Il gran mezzo della preghiera: il PATER NOSTER

IL PATER NOSTER

L’Orazione Dominicale.

[J.-J. Gaume: Il Catechismo di perseveranza, vol II, VI ed. – Torino 1881]

Quantunque l’Orazione Dominicale entri nel novero delle pubbliche preghiere allorquando è offerta a Dio dal sacro ministro a nome di tutto il popolo fedele, tuttavolta noi la mettiamo a capo delle preghiere particolari, dappoiché il Signor Nostro Gesù Cristo la compose, a quanto sembra, principalmente per uso particolare di ogni Cristiano in tutti quei casi, che sì frequentemente ricorrono, nei quali abbiam bisogno d’implorare 1’aiuto del Signore. « Quando tu fai orazione, leggesi in San Matteo, entra nella tua camera, e chiusa la porta, prega in segreto il Padre tuo, orando in tal guisa: Padre nostro, che sei ne’ Cieli, ecc. i » [Matth. VI, 6-9]. – L’Orazione Dominicale, sia che si consideri nel suo Autore, o nella sua forma e sostanza è senza fallo la forma più eccellente di preghiera.

1° Rispetto al suo Autore. Non fu un Santo, né un Profeta, né un Angelo, né un Arcangelo quegli che la compose, ma lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo, il Figlio, l’eterna Sapienza di Dio.

2° Rispetto alla forma. L’Orazione Dominicale è chiarissima e non avvi chi non la comprenda, dal piccolo fanciullo al canuto vegliardo, dal villico al cittadino: ella è breve, ed ognuno può impararla con somma facilità, ritenerla fedelmente, e recitarla di frequente. Questo pregio la rende essenzialmente popolare, e per conseguenza degna di quel Dio che venne a salvare tutti gli uomini, e della Religione che dev’essere predicata così ai liberi come agli schiavi, così ai popoli civilizzati come ai barbari e selvaggi. Essa ha forza di persuadere, piena com’è di semplicità, di umiltà, dì tenerezza, e perciò efficacissima pel modo con cui esprime a Dio le nostre Necessità.

3° Rispetto alla sostanza. Essa è completa; racchiude tutto ciò che noi possiamo e dobbiamo chiedere, nella condizione di figliuoli di Dio, pel tempo e per l’eternità, pel corpo e per l’anima, per noi stessi e per gli altri. Ella è sapientissima, poiché ci rammemora e ci fa porre in pratica le tre virtù che sono le tre basi della Religione, della società, della salute, vale dire, la fede, la speranza, la carità: ella è divinamente logica, poiché regola i desideri del nostro cuore insegnandoci ad esprimere in primo luogo i più nobili ed importanti, e poscia quelli che lo son meno [“In Oratione dominica non solum petuntur omnia quæ recte desiderare possumus, sed etiam eo ordine quo desideranda sunt; ut sic haec oratio non solum instruat postulare, sed etiam sit informativa totius nostri affectus”. D. Tu., 2, 2, q. 85, art. 9.]. – «Infatti, scrive S. Tommaso, egli è palese che l’obbietto precipuo dei nostri desiderii dev’essere l’ultimo fine, e dopo questo i mezzi necessari per giungere al suo conseguimento. Ora, il fine ultimo è Iddio, verso del quale in due modi si portano i nostri affetti: primamente col desiderare la gloria di Dio; e in secondo luogo col bramare per noi pure il godimento di questa istessa gloria divina. Il primo modo appartiene alla carità, mercé la quale noi amiamo Dio in se stesso; il secondo egualmente alla carità, ma in quanto che amiamo noi stessi in Dio. Ed ecco il perché la nostra prima domanda è questa: Sia santificato il nome vostro, con cui chiediamo la gloria di Dio; e la seconda: Venga a noi il regno vostro, colla quale domandiamo di pervenire noi stessi alla gloria di Dio. Ciò premesso, si osservi, che una cosa può guidarci all’ultimo nostro fine, o per se stessa, o in modo accidentale. Per se stessa e direttamente, facendoci meritare la beatitudine eterna, mercé l’obbedienza ai Comandamenti di Dio, donde consegue, che la nostra terza domanda è così concepita: Sia fatta la volontà vostra così in Cielo come in terra; e per se stessa ancora, ma in un modo meno diretto, vale a dire, coll’aiutarci a meritare la beatitudine eterna, quindi la nostra quarta domanda: Dateci oggi il nostro pane quotidiano. Una cosa può condurci all’ultimo nostro fine in modo accidentale, allorquando rimuove gli ostacoli che potrebbero impedire il conseguirlo; e questi ostacoli sono di tre sorta: 1° il peccato che ce ne allontana direttamente, dal che è mossa la nostra quinta domanda: Rimettete a noi i nostri debiti; 2° la tentazione che conduce al peccato, onde la sesta domanda: E non induceteci in tentazione; 3° i mali temporali, funesta conseguenza del peccato, che rendono cotanto gravoso il peso della vita, quindi la nostra settima ed ultima domanda: Ma liberateci dal male! ». [D. TH., 2, 2, q. 83, art. 9]. – Le sette domande dell’Orazione Dominicale corrispondono oltracciò ai sette doni dello Spirito Santo ed alle sette Beatitudini evangeliche, tantoché quest’ammirabile preghiera è in armonia perfetta colla gran tela della Religione, ed ha per iscopo di farci conseguire tutti quegli aiuti che sono indispensabili per fare del Cristiano un uomo perfetto in questo mondo ed un beato nell’altro. La qual considerazione moveva S. Agostino a designare l’Orazione Dominicale con questo sublime concetto: « quel modo e quella regola di pregare che il celeste Giureconsulto ha dato egli stesso ai fedeli, affinché ottengano l’adempimento d’ogni loro voto » [“Regula postulandi fldelibus a codesti Jurisperito data”. Enarr, in Ps. CXLII. – Finalmente ciò che accresce ancora l’eccellenza dell’Orazione Dominicale si è che essa è la più necessaria di tutte le preghiere. Molti Concili, e fra gli altri il Concilio di Roma, obbligano tutti i Cristiani a saperla a memoria, attesoché, secondo la dottrina dei Santi Padri, è necessario farne ciascun giorno la recitazione [E la più necessaria di tutte. BELLAR., Dottr. crist. 71; Concil. Rom., c. 2 . — Nisi qui has duas sententias (Symbolum et Orationem dominicam) et memoriter tenuerit et ex toto corde crediderit, et in oratione saepissime frequentaverit, catholicus esse non poterit. Syn. Remens. VI, e. 7. Vedi pure il Concilio Toletano VI, c. 9. — S. Auc, Enchir. 71. — S. CYPR., De Orat. domin. — « Si è obbligati di necessità di precetto, di sapere almeno quanto alla sostanza: 1° il Simbolo degli Apostoli intieramente; 2° l’Orazione dominicale; 5° i precetti del Decalogo; 4° quei Comandamenti della Chiesa, che sono comuni a tutti i Fedeli; 6° il sacramento del Battesimo, che ogni Fedele può trovarsi nel caso di amministrare, e i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, che si ha obbligo di ricevere almeno una volta all’anno. Per gli altri Sacramenti, la fede esplicita non è necessaria che a chi li riceve. Ma il conoscimento di questi diversi articoli ha diversi gradi: può essere più o meno perfetto, più o meno esteso. Tuttavia non è permesso d’ignorarli interamente. Non vi ha che un difetto di capacità che possa scusare quest’ignoranza da peccato mortale » . GOUSSET, Teol. mor., c. 1, pag. 129: Ediz. Parmense]. – «Vivendo noi, scrive S. Agostino, nel mezzo del mondo, in cui niuno può vivere senza cadere in peccato, la remissione delle nostre colpe trovasi non solo nelle acque sante del Battesimo, ma sì ancora nell’Orazione Dominicale e giornaliera. Essa in certa guisa è il nostro Battesimo di tutti i giorni [Serm. 215 De temp.: Enchir.,c. 71]. – « L’ orazione Dominicale è adunque il rimedio de’ nostri falli quotidiani, vale a dire, dei peccati veniali, purché nel recitarla noi ci troviamo animati da un vero sentimento di contrizione. Egli è conveniente che ogni Fedele sappia questa preghiera nelle due lingue, latina e volgare: in latino, perché questa è la lingua dalla Chiesa; in volgare ossia nella lingua nativa, per intendere ciò che ella domanda.

Divisione dell’Orazione Dominicale.

L’Orazione Dominicale si divide in tre partì: nella prefazione ossia preparazione, nel corpo della preghiera e nella conclusione. La prefazione consta di queste semplici ma sublimi parole: Padre nostro, che sei ne’ Cieli. Il Salvatore avrebbe potuto senza dubbio farci dare a Dio dei titoli più improntati di maestà e più capaci d’infonderci rispettosa temenza; ma questi titoli sarebbero stati cagione che noi continuassimo a crederci gli schiavi del Sinai, mentre dobbiamo all’incontro essere i figli del Calvario. Noi siamo adunque ammaestrati a dire, non già nostro Dio, nostro Creatore, nostro padrone, ma sì: nostro Padre! – Fermiamoci alquanto a meditare questa parola rispetto a Dio, rispetto a noi stessi, rispetto al prossimo. – Rispetto a Dio. Essa eccita mirabilmente la nostra fiducia, rammentandoci che, malgrado il nostro nulla e la nostra miseria, noi siamo figliuoli, non d’un principe, d’un re, d’un monarca terreno, ma bensì di Dio medesimo; e d’altra parte essa muove infallantemente il cuore di Dio col ricordarGli ch’è nostro padre; Padre sott’ogni riguardo, vale a dire, per creazione, per conservazione, per redenzione; padre del nostro corpo, padre dell’anima nostra. « A quella guisa, ne dice il Salvatore con queste tenere parole, che i figli si rivolgono al padre loro in tutti i bisogni, né temono di manifestarglieli per quanto grandi e numerosi; così pure voi dovete ricorrere al vostro Padre celeste, che vi consolerà, allevierà i vostri travagli, avrà pietà di voi, siccome un padre ha pietà dei propri figli ». – Rispetto a noi stessi. Questa parola Padre nostro ci fa risovvenire più eloquentemente d’ogni altro discorso la nobiltà di nostra origine, e perciò ancora tutto il rispetto che dobbiamo avere sì pel corpo che per l’anima nostra, le cure diligenti che dobbiamo osservare onde mantenerci nell’amicizia di Dio e vivere da veri suoi figli, se pur vogliamo ch’Egli ci esaudisca. I peccatori che, secondo l’espressione del Salvatore medesimo, sono i figli del demonio, non possono a buon diritto dare a Dio il nome di Padre, dappoiché non ubbidiscono a’ suoi santi comandamenti; tuttavolta non devono menomamente tralasciare la recitazione dell’Orazione Dominicale; anzi è da dire che neppur essi la recitano senza frutto. Se veramente sono penitenti, essi dicono Padre nostro, come il figliuol prodigo nell’atto di ritornare al padre suo, per ottenere il perdono dei propri falli; se poi sono induriti al mal fare, essi dicono Padre nostro, se non altro, in nome della Chiesa, della quale sono membri mercé la fede e la speranza. – Rispetto al prossimo. La parola Padre nostro esprime la gran legge che ha salvato e che sola può ancora salvare il mondo, la legge cioè della fraternità universale, e c’insegna quello che sono per noi tutti gli nomini, e quello altresì che noi dobbiamo essere per loro. Difatti noi non diciamo Padre mio, ma sebbene Padre nostro, atteso ché noi siamo tutti fratelli e dobbiamo pregare non solo per noi, ma ancora per tutti i cattolici, eretici, giudei, infedeli, amici e nemici, che è quanto dire, amarli di amore veramente fraterno. In questa sola parola Padre nostro racchiudesi l’abolizione, o almeno la condanna di tutte le tirannie, l’esaltazione del piccolo, la protezione del debole, sacrificio del ricco e del potente al sollievo corporale e spirituale de’ suoi fratelli, meno di lui beneficati dei doni di fortuna e d’intelletto; in una parola, comprendesi in essa la carità, base della famiglia, vincolo della società, e pegno della felicità avvenire. Brevemente, noi diciamo Padre nostro, da una parte per attestare che noi preghiamo per tutti e in nome di tutti; d’altra parte, per impegnare il Signore ad accordarci pei meriti altrui quelle grazie che per noi stessi non meriteremmo di ottenere. Padre nostro! Egli è alle tre divine Persone che s’indirizza questa preghiera, dappoiché tutte tre meritano il nome di padre, a motivo della creazione, della redenzione, della santificazione. Che sei ne’ Cieli. Il Dio a cui ricorriamo è dappertutto tuttavolta noi diciamo che sei nei cieli, vuoi perché tutte le magnificenze della gloria colà rifulgono più che altrove, vuoi perché colà egli regna in tutta la pienezza del suo amore sugli Angeli e sui Santi, e vuoi da ultimo per ricordarci continuamente che colà debbono essere i nostri pensieri, i nostri desiderii, lo scopo delle nostre fatiche; in una parola, come dice l’Apostolo, la nostra conversazione: Padre nostro, che sei ne’ Cieli! – Sì, tu sei nei Cieli, nel sommo della felicità, infinitamente ricco, infinitamente potente, infinitamente buono; e noi, tuoi figli, noi siamo sulla terra, in luogo di esilio, lontani dalla nostra patria, dalla nostra famiglia, poveri, deboli, infermi, circondati di nemici e di pericoli. Che di più efficace per intenerire il cuore di Dio? – Che di più opportuno per imprimere nell’animo nostro un’umiltà profonda, un vivo sentimento dei nostri bisogni, e ad un tempo stesso il rispetto filiale, la pietà, la purità, la carità verso i nostri fratelli? E come non verrà esaudita una preghiera che dispone sì bene chi domanda e chi debbe esaudire? Tale si è il proemio dell’Orazione Dominicale. – Ma che cosa dobbiamo noi domandare, e con qual ordine? Pur troppo noi siamo tanto ciechi ed insensibili, che spesso non conosciamo né la natura dei nostri veri bisogni , nè l’ordine giusta il quale dobbiamo chiederne l’alleviamento. Da ciò nasce che noi o non chiediamo cosa alcuna o che chiediamo male. Laonde per ovviare a questa doppia disgrazia il nuovo Adamo ha composto ei medesimo una supplica a nostro uso, nella quale si esprimono gli obbietti delle nostre suppliche e l’ordine da osservarsi nell’implorarli. Ciò posto, la ragione e la fede ne insegnano, che dai figli bennati ed intelligenti gli interessi del padre si debbono anteporre all’utile proprio; ai beni transitori di questo mondo quelli dell’eternità; il fine, in una parola, ai mezzi. E tutto ciò è appunto insegnato in modo ammirabile nella seconda parte dell’Orazione Dominicale. – Difatti il corpo di questa divina preghiera si divide, a guisa del Decalogo, in due parti. La prima riguarda Dio e comprende tre domande: Sia santificato il nome tuo; venga il regno tuo: sia fatta la tua volontà, siccome in Cielo così in terra. La seconda concerne l’uomo e contiene quattro domande: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, con ciò che segue sino alla fine. – Prima domanda: Sia santificato il nome tuo. La prima cosa che domandar si deve è la gloria di Dio, poiché questa è la cosa più eccellente e ad un tempo il più grande di tutti i beni. Qual figli pertanto che di vero cuore desiderano l’onore del proprio padre, noi cominciamo primamente dal chiedere in generale che il nome del celeste Padre nostro, vale a dire, quello di Dio medesimo, che è quanto dire la sua maestà, la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà, la sua misericordia, la sua giustizia siano santificate, conosciute, apprezzate, onorate, rispettate, amate così in terra come in Cielo; ch’è quanto dire, che ad imitazione degli avventurosi abitatori del Cielo tutti gli abitanti della terra onorino, amino, esaltino, lodino colle loro parole e colle azioni, colla fede, colla speranza, colla carità il nome adorabile di Dio. Noi domandiamo specialmente: 1° che gl’infedeli illuminati dalla luce giungano alla cognizione del vero Dio, e siano rigenerati colle acque del Battesimo nel nome del Padre, del Figliuolo, Spirito Santo; 2° che tutte l’eresie vengano estirpate, ed i loro seguaci conoscano ed abbraccino qual vera madre loro la santa Chiesa cattolica, apostolica e romana, fuori della quale non v’ha effusione di Spirito Santo, né remissione dei peccati, né salute eterna; 3° che spariscano dalla faccia della terra le superstizioni, i sortilegi, le pratiche diaboliche, gli spergiuri, le bestemmie e tutti gli altri disordini coi quali il nome di Dio è vilipeso ed oltraggiato; 4° il ritorno dei peccatori sotto il dolce e sacro giogo del nostro Padre celeste; la persuasione sincera che tutti i beni del corpo e dell’anima vengono da Dio; la fedeltà nel riferirli tutti a gloria sua; e finalmente uno zelo religioso di onorare costantemente colle opere nostre la santa Trinità, affinché gli uomini dai nostri scandali non piglino occasione di bestemmiare il santissimo suo nome. E tutto questo noi domandiamo noi non per un giorno, ma per tutta la nostra vita; ovvero, in altre parole, noi chiediamo la perseveranza nel bene fino all’estremo sospiro. – Il desiderio della santificazione del nome di Dio è certamente il più nobile che possa sortire dal cuor dell’uomo, attesoché appunto per questo noi fummo creati e dotati di ragione; ed è eziandio il più ardente e il più costante che sia stato formato dal Signor Nostro stesso, e dietro il suo esempio da tutti i Santi nel corso dei secoli. – Sant’ Ignazio di Lojola rivolto un giorno al P. Laynez gli disse: « Se Iddio lasciasse alla vostra scelta di andar subito in Paradiso, oppure di rimanere ancora sulla terra colla probabilità di operare qualche gran fatto per la gloria del suo nome, a qual dei due vi appigliereste? — Accetterei di andare in Cielo, rispose il P. Laynez. — Quanto a me, riprese il Santo, preferirei di restare quaggiù per fare la volontà di Dio, e renderGli come potessi un qualche servigio. Rispetto alla mia salute, io non dubito punto che Iddio volesse dimenticarmi, e lasciar perire colui che per suo amore avesse volontariamente ritardato il suo ingresso nel Cielo». – Seconda domanda: Venga il regno tuo. Dopo di aver desiderato la gloria di Dio, noi domandiamo che ci sia dato di partecipare della medesima, essendo questo lo scopo pel quale siamo stati creati, e per conseguenza la ragione suprema della Religione, della vita, del tempo, dell’eternità [Matth. VI]. – Osservisi come noi dimandiamo che il regno di Dio venga a noi, e non già che noi andiamo a lui, poiché è necessario che a noi venga il regno della grazia, acciocché possiam giungere a quello della gloria. E infatti il regno di Dio in tre modi si può intendere: regno di natura, regno di grazia, regno di gloria. Il regno di natura è quello pel quale Iddio regge e governa tutti gli esseri creati e tutto quanto l’uman genere. Di questo regnoparla la Scrittura quando dice: Signore, Signore, Re onnipotente, tu facesti il Cielo e la terra e tutto quello che nel giro dei cieli contiensi; in tuo dominio son tutte le cose, e non avvi chi al tuo volere resister possa [Ps. Esther XIII, 9-10] . Noi non chiediamo che questo regno arrivi, perché esso esisté, sin dall’origine del mondo, e gli stessi malvagi, vogliano o non vogliano, non possono sottrarvisi; dimandiamo soltanto la sua manifestazione, e desideriamo che tutti riconoscano, ammirino, benedicano le leggi di quella materna Provvidenza che il tutto dispose in numero, peso e misura; che raggiunge la sua meta con altrettanta forza che dolcezza, ed alla quale tutti devono sottomettersi con filiale rassegnazione. – Il regno di grazia si è quello col quale Iddio regge e governa i cuori e le anime dei fedeli figli della Chiesa, mercé l’azione dello Spirito Santo, e per mezzo delle tre grandi virtù, fede, speranza e carità, le quali conducono ad osservare con piena fedeltà i suoi divini precetti ed a cercare la sua gloria prima di ogni altra cosa. – Il regno di gloria avrà luogo nell’altra vita dopo il generale giudizio. Allora Iddio regnerà coi Santi in tutte le creature senza opposizione di sorta, perché allora ogni potenza sarà stata tolta al demonio ed ai malvagi che insieme incatenati gemeranno nelle prigioni dell’eternità. Allora eziandio sarà distrutto l’impero della morte, della corruzione, delle tentazioni tutte del mondo e della carne che tormentano qui in terra i servi di Dio, tantoché sarà quello un regno tranquillo, pacifico, accompagnato dal godimento certo e sicuro di una felicità sincera e senza fine. – Di quale di questi tre regni affrettiamo noi coi voti la venuta nella terza domanda dell’Orazione Dominicale? Siccome superiormente dicemmo, non già del primo, poich’esso non deve venire, ma è venuto; noi non ne chiediamo nemmeno la continuazione, poiché c’impedirebbe il nostro ultimo fine, che è quello di veder Dio a faccia a faccia per tutta l’eternità. E neppure chiediamo il secondo, attesoché ne esprimemmo il desiderio nella prima domanda, ed è già in gran parte venuto. Domandiamo invece la venuta del terzo che deve venire, regno a cui tutti quelli i quali conoscono le miserie di questa vita ardentemente anelano, e che consiste nella fruizione del sommo bene e nella gloria perfetta del nostro corpo e dell’anima nostra. E siccome questa gloria non sarà perfetta se non dopo il finale giudizio, così noi domandiamo ogni giorno e con intenso affetto la fine di questo mondo e l’arrivo del generale giudizio. Noi domandiamo che questo mondo sì pieno d’iniquità e di disordini sia ben tosto surrogato da nuova terra e da nuovi cieli, in cui regnerà la giustizia, affinché Iddio sia tutto in tutte le cose. E sebbene gli amatori di questo mondo non possano sentire più sgradevole annunzio di quello del finale giudizio, tuttavia noi altri, cittadini del Cielo, che viviamo quaggiù come pellegrini ed esuli, non possiamo e non dobbiamo avere desiderio più grande di quello di vederlo arrivare. Perciò scrive S. Agostino: « Siccome prima che Gesù Cristo venisse al mondo tutti i desideri dei Santi dell’antica Legge s’indirizzavano alla prima venuta di Cristo: così ora tutti i desideri de’Santi della Legge nuova s’indirizzano alla seconda venuta dello stesso Cristo, che ci porterà la perfetta beatitudine» [in Ps. CXVIII,- Bellarm., Dottr. Crist.. p. 79]. Ecco una verità che importa sommamente di richiamare al nostro spirito e a quello degli altri. Nulla è più atto a nobilitare i nostri pensieri quanto la memoria di questo fine sublime al quale noi siamo destinati; nulla è più proprio a farci tollerare coraggiosamente le avversità, a resistere fedelmente alle tentazioni, a disprezzare tutti i beni della terra, quanto il meditare queo gaudii eccelsi che ci aspettano nell’eternità. Oh! sì; un giorno noi regneremo in compagnia del Signor Nostro; addestriamoci pertanto a far da padroni comandando alle nostre passioni, e costringendo il mondo a piegarsi innanzi alla nostra fede. Quale vergogna se altrimenti avvenisse! Forseché col portar le catene dello schiavo si può apprendere ad esser re? – Terza domanda: Sia fatta la volontà tua. Nell’antecedente petizione noi abbiamo domandato la beatitudine eterna, che è il fine ultimo dell’uomo; ed in questa chiediamo il mezzo principale per arrivarvi.Ora questo mezzo, secondo la parola dello stesso Signor Nostro, è di adempiere la volontà del nostro Padre celeste: Se brami di arrivare alla vita, osserva i comandamenti [Matth.XIX,17]. E perché noi non siamo bastanti da noi stessi ad osservare questi divini Comandamenti come si conviene, però noi imploriamo da Dio che sia fatta da noi la sua volontà, cioè che ci dia: 1° la grazia di adempiere la sua volontà, obbedendo in tutto e per tutto a’ suoi santi Comandamenti, imitando in questo l’esempio del nostro divino modello, che umiliò se stesso, fatto ubbidiente sino alla morte, e morte di croce [Philipp. II, 3]; 2° la grazia di accettare, se non con fiducia e con gioia filiale, senza mormorazioni almeno, le pene spirituali e corporali che ci possono affliggere, come la perdita delle sostanze, dei congiunti, degli amici. Infatti, tutte queste cose che Iddio comanda, o permette, tendono al maggior nostro bene; se noi siamo giusti ci aprono più vasto campo a meritare; se non lo siamo ne somministreranno almeno il mezzo di purificarci. – Uomini di poca fede! Che possiam noi chiedere di più vantaggioso che l’adempimento della volontà del nostro Padre? Ei ci ama più teneramente di quello che non ci amiamo noi stessi; la sua volontà è santa, giusta, perfetta. Ohimè! per non averla adempiuta il primo Adamo precipitò in quell’abisso di mali che sono il triste nostro retaggio; adempiendola, noi ce ne libereremo e ne saremo preservati, o questi almeno saranno per noi di tanto minore aggravio, con quanta maggiore esattezza avremo adempiuta questa volontà perfetta; e ciò è così vero che su nel Cielo si gode la pienezza della felicità, posciaché ivi regna tutta sola, eternamente, la volontà di Dio. E questa felicità per ognuno di noi sarà proporzionata a quella fedeltà colla quale avrem fatto la volontà di Dio sulla terra. – Siccome in Cielo, così in terra. Nel chiedere a Dio la grazia di ubbidirGli, noi domandiamo ad un tempo che si degni di render meritoria e degna di Lui la nostra ubbidienza, vale a dire, somigliante a quella degli Angeli e di tutti i Santi cittadini del Cielo. Ora gli Angeli ed i Santi si soggettano alla volontà di Dio con tutta la pienezza dell’amore; obbediscono unicamente perché Dio lo vuole, senza cercare l’amor proprio; adempio noi suoi cenni colla massima prontezza; non si lagnano, non discutono. Ad ogni volere dell’Altissimo essi rispondono con un cantico di lode, con rendimenti di grazie: Santo, Santo, Santo, è il Signore, Dio degli eserciti. E così pure dobbiamo ubbidir noi: Oh! quanto sarebbe dilettevole questa terrena dimora, se tutti quei milioni di umane volontà non avessero in tutte le cose e in tutti i tempi altra volontà che quella di Dio! Quanto a noi almeno, deh! Siano sempre nel nostro cuore e sulle nostre labbra le parole dell’Apostolo San Paolo: «Signore, che volete voi che io faccia?» Quelle del Re Profeta: «Il mio cuore è preparato, o Signore, il mio cuore è preparato». Quelle del santo Giobbe: « Il Signore me lo diede, il Signore me lo tolse, come a Lui piacque così fu fatto, sia benedetto il suo santo nome ». Quelle finalmente dello stesso divino nostro Maestro: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice: tuttavolta sia fatta la vostrae non la mia volontà ». – Tale si è la prima parte dell’Orazione Dominicale; e quando vogliansi considerare nel loro obbietto, nulla è più sublime delle tre domande di cui essa consta, nulla è più logico dell’ordine col quale sono esposte. Noi chiediamo primamente che il nome di Dio sia santificato, dappoiché prima di ogni altra cosa noi dobbiamo amar Dio, e cercare innanzi tutto la sua gloria; in secondo luogo domandiamo che venga a noi il suo regno, perciocché Egli sarà perfettamente amato e benedetto, quando specialmente dopo il finale giudizio, regnerà pienamente e perfettamente su tutte le creature; in terzo luogo (domandiamo la grazia di fare la volontà di Dio quaggiù in terra, allo scopo di cominciare anche in questa vita a santificare il Nome del Signore, ed a vivere sotto il suo regno, onde giungere, mercé tale cominciamento, a quel luogo beato in cui sarà perfetto il suo regno, ed il suo nome perfettamente santificato. A dir breve, in queste tre prime petizioni noi chiediamo le cose pertinenti a Dio: che il suo Nome sia santificato; che venga il suo regno; che i suoi Comandamenti siano osservati: in ciò consiste la perfezione e l’ultimo fine dell’uomo. – La seconda parte dell’Orazione Dominicale abbraccia quattro domande, per le quali si chiedono tutte le cose temporali necessarie per arrivare ai beni eterni. Che di più saggio? Alla stessa guisa che l’uomo si riferisce a Dio come a proprio fine, così pure i beni di questa vita si riferiscono a quelli dell’altra come mezzi al loro fine. Ed ecco perché il Signor Nostro vuole che la domanda di questi beni terreni occupi il secondo luogo. Noi non dobbiamo domandarli se non in quanto Iddio medesimo lo permette, e che noi ne abbisogniamo per conseguire i beni celesti. Quarta domanda: Dà a noi oggi il nostro pane quotidiano. Con queste parole così semplici ed affettuose noi chiediamo tutto ciò ch’è necessario al sostentamento della nostra vita temporale. Ora noi siamo composti di due sostanze, d’anima e di corpo; ambedue per vivere hanno bisogno di alimento. L’anima che è spirituale, esige alimento spirituale; il corpo che è materiale, richiede cibo materiale. La santa Eucaristia, la parola di Dio, le sante ispirazioni, ecco qual’è il ristoro dell’anima, ecco quello che per essa noi domandiamo. – Bere, mangiare, vestire e consimili altre necessità sono le cose che richieggonsi per la conservazione del corpo, ed ecco ciò che pel medesimo noi chiediamo. Dà a noi. Parole d’umiltà attissime a muovere a pietà il cuor di Dio! Per esse riconosciamo che noi non abbiamo nulla, e siamo affatto uguali ai mendichi-, riconosciamo che Iddio solo è ricco, e ch’Egli solo può darci il tutto; che a Lui andiamo debitori dell’esistenza e del necessario, sì per la vita spirituale che per la temporale, e non già alle nostre fatiche, alla nostra industria, alle nostre virtù. Meravigliose verità! È forse per virtù nostra che cresce il grano nei campi, il vello sul dorso della pecora? È per virtù nostra che si avviva nel nostro cuore la fede, si dilata la speranza, s’infiamma la carità? Oh! senza dubbio, ricchi e poveri, di qualunque grado o stato, tutti dobbiam pregare che dia a noi; tutti senza eccezione siamo tapini chiedenti l’elemosina alle porte del Padre di famiglia. I facoltosi devono dire dà a noi, e sulle loro labbra queste parole significano: Mio Dio! degnatevi di conservarci i beni che ci avete confidati, continuateci le vostre liberalità; noi sappiamo che ad ogni istante voi potete toglierci ogni nostro avere, tantoché col conservarceli voi ci fate la stessa grazia, come se ad ogni istante ce li donaste. I poveri devono dire dà a noi, e nella loro bocca queste parole significano: Mio Dio! noi aspettiamo dalla vostra liberalità tutto ciò che è necessario al nostro sostentamento, deh!inviatecelo o direttamente per Voi stesso, o indirettamente per mezzo dei ricchi ai quali voi ispirate di essere caritatevoli verso di noi; benedite le nostre fatiche, né vogliate che le infermità o i pubblici infortuni ci privino del frutto dei nostri sudori. Ora sarebbe un tentare Iddio il credere ch’Egli fosse per inviarci la manna dal Cielo senza far altro del canto nostro che domandarla. No, quel Dio che comanda la preghiera, comanda altresì la fatica; e le nostre suppliche non hanno altro scopo che d’implorare le sue benedizioni sulle nostre fatiche, sui nostri sudori. Infatti ogni fatica nostra è inutile, se Iddio per sua grazia non la rende feconda: la nostra preghiera dà a noi è quindi una protesta che noi viviamo della Provvidenza di Dio, anziché della nostra industria. Finalmente noi tutti, e ricchi e poveri, domandiamo non solo che Iddio ne conceda il nostro pane, ma che egualmente Io benedica, lo santifichi, affinché ne usiamo sempre a vantaggio non solo del corpo, ma eziandio dell’anima. – Noi diciamo dà a noi, e non dà a me, imperocché è proprio del Cristiano di non pensare solamente a se stesso; e vuole la carità che si abbia a cuore l’utile eziandio del nostro prossimo. D’altra parte Iddio non ci accorda i suoi benefizi perché ne approfittiamo noi soli e ci abbandoniamo all’intemperanza; ma vuole che facciamo parte agli altri di tutto quello che ne avanza dopo di aver provveduto a’ nostri personali bisogni. – Oggi. Questa parola ha due significati. Primieramente significa tutto il tempo della vita presente, poiché la vita non è che un giorno, senza ieri, senza domani. E noi chiediamo a Dio che ci doni per tutto il tempo di questo terreno pellegrinaggio il pane dell’anima e il pane del corpo, finché possiamo giungere in quella patria fortunata dove più non abbisogneremo né di Sacramenti, né di prediche, né di materiali alimenti Oggi, in secondo luogo, denota il giorno presente. E noi domandiamo a Dio che ne conceda oggi stesso quel pane di che abbisogniamo, poiché non ci vogliamo angustiare per l’indomani, non sapendo noi se domani saremo ancora in vita. Laonde il pane d’oggi si richiede oggi; quello di domani sarà chiesto domani. – È egli possibile d’insegnarci più eloquentemente quell’amabile, quell’ammirabile povertà evangelica, che per un lato è riposta nel distacco assoluto dai beni della terra, e per l’altro in una filiale, assoluta fiducia nella divina Providenza? Il nostro Padre celeste non vuole che neppure per un giorno noi facciamo assegno sulle nostre forze, ma vuole che ogni giorno gli chiediamo il pane di ogni giorno; vuole che ogni giorno riposiamo in braccio alla sua Provvidenza, e in lei rimettiamo la cura di soccorrere alle nostre necessità. E quale inquietudine possiamo aver noi? Se prima d’ogni altra cosa cercheremo il regno di Dio e della sua giustizia, tutto il resto ne verrà donato per soprappiù. Osservate; non nutrisce Egli forse il nostro Padre celeste gli augellelti dell’aria che non seminano punto? Non veste Egli forse i gigli del campo che non filano? non fa egli nascere ogni giorno il sole sul giusto e sul malvagio? Ma dacché noi non dobbiamo occuparci che del presente, non è forse mal fatto accumulare provvigioni di grano, di vino e di ogni altra derrata per un anno intero? Allorché il Signore ne insegna ad occuparci soltanto del presente, Egli vuole solamente liberarci da quelle soverchie premure che sono ostacolo fortissimo alla preghiera, nonché alle altre occupazioni di maggiore importanza, e il cui adempimento può solo guidarci alla vita eterna. E però quando il pensiero dell’avvenire non è punto eccedente, ma sì bene misurato, come sarebbe il premunirsi di convenienti provvigioni, esso non è riprovevole; anzi, che dico io? Un tale pensiero non si può dire dell’indomani, ma piuttosto del giorno d’oggi, perché, aspettando l’indomani, potrebbe fors’essere troppo tardi. – Il nostro pane. Dopo di avere coll’antecedente petizione domandato la grazia che è la vita stessa, nulla è più naturale di chiedere in seguito il pane che alimentala vita. Difatti la prima cosa che desidera il fanciullo appena nato è quel nutrimento che mantiene l’esistenza. Non esca però di mente, che qui noi pure domandiamo anzi tutto il pane spirituale, nutrimento dell’anima, e poscia il pane materiale, nutrimento del corpo; tanto esigono la ragione e la fede. Per pane spirituale s’intende in primo luogo la santissima Eucaristia, pane celeste e sovrannaturale che sostenta miracolosamente la vita dell’anima; in secondo luogo, la parola di Dio, la quale, ricevuta mercé la predicazione o la lettura, è possente aiuto ad alimentare la nostra vita spirituale; e da ultimo son dinotate le sante ispirazioni, la preghiera e tutto ciò che contribuisce ad alimentare od accrescere in noi la grazia, la quale, siccome abbiam detto, è la vita dell’anima. Perciò il Signor Nostro vuole che chiediamo ogni giorno la sua carne in cibo e il suo sangue in bevanda, che è quanto dire la santa Eucaristia, nutrimento giornaliero delle anime nostre; quindi noi dobbiamo vivere in guisa da renderci degni di riceverlo ogni giorno. Che pensare, o mio Dio! di coloro che non la ricevono se non una volta all’anno! Ei vuole altresì che domandiamo ogni giorno la sua divina parola. Che pensare pertanto di quegli infelici che non l’ascoltano, non la leggono, che per discuterne e censurarla? Costoro, per sentimento dei Padri, si condannano da se stessi alla morte spirituale, e si rendono colpevoli dello stesso sacrilegio dei profanatori dell’Eucaristia È almeno indubitato che coloro i quali fuggono la parola di Dio, non men di coloro che si allontanano dalla santa Eucaristia, ignorano ciò che dicono allorquando dicono il Pater. – Per pane materiale s’intende tutto quello ch’è necessario alla vita del corpo, ma nulla più; nulla di quanto può appagare la sensualità o lusingare il lusso. Nostro Signore usa la parola pane, primieramente perché nelle Scritture una tal voce denota tutto ciò ch’è necessario alla vita, come ad esempio il vitto, il vestito, l’abitazione; e in seguito per insegnarci che dobbiamo contentarci di poco, senza cercare il superfluo, che mal si addice a viaggiatori che passano in terra straniera. – Noi diciamo nostro pane, e questa parola racchiude un senso profondo. Infatti, se s’intende la santa Eucaristia, essa è nostro pane, dappoiché per noi soli fu formato nel seno della Vergine benedetta per opera dello Spirito Santo, fu cotto sulla croce nel fuoco della carità, imbandito sull’altare col ministero dei Sacerdoti. Essa inoltre è nostro pane, pane dei veri figli di Dio, non già dei cani, secondo l’energica espressione delle Scritture, vale a dire, dei peccatori; è pane dei Cattolici, non già degli eretici e degli infedeli. Intendesi la parola di Dio? Col dire nostro pane noi domandiamo la sana e pura parola di Dio, dispensata dai veri Predicatori ai figli della Chiesa, e non già il pane straniero, il pane corrotto, avvelenato, che offrono gli eretici ai loro settari. Intendesi il pane materiale? Noi desideriamo che Iddio ci doni il nostro pane, non quello d’altrui, vale a dire, che ci aiuti a guadagnarlo col benedire le nostre fatiche, i nostri poderi, i nostri campi, le nostre vigne, affinché senza ricorrere alla frode, né aver bisogno di mendicare, ci possiamo procurare di che vivere. Diciamo ancora nostro pane, non perché ci appartenga di diritto, ma sì bene affinché Iddio per somma sua misericordia si degni concederlo a noi, come nutrimento convenevole all’ uomo; diciamo nostro pane e non mio pane, perché ciascuno di noi deve chiedere pe’ suoi fratelli quello che chiede e desidera per se medesimo. Ma potremo noi dire di avere tal desiderio, se ricusiamo di metterli a parte di quel superfluo che Iddio ci dona? Quotidiano. Questa parola ne insegna che da noi non devesi chiedere nutrimento squisito, né delicato, ma sì un cibo semplice, frugale e bastevole alle giornaliere necessità, giusta gl’insegnamenti dell’Apostolo: Avendo gli alimenti, e di che coprirci, contentiamoci di questo (1 Tim.VI, 8) . Alla qual lezione di frugalità la parola quotidiano ne aggiunge un’altra non meno eloquente di modestia e d’isinteresse: l’uomo chiede pane per un sol giorno, attesoché egli ignora se per lui sorgerà l’indomani! – Quinta domanda: Rimetti a noi i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo ai nostri debitori. Nelle quattro precedenti domande abbiamo chiesto al Padre nostro d’impartirci i beni temporali ed eterni; nelle tre successive lo preghiamo a liberarci da qualsivoglia male passato, presente e futuro; onde per tal modo l’Orazione Dominicale comprende quanto possiamo desiderare. Il male già passato sono i peccati che commettemmo; il mal futuro, le tentazioni che inducono a peccare; il mal presente, le tribolazioni e gli affanni tutti del faticoso nostro pellegrinaggio. Col domandare di essere liberati dal male, intendesi ancora la domanda di essere preservati dai mali grandissimi che sono i peccati che ci separano da Dio ; e dai mali mediocri altresì, come ad esempio le tentazioni; perciocché sebbene queste non siano per se stesse peccati, sono per altro incentivi possenti a trascinarci nella colpa; ond’è fuor d’ogni dubbio ragionevole chiamare col nome di male ciò che ci espone a sì grande pericolo. Per mali leggieri finalmente, in confronto degli altri di cui sono conseguenza, s’intendono le pene temporali ed eterne. – In questa quinta domanda il Signor Nostro ne insegna dunque a chiedere il perdono dei nostri peccati, e per esprimerli egli adopera la parola «debiti, debita». Ma d’onde una tale espressione? Per tre ragioni, rispondono i Dottori: «La prima, perché ogni uomo che offende Dio, diventa debitore a Dio per l’ingiuria che Gli ha fatto. La seconda, perché chi pecca trasgredisce la Legge di Dio; e perché essa Legge promette premio a chi l’osserva, e minaccia castigo a chi la trasgredisce: il trasgressore si trova perciò stesso debitor della pena fissata nella Legge. La terza, perché ciascuno di noi è obbligato a coltivare la vigna dell’anima sua, e renderne a Dio il frutto, che sono le buone opere; però chi non fa buone opere, e molto più chi ne fa di cattive, si costituisce debitore a Dio, il quale è il vero Padrone della vigna e dei frutti. E perché tutti noi spesso manchiamo, sia col fare ciò che non dovremmo, come col non fare quello che dovremmo, però più volte al giorno conviene dire con profonda umiltà a Dio che ci rimetta i nostri debiti ».(Bellarm. Dottr. Crist., p. 88). – Bastano queste parole per ottenere la remissione dei peccati? — Se trattasi di peccati veniali e giornalieri, tali parole, purché accompagnate, siccome abbiamo detto, da vera contrizione, li rimettono direttamente; ma rispetto ai peccati mortali non li rimettono che indirettamente, nel significato cioè, che dispongono il cuore del nostro Padre celeste ad accordarci il dono di ricevere con frutto l’effusione della grazia e dei meriti del Signor Nostro Gesù Cristo nel sacramento della Penitenza. Tanto i giusti, quanto i peccatori debbono dire rimetti a noi i nostri debiti: 1° perché non è già lo stesso non conoscere i propri peccati, e non averne alcuno. Sebbene la mia coscienza, dice l’Apostolo, nulla mi rimproveri, non per questo io sono giustificato; 2° perché moltissimi sono i peccati occulti; 3° perché l’asserire d’essere senza peccato, dice l’Apostolo S. Giovanni, è un pretto mentire; 4° perché noi domandiamo non solo la remissione del peccato, ma quella eziandio della pena che gli è dovuta; 5° perché chiediamo il perdono così per noi, come ancora per tutti i nostri fratelli. (Con. Trid., sess. VI, can 23). – Siccome li rimettiamo a’ nostri debitori. Con tali parole noi diciamo al Padre nostro celeste: Per ottenere la remissione dei debiti de’ quali siamo carichi verso di voi, noi rimettiamo ai nostri fratelli tutti quei debiti che essi hanno verso di noi. – Chiunque ci offende contrae un debito verso di noi, poiché infrange la legge della carità, e qualche volta ancora quella della giustizia, e per conseguenza incorre l’obbligo di darci soddisfazione. Ora noi dichiariamo di assentire che Iddio prenda per regola della sua misericordia a nostro riguardo quella che noi usiamo verso il prossimo; dunque se noi perdoniamo imperfettamente o solo a metà, oppure non perdoniamo che a fior di labbra, conservando l’amarezza, l’antipatia, il rancore nel fondo dell’animo; e finalmente se non perdoniamo punto, invitiamo Iddio a fare altrettanto con noi. – Tuttavolta coloro che non perdonano ai loro nemici possono recitare l’Orazion Dominicale, non, per vero dire, coll’intenzione che il Signore perdoni loro com’essi stessi perdonano, dappoiché ciò sarebbe un chiedere la propria condanna; ma nel significato che Iddio perdoni loro come eglino pure dovrebbero perdonare, e parlando a nome della Chiesa, che conta sempre tra i suoi figli gran numero di Cristiani i quali perdonano ai nemici e pregano per loro. Perciò anche la Santissima Vergine, quantunque immune da ogni colpa, poteva recitare l’Orazione Dominicale, e dire perdona a noi; imperocché sul suo labbro queste parole significavano: Perdonate ai peccatori che come me appartengono alla Chiesa. « Se quelli soltanto, scrive S. Agostino, che amano i propri nemici possono dire: Rimetti i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo a’nostri debitori, io non so quel che mi debba dire, o quel che mi debba fare. Vi dirò io forse: No, non pregate punto? Certo io non lo ardisco; dirovvi invece: Pregate affinché possiate amare. Ma al postutto se voi non amate il prossimo, dovrò proibirvi di recitare l’Orazione Dominicale? Se vi astenete dal dirla non otterrete perdono, e se a lei ricorrete e lasciate non ostante di eseguire quanto dice, non otterrete egualmente perdono. Che resta dunque a farsi? Recitarla e perdonare onde ottener remissione » (Serm. V, alias de divers. 48). – Quindi le parole siccome noi perdoniamo racchiudono una condizione che il Signor Nostro istesso ha voluto imporre alla divina sua misericordia. E perché mai una tale condizione? Per più ragioni, tutte egualmente degne della sua infinita sapienza. La prima, affinché appieno da noi si comprenda la grandezza del benefizio che Iddio c’imparte nel perdonare i nostri peccati; grazia sì grande Ei non volle concederla, senza mettervi la condizione che noi pure usiamo misericordia verso i nostri fratelli. La seconda, a fine d’incoraggiare la nostra debolezza, dimostrandoci con qual estrema facilità si può dall’uomo conseguire l’immenso beneficio della remissione dei peccati, dappoiché egli per parte sua ci promette misericordia se noi non la neghiamo al nostro prossimo: il che dipende affatto dal nostro volere. La terza, onde mantenere fra di noi la carità, la quale è il gran precetto del Vangelo, facendo della nostra la condizione e la regola della carità di Dio inverso di noi. La quarta finalmente, per fiaccare il nostro orgoglio e far palese quanto ingannati e colpevoli sieno quelle persone del mondo che chiamano una viltà il perdonare e rinunziare alla vendetta. Quando infatti essi chiederanno misericordia, Iddio li condannerà colle stesse loro parole, dicendo: come vuoi tu che Io ti usi misericordia, se questa appunto tu abborri e poni in derisione? tu tratti da vile chi perdona; osi tu dunque pregarmi ch’Io mi avvilisca perdonandoti, e vuoi che ti esaudisca? (S. Greg. Niss., in 3 Orat. Domin.). -Per le quali cose il dovere e l’utile nostro egualmente ne impongono di perdonare non solo esternamente, ma interiormente e senza indugio, giusta il detto della Scrittura: « Se voi non perdonate di tutto cuore, il vostro Padre celeste non vi perdonerà; ed altrove: il sole non tramonti giammai sull’odio vostro». I Santi presero in ogni tempo queste parole per regola di loro condotta. San Giovanni l’Elemosiniero, Patriarca di Alessandria, avea ripreso con qualche vivezza un Senatore, che perciò l’aveva lasciato fortemente indispettito. Giunta la sera, il Santo inviò un messo al Senatore con quest’ambasciata: il sole è prossimo al tramonto. A queste parole il Senatore, compreso da vero dispiacere, corre presso il santo Vescovo, dal quale è accolto ed abbracciato come un fratello, e l’ultimo raggio del sole morente rischiarava questo quadro affettuoso di riconciliazione. – Meditiamo spesso questo esempio, non meno della quinta petizione del Pater. Iddio promette di perdonarci, purché noi pure perdoniamo ai nostri fratelli. Le offese che noi perdoniamo al prossimo sono un nulla in paragone di quelle di cui siamo debitori verso Dio. Noi l’abbiamo crocifisso! Noi domandiamo la remissione di dieci mila monete d’oro per qualche denaro che ci è dovuto! Ma se noi rimettiamo questa lieve somma con cuor sincero, e senza neanche aspettare che il debitore venga a pregarci; se la rimettiamo tutta intera e senza restrizione, vale a dire, se perdoniamo con animo volonteroso e con affetto fraterno; se noi preveniamo i nostri offensori con bontà e carità, invece di abbandonarci ad una cieca vendetta, e senza pretendere da essi soddisfazioni umilianti; se tutto ciò, io dico, noi opereremo, le nostre colpe saranno tutte perdonate. Non dimentichiamo giammai le parole del Salvatore: « Se voi perdonerete le offese ricevute, il vostro Padre celeste perdonerà quelle che Gli avete fatto». – Questa promessa per altro suppone in colui, che perdona al suo prossimo, lo spirito di penitenza pei suoi propri peccati; imperocché è verità di fede, che senza lo spirito di penitenza nessun peccato può giammai venir rimesso. – Nè contentiamoci soltanto di meditare queste parole, ma mettiamole in pratica, ad esempio di quel buon Religioso ricordato dalla storia. Aveva esso vissuto nel suo monastero con tale tiepidezza, che spesso si era attirato severe ammonizioni del Superiore. Giunto ad età inoltrata, cadde infermo per non più rialzarsi. Uno de’ suoi confratelli, vedutolo agli estremi, né scorgendo sul suo volto o timore od inquietudine di sorta, gli domandò, come mai poteva morire con tanta tranquillità dopo una vita così poco edificante. E verissimo, fratel mio, gli rispose il moribondo, che sono stato negligentissimo, e gli Angeli pure mi hanno spiegato innanzi agli occhi la lunga lista dei peccati, che ho commesso dopo il mio ingresso in religione: io sono convinto di tutto; ma intanto non mi poterono mostrare o un giudizio temerario, o la più piccola vendetta di cui mi sia reso colpevole. Allora io dissi loro: Io ho fiducia nelle promesse del Signore, il quale ha detto: Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato. Ciò inteso, gli Angeli hanno lacerato l’elenco de’ miei falli, ed ecco da che nasce la mia fidanza. E in così dire si addormentò tranquillamente nelle braccia del Dio di misericordia, lasciando a tutti i suoi fratelli un salutare esempio ed una grande edificazione. – Sesta domanda. E non c’indurre in tentazione. Allorquando figli ben nati hanno ottenuto dal Padre il perdono dei loro falli, non altro ad essi rimane che sfuggirli per lo innanzi, e mercé una condotta irreprensibile consolare il genitore ch’ebbero la disgrazia’di contristare. Cosi pure il Signor Nostro vuol che si faccia da noi: quindi è naturale il legame che unisce alla precedente questa domanda dell’Orazione Dominicale. Nella quinta noi abbiamo domandato la liberazione dal male passato, cioè dal peccato commesso; nella sesta noi domandiamo l’aiuto di Dio contro il male futuro che è la tentazione. Tuttavolta questa per se stessa non è un male come il peccato; anzi non è male se non in quanto può trascinarci ad un altro male, cioè l’offesa di Dio. Ma per tal ragione è molto pericolosa, e perciò supplichiamo Iddio a volercene preservare. Qui pure conviene spiegar chiaramente il senso della nostra preghiera: Dicendo non c’indurre in tentazione, noi non chiediamo già di essere liberati interamente da ogni tentazione, ma chiediamo: 1° di non esser vinti dalle tentazioni; 2° di esser liberati dalle tentazioni straordinarie; 3° di non essere esposti a tentazioni o deboli o forti, se Dio vede che la vittoria non sarà nostra ma del demonio. – Ma perché non chiediamo noi di essere liberati da ogni sorta di tentazioni? Perché ci torna vantaggioso l’essere tentati. La tentazione ci ammaestra: per un lato ci fa conoscere la nostra debolezza, la nostra corruzione; dall’altro ne dimostrala potenza della grazia la quale con sì deboli soldati, quali noi siamo, sa riportare splendide vittorie. La tentazione ci mantiene nell’umiltà. Affinché, scrive San Paolo, la grandezza delle mie rivelazioni non mi facesse insuperbire, lo stimolo della carne, l’angelo di Satanasso mi fu lasciato intorno per schiaffeggiarmi, vale a dire, per farmi ricorrere all’umiltà, alla vigilanza , alla preghiera. La tentazione ci assoda nella virtù. I venti che scuotono le piante, dice un santo Padre, nello stesso tempo le alimentano; e così pure le tentazioni accrescono vigore all’anima. La tentazione ci arricchisce; imperocché tutte le volte che noi le resistiamo, ci fa produrre atti di virtù e di fedeltà che aumentano i nostri meriti. La tentazione ci rende esperti, vuoi a nostro, vuoi a riguardo altrui. Chi non è stato tentato, quanto sa egli? (Eccl.XXXIV, 11) richiede giustamente il Saggio. Finalmente la tentazione ci fa compatire le debolezze altrui, e fa riposare su di noi lo spirito del Signore, secondo il dettato dell’Apostolo S. Giacomo: Beato l’uomo che tollera tentazione: perché quando sarà stato provato, riceverà la corona di vita promessa da Dio a quelli che lo amano . (Jacob. I, 12). Noi diciamo al nostro Padre celeste: Non indurci in tentazione. Qual significato hanno tali parole? Forse che Dio ci tenta? No certamente; a parlare con proprietà Iddio non tenta alcuno, poiché tentare vuol dire indurre al male (Jacob. I, 12). È bensì vero che nelle Scritture si legge avere Iddio tentato Abramo, ma questo significa che il Signore volle mettere a prova la fede e l’obbedienza di quel santo Patriarca. – Ogni giorno Iddio tenta noi pure in simil guisa colle infermità, colle afflizioni, coi travagli, sia per convertirci come per accrescere i nostri meriti. Rispetto alle tentazioni propriamente dette Iddio permette soltanto che noi siamo tentati; e questo deve consolarci, attesoché per una parte i nemici dell’anima nostra non possono assalirci senza la permissione del Padre nostro celeste; e per l’altra Egli loro non permette giammai di tentarci oltre le nostre forze: Non vi ha sorpreso tentazione, dice l’Apostolo, se non umana; ma fedele a Dio, il quale non permetterà che voi siate tentati oltre il vostro potere, ma darà con la tentazione il profitto, affinchè possiate sostenere (1 Cor. X, 13). Ecco adunque qual’è il senso della preghiera che noi Gli volgiamo: Signore, noi conosciamo la nostra debolezza e fragilità, sappiamo quanta sia la malvagità e il potere del demonio; non vogliate dunque permettere che noi vostri servi siamo atterrati dalla tentazione, e neppure tentati, se non dobbiamo uscire vittoriosi dal combattimento.Ma ad ottenere la vittoria in una lotta sì pericolosa è mestieri ben conoscere i nostri nemici e le armi con cui si devono combattere. Tre grandi nemici son collegati a’ nostri danni, né cessano mai dal tentarci: il demonio, il mondo, la carne. Il demonio ne tenta col suggerirci pensieri peccaminosi d’ogni specie: d’orgoglio, d’invidia, di bestemmia, di vendetta, e somiglianti. Il mondo ci tenta coi cattivi discorsi, colle cattive letture, coi cattivi esempi. La carne ci tenta con criminose tendenze. Il più pericoloso di questi tre nemici è la carne, poiché da essa non possiamo un solo istante separarci. Rispetto alle armi di cui dobbiamo valerci contro questi tre nemici, conviene opporre al demonio, il segno della croce e l’invocazione dei santi nomi di Gesù e Maria; al mondo, il disprezzo de’suoi motteggi, delle sue minaccie, delle sue promesse, considerando la sua debolezza e la caducità delle cose temporali che svaniscono alla morte; alla carne, la fuga dalle occasioni, la mortificazione dei sensi, la devozione alla santa Vergine Madre di ogni purità. Ecco i rimedi particolari. I rimedii generali sono: l’umiltà, la preghiera, il digiuno, la meditazione della Passione del Signor Nostro Gesù Cristo e dei Novissimi; finalmente la fedeltà nello svelare al Confessore le tentazioni tutte dalle quali siamo molestati. – Quest’ultima domanda conferma le domande antecedenti, e vi aggiunge qualche cosa di nuovo. Di fatto nella quinta e nella sesta noi abbiamo chiesto di essere liberati dal peccato e dalla tentazione, e qui pure imploriamo la stessa grazia, conciossiaché supplichiamo di essere liberati da ogni specie di mali; ma nel tempo stesso vi aggiungiamo la domanda di essere liberati da ogni afflizione corporale e spirituale, pubblica e privata, che potesse toglierci di pervenire all’eterna salute. Laonde dopo aver chiesto a Dio la liberazione dai mali passati e futuri, domandiamo di più la liberazione dai mali presenti; e così pure dopo aver pregato di esser liberati dal male della colpa, che è il peccato ed il maggiore di tutti i mali, noi supplichiamo di essere liberati dal male della pena, assai più lieve del primo, e che è riposto nelle afflizioni temporali ed eterne, funeste conseguenze del peccato. – «Ed avvertite che Nostro Signore con gran sapienza c’insegna a domandare la liberazione dal male in universale, e non viene al particolare, come dire dalle povertà, malattie, persecuzioni e simili cose; perché molte volte pare a noi, che una cosa ci sia buona, la quale Dio vede che per noi è cattiva: e per lo contrario a noi pare che una cosa sia cattiva, e Dio vede che per noi è buona. E però noi, secondo l’ammaestramento del Signore, Gli domandiamo che ci liberi da tutto quello che Egli vede, che per noi è male, o sia prosperità, o sia avversità » (Bellar. Dottr. Crist.). Ma non è egli superfluo il volere che noi domandiamo la liberazione del male, poiché la natura medesima ne suggerisce di ricorrere a Dio in ogni nostra tribolazione? È verissimo che sotto i colpi della sventura suolsi invocare l’aiuto divino; ma si osservi ancora, che taluni noi fanno, ed è pur necessario rammentar loro un obbligo così imperioso; altri poi lo fanno troppo tardi, e dopo avere esaurito tutti i mezzi umani. Iddio per costoro non è che un espediente, cui non si ricorre che alla peggio andare; e questa mancanza di fiducia è atto ingiuriosissimo, contro cui era necessario premunirli. Finalmente quasi tutti ignoriamo l’ordine e la maniera con cui si deve chiedere la liberazione dal male. Cosi per esempio, invece di chiedere innanzi tutto la liberazione dal peccato, noi domandiamo la liberazione dalla pena. Siam noi percossi da rovesci di fortuna, o da perdita di salute? Tosto domandiamo a Dio la liberazione da questi mali, senza nemmeno pensare alla liberazione dai mali più importanti, vale a dire, il peccato e il pericolo di commetterlo. Da ciò nasce che nulla si ottiene, poiché non si osserva il precetto del Signore, il quale comanda di chiedere prima d’ogni altra cosa il regno di Dio e la sua giustizia. Oltre a ciò in luogo d’implorare colle debite condizioni la liberazione dai mali temporali, noi più spesso la domandiamo in modo assoluto, senza rassegnazione, talvolta pure con impazienza, uscendo eziandio in atti di disgusto e in parole di mormorazione se non l’otteniamo, oppure se Iddio ce la fa aspettare. Ora, al fin di pregare come vuole Nostro Signore, conviene chiedere in maniera assoluta che Dio ci preservi, o ci liberi per sua benignità dal peccato, che è il solo vero male; ma rispetto agli altri mali, noi dobbiam chiedere d’andarne immuni, in quanto solo una tal grazia può esser proficua alla nostra salute. Ma liberaci dal male. Per restringere in due parole tutta l’importanza di questa petizione, noi diremo, che in tal modo devono sempre finire le preghiere dell’uomo decaduto. La liberazione dal male: ecco lo scopo di ogni Religione, di ogni sacrificio, di ogni penitenza pubblica o privata che mai siasi usata presso tutti i popoli sin dall’origine del mondo. Nella domanda che precede, noi preghiamo Dio a liberarci dal peccato, in questa noi lo supplichiamo a liberarci dalla pena del peccato, come a dire dalla morte subitanea, dai castighi riserbati agli empi, e dal fuoco del Purgatorio; da cui pure Lo preghiamo con tutto l’ardore di liberare le anime che vi sono tormentate. Noi domandiamo di essere preservati da tutti i mali, tanto esterni che interni: dall’acqua, dal fuoco, dal fulmine, dalla gragnuola, dalla fame, dalla guerra, dai tumulti; facciam voti perché restino sempre da noi lontane le malattie, le pestilenze, gl’infortuni, le prigionie, gli esilii, i tradimenti, le insidie; a dir breve, tutte le sventure che affliggono l’umanità. Domandiamo finalmente che le ricchezze, gli onori, la sanità, la vita stessa non tornino a detrimento ed a perdizione dell’anima nostra. Noi dobbiam chiedere tutto ciò con fiducia, perché il nostro buon Padre, col comandarci di chiedere la liberazione dai nostri mali, ci ha pur dato malleveria di essere esauditi: Alzaron le grida i giusti, e il Signore li esaudì, e liberolli da tutte le loro tribolazioni (Ps. XXXIII, 17). In questa domanda la parola male significa ancora il malvagio, ossia il demonio. Noi preghiamo Iddio a liberarci da’ suoi assalti, attesoché il demonio fu l’autore di tutti i delitti e di tutte le sventure degli uomini. Abbiamo detto malvagio e non malvagi, poiché tutti i mali che ci vengono dal nostro prossimo devono essere imputati alle maligne suggestioni dello spirito infernale. Laonde, anziché adirarci coi nostri fratelli, dobbiam volgere interamente il nostro odio contro satana, vera cagione di tutti i mali, che l’un l’altro si fanno gli uomini.La terza parte dell’Orazione Dominicale si compone di questa sola parola, che è come suggello, conclusione, di tutta la preghiera. Amen. Amen è parola ebraica, che vuol dire così sia, cioè, facciasi come ho chiesto; possano essere esauditi i miei voti, io lo credo, io lo spero. Come una rimembranza della Chiesa primitiva,e per rispetto alla veneranda nostra antichità si è conservata questa voce ebraica (“Propter sanctiorem auctoritatem servata est antiquitas”. S. AUG., lib. II , De Doctr. christ., c. 11); non meno che per venerazione al Signor Nostro, dalle cui labbra era frequentemente ripetuta. Amen esprime altresì un voto novello, un più vivo desiderio di ottenere le cose richieste. È mestieri profferire questa conclusione con pietà particolare e con affetto sincero, sia per supplire al mancamento di attenzione e di fervore che poté sorprenderci nel tempo della preghiera, che per tentare un ultimo sforzo, e toccare, per così dire, l’ultima corda al cuore del nostro Padre. – Tale è l’Orazione insegnata dal Signore: niente di più santo, di più affettuoso, di più augusto, di più efficace. È una chiave d’oro colla quale possiamo aprire a nostro talento i tesori del Cielo. Si ami dunque, si veneri, si custodisca come il bene più prezioso, si ponga indefessamente in uso. Ma tuttoché onnipossente, questa divina preghiera, non ci sarà in verun conto giovevole se non sarà fatta a dovere. Ora nulla di più opportuno a rianimare il nostro fervore nella preghiera, come nulla di più celebre negli annali dei Santi, che la visione di S. Bernardo. Ella ne fa conoscere le diverse classi di persone che si dedicano alla preghiera, e ne mostra al tempo stesso quali ricompense si meriti ognuna d’esse. Una notte, l’illustre fondatore di’ Chiaravalle, mentre tutti i suoi Religiosi recitavano il divino Officio, era assorto in profonda meditazione. Erano essi in gran numero, e Iddio gli fece conoscere che tutti andrebbero salvi, sebbene nel punto della visione non tutti egualmente fossero animati dal medesimo fervore. Vedeva il Santo che un Angelo stava al fianco d’ogni Religioso, e scriveva: alcuni di questi Angeli scrivevano in lettere d’oro, altri con acqua, alcuni finalmente con nero inchiostro. Il Signor Nostro degnossi di far comprendere al Santo il significato di questa visione. Gli disse che i Religiosi i quali pregavano col dovuto fervore erano quelli, le cui preghiere l’Angelo scriveva con lettere d’oro; quelli che pregavano con tiepidezza erano quelli, le cui preci venivano scritte coll’acqua; gli altri finalmente che pregavano distrattamente e sonnecchiando erano quelli, le cui orazioni scrivevansi col nero inchiostro: che i primi meritavano una grande ricompensa; i secondi nulla, o quasi nulla; e gli ultimi erano degni di castigo. – Voi che leggete questo racconto (supposto che sappiate in che modo scriva il vostro buon Angelo, quando alla mattina, o alla sera, in chiesa, o nel corso della giornata vi esercitate nella preghiera), la sua penna dovrebbe intingersi nell’oro, nell’acqua, oppure nel nero inchiostro? Lascio a voi il risolvere la questione!

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, vi ringrazio di aver composto per me una preghiera breve, facile, perfetta ed efficacissima. Fatemi la grazia di poterla sempre recitare colle dovute disposizioni. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il mio prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, raddoppierò l’attenzione nel recitare il PATER nelle mie preghiere del mattino.