Introitus Is LXVI:10 et 11.
Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]
Ps CXXI:1.
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].
Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. – Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].
Orémus. Concéde, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal IV:22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”. [Fratelli: Sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla líbera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, mentre quello della líbera in virtú della promessa. Cose queste che sono state dette per allegoria. Poiché questi sono i due testamenti. Uno dal monte Sínai, che génera schiavi: esso è Agar: il Sínai infatti è un monte dell’Arabia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è serva insieme coi suoi figli. Ma quella Gerusalemme che è lassú, è líbera, ed è la nostra madre. Poiché sta scritto: Rallégrati, o sterile che non partorisci: prorompi in lodi e grida, tu che non sei feconda, poiché molti piú sono i figli dell’abbandonata che di colei che ha marito. Noi perciò, o fratelli, come Isacco siamo figli della promessa. E come allora quegli che era nato secondo la carne perseguitava colui che era secondo lo spírito, cosí anche al presente. Ma che dice la Scrittura? Metti fuori la schiava e suo figlio: poiché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della líbera. Per la qual cosa, o fratelli, noi non siamo figli della schiava, ma della líbera: e di quella libertà a cui Cristo ci ha affrancati.]
– R. Deo gratias.
Graduale Ps CXXI: 1, 7
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].
Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. [V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]
Tractus Ps. CXXIV:1-2
Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem. [Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]
Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum. [V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Gloria tibi, Domine!
Joann VI:1-15
“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilaeæ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.” [In quel tempo: Gesú se ne andò di là del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una gran folla, perché vedeva i miràcoli da lui fatti a favore dei malati. Gesú salí quindi sopra un monte: ove si pose a sedere con i suoi discépoli. Ed era vicina la Pasqua, festa dei Giudei. Alzando gli occhi, Gesú vide che una gran folla veniva da lui, e disse a Filippo: Dove compreremo pane per cibare questa gente? E lo diceva per métterlo alla prova, perché egli sapeva cosa stava per fare. Filippo gli rispose: Duecento danari di pane non bàstano per costoro, anche a darne un píccolo pezzo a ciascuno. Gli disse uno dei suoi discépoli, Andrea fratello di Simone Pietro: C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci: ma che è questo per tanta gente? Ma Gesú disse: Fate che costoro si méttano a sedere. Vi era molta erba sul posto. E quegli uòmini si mísero a sedere, ed erano quasi cinquemila. Gesú prese dunque i pani, rese grazie, e li distribuí a coloro che sedevano: e cosí fece per i pesci, finché ne vòllero. Saziati che fúrono, disse ai suoi discépoli: Raccogliete gli avanzi, onde non vàdano a male. Li raccòlsero ed empírono dòdici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che érano avanzati a coloro che avévano mangiato. E questi, quindi, veduto il miràcolo fatto da Gesú, díssero: Questi è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesú, sapendo che sarébbero venuti a prénderlo per forza, per farlo re, fuggí di nuovo da solo sul monte.]
Laus tibi, Christe! – S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.
OMELIA
Omelia della DOMENICA IV DI QUARESIMA
[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]
(Vangelo sec. S. GIOV. VI,1-15)
– Parola di Dio. –
La parola di Dio, chiamata dal savio onnipotente, operò cose grandi tanto nell’ordine di natura, quanto in quel della grazia. Nell’ordine di natura chiamò dal sen del nulla e sole e luna e stelle e mare e terra, e quanto vi ha di creature nell’universo, “Ipse dixit, et facta sunt” (Ps. XLVIII). Nell’ordine della grazia sparsa per mezzo di poveri pescatori, convertì e riformò tutto il prevaricato mondo. La stessa divina parola attirò sempre le turbe a seguitar Gesù Cristo, e nel Vangelo odierno in numero di quasi cinquemila lo seguono in solitario deserto, dimentiche di ogni cibo, e di ogni ristoro; onde meritarono d’essere saziate dal pietosissimo Salvatore colla celebre prodigiosa moltiplicazione di pochi pani. Ora perché la medesima parola in una gran parte dei fedeli non produce gli stessi effetti? Perché non crea in noi un nuovo cuore, perché non riforma il nostro costume, perché non ci spinge a seguitar Gesù Cristo, ad imitarne suoi esempi e ad osservare i suoi precetti? Ecco, s’io ben m’avviso, il perché. Credesi da taluni che l’udir la partita di Dio sia cosa di supererogazione, così che l’ascoltarla sia bene, e non sia male il non ascoltarla. Errore egli è questo, dannevole errore. La parola di Dio o udita, o letta, o meditata è di assoluta indispensabile necessità. – Di questa necessità io spero convincervi, se mi degnate della solita cortese vostra attenzione. – Non si può meglio approvare la necessità della divina parola, che dall’oracolo dell’incarnata sapienza Cristo Gesù. L’uomo, dice Egli, non vive di solo pane, ma vive di quelle parole che escono dalla bocca di Dio. “Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo, quod precedit de ore Dei” (Matth. IV, 4), e vuol dire: l’uomo è composto d’anima e di corpo; acciò egli viva della vita naturale e sensitiva, gli è necessario il pane, o qualunque altro cibo, che va inteso sotto di questo nome: e affinché viva della vita dell’anima, è necessario si pasca di un cibo confacente all’anima, ch’è puro spirito, di cibo cioè spirituale, qual è precisamente la parola di Dio. Da ciò ne segue che, siccome mancando al corpo il materiale alimento, perde le forze, e vien meno, così mancando all’anima l’alimento spirituale della divina parola, conviene che perda forza, vigore e la vita di grazia. “Ma noi, potete qui interrompermi e dire, noi frequentiamo la divina parola, noi accorriamo alle prediche, ai catechismi, alla spiegazione del Vangelo, e pure ci troviamo sempre deboli, incostanti nel bene, facili al male, vuoti di virtù, pieni di difetti e di peccati. Onde viene, che da questo cibo dell’anima, l’anima non ne riporti alcun giovamento?” Potrebbe darsi, che ne fosse la causa quella che passo ad indicarvi. Altro è vedere una mensa imbandita di squisite vivande, altro è pascersene e ristorarsene. Se venite alla spiegazione del santo Vangelo, se vi conducete alla predica per mera curiosità, per semplice intrattenimento, se udite con gusto il sacro oratore sol quando vi diletta con bei concetti, con sublimi pensieri, con i tratti di fina eloquenza, voi in tal caso cogli occhi della mente vedete il cibo bensì, ma non lo tramandate allo stomaco, pascete l’intelletto, ma il cuore resta digiuno. E che giova portare il pane sul capo, e non servirsene per nutrimento? Rammentatevi il panettiere di Faraone. Sì sognò costui, e destato cercava un interprete che gli spiegasse il suo sogno. Lo aveva seco nella medesima carcere, cioè il giovanetto Giuseppe. Ad esso dunque rivolto, “mi pareva, gli disse, di portar sul capo tre canestri ripieni di lavori di finissimo pane per fornirne la mensa reale. Mentre m’incammino alla reggia, ecco una torma di rapaci avvoltoi, che via mi porta il lavorato pane, e vuoti mi lascia i canestri”. “Infelice, rispose Giuseppe, ti sei sognata la tua morte. Dopo tre giorni sarai decapitato, e il tuo corpo sospeso ad un legno sarà pasto dei corvi e degli sparvieri”. Chiunque ascolta la parola di Dio, per genio di curiosità, o per prurito di critica, chiunque la legge per passatempo, o per pura applicazione di studio, costui porta il pane sulla testa, come il servo del Faraone, sopravvengono poi distrazioni, affari, pensieri, che come avvoltoi si portano via la memoria dell’udita o letta divina parola. Passa la cosa come un sogno fuggiasco, ma è indizio di morte. Sarà dunque per noi inutile il mistico pane della divina parola, se giusta la frase del magno Gregorio “cibus mentis est sermo Dei: et quasi acceptus cibus stomacho languente reiicitur, quando auditus sermo, in ventre memoriæ non tenetur” (Hom. 15 in Evang.), non si manda allo stomaco se non si ritiene nel cuore e nella memoria, acciò sia di conforto e di alimento allo spirito. – Parliamo fuor di figura, uditori miei. La divina parola, perché sia vantaggiosa, dev’essere applicata a noi stessi ed ai nostri spirituali bisogni. Iddio ci fa sentire per mezzo dei suoi ministri, che il peccato sarà la nostra rovina temporale ed eterna; bisogna lasciarlo; che una vita da buon cristiano ci assicurerà il premio di vita eterna: bisogna abbracciarla; che quell’amicizia strascina all’inferno: bisogna troncarla; che l’odio a quel nemico ci fa nemici di Dio, bisogna deporlo; che colla roba di altri non si entra in cielo: bisogna restituirla. E così andate dicendo di tutti gli altri doveri da osservarsi, consigli da seguirsi, mezzi da praticarsi per la nostra salvezza che Dio ci propone per mezzo della sua parola. – Conferma lo Spirito-Santo la necessità di questa parola. “La celeste Sapienza, dice Egli, pascerà l’uomo giusto col pane della vita e dell’intelletto”, “cibabit illum panæ vitæ, et intellectus” (Eccl.). Che la parola di Dio si chiami pane di vita, è facilmente intesa l’allegoria, come abbiamo veduto dal bel principio. Ma come si spiega, ch’ella anche sia pane d’intelletto? – Seguite ad ascoltarmi. La nostra volontà, insegnano i Teologi, per naturale necessaria prudenza è portata a cercare in tutte le cose il proprio bene, la propria felicità. Ma dessa è cieca. Chi le presta gli occhi, chi le serve di guida? L’intelletto … Se questo è illuminato dalle verità della fede, dalla luce dell’Evangelio, guida la volontà nella via retta, nella strada della salute; se è abbagliato da un falso lume, tira la cieca volontà nel proprio inganno; ond’ella a guisa di fanciullo stringe un ferro arroventato, perché lo vede lucente. Egli è dunque della massima ed estrema importanza, che l’intelletto sia fornito di quei lumi, che discendono dal Padre dei lumi, che non soggiacciono ad errore , che si contengono nella divina parola. – Volete vedere la differenza che passa tra un intelletto illuminato dalle verità della divina parola, ed un altro cui manca la luce delle medesime verità? Uditemi, e vie più ne comprenderete la necessità. – Dalla parola di Dio ha origine la fede, “Fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi” (Ad. Rom. X, 17). Un intelletto illuminato dalla fede per mezzo di questa parola va talora pensando, e pensar deve così: “io son posto da Dio su questa terra. Ed a che fine? Il mio fine non può essere cosa terrena. Me lo dice l’esperienza, poiché niun bene terreno può contentar il mio cuore. Me lo dice la morte, che fra non molto mi spoglierà di tutto. Col taglio suo fatale manderà il corpo alla tomba, l’anima all’eternità. Il primo passo è ad un tribunale tremendo, ove si deve decidere della mia eterna sorte. Chi mi potrà far buona causa a quel tribunale? Non l’oro, non il grado, non le scienze, non il mondo tutto: solo l’opere buone colà mi seguiranno: solo il peccato verrà meco, e solo il peccato può farmi avere il mal incontro. Il peccato dunque è quel nemico che debbo unicamente temere. Ma questo nemico con quali armi potrò vincerlo, e tenerlo da me lontano?” Coll’armatura di Dio, mi dice l’Apostolo (Ad Eph. VI), collo scudo della fede, colla spada della divina parola, coll’usbergo della giustizia, con l’esercizio delle cristiane virtù. – Ecco come pensa l’uomo cristiano illuminato, e pasciuto del pane di vita e d’intelletto. – Per l’opposto un intelletto digiuno di questo cibo, privo di questa luce, oscurato dalle tenebre, come dice S. Paolo, non distingue il falso dal vero, chiama bene il male, e male il bene, e a guisa di un fanciullo corre dietro ad una lucciola, perché la vede risplendere. Qual meraviglia se un cieco inciampa, se urta in un muro, se cade in una fossa? Giuseppe, perché à sana la vista dell’intendimento, teme Iddio, ha in orrore il delitto, e fugge dall’ impudica padrona. Sansone, perché ha la benda agli occhi, cade nelle reti di Dalida traditrice. Zaccheo, perché illuminato da Gesù Cristo, restituisce il quadruplo del mal tolto. Giuda, perché accecato dall’avarizia, vende per pochi denari il suo divino Maestro. Tutto dipende dal lume dell’intelletto. Senza di questo, dice Davide, l’ uomo è simile ai più stolidi giumenti, “sicut equus et mulus, quibus non est intellectus” (Ps. XXXI, 9). E per ciò convinto lo stesso, e persuaso della necessità di questa luce suprema, “Signore, dice, voglio che la vostra parola, come un’accesa lucerna vada innanzi a’ piedi, e sia di fida scorta a’ passi miei, “lucerna pedibus meis verbum tuum, et lumen semitis meis” (Ps. CXVIII, 103). – E nel Salmo centesimo decimo ottavo ripete più volte, datemi il dono dell’intelletto, o mio Dio, se volete che osservi i vostri precetti, se volete che io viva della vita della vostra grazia: “Da mihi intellectum, et discam mandata tua. Intellectum da mihi, et vivam”. – “Ma che vuol dire, voi ripigliate, che al sentire, o leggere la parola di Dio, restiamo benissimo penetrati da quelle luminose Verità; ma poco dopo svanisce il lume, e ci lasciamo abbagliare dal falso splendore, delle umane apparenze?” Vi risponde S. Giovanni Grisostomo, che su quelle parole del re Salmista, “lucerna pedibus meis verbum tuum”, riflette così: “In due modi si estingue una lucerna,o per mancanza di olio, o perché si tiene esposta al vento di rincontro a porte e finestre: “Spiritus æque ac lucerna extinguitur, si aut olei parum habueris, vel ostium non occluseris” (Ap. Corn. In I ad Thessal., cap. 5, n. 52).Non altrimenti nella lettura di libri divoti, in ascoltar prediche vi sentite accesi in ispirito di fervore, una luce rischiara la vostra mente, una fiamma accende il vostro cuore. Ma se a questa fiamma lasciate mancar l’alimento, se non seguite a nutrirla con assidue letture, con meditazioni frequenti, con frequenza alle prediche, alle spiegazioni, verrà meno la fiamma, sparirà la luce, resterete all’oscuro. Se poi con tutto lo studio, l’applicazione, e l’assiduità alla parola di Dio, lascerete aperte le finestre dei vostri sensi a tutto vedere, a tutto udire, e di tutto parlare, si estinguerà in voi la fiamma e la luce, camminerete in mezzo alle tenebre, e non potrete aspettarvi se non cadute e precipizi. – Udite su quest’ultimo, come in epilogo, le verità che vi venni esponendo. Udite la risposta, che Gesù Cristo diede ad una certa donna, che dal mezzo della turba alzò la voce esclamando: “Beato il ventre che vi portò, e il seno che vi diede nutrimento”, “anzi, le disse, beati coloro che ascoltano e custodiscono la divina parola”, “Beati qui audiunt verbum Dei, et custodiunt illud” (Luc. XI, 28). Tre brevi riflessioni su queste parole dell’incarnata Sapienza. Beati, non quei che hanno ascoltata, o che ascolteranno, ma quei che ascoltano; quei cioè, che per una continua frequenza di leggere, di meditare, di udire la divina parola, sono come in attuale esercizio di ascoltarla: “Beati qui audiunt”. Beati in secondo luogo quei che l’ascoltano non come parola dell’uomo, vale a dire che non riguardano il sublime o l’infimo del canale, da cui deriva, ma unicamente come parola di Dio: “Beati qui audiunt verbum Dei”. Beati finalmente quei che la custodiscono, che se ne pascono come d’ un pane, vivifico, e la tramandano al cuore, e la convertono in propria sostanza. Ella è una fiamma lucente, beati quelli che porgono costante alimento, e con gelosa custodia la conservano, nella mente e nel cuore: “Beati qui custodiunt illud”. Praticate voi così, uditori miei cari, e sarete beati nel tempo e nell’eternità, come io vi desidero.
CREDO …
Offertorium
V. Dóminus vobíscum. – R. Et cum spíritu tuo.
Orémus Ps CXXXIV:3, 6
Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra. [Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]
Secreta
Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quaesumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.
Communio Ps CXXI:3-4
Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine. [Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]
Postcommunio
S. Dóminus vobíscum. – R. Et cum spíritu tuo.
Orémus. Da nobis, quaesumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. – R. Amen.