[Dom Guéranger: L’Anno liturgico, vol. I]
Capitolo I
STORIA DEL TEMPO DI PASSIONE
E DELLA SETTIMANA SANTA
Preparazione alla Pasqua.
La santa Chiesa, dopo aver presentato alla meditazione dei fedeli, nelle prime quattro settimane di Quaresima, il digiuno di Cristo sulla montagna, consacra ora le altre due settimane che ci separano dalla festa di Pasqua alla commemorazione dei dolori del Redentore, non permettendo che i suoi figli arrivino al giorno dell’immolazione del divino Agnello, senza aver prima disposte le loro anime alla compassione dei patimenti da Lui sofferti in loro vece. I più antichi documenti della Liturgia, i Sacramentari e gli Antifonari di tutte le Chiese, col tono delle loro preghiere, la scelta delle letture ed il senso d’ogni sacra formula, ci avvertono che la Passione di Cristo, a partire da oggi, forma l’unico pensiero della cristianità. Fino alla Domenica delle Palme potranno ancora aver luogo, nel corso della settimana, le feste dei Santi; ma nessuna solennità, a qualsiasi classe appartenga, avrà la precedenza sulla Domenica di Passione. – Non abbiamo dettagli storici intorno alla prima settimana di questa quindicina; ma le sue osservanze non differirono mai dalle quattro settimane che la precedettero [Non riteniamo qui opportuno addentrarci nelle discussioni puramente archeologiche sollevate sulla parola Mediana, con la quale viene designata la Domenica di Passione in alcuni antichi documenti della Liturgia e del Diritto ecclesiastico], rimandiamo quindi il lettore al capitolo seguente, dove tratteremo di alcune mistiche particolarità del tempo di Passione in genere. Per contrario, la seconda settimana ci fornirà un’abbondante materia di storici dettagli, non essendovi periodo dell’Anno Liturgico che più di questo impegni i fedeli ed offra loro motivo di cosi vive manifestazioni di pietà.
Nomi che si davano all’ultima settimana.
L’ultima settimana era già in venerazione nel III secolo, come attesta S. Dionigi, vescovo in quel periodo di tempo d’Alessandria, (Lettera a Basilide, c. I). Nel secolo appresso fu chiamata la grande Settimana, come ci consta da un’Omelia di S. Giovanni Crisostomo (30.a Omelia sul Genesi) : «Non perché, dice il santo Dottore, conti più giorni delle altre, o i giorni constino d’un maggior numero di ore, ma perché sono grandi i misteri che in essa si celebrano ». La vediamo anche segnalata col nome di Settimana penosa, sia per le pene sofferte da Nostro Signor Gesù Cristo che per le fatiche imposte dalla sua celebrazione; Settimana d’indulgenza, perché vi si accoglievano i peccatori alla penitenza; finalmente Settimana Santa, per la santità dei misteri che si commemoravano. Da noi per lo più viene chiamata con questo nome, il quale divenne così appropriato, che fu attribuito a ciascuno dei giorni che la compongono, di modo che abbiamo Lunedì Santo, Martedì Santo, ecc.
Rigore del digiuno.
Una volta aumentava la severità del digiuno quaresimale negli ultimi giorni, che formavano il supremo sforzo della penitenza cristiana. Poi, la Chiesa indulgendo a poco a poco alla debolezza delle presenti generazioni, cominciò a mitigare tali rigori, ed oggi in Occidente non esiste più nessuna restrizione che distingua questa settimana dalle precedenti; mentre nelle Chiese d’Oriente rimaste fedeli alle antiche tradizioni, continuano ad osservare una rigorosa astinenza, la quale, dalla Domenica di Quinquagesima e per tutto questo lungo periodo, prende il nome di Serofagia, essendo solo permesso di mangiare asciutto. – Anticamente il digiuno si spingeva anche oltre i limiti delle forze umane; infatti sappiamo da Epifanio (Esposizione della Fede, X, Heres, XXII) che v’erano dei cristiani che lo prolungavano dal Lunedì mattina fino al canto del gallo del giorno di Pasqua (Nella metà del III secolo, ad Alessandria, si digiunava l’intera settimana, sia ininterrottamente che ad intervalli – Lettera di S. Dionigi a Basilide P. G. X, 1277). – Indubbiamente, solo una piccola parte dei fedeli potevano fare un tale sforzo; gli altri si limitavano a non prendere niente per due, tre, quattro giorni consecutivi; ma la comune usanza consisteva nello stare senza mangiare dalla sera del Giovedì Santo fino al mattino di Pasqua [Tale usanza era antichissima, perchè ce ne parla S. Ireneo (verso il 200) e anche s. Eusebio nella sua Storia Eccl. (v. 24; P. G., 501), così ardua penitenza fossero state sempre accompagnate da una ferma adesione alla fede ed all’unità alla Chiesa!]. Esempi d’un tale rigore non sono rari, anche ai giorni nostri, presso i cristiani d’Oriente ed in Russia.
Lunghezza delle veglie.
Una delle caratteristiche dell’antica Settimana Santa furono le veglie prolungate in chiesa durante la notte; come quella del Giovedì Santo, nella quale, celebrati i divini misteri in memoria dell’Ultima Cena del Signore, il popolo perseverava a lungo nella preghiera (S. Giovanni Crisostomo, 30.a Omelia sul Genesi). La notte fra il Venerdì e il Sabato era quasi tutta una veglia, per onorare la sepoltura di Gesù Cristo (S. Cirillo di Gerusalemme, Catech. XVIII); ma la più lunga era quella del Sabato, che durava fino al mattino di Pasqua. Vi prendeva parte tutto il popolo, che assisteva all’ultima preparazione dei Catecumeni; quindi rimaneva testimone dell’amministrazione del santo Battesimo. L’assemblea si ritirava solo dopo la celebrazione del santo Sacrificio, che terminava al levar del sole.
Sospensione dal lavoro.
Durante la Settimana Santa, per lungo andare di secoli fu richiesta ai fedeli la sospensione dalle opere servili; ed alla legge della Chiesa si univa quella civile a far sospendere il lavoro ed il traffico degli affari, ed esprimere così, in una maniera imponente, il lutto dell’intera cristianità. Il pensiero del sacrificio e della morte di Cristo era il pensiero di tutti; ognuno sospendeva gli ordinari rapporti; tutta la vita morale era completamente assorbita dagli uffici divini e dalla preghiera, mentre le forze del corpo erano impegnate nel digiuno e nell’astinenza. È facile immaginare quale impressione doveva produrre nel resto dell’anno una così solenne interruzione di tutto ciò che costituiva l’assillo degli uomini nelle cose della loro vita. Tenuta presente la durezza con la quale li aveva trattati la Quaresima per cinque intere settimane, si comprende benissimo con quale gioia accoglievano poi la festa della Pasqua, e come insieme col rinnovamento dell’anima dovevano sentire un grande sollievo nel corpo.
Vacanza dei tribunali.
In altra parte accennammo alle disposizioni del Codice Teodosiano che prescriveva di soprassedere a tutti i processi e citazioni quaranta giorni prima della Pasqua. La legge di Graziano e di Teodosio, emanata a tal proposito nel 380, fu allargata da Teodosio nel 389 e fatta propria dei giorni in cui siamo da un nuovo decreto che interdiceva, sette giorni prima della festa di Pasqua e sette giorni dopo, anche le patrocinazioni. Nelle Omelie di S. Giovanni Crisostomo e nei Sermoni di S. Agostino si riscontrano parecchie allusioni a questa legge allora recente; in essa si dichiarava che allora, in ciascun giorno di detta quindicina, vigeva nei tribunali il privilegio della Domenica.
Il perdono dei regnanti.
In questi giorni di misericordia i prìncipi cristiani non solo interrompevano il corso dell’umana giustizia, ma volevano anche onorare in modo sensibile la paterna bontà di Dio, il quale si degnò perdonare al mondo colpevole in vista dei meriti del Figliolo suo immolato. Dopo aver rotti i lacci del peccato che imprigionavano i peccatori pentiti, la Chiesa stava per riaprire loro il suo seno; ed i prìncipi cristiani ci tenevano ad imitare la loro Madre, ordinando l’apertura delle carceri e la liberazione degl’infelici che gemevano sotto il peso delle sentenze inferte dai tribunali terreni, fatta eccezione di quei criminali che coi loro delitti avevano leso troppo gravemente la famiglia o la società. Anche a tale riguardo il nome del grande Teodosio fu illustrato da chiara fama. Come c’informa S. Giovanni Crisostomo (6.a Omelia al popolo d’Antiochia), quest’imperatore mandava nelle varie città ordinanze di condono, autorizzando il rilascio dei prigionieri e accordando la vita ai condannati a morte, per santificare i giorni che precedevano la festa di Pasqua. Gli ultimi imperatori convertirono in legge tale disposizione, e S. Leone ne prende atto, in uno dei suoi sermoni: « Gl’imperatori romani, egli attesta, già da tempo osservavano questa santa istituzione, per onorare la Passione e la Risurrezione del Signore, per la quale si vede diminuire il fasto della loro potenza, mitigare la severità delle leggi e fare grazia alla maggior parte dei colpevoli, mostrando con tale clemenza d’imitare la bontà celeste nei giorni in cui ha voluto salvare il mondo. Che anche il popolo cristiano, da parte sua, abbia a cuore d’imitare i prìncipi, e l’esempio dato dal sovrano porti i sudditi ad una scambievole indulgenza, non dovendo mai il diritto privato essere più severo di quello pubblico. Rimettete, perciò, gli altrui torti, sciogliete i legami, perdonate le offese, soffocate i risentimenti, affinché, e da parte di Dio e da parte nostra, tutto contribuisca a ristabilire in noi quell’innocenza di vita che conviene all’augusta solennità che attendiamo » {Discorso 40, sulla Quaresima). – Ma non solo è decretata l’amnistia cristiana nel Codice Teodosiano : ne troviamo tracce anche in solenni documenti di diritto pubblico dei nostri padri. Sotto la prima dinastia dei re di Francia, S. Eligio vescovo di Noyon, in un sermone pronunciato il Giovedì Santo s’esprimeva così : « In questi giorni in cui la Chiesa indulge ai penitenti ed assolve i peccatori, i magistrati lascino da parte la severità e perdonino ai rei. In tutto il mondo s’aprono le carceri, i prìncipi fanno grazia ai delinquenti, i padroni perdonano agli schiavi » {Discorso 10). Sotto la seconda dinastia, sappiamo dai « Capitolari » di Carlo Magno che i Vescovi avevano il diritto d’esigere dai giudici per amore di Gesù Cristo, come ivi è detto, la liberazione dei prigionieri nei giorni precedenti la Pasqua, e d’interdire ai magistrati l’entrata in chiesa, se si rifiutavano d’obbedire {Capitolari, I. 6). Secondo i « Capitolari », questo privilegio s’estendeva anche alle feste di Natale e di Pentecoste. Infine, sotto la terza dinastia, troviamo l’esempio di Carlo VI il quale, avendo dovuto reprimere una rivolta degl’insorti di Rouen, più tardi ordinò la liberazione dei prigionieri, perché si era nella Settimana penosa, e molto vicini alla Pasqua. – Un ultimo vestigio di questa misericordiosa legislazione si conservò fino alla fine nel costume parlamentare parigino. Dopo molti secoli il Parlamento non conosce più queste lunghe vacanze cristiane, che una volta s’estendevano a tutta la Quaresima; le camere si chiudevano solo il Mercoledì Santo, per riaprirsi dopo la Domenica “Quasimodo”. Il Martedì Santo, ultimo giorno di seduta, il Parlamento si recava alle carceri del Palazzo ed uno dei Grandi Presidenti, di solito l’ultimo investito, apriva la seduta con la camera; interrogavano i detenuti, e senz’alcun giudizio, si mettevano in libertà quelli la cui causa era favorevole, o chi non era un criminale di prim’ordine.
La vera uguaglianza e fraternità.
Le rivoluzioni che si succedettero per più di cent’anni ebbero il vantato successo di secolarizzare la Francia, cioè di cancellare dai pubblici costumi e dalla legislazione tutto ciò che traeva ispirazione dal sentimento soprannaturale del cristianesimo. E poi si misero a predicare agli uomini, su tutti i toni, ch’erano uguali fra loro. Sarebbe stato superfluo cercare di convincere di questa verità i popoli cristiani nei secoli di fede, quando, all’avvicinarsi dei grandi anniversari che rappresentavano così al vivo la giustizia e la misericordia divina, si vedevano i regnanti abdicare, per così dire, al loro scettro, per lasciare a Dio il castigo dei colpevoli, e sedersi al banchetto pasquale della fraternità, vicini ad uomini che fino a qualche giorno prima avevano tenuto in catene nel nome della società. Il pensiero di Dio, di fronte al quale tutti gli uomini sono peccatori, di quel Dio, dal quale soltanto proviene la giustizia ed il perdono, dominava in quei giorni tutte le nazioni; veramente si potevano datare le ferie della grande Settimana alla maniera di certi diplomi di quell’epoca di fede : « Sotto il regno di Nostro Signor Gesù Cristo » : Regnante Domino Nostro Jesu Christo. Forse, tramontati i giorni della santa cristiana uguaglianza, ripugnava ai sudditi riprendere il giogo della sottomissione ai governanti o questi pensavano di approfittare dell’occasione per redigere la carta dei diritti dell’uomo? Niente affatto: lo stesso pensiero che aveva umiliato dinanzi alla Croce del Salvatore i fasci della legale giustizia, rivelava al popolo il dovere d’obbedire ai potenti stabiliti da Dio. Dio era la ragione del potere e, nello stesso tempo, della sottomissione; e le dinastie si potevano succedere, senza che per questo scemasse nei cuori il rispetto dell’autorità. Oggi la santa Liturgia non esercita più quest’influsso sulla società; la religione si rifugia come un segreto in fondo alle anime fedeli; le istituzioni politiche non sono diventate altro che l’espressione della superbia umana che vuole comandare o si rifiuta d’obbedire. Eppure la società del IV secolo, che produsse quasi spontaneamente, per il solo spirito cristiano, le leggi misericordiose che abbiamo menzionate, era ancora mezzo pagana! Mentre la nostra fu fondata dal Cristianesimo, che, solo, ha il merito d’aver civilizzato i nostri padri barbari; e noi chiamiamo progresso questo cammino a ritroso di tutte le garanzie di ordine, di pace e di moralità che avevano ispirato i legislatori? E quando rinascerà la fede dei padri, che sola può restaurare dalle basi le nazioni? Quando i saggi di questo mondo la finiranno con le loro utopie, che non hanno altro risultato che di assecondare quelle funeste passioni, che i misteri di Gesù Cristo, rinnovantisi in questi giorni, condannano così solennemente?
L’abolizione della schiavitù.
Se lo spirito di carità e il desiderio d’imitare la misericordia divina ottenevano dagl’imperatori cristiani la liberazione dei prigionieri, schiavi, nei giorni in cui Gesù Cristo si degnò restituire col suo sangue la libertà a tutto il genere umano. La schiavitù, figlia del peccato ed istituzione fondamentale del mondo antico, era stata colpita a morte dalla predicazione del Vangelo; ma toccava ai singoli abolirla, a mano a mano, con l’applicazione del principio della fraternità cristiana. Come Gesù Cristo ed i suoi Apostoli non ne avevano richiesto l’abolizione di punto in bianco, così i prìncipi cristiani s’erano limitati a favorirla con le leggi. Ne abbiamo un esempio nel Codice di Giustiniano, che dopo aver interdetti i processi durante la grande Settimana e quella successiva, ingiunge la seguente disposizione: « È inoltre permesso concedere la libertà agli schiavi, e qualsiasi atto necessario alla loro liberazione non sarà ritenuto contravvenire alla legge » (Cod.1.3, tit. XII, de feriis, Leg. 8). Del resto, con una simile caritatevole misura, Giustiniano non faceva altro che applicare alla quindicina di Pasqua la legge di misericordia apportata da Costantino all’indomani del trionfo della Chiesa, la quale proibiva ogni processo la Domenica, salvo quello che mirava alla libertà degli schiavi. – Molto tempo prima della pace costantiniana, la Chiesa aveva provveduto agli schiavi nei giorni che si svolgevano i misteri della redenzione universale. I padroni cristiani dovevano lasciarli godere d’un completo riposo durante la sacra quindicina. La legge canonica introdotta nelle Costituzioni Apostoliche, che è una collezione compilata prima del IV secolo, è di questo tenore : « Durante la grande Settimana che precede il giorno di Pasqua, e per tutta la seguente, si lascino a riposo gli schiavi, perché la prima è la settimana della Passione del Signore, e la seconda quella della sua Risurrezione, durante le quali bisogna istruirli su tali misteri » (Costit. Apost., I. 8, c. XXXIII).
Le opere di carità.
Infine, ancora una caratteristica dei giorni ai quali ci avviciniamo, è una più abbondante elemosina ed una maggior frequenza delle opere di misericordia. S. Giovanni Crisostomo ce l’attesta per il suo tempo, e ce lo fa notare nell’elogio che tesse di molti fedeli, i quali raddoppiavano le loro elargizioni verso i poveri, per avvicinarsi il più possibile alla munificenza divina che stava per prodigare senza misura i suoi benefici all’uomo peccatore.
Capitolo II
Misteri e riti.
La Liturgia è piena di misteri in questo tempo nel quale la Chiesa celebra gli anniversari di sì meravigliosi avvenimenti; ma riferendosi per lo più a riti e cerimonie propri d’alcuni giorni particolari, ne tratteremo a misura che si presenterà l’occasione. Intendiamo qui solamente dedicare alcune parole, alle costumanze della Chiesa nelle due prossime settimane.
Il digiuno.
Non abbiamo nulla da aggiungere a quanto abbiamo esposto sul mistero dei quaranta giorni; il periodo dell’espiazione perdura nel suo corso fin quando il digiuno degli uomini non abbia raggiunta la durata di quello che fece l’Uomo-Dio nel deserto. I fedeli di Cristo continuano a combattere, sotto l’armatura spirituale, i nemici invisibili della salvezza; assistiti dagli Angeli della luce, essi lottano corpo a corpo con gli spiriti delle tenebre, mediante la compunzione del cuore e la mortificazione della carne.
Tre obiettivi.
Tre fatti assillano specialmente la Chiesa durante la Quaresima : la Passione del Redentore, di cui abbiamo avvertito l’avvicinarsi di settimana in settimana: la preparazione dei Catecumeni al Battesimo, che sarà conferito la notte di Pasqua ; e la riconciliazione dei pubblici Penitenti, ai quali la Chiesa riaprirà le porte il Giovedì Santo. Ogni giorno che passa si sentono sempre più vive queste tre grandi preoccupazioni della Chiesa.
La Passione.
Gesù, risuscitando Lazzaro in Betania, alle soglie di Gerusalemme, fece giungere al colmo la rabbia dei suoi nemici. Il popolo è impressionato nel veder ricomparire per le vie della città questo morto quatriduano; si chiede se il Messia opererà prodigi maggiori, e non sia giunto finalmente il tempo di cantare Osanna al Figlio di David. Fra poco non sarà più possibile contenere l’entusiasmo dei figli d’Israele. I pìncipi dei sacerdoti e gli anziani del popolo non hanno più un minuto da perdere, se vogliono impedire che Gesù di Nazaret venga proclamato re dei Giudei. Stiamo quindi per assistere ai loro infami consigli; il sangue del Giusto sarà venduto e pagato in denaro contante; la Vittima divina, tradita da un suo discepolo, sarà giudicata, condannata, immolata. Le circostanze di questo dramma non saranno più un semplice oggetto di lettura, perché la Liturgia li rinnoverà nella maniera più espressiva davanti agli occhi del popolo cristiano.
I Catecumeni.
Ancora poco tempo rimarranno a desiderare il santo Battesimo i Catecumeni, l’istruzione dei quali va completandosi di giorno in giorno; le figure dell’antica alleanza fra poco finiranno di passare davanti a loro, e non avranno più niente da impararvi sui misteri della salute. Sarà ad essi consegnato allora il Simbolo della fede; iniziati così alle grandezze ed alle umiliazioni del Redentore, attenderanno insieme ai fedeli l’istante della sua Risurrezione; e noi li accompagneremo coi nostri voti ed i nostri canti nell’ora solenne in cui, immersi nella salvifica piscina, e lasciate tutte le loro sozzure nelle acque rigeneratrici, risaliranno puri e radiosi a ricevere i doni dello Spirito Santo e la santa Comunione della carne dell’Agnello che non morrà mai più.
I Penitenti.
Avanza a grandi passi, anche la riconciliazione dei Penitenti, che sotto il cilizio e la cenere perseguono l’opera della loro espiazione. Si continueranno a fare loro le consolanti letture intese, altre volte, e sempre più disseteranno le loro anime. L’immolazione dell’Agnello che s’avvicina aumenta la loro speranza, perché sanno che il sangue dell’Augello ha una virtù infinita e cancellerà tutti i loro peccati. Prima che il liberatore risorga, essi avranno ricuperata l’innocenza perduta; il perdono sarà loro anticipato in tempo utile per assidersi, fortunati figli prodighi, alla mensa del Padre di famiglia, nello stesso giorno in cui egli dirà agl’invitati: « Ho bramato ardentemente di mangiare con voi questa Pasqua» (Lc. XXII, 15).
Il lutto della Chiesa.
Tali sono in breve le auguste scene che ci attendono; ma nello stesso tempo vedremo la santa Chiesa inabissarsi sempre più nella sua luttuosa tristezza. Fino a poco fa piangeva i peccati dei suoi figli; ora comincia a piangere la morte dello Sposo celeste. Da molto tempo ha già bandito dai suoi inni l’Alleluia; ma arriverà al punto di sopprimere anche la lode alla SS. Trinità, con la quale chiude ogni Salmo. Eccetto i giorni nei quali si celebra la memoria di qualche Santo, la cui festa potrebbe ancora incontrarsi fino al sabato di Passione, la Chiesa ometterà, prima in parte, poi totalmente, perfino quelle parole che amava tanto ripetere: « Gloria al Padre, al Figliolo e allo Spirito Santo »! – Le letture del Mattutino sono prese da Geremia. Il colore dei paramenti liturgici è sempre quello della Quaresima; ma quando si giungerà al Venerdì Santo, il violaceo sarà sostituito dal nero, come quando si piange il trapasso d’un mortale; in questo giorno infatti è morto il suo Sposo: sono stati i peccati degli uomini ed i rigori della giustizia divina che pesando sopra di lui, gli hanno fatto rendere l’anima al Padre, fra gli orrori dell’agonia.
Riti Liturgici.
Nell’attesa di quest’ora, la santa Chiesa manifesta i suoi dolorosi presentimenti velando anticipatamente l’immagine del divino Crocifisso. La stessa Croce s’è resa invisibile ai fedeli, scomparendo dietro un velo (L’uso si ricollega verosimilmente all’idea dell’antica pubblica penitenza. Sappiamo, infatti, che i pubblici penitenti, dal mercoledì delle Ceneri fino al Giovedì Santo, erano espulsi dalla Chiesa. Abbandonata la pubblica penitenza, si pensò di stendere un drappo fra l’altare e la navata centrale d’ogni chiesa per far comprendere a tutti i fedeli che senza penitenza non potevano arrivare alla visione di Dio. Soppresso poi il « drappo della Quaresima », si cominciarono a coprire i crocifissi e le statue; solo però nel tempo di Passione). Non si vedranno più le immagini dei Santi, perché è giusto che il servo si nasconda, quando si eclissa la gloria del Padrone. Gl’interpreti della Liturgia insegnano che l’austera usanza di velare la Croce nel tempo di Passione significa l’umiliazione del Redentore, che fu costretto a nascondersi per non essere lapidato dai Giudei; come leggeremo nel Vangelo della Domenica di Passione. – La Chiesa applica tale prescrizione fin dai Vespri del sabato, e con tale severità, che negli anni in cui la festa dell’Annunciazione cade nella settimana di Passione, l’immagine di Maria, Madre di Dio, rimane coperta, sebbene sia il giorno in cui l’Angelo la saluta piena di grazia e benedetta fra tutte le donne.
Capitolo III
PRATICA DEL TEMPO DI PASSIONE
E DELLA SETTIMANA SANTA
Contemplazione del Cristo.
Il cielo della santa Chiesa si fa sempre più cupo; non bastano più al suo dolore le tinte severe di cui s’era rivestita durante le quattro passate settimane. Ella sa che gli uomini cercano Gesù e hanno deciso la sua morte; non passeranno dodici giorni, ed i suoi nemici gli metteranno addosso le mani sacrileghe. Lo seguirà sul monte Calvario per raccoglierne l’ultimo suo anelito, e farà porre sul suo corpo esanime la pietra del sepolcro. Non ci dobbiamo quindi meravigliare, se invita i suoi figli, durante questa quindicina, a contemplare Colui che forma l’oggetto di tutti i suoi affetti e di tutte le sue tristezze.
Amore.
Non le lacrime, od una sterile compassione ci domanda la nostra Madre; ma che approfittiamo degl’insegnamenti che derivano dagli avvenimenti della grande Settimana. Essa ci ricorda ciò che il Salvatore disse, salendo il Calvario, alle donne di Gerusalemme che osavano piangerlo al cospetto dei carnefici : « Non piangete sopra di me, ma su di voi stesse e sui vostri figli » (Lc. XXIII, 28). Non che egli rifiutasse il tributo delle loro lacrime, di cui anzi era commosso; ma fu l’amore che sentiva per loro a suggerirgli quelle parole, soprattutto perché voleva vederle ben comprese della grandezza di ciò che si stava adempiendo, nel momento in cui la giustizia di Dio si manifestava così inesorabile verso il peccato.
Penitenza.
Fin dalle precedenti settimane la Chiesa iniziò la conversione del peccatore; ora la vuole perfezionare. Non ci mostra più un Cristo che digiuna e che prega sul monte della Quarantena, ma la Vittima universale che s’immola per la salvezza del mondo. È scoccata l’ora in cui la potenza delle tenebre s’approfitterà del momento che egli le ha Concesso; e il più orrendo dei delitti sarà consumato. Fra qualche giorno il Figlio di Dio sarà dato in potere dei peccatori, che lo uccideranno. Non occorre più che la Chiesa esorti i suoi figli alla penitenza, perché sanno benissimo quale espiazione abbia imposto il peccato; essa è tutta presa dai sentimenti che le ispira la fine d’un Dio sulla terra, ed esprimendo nella liturgia, ci è di guida a quelli che dobbiamo concepire in noi.
Dolore.
Il carattere principale delle preghiere e dei riti della presente quindicina consiste nel profondo dolore di vedere il Giusto conculcato dai suoi nemici fino alla morte, e nella più energica indignazione contro il popolo deicida. David e i Profeti forniranno di solito la base dei testi liturgici. Quanto più il Cristo rivela di sua bocca le angosce della sua anima, tanto più si moltiplicheranno le imprecazioni contro i suoi carnefici. Il castigo della nazione giudaica è descritto in tutto il suo orrore, ed in ciascuno degli ultimi tre giorni ascolteremo il pianto di Geremia sulle rovine dell’infedele città. Conversione. – Prepariamoci dunque a queste forti impressioni troppo spesso ignorate dalla pietà superficiale del nostro tempo. Ricordiamo con quale amore e bontà il Figlio di Dio si diede agli uomini, visse la loro vita, « passò sulla terra facendo del bene » (Atti X, 38); e vediamo ora questa vita tutta tenerezza, condiscendenza ed umiltà, finire con un infame supplizio sul patibolo degli schiavi. Consideriamo da un lato la perversità del popolo peccatore che, in mancanza dei delitti, imputa a colpa i benefici del Redentore, e consuma la più nera ingratitudine con l’effusione d’un sangue innocente e divino; e dall’altro contempliamo il Giusto per eccellenza in preda a tutte le amarezze, con l’anima « triste fino alla morte » (Mt. XXVI, 38), con la maledizione che pesa su di Lui, mentre beve questo calice fino alla feccia, nonostante la sua umile implorazione; il Cielo che rimane inflessibile alle sue preghiere ed ai suoi dolori; e ascoltiamo il suo grido: «Dio mio. Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt. XXVII, 46). È questo ciò che commuove la santa Chiesa, è questo che ella ci offre a contemplare; perché sa che, se saremo compenetrati di quella scena, i legami che avevamo col peccato si scioglieranno da sé, e ci sarà impossibile rimanere ancora complici di tali misfatti.
Timore.
Purtroppo, la Chiesa sa anche la durezza del cuore umano, e come esso ha bisogno di timore per decidersi una buona volta ad emendare la propria vita: ecco perché non ci risparmia nessuna delle imprecazioni che i Profeti mettono in bocca al Messia contro i nemici. Tali anatèmi sono altrettante profezie che s’avverarono alla lettera negli ostinati Giudei; ma stanno anche ad ammonirci che pure il cristiano li deve temere, se persiste, secondo l’energica espressione di S. Paolo, « a crocifiggere Gesù Cristo » (Ebr. VI, 6). Ricordi allora le parole del medesimo Apostolo: « Quanto più acerbi supplizi pensate voi che si meriti chi avrà calpestato il Figlio di Dio, ed avrà tenuto come profano il sangue del testamento col quale è stato santificato, ed avrà fatto oltraggio allo spirito della grazia? Ben sappiamo chi sia Colui che ha detto: – A me la vendetta! Io darò la retribuzione! – ed ancora: – /Il Signore giudicherà il suo popolo -. È cosa terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Ebr. X, 29-31).
Orrore del peccato.
Infatti, niente di più spaventoso, perché nei giorni in cui siamo « egli non ha risparmiato nemmeno il proprio Figliolo » (Rom. VIII, 32), dandoci con tale imperscrutabile rigore la misura di ciò che dovremmo attenderci da Lui, se trovasse ancora in noi il peccato, che lo costrinse ad essere così inesorabile verso il suo diletto Figliolo « oggetto di tutte le sue compiacenze » (Mt. III, 17). Queste considerazioni sulla giustizia verso la più innocente e la più augusta di tutte le vittime, e sul castigo dei Giudei impenitenti, distruggeranno in noi l’affetto al peccato e matureranno quel salutare timore sul quale poggeranno, come sopra un’incrollabile base, una ferma speranza ed un sincero amore.
Virtù del sangue divino.
Infatti, se coi nostri peccati siamo gli autori della morte del Figlio di Dio, è anche vero che il sangue che scorre dalle sue santissime piaghe ha la virtù di lavarci da questo delitto. La giustizia del Padre celeste può solo placarsi mediante l’effusione del sangue divino; d’altra parte la sua stessa misericordia vuole che questo sangue vada a nostro riscatto. Il ferro dei carnefici ha aperto cinque piaghe nel corpo del Redentore: sono cinque sorgenti di salvezza che scorrono ormai sull’umanità a purificare e rinnovare in ciascuno di noi l’immagine di Dio cancellata dal peccato. Accostiamoci dunque con confidenza a glorificare il sangue liberatore che apre al peccatore le porte del cielo, ed il cui valore infinito basterebbe a riscattare milioni di mondi più colpevoli del nostro. Siamo prossimi all’anniversario del giorno in cui esso fu versato; passarono molti secoli da quando scese a bagnare le membra trafitte del nostro Salvatore, e, scorrendo giù giù dall’alto della croce, inzuppò questa terra ingrata: ma la sua potenza è sempre la stessa.
Rispetto e confidenza verso il sangue divino.
Veniamo dunque ad « attingere alle fonti del Salvatore» (Is. XII, 3); e le nostre anime torneranno piene di vita, tutte pure e splendenti di celeste bellezza; non rimarrà in essa la minima traccia delle passate sozzure; ed il Padre ci amerà con lo stesso amore con cui ama il Figlio suo. Non fu forse per ritrovare noi, ch’eravamo perduti, che lasciò morire il Figlio della sua tenerezza? Noi eravamo divenuti preda di satana per i peccati; ed ecco che tutto ad un tratto egli ci strappa dalle sue mani e ci restituisce la libertà. Dio però non usò la forza per sottrarci dal rapitore: allora come siamo diventati nuovamente liberi? Ascoltiamo l’Apostolo : « Siete stati comprati a caro prezzo » (I Cor. VI, 20). E qual è questo prezzo? Ce lo spiega il Principe degli Apostoli : « Non mediante cose corruttibili come l’oro e l’argento, siete stati riscattati, ma col prezioso sangue di Cristo, dell’Agnello immacolato e senza macchia» (I Piet. 1, 18-19). Messo questo sangue divino sulla bilancia della giustizia celeste, l’ha fatta pendere in nostro favore: tanto sorpassava il peso delle nostre iniquità! La forza di questo sangue è riuscita ad abbattere le porte dell’inferno, ha rotto le nostre catene, e « ricomposta la pace fra il cielo e la terra » (Col. 1, 20). Raccogliamo dunque sopra di noi questo sangue prezioso; laviamo in esso tutte le nostre piaghe, e segnamocene la fronte come d’un sigillo indelebile e difensore, affinché nel giorno dell’ira siamo risparmiati dalla spada vendicatrice.
Venerazione della Croce.
Insieme al sangue dell’Agnello che toglie i peccati, la santa Chiesa ci raccomanda di venerare anche la Croce, come l’altare sul quale è immolata la Vittima. Due volte nel corso dell’anno, nella festa dell’Invenzione e dell’Esaltazione, ci sarà mostrato questo sacro legno per ricevere i nostri onori, come il trofeo della vittoria del Figlio di Dio; però in questo momento ci parla solo dei suoi dolori, presentandola come un oggetto d’umiliazione e d’ignominia. Aveva detto il Signore nell’antica alleanza: «Maledetto chi pende dal legno » (Deut. XXI, 23), e l’Agnello che ci salva si degnò affrontare questa maledizione; ma, per ciò stesso, come ci è caro il legno una volta infame! È divenuto lo strumento della nostra salvezza, il pegno dell’amore del Figlio di Dio per noi. Per questo la Chiesa, in nostro nome, Gli dedicherà ogni giorno i più affettuosi omaggi; e noi uniremo alle sue le nostre adorazioni. La riconoscenza verso il Sangue che ci ha riscattati, una tenera venerazione verso la santa Croce, saranno dunque, durante questi quindici giorni, i sentimenti che occuperanno particolarmente i nostri cuori.
Amore per Cristo.
Ma che faremo proprio per l’Agnello, per colui che ci dà il suo sangue ed abbraccia con tanto amore la croce della nostra liberazione ? Non è forse giusto che ci attacchiamo ai suoi passi e, più fedeli degli Apostoli al momento della sua Passione, lo seguiamo giorno per giorno, ora per ora, nella Via dolorosa? Gli terremo fedele compagnia, in questi ultimi giorni in cui s’è ridotto a nascondersi agli sguardi dei suoi nemici; invidieremo la sorte di quelle poche famiglie devote che l’accolgono fra le loro pareti, esponendosi con la coraggiosa ospitalità a tutta la rabbia dei Giudei; compatiremo gli affanni della più tenera delle madri; penetreremo col pensiero nel Sinedrio, dove si macchina la congiura contro la vita del Giusto. Ad un tratto l’orizzonte sembrerà illuminarsi un istante, ed ascolteremo il grido dell’Osanna risuonare per le strade e per le piazze di Gerusalemme. Tale inatteso trionfo del Figlio di David, le palme, le voci innocenti dei fanciulli, daranno tregua per un istante ai nostri presentimenti. Il nostro amore s’unirà al tributo d’omaggio reso al Re d’Israele che visita con una tale dolcezza la figlia di Sion, affinché sia adempiuto l’oracolo profetico; ma queste gioie avranno poca durata, e ricadremo subito nella tristezza!
Meditazione della Passione..
Giuda non tarderà a mercanteggiare l’odioso baratto; finalmente arriverà l’ultima Pasqua ed il simbolo dell’agnello sparirà alla presenza del vero Agnello, di cui la carne ci sarà data in cibo ed il sangue in bevanda. Questa sarà la Cena del Signore. Vestiti degli abiti nuziali, prenderemo posto fra i discepoli, perché è il giorno della riconciliazione nel quale si riuniscono intorno ad una stessa mensa il peccatore pentito e il giusto sempre fedele. Ma il tempo stringe: ci dobbiamo incamminare all’orto del Getsemani; là potremo calcolare il peso delle nostre iniquità alla vista del deliquio del Cuore di Gesù, che n’è tanto oppresso da domandar grazia. Ecco, che, nel cuor della notte, le guardie e le soldatesche, guidate dal traditore, catturano i Figlio dell’Eterno; e le legioni angeliche che lo adoravano rimarranno quasi disarmate dinanzi a tale misfatto. Comincerà allora la serie delle ingiustizie che avranno per teatro i tribunali di Gerusalemme: la menzogna, la calunnia, le debolezze del governatore romano, gl’insulti delle guardie e dei soldati, i tumultuosi schiamazzi d’una plebaglia ingrata e crudele; tali i fatti che s’addenseranno nelle rapide ore che passeranno dall’istante in cui il Redentore sarà preso dai suoi nemici fino a quando salirà, sotto il peso della croce, la collina del Calvario. Vedremo da vicino tutte queste cose; il nostro amore non potrà allontanarsi in quei momenti in cui, fra tanti oltraggi, il Redentore tratta il grande affare della nostra salvezza. Finalmente, dopo gli schiaffi e gli sputi, dopo la sanguinosa flagellazione, dopo l’obbrobriosa crudeltà della coronazione di spine, ci metteremo in cammino sulle orme del Figlio dell’Uomo; e sulle tracce del suo sangue ne riconosceremo i passi. Dovremo irrompere fra la calca d’un popolo che brama il supplizio dell’innocente, per sentire le imprecazioni vomitate contro il Figlio di David. Giunti sul luogo del sacrificio, vedremo coi nostri occhi l’augusta Vittima spogliata delle sue vesti, inchiodata sul legno su cui dovrà spirare, ed innalzata in aria fra il cielo e la terra, quasi per essere più esposta agl’insulti dei peccatori. Ci accosteremo all’Albero della vita per non perdere neppure una goccia del sangue che purifica, e neppure una parola che, a tratti, il Redentore farà giungere if no a noi. Compatiremo la Madre sua, il cui cuore sarà trafitto dalla spada del dolore ; e presso di Lei saremo nel momento in cui Gesù, prima di spirare, ci affiderà alla sua tenerezza di madre. Quindi, dopo tre ore d’agonia, lo vedremo inclinare il capo e ne riceveremo l’ultimo respiro.
Fedeltà.
Ecco quello che ci resta: un corpo contuso e senza vita, e delle membra insanguinate e irrigidite dal freddo della morte. È questo il Messia che con tanta allegrezza avevamo salutato quando venne in questo mondo ? Non è bastato a Lui. Figlio dell’Eterno, « annientarsi fino a prendere forma di schiavo » (Filip. II, 7); questa nascita nella carne era solo il principio del suo sacrificio; e il suo amore lo doveva spingere fino alla morte, ed alla morte di croce. Sapeva che non avrebbe ottenuto il nostro amore, se non a prezzo d’una immolazione così generosa ; ed il suo cuore non si è rifiutato. « Amiamo dunque Dio, dice S. Giovanni, perché Egli per il primo ci ha amati (I Gv. IV, 19). È la mèta che si propone la Chiesa in questi solenni anniversari. Dopo avere abbattuta la superbia ed ogni resistenza con lo spettacolo della divina giustizia, sprona il nostro cuore ad amare finalmente Colui che s’è offerto in vece nostra a subirne i duri colpi. Guai a noi, se questa grande settimana non apportasse alle nostre anime un giusto ritorno verso Colui che aveva tutti i diritti d’abbominarci, e che invece ci ha amati più di se stesso! Diciamo dunque con l’Apostolo : « La carità di Cristo ci stringe, persuasi come siamo ch’Egli è morto per tutti, affinché quelli che vivono non vivano già per loro stessi, ma per Colui ch’è morto e risuscitato per essi » (II Cor. V, 14-15). Tale fedeltà dobbiamo a chi fu nostra vittima, e che fino all’ultimo istante, invece di maledirci, non cessò mai d’implorare ed ottenere per noi misericordia. Un giorno riapparirà sulle nubi del cielo e « gli uomini vedranno, dice il Profeta, chi hanno trafitto » (Zac. XII, 10). Possiamo anche noi essere fra coloro, ai quali la vista delle cicatrici delle sue piaghe ispirò confidenza, avendo riparato col loro amore ogni reato di cui s’erano resi colpevoli verso il divino Agnello!
Confidenza.
Speriamo dalla misericordia di Dio che i santi giorni in cui entriamo producano in noi quella felice trasformazione che ci permetta, quando suonerà l’ora del giudizio di questo mondo, di sostenere senza tremare lo sguardo di Colui che sarà calpestato dai piedi dei peccatori. La morte del Redentore sconvolge tutta la natura: il sole meridiano s’oscura, la terra trema dalle fondamenta, le rocce si spaccano: che ne siano scossi anche i nostri cuori, e dall’indifferenza passino al timore, dal timore alla speranza, infine dalla speranza all’amore; affinché dopo essere discesi col nostro liberatore negli abissi della tristezza, meritiamo di risalire con lui alla luce, irradiati dagli splendori della sua Risurrezione che, recandoci il pegno d’una vita nuova, non potranno più estinguersi in noi.