commise alla mercé di Pilato, giudice straniero e pagano: in lui riconobbe un potere, che veniva dall’alto (S. Giov. XIX, 11), ancorché ingiustamente ne usasse. – Apprendiamo, o cari, da queste parole di S. Pietro non solo a rispettare l’autorità, in chiunque essa risieda, ma eziandio a soffrire ingiustizie, se questa ce le fa soffrire. Chi mai sulla terra soffrì ingiustizia più scellerata di quella, che Gesù Cristo sofferse da Pilato? Riconosciuto innocente, flagellato, coronato di spine e condannato alla croce: eppure Egli si diede nelle sue mani, limitandosi a dirgli: “Chi mi ha dato nelle tue mani è reo di maggior peccato, perché lo faceva per odio. – Soffrire l’ingiustizia non è approvarla, e noi possiamo bene rispettare l’autorità e condannare i suoi abusi. Lo so, ciò è difficile, perché l’ingiustizia, che si soffre dalla autorità, è congiunta con essa per forma che ai nostri occhi sembra formare con essa una sola cosa: ma pure è necessario non confondere queste due cose se non vogliamo renderci colpevoli. Voi avete o aveste i vostri genitori: l’autorità paterna e materna, che dopo la divina è la prima, era ed è in essi e voi la rispettaste e la rispettate. Se, per sventura vi fosse stato o vi fosse abuso in loro, qual era e quale sarebbe il vostro dovere? Avreste voi il diritto di disconoscerla? Giammai. Voi potreste e dovreste riprovare in cuor vostro l’abuso della loro autorità, ma rispettarla sempre, perché essa è cosa divina. Ragguagliata ogni cosa, è ciò che dobbiamo fare con qualunque autorità, allorché vien meno a se stessa. Nell’antica legge il sommo sacerdote, una volta all’anno, compiva il rito solenne del capro emissario: egli poneva le mani sul suo capo, confessava i peccati suoi e del popolo, e li poneva sul capro, e questo era abbandonato nel deserto (Levit. XVI, 21). Qui S. Pietro accenna a quel rito misterioso, che adombrava Gesù Cristo, il quale tolse sopra di sé, volontariamente i peccati di tutti gli uomini, li portò sulla croce e nel suo corpo, ossia nei patimenti del suo corpo, e nel sangue che sparse li espiò e li cancellò. Egli è il vero Giacobbe, che si copre della pelle del capretto, anzi è il vero capro emissario, che carico dei delitti del mondo [Non è necessario avvertire che più volte nelle Scritture la parola peccato è presa non a significare il reato, il disordine morale, ma l ‘effetto del peccato, che è la pena. Qui si dice che Gesù Cristo portò i peccati nostri sulla croce, nel suo corpo, cioè portò sulla croce ed espiò la pena dovuta al peccato.], esce dal mondo, è sollevato sull’alto della croce, muore come reietto, anzi come maledetto, e in sé riconcilia il cielo e la terra, secondo la frase di san Paolo. Allorché Gesù morì per noi sull’albero della croce e nel suo sangue spense il peccato, noi fummo sciolti dal giogo del peccato stesso, fummo come morti ad esso, e cominciammo a vivere alla giustizia risanati dalle sue lividure. Spieghiamoci meglio. Un uomo è condannato alla morte: un altro uomo innocente, mosso a pietà di lui, si offre a morire in suo luogo: la morte dell’uno è la vita dell’altro: il colpevole, compiuta la giustizia, cessa d’essere colpevole, è riabilitato, è giusto: egli è come morto ai suoi delitti, rivive alla virtù, all’onestà, alla giustizia. Il colpevole è ciascuno di noi; Gesù Cristo si offre a pagare per noi, paga col suo sangue, ed eccoci riabilitati, giustificati, risanati colle sue lividure. – S. Pietro dopo aver messo innanzi agli occhi dei suoi figliuoli il sommo modello dell’amore e del perdono, Gesù Cristo, chiude la sua esortazione, rivolgendo loro queste bellissime parole: ” Voi eravate come pecorelle smarrite: ma ora vi siete rivolte al pastore e al vescovo delle anime vostre.” Voi, pochi anni or sono, eravate ancora Giudei e Gentili; correvate le vie dell’errore: eravate simili a quelle povere agnelle, che si allontanano dall’ovile, ai smarriscono nei fitto d’un bosco o nella immensità del deserto, e che ad ogni istante possono essere sbranate dalle belve feroci: Dio ebbe pietà di voi: vi chiamò, colla sua grazia vi trasse dolcemente a sé, e voi ubbidiste, vi rivolgeste a Lui, al pastore, al Vescovo delle anime vostre. — Gesù Cristo è il Pastore delle anime in quanto le guida ai pascoli della vita, le difende dai lupi che le insidiano: è vescovo [Vescovo “Episcopus”, significa propriamente chi sovraintende ad altri in qualunque ufficio: ora si usa esclusivamente per indicare il Vescovo, il maggiore dei gradi gerarchici], cioè veglia sopra di loro, le regge, le custodisce. Egli fu Pastore e Vescovo degli Apostoli e dei discepoli, dei credenti, finché visse mortale sulla terra, ed è Pastore e Vescovo sempre nella persona di quelli che continuano l’opera sua attraverso ai secoli. Queste parole di agnelle, di pastore e di vescovo richiamano alla nostra memoria i doveri che tutti abbiamo, io vostro pastore, voi agnelle dell’ovile di Cristo. A me i doveri di ammaestrarvi e di camminare innanzi a voi coll’esempio d’una vita irreprensibile: a voi di ascoltarmi e seguirmi: adempiamoli fedelmente e tutti dal Principe dei pastori, dal Vescovo dei vescovi, avremo la nostra mercede.
Alleluja
Allelúja, allelúja Luc XXIV:35. Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja [I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia]. Joannes X:14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja. [Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]
Evangelium
Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joann X:11-16. “In illo témpore: Dixit Jesus pharisaeis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”. [In quel tempo: Gesú disse ai Farisei: Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la vita per le sue pecore. Il mercenario invece, e chi non è pastore, cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, e lascia le pecore, e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore: il mercenario fugge perché è mercenario, e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e queste conoscono me, come il Padre conosce me, ed io il Padre. Io dò la vita per le mie pecore. E ho delle altre pecore, le quali non sono di quest’ovile: anche quelle occorre che io raduni, e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo ovile e un solo pastore].
Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.
Omelia della Domenica II dopo Pasqua
[Canonico G.B. Musso, 1851, vol. II -imprimatur-]
– Gesù Buon Pastore –
“Ego sum pastor bonus”, dice nell’odierno Vangelo secondo la Volgata Cristo nostro Signore, e secondo il testo greco: “Ego sum ille pastor bonus”! quasi dir voglia: “Io son quel buon Pastore veduto in ispirito dai Patriarchi, predetto dai Profeti, e figurato in Abele, in Giacobbe, in Davide, tutti pastori amatissimi della propria greggia”. Il buon pastore mette la vita per sue pecorelle. Ma il mercenario, che non è, e non merita il nome di pastore, al vedere appressarsi il lupo abbandona l’armento, si dà alla fuga, onde il lupo fa strage, rapisce, disperde le spaventate agnelle. E perché pratica così vilmente il mercenario? Appunto per questo che egli è mercenario, prezzolato, a cui le pecore non appartengono, ed altro non ha a cuore che il proprio vantaggio. Io però, che sono il vero e buon Pastore, Io che conosco ad una ad una le mie pecorelle, e da esse son conosciuto, Io per la loro salvezza son pronto a dare e darò la mia vita, “animam meam pono pro ovibus meis”. – Così parla, così dipinge sé stesso l’amorosissimo nostro Redentore. Seguiamo, uditori fedeli, l’evangelica allegoria, e vediamo quanto è mai buono questo nostro divin Pastore, e quanto noi dobbiamo essere sue docili e buone pecorelle. Merita ogni attenzione il dolce argomento.
I – Per il peccato del nostro incauto progenitore Adamo, eravam noi come tante pecore erranti, “omnes nos quasi oves erravimus” (Isaia LV, v, 6). Immaginate una greggia percossa e dispersa da fulmine tremendo aggirarsi per balze e per dirupi senza guida, senza pastore, non può questa altro aspettarsi che il precipizio o le zanne del lupo. Tal’era la condizione infelice dell’umana nostra natura, “omnes nos quasi oves erravimus”. Quando il Figliuol di Dio, mosso a pietà di noi, lascia le novantanove pecorelle, ossia, come spiegano dotti Spositori, i nove cori degli Angeli, e viene quaggiù in cerca della pecora smarrita, cioè della perduta umana generazione, e viene, “saliens in montibus transiliens colles”(Cant. II, 8), vale a dire, dal cielo nel seno della Vergine Madre, da questo nella grotta di Betlemme, da Betlemme in Egitto, indi a Nazaret, e finalmente in Gerosolima. Qui osservate com’Egli adempie col fatto quanto aveva già detto colle sue parole, che per la salute delle sue pecorelle sacrificherà la sua vita. “Animam mea pono pro ovibus meis”. – Vedete voi quella turba di fanti, di sgherri con faci, con lanterne, con bastoni, con spade avvicinarsi all’orlo degli ulivi? In capo a questa masnada è Giuda traditore. Ecco il lupo. Che fa il buon Pastore in tal cimento? Di sé non curando, pensa soltanto a sottrar dalle loro mani i suoi cari. Va incontro al capo ed alla schiera, e, “chi cercate voi?- dice intrepido e fermo – se Gesù Nazzareno, Io son quel desso, lasciate però andare in pace i miei discepoli”, “sinite hos abire” (Joan. XXVIII, 8). Così avvenne: Gesù resta fra le funi e le ritorte, e i suoi discepoli si salvano colla fuga. – Ecco il buon Pastore in mano dei lupi rabbiosi tratto ai tribunali, legato ad una colonna. Oh Dio! quale ne fanno sanguinosissimo scempio! Ed Egli intanto va dicendo in suo cuore: questo mio sangue laverà le macchie delle mie pecorelle, sarà il balsamo per le loro ferite, sarà il prezzo del loro riscatto, e la morte, a cui mi avvicino, darà ad esse la vita, “animam meam pono pro ovibus meis, et ego vitam æternam do eis” (Jonn. X). – Era tanto l’amor di Davide ancor pastorello per la paterna greggia, che qualora orso o leone giungeva a rapire una qualche agnella, armato di tutto se stesso se gli scagliava contro, e ghermitolo per la gola, gli toglieva dalle zanne la palpitante preda. Tanto fece per noi il divino nostro Pastore; con questa differenza però, che Davide acquistò nome di valoroso e di forte, e Gesù Pastor buono, fu computato tra gli scellerati, e qual malfattore crocefisso. – Sembrerà questa l’ultima prova dell’amor di Gesù nostro buon Pastore verso di noi suo gregge avventuroso. Ma no: compiuta l’umana redenzione, rotta la catena della nostra schiavitù, prima di separarsi da noi per ascendere al Padre, udite con quai sentimenti e con qual cuore prende a parlare a Simon Pietro. Simone figliuol di Giovanni, gli dice, mi ami tu più di tutti questi, che qui son presenti? “Simon Joannis, diligis me plus his” (Joan. XXI)? “Signore – Pietro rispose – sì che io Vi amo, e voi lo sapete.” – “Se veramente tu mi ami, ripiglia Gesù, dammi prove dell’amor tuo con pascere gli agnelli della mia greggia, “pasce agnos meos”. Ma tu mi ami davvero? soggiugne Gesù per la seconda volta. “Ah Signore – ripete Simon Pietro – Voi vedete il mio cuore, mi protesto che Vi amo”. “Se dunque tu mi ami, pasci i miei agnelli”, “pasce agnos meos”. Con una terza domanda Gesù l’interroga: Pietro, tu mi ami? “Mio Signore – risponde Pietro turbato e confuso – Voi lo chiedete a me? Niuna cosa è al vostro sguardo nascosta, Voi siete lo scrutatore dei cuori: e meglio di me sapete che Vi amo”. “Conoscerò – conchiude Gesù – il tuo amore per me dalla cura che avrai di pascere le mie pecorelle”, “pasce oves meas”. Breve fu il suono di queste parole, ma a quale e quanto grave senso si estendono! Pietro, parmi dir volesse, tu sei quella pietra, che ho posta per fondamento della mia Chiesa. A te, primo fra i miei Apostoli, e mio vicario, ho dato in modo tutto singolare le chiavi del regno dei cieli, e con esse la potestà suprema di sciogliere e di legare con giudizio irrefragabile pronunziato sulla terra, ed approvato nel cielo. Ma ciò non basta. Ti costituisco da questo istante Pastore universale di tutto il gregge che mi son formato col mio Vangelo, co’ miei sudori, collo sborso di tutto il sangue mio. Tu pascerai non solo i miei agnelli, ma come Pastor dei pastori anche le pecore madri, “pasces oves meas”. Pasci dunque gli uni e le altre con guidarle all’erbe salubri, e ai limpidi fonti. Pasce colla dottrina, colla predicazione, coll’esempio, coi sacramenti: difendi la mia e la tua greggia e da quei lupi, che l’assalgono a viso aperto, e da quei che si ascondono sotto la pelle di agnelli: ad un cuore che mi ama, o Pietro, Io devo affidarla, e non ad altri darne il governo, che a un cuore che abbia dell’amore per me, “pasce agnos meos, pasce oves meas”.
II Che dite, che vi pare, uditori del cuore, dell’amore, della bontà del divino nostro Pastore? Che cura, che impegno, che sollecitudine, che tenerezza per noi! Quale ora dovrà essere la nostra corrispondenza? Ecco, Egli è il nostro buon Pastore, dobbiam noi essere sue fide e buone pecorelle. E come? Egli stesso nel suo Vangelo ce n’insegna il modo. “Oves meæ – dice – vocem meam audiunt” (Joan. X. 27). Le mie pecorelle ascoltano la mia voce e l’apprezzano, ascoltano i miei avvisi e li seguono, ascoltano i miei precetti e gli osservano, ascoltano le mie ispirazioni e le accolgono, ascoltano la voce dei miei ministri e la rispettano, ascoltano la parola da loro annunziata e ne profittano. “Oves meæ voce meam audiunt”. È questo un segno, che sono pecorelle del mio ovile quelle anime che ascoltano e si pascono della mia parola letta nei libri, predicata dai pergami; e a tenore delle verità e delle massime ch’essa propone, emendano la vita, regolano il costume, raffrenano le passioni, adempiono la legge, praticano la virtù, edificano il prossimo, santificano sé stesse, “oves meæ vocem meam audiunt”. – Ma che segno sarebbe se invece si ascoltasse più volentieri la voce dei bugiardi figliuoli degli uomini, che promuovono dubbi circa la fede, che spargono massime ereticali, che bestemmiano quel che ignorano? Che sarebbe se più piacessero i laidi discorsi, i motti maliziosi, le favole oscene, le scandalose novelle? Di queste pecore infette, rognose, direbbe Gesù, io non sono il Pastore, esse non appartengono al mio ovile, “non sunt ex hoc ovili”(Joan. X, 16). Le pecore inoltre hanno in sommo orrore il lupo, orror tale, che al solo sentirne gli ululati, sebbene difese da ben chiuso e riparato ovile pure si vedono ritirarsi negli angoli più remoti, e tremar da capo a piedi, tanto è l’orrore e lo spavento di questo loro nemico. È tale, ascoltanti, l’orror vostro, il vostro spavento per il peccato, nemico dell’anima vostra? Ne temete il pericolo, ne fuggite l’aspetto? Buon segno, miei cari, se è così, buon segno; voi siete pecorelle del gregge di Cristo. Perseverate ad odiarlo, ad abbominarlo, e dite sempre col reale profeta: “Iniquitàtem odio habui et abominatus sum” (Ps. CXVIII). – Altra proprietà delle pecore, dice Cristo Signore, è il seguitare il proprio pastore, di cui conoscono la voce e la persona, “oves illum sequuntur” (Joan.). Siamo disposti a seguir l’orme del nostro Pastore Gesù Cristo? Beati noi, arriveremo a buon termine. Chi mi seguita, dice Egli, non cammina fra le tenebre dell’errore, “qui sequitur me, non ambulat in tenebris” (Joann. VIII, 12). Ma chi vuol venir dietro a me, convien che neghi se stesso e le proprie voglie, che si addossi la propria croce, e calchi le mie pedate; “Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, tollat crucem suam, et sequatur me” (Luc. IX, 23). E che vuol dire, interroga S. Agostino, questo sequatur me? Vuol dire imitare i suoi esempi, “quid est me sequatur, nisi me imitetur? (Tract. 51, in Jo.). Chi corre la vita del piacere non imita Gesù, che va per quella del Calvario. Gli esempi di questo nostro Pastore sono di umiltà e di mansuetudine, di pazienza, di carità; non può esser sua pecorella chi non è imitatore delle sue virtù. – La pecora finalmente dà il latte e la lana come in retribuzione al pastore che la guida, la pasce, la governa e la difende. Gesù buon Pastore, o fedeli, anche Egli vuol da voi, e vi chiede il latte e la lana; ma non per sé. Vi chiede il latte, cioè la cristiana educazione della vostra prole. I sentimenti di pietà, di timor di Dio, di religione, di rettitudine, di onestà, ed altre buone e sante massime, sono quel latte, che dovete istillare nel cuor de’ vostri figliuoli. I salutari avvisi, i saggi consigli, le dolci ammonizioni ai vostri inferiori, ai vostri eguali, anche questo è latte, col quale S.Paolo avea pasciuti i suoi figli rigenerati in Cristo Gesù, lac potum dedi (I Cor. V, 2), e che Gesù aspetta da voi. – Aspetta da voi, e vi domanda anche la lana per coprire tanti suoi poverelli mezzo ignudi, esposti al rigor delle stagioni, tremanti, intirizziti dal freddo. Oh Dio! Se il vostro cuore non si commuove, in vista di tanta miseria, come potete sperare di essere riguardati da Gesù Cristo in qualità di sue pecorelle? Visitate, visitate la vostra casa, aprite i guardaroba, o facoltosi, e vi troverete tante vesti rimesse, quanto per voi inutili, tanto pei poveri necessarie. Per carità coprite Cristo ignudo nei vostri ignudi fratelli. Imitate S. Martino ancor catecumeno, S. Filippo Benizio, S. Giovanni Canzio, S. Tommaso da Villanuova, e tanti altri caritatevoli servi di Dio, che si trassero le vesti di dosso per coprire l’altrui nudità. Contrassegno più chiaro, carattere più certo di nostra predestinazione non vi è di questo, qual è spargere le viscere della nostra carità verso i bisognosi nostri fratelli. – Ma il vestire non basta, conviene anche cacciar la fame, la fame, dico, che fa andar pallidi tanti vecchi cadenti, tante vecchierelle tremanti, tanti storpi impotenti, che fa languire tanti infermi sulla paglia, che fa gemere tante famiglie che non han cuore a mostrar faccia. – Ravviviamo la fede, cristiani miei cari. Nel giorno estremo, nella gran valle saranno dai capri separate le agnelle, e alla destra parte da Gesù benedette; quelle agnelle, dissi, che avranno dato ascolto alla sua voce, che avranno seguito i suoi esempi, avuto in orrore il peccato e dato il latte di cristiana educazione alla prole e la lana a soccorso degl’indigenti. A queste Cristo Signore rivolto in aria dolcissima, “venite a me, dirà loro, voi avete camminato sull’orme mie, voi mi siete stati fedeli, mi avete pasciuto famelico, e coperto ignudo, venite, per voi non son giudice, sono e sarò per sempre il vostro buon Pastore, venite ai pascoli, venite ai fonti di eterna vita, il mio regno sarà il vostro ovile; voi sarete sempre mie, Io sempre vostro. Vogliamo noi, uditori, goder di simile sorte? Siamo buone, fide, docili pecore, e sarà Gesù nostro buono ed eterno Pastore!
Credo …
Offertorium
V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps LXII:2; LXII:5 Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.
Secreta
Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat. [O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca]. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.
Communio Joannes X:14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja [Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]
Postcommunio
S. Dóminus vobíscum. – R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur. [Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.