Messa della Domenica I dopo l’Epifania

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Introitus Prov XXIII:24; XXIII:25 Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te Ps LXXXIII:2-3 Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini, V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te

Introito Prov XXIII:24; 23:25 [Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato. Ps 83:2-3 Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’ànima mia nella casa del Signore, V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo. R. Come era nel principio è ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen. Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].

Orémus. Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cénsequi sempitérnum:

Colletta Preghiamo. O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempii della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno:

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses. Col III:12-17

Fratres: Indúite vos sicut elécti Dei, sancti et dilécti, víscera misericórdiæ, benignitátem, humilitátem, modéstiam, patiéntiam: supportántes ínvicem, et donántes vobismetípsis, si quis advérsus áliquem habet querélam: sicut et Dóminus donávit vobis, ita et vos. Super ómnia autem hæc caritátem habéte, quod est vínculum perfectiónis: et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore: et grati estóte. Verbum Christi hábitet in vobis abundánter, in omni sapiéntia, docéntes et commonéntes vosmetípsos psalmis, hymnis et cánticis spirituálibus, in grátia cantántes in córdibus vestris Deo. Omne, quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per ipsum. R. Deo gratias.

Epistola Lettura della Lettera del B. Paolo Ap. ai Colossesi. Col 3:12-17 [Fratelli: Come eletti di Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza, sopportandovi e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno ha da dolersi di un altro: come il Signore vi ha perdonato, cosí anche voi. Ma al di sopra di tutto questo rivestitevi della carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché siete stati chiamati a questa pace come un solo corpo: siate riconoscenti. La parola di Cristo àbiti in voi abbondantemente, istruitevi e avvisatevi gli uni gli altri con ogni sapienza, e, ispirati dalla grazia, levate canti a Dio nei vostri cuori con salmi, inni e cantici spirituali. E qualsiasi cosa facciate in parole e in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesú Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di Lui.]

Graduale Ps XXVI:4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. Ps LXXXIII:5. Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in saecula sæculórum laudábunt te. Allelúja, allelúja, Isa XLV:15 Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja.

Graduale Ps 26:4 Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita. Ps 83:5. Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli. Allelúia, allelúia, Isa 45:15 Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

R. Gloria tibi, Domine! Luc II:42-52 Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines. R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Luc 2:42-52 [Quando Gesú raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesú rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesú cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini.]

Omelia della Domenica FRA L’OTTAVA e I dopo l’Epifania

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca II, 42-52)

Perdita di Dio.

Maria e Giuseppe perdono il fanciullo Gesù, giunto all’età di dodici anni. Credevano, come ci narra S. Luca nell’ odierno Vangelo, ch’Ei fosse in lor comitiva, insieme con altri molti della Galilea, che discendevano da Gerusalemme dopo la celebrazione d’una festa solenne; ma giunti ad un ospizio sull’imbrunir della sera, si mirano intorno e non veggono il divino Fanciullo. L’attendono ma inutilmente: ne domandano ai compagni del loro viaggio, ma nessuno ne sa dare conto: lo cercano fra gli amici e fra i congiunti, ma tutto è vano: immaginate qual dovett’essere il loro affanno. Pensavano bensì che qualche giusto e ragionevole motivo tratteneva Gesù da essi lontano; ma questo riflesso non era bastevole a consolarli. Oh con quanta amarezza passarono quella notte! Al primo spuntar del giorno si posero a rifare il cammino dall’ospizio a Gerusalemme, e al terzo dì finalmente lo ritrovarono nel Tempio, che in mezzo ai dottori li interrogava con loro stupore, e con meraviglia del popolo circostante. “Eh! figlio, prese a dirgli la Vergine Madre, figlio, io e il vostro nutrizio padre siamo andati in cerca di Voi colla mestizia nel volto e colla doglia nel cuore” : “Fili… pater tuus et ego dolentes quaerebamus te”. Maria e Giuseppe perdono Gesù e, come osserva il venerabile Beda con altri sacri espositori, Lo perdono senza loro minima colpa, e pure tanto si attristano di questa perdita, e tanto si affannano per ritrovarLo. Quanto è mai diversa la condotta di molti cristiani! Perdono questi Gesù per propria colpa, perdono Dio e la sua grazia per lo peccato, e pur non si commuovono, non si contristano, non se ne pigliano pensiero. Così è: quanto sono sensibili e premurosi per la perdita di cose temporali, altrettanto sono stupidi e indolenti per la perdita di Dio. – E questo è appunto ciò che v’invito a meco compiangere, uditori devoti. Non ha bisogno di prova la prima parte del mio assunto; cioè, che per l’ordinario gli uomini della perdita dei beni terreni son tutti in pena ed in contristamento; pure diamo così di volo uno sguardo alle sacre pagine, per riscontrarne fra molti alcuni esempi. Perde Esaù la primogenitura, e alza clamori, e trae dal petto ruggiti a guisa di leone piagato a morte, “irrugiit clamore magno” ( Gen XXVII, 34) . Perde Cis le sue giumente, spedisce Saulle suo figlio ad andarne in cerca. Saulle, per quanto si aggiri per valli, per monti e per foreste, non gli vien fatto trovarle; e preso il consiglio del suo servo compagno, va a consultarne Samuele gran profeta in Israele. Perde il suo figliuol prodigo le sostanze assegnategli per sua porzione dal suo buon padre, ed è inconsolabile. Perde quel pastore, descritto in parabola nel santo Vangelo, una pecorella, e lascia nel deserto l’armento intero, e ne va in traccia per balze e per dirupi. Perde, a finirla, quella donna evangelica una dramma, moneta di poco valore, e mette tutta sossopra la casa finche non la ritrovi. Ma a che rammentar cose antiche? Non è questo il naturale effetto che producono nel cuor dell’uomo le cose smarrite? e la pena ordinaria di chi più o meno è attaccato ai beni di questa terra? Compatiamo la misera umanità, qualora per gravi infortuni è posta in cimento, qualora o per naufragio si perdono ricche mercanzie, o per sentenza contraria liti di somma importanza, o per prepotenza pingui eredità. Compatiamo ancora coloro, che per un anello, per un orecchino, per un fazzoletto ricorrono al parroco, acciò avvisi il popolo di quegli oggetti smarriti, e loro ricordi il proprio dovere per la necessaria restituzione. – Non si possono costoro né riprendere, né disapprovare, se usano diligenze, se adoprano mezzi per riavere ciò che hanno perduto. Ma di grazia perché almeno non si tiene questa pratica, quando per grave reato si perde Dio e la sua amicizia? Perché non si fa ricorso alla Vergine Madre, ai Santi del cielo, al confessore, acciò vi aiutino a ricuperare la grazia, e a riconciliarvi con Dio? Perché tanta sollecitudine per le perdite temporali, e tanta indifferenza, tanta freddezza per la perdita di Dio, perdita incalcolabile infinitamente maggiore della perdita d’un mondo intero? – Bramate sapere onde nasce tanta stupidezza? Ecco tre cagioni, alle quali, per ben comprenderle, vi prego porgere l’attento orecchio. La prima cagione, per cui, perduto Dio per lo peccato, non si sente il dolore di perdita, sì grande, è perché non c’è lume, non c’è fede, non c’è cognizione di Dio. Avviene a molti ciò che non di rado accade ad un fanciullo non ancor giunto all’uso di ragione. Perde questi una gemma preziosa, e non la cura, e non vi pensa: perde una carta dipinta, una palla da giuoco, un palco da trastullo, ed è inconsolabile, piange, singhiozza, pesta coi piedi la terra. Ed ecco il nostro caso. Perdiamo i beni fallaci, che un giorno bisogna lasciare, e siamo trafitti; si perde il sommo bene, ch’è Dio, e siamo insensibili. E fino a quando, o uomini già adulti e forse incanutiti, amerete ancora i pregiudizi dell’infanzia?Usquequo… diligìtis infatiam? ( Prov. I. 22) Se conosceste che dir voglia perdere Dio, piangereste a lacrime di sangue. La spada più acuta, che ferisce il cuor d’un dannato, la pena più atroce che lo tormenta, è quel fisso contristante pensiero, quell’interna voce di acerbo rimprovero, che gli dice ad ogn’istante: “ubi est Deus tuus?” dov’è quel Dio che ti creò, quel Dio che ti ha redento, quel Dio che ti voleva salvo? dov’è, infelice, tu l’hai perduto! “Ubi est Deus tuus?” Dov’ è quel Dio che nello stato di tua dannazione è l’oggetto dell’ odio tuo, e al tempo stesso lo scopo del tuo desiderio, come unico rimedio a’ tuoi tormenti, dov’è? Questo Dio non è più per te, non è più tuo. Conosci ora per tua pena quel che conoscere non volesti per tua malizia. – La seconda cagione dell’umana insensibilità nella perdita di Dio è una fiducia ingannevole, una speranza fallace di riacquistare Iddio perduto con una penitenza futura. È vero, dice colui, dice colei, che sono in disgrazia di Dio, ch’Egli contro di me è giustamente sdegnato; ma voglio ben io riconciliarmi con Lui; non voglio vivere in questo stato, in cui non vorrei morire: perciò dato ch’io avrò compimento ai miei affari, ultimato quel negozio, finita quella lite, collocata la famiglia, quando avrò un tempo più comodo, più quiete, penso ben prevalermene per ricuperare tanto bene perduto, e non perdere me stesso. Ahi miei cari, queste vostre proteste non fan che mitigare il rimorso di vostra coscienza, e il dolore della vostra perdita; vi lusingano, vi addormentano in seno al peccato, con una speranza tanto più traditrice, quanto più lusinghiera. Accade a voi come a quel giocatore, che sente meno la pena del danaro perduto, perché spera in un altro giuoco rifarsi del danno sofferto; e questa speranza per lo più moltiplica le sue perdite, e lo getta in rovina. E poi se in questo tempo che differite la vostra conversione vi cogliesse la morte, che sarebbe di voi? Oh allora presi dallo spavento, chiamato in nostro aiuto un confessore, più facilmente ci volgeremo a Dio con un cuor contrito, e pieni di fiducia nella sua misericordia.. Non più, miei dilettissimi, non più: questo è il maggior degl’inganni. Questa, seducente speranza ha popolato l’inferno; Iddio, dice S. Agostino, vi promette perdono, se in tempo vi convertite, non vi promette né tempo, né perdono, se differite. – Ma torniamo al nostro argomento. La terza, forse più forte cagione della nostra insensibilità nella perdita di Dio, è perché, se si perde Dio in questa vita, pure si godè dello stesso Dio. E come? Ecco: tutti i beni, che anche dai peccatori si gustano su questa terra, sono altrettante stille emanate da quell’oceano immenso di bontà ch’è Dio. Il sole che c’illumina, l’aria che ci pasce, i fiori che ci dilettano, le piante che ci ricreano, i frutti che ci nutriscono, tutte insomma le creature, o inanimate o sensibili o ragionevoli, son tutti beni che discendono da Dio sommo bene; ond’è che se il peccatore perde Dio bene infinito, pur gode Iddio ne’ beni sparsi nelle sue creature, e non si avvede della perdita del fonte, perché si disseta ai ruscelli. Ma quando poi l’anima sciolta dai legami del corpo comparirà, spirito ignudo, abbandonato e solo, innanzi a Dio, conoscerà allora che Dio è l’unico bene; l’infinito bene; che fuor di Lui in quel nuovo mondo altro bene non v’è, con cui trattenersi, con cui sfamarsi. E perciò una delle due, o l’anima è amica dì Dio, e troverà in Dio come in suo centro ogni bene, o di Dio nemica, e da Lui ributtata e divisa, non avrà più un attimo, un’ombra di bene. Non più mondo in quel terribile istante, non più corpo, non più creature. Piaceri, onori, gradi, ricchezze, amici, congiunti, tutto è finito; Dio, Dio solo è l’unico eterno, incommutabile bene, e fuori di Lui né si può sperare, anzi né pur si può immaginare, o fingere un altro bene. – Vogliamo noi, uditori carissimi, aspettare al mondo di là a conoscer la perdita del sommo bene, che è Dio? Ah anime mie care non vi sarà allora più riparo all’inganno, più rimedio all’errore, non più tempo a profittevole ravvedimento. Dovremo allora esclamare con quel Sovrano, di cui parla la storia: “Omnia perdidimus”. Sedotto questi da lusinghiera beltà, e da furiose passioni invasato, corse a precipizio le vie del piacere, dell’errore e dell’empietà, e giunse in fine a quel termine da Dio a tutti costituito, al quale non si può passar oltre. Infermo, aggravato, giacente a letto, conobbe, come il grande Alessandro, che bisognava morire; “decidit in lectum, et cognovit quia moreretur” ( Mac. I), e data in giro una mesta occhiata a’ suoi favoriti, ahi me disgraziato! esclamò, che ho perduto la fede, la reputazione, l’amor de’ sudditi, la sanità, e fra poco sarò per perdere la vita, il regno, l’anima e Dio, “omnia perdidimus”. Tanto dovrà ripetere un’anima che abbia perduto Dio per colpa e per pena, “omnia perdidimus”. – Infelice pertanto chi aspetta a conoscere la sua disavventura quando non è più in tempo di ripararla. Infelicissimo chi aspetta a cercare Dio quando non si può più ritrovare. Cari ascoltanti, facciamo senno, ravviviamo la fede, apriamo gli occhi sul massimo nostro interesse. Ora in questo tempo accettevole, che ci accorda il pietoso Signore, andiamo in cerca di Dio, e sarà facile il trovarLo, “Quærite Dominum dum inveniri potest (Isai. LV, 6). In punto di morte , ahi! che forse Lo cercheremo .invano. No, peccatori fratelli miei, con Dio non si burla, “Deus non irridetur”. Cercate Dio in vita, perché in morte nol troverete! Non son io che vel dico, lo dice a me, lo dice a voi l’infallibile Verità, lo dice Gesù Cristo, “quæretis me, et non invenietis(Joan. VII, 34). E in un altro luogo ce lo ripete in termini di maggiore spavento: mi cercherete, e morrete in seno al vostro peccato: “Quæretis me, et in peccato vestro moriemini” (Joan. VIII, 21). – Che facciamo dunque? fino a quando noi stolti figliuoli degli uomini ameremo la vanità, e terremo dietro ai beni fuggevoli e bugiardi di questa terra? Deh! se ci cale l’eterna nostra salvezza, procuriamo essere di quella santa generazione, che altro non cerca, che Dio. Cerchiamo Dio sull’esempio e sulla scorta di Maria Vergine, e di S. Giuseppe, cerchiamoLo nel tempio ai piedi degli altari, a piedi dei suoi ministri; che poi dopo il breve corso di nostra vita Lo vedremo nel tempio della beata eternità, e al primo incontro sarà per noi oggetto di consolazione perpetua, come lo fu di temporanea alla Vergine Madre, ed al suo nutrizio padre. Che Dio ce ne faccia la grazia.

Credo…

Secreta Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas.

Secreta [Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie].

Communio Luc II:51 Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis.

Communio Luc 2:51 [E Gesú se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso].

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Quos coeléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctae Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur:

Postcommunio V. Il Signore sia con voi. R. E con il tuo spirito. Preghiamo.[O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli].

J.-J. GAUME: La profanazione della DOMENICA [lett. VIII]

LETTERA VIII.

2 maggio,

LA PROFANAZIONE DELLA DOMENICA

ROVINA DEL BENESSERE.

(Seguito)

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Signore e caro amico,

I.

« I provvedimenti presi per la difesa di Parigi nulla lasciano a desiderare; la confidenza rinasce; i fondi sono saliti di sessanta centesimi; la legge elettorale è in via di purificare il suffragio universale, e dar la vittoria al partito dell’ordine: né la sollevazione osa si prestamente agitarsi per le vie. » Ecco quello, che voi mi scrivete nell’ultima vostra lettera, aggiungendomi tale esser l’opinione delle persone oneste. Ne domando io perdono alle vostre persone oneste, e queste, come spero, mi scuseranno, se non posso avere tutta la fiducia loro. Il male trovasi nelle anime, ed insino a tanto che non vi vedrò apportare il rimedio là dove sta il male, io sarò pochissimo rassicurato. Ora, infino al presente io non vedo, che se ne occupino ben seriamente. Quando una società è minata come la nostra, non si salva questa né a colpi di legge, né a colpi di cannone, né a colpi di bollettini. Lo compiango sinceramente il popolo che non conosceva altri ripieghi di quelli in fuori, e che misura la sua sicurezza in sull’aumento, o discredito del suo traffico. Egli è vero, l’ammutinata plebaglia non discende nelle contrade col moschetto ad armacollo, e coi ciottoli del selciato nella mano; ma costei vi discende ogni giorno sotto la maschera del borghese volteriano, sotto la maschera dell’empio giornale, sotto la maschera del libro osceno, sotto la maschera del profanatore della domenica; ed incessantemente essa corrode, scuote, e va minando ciò che solo sostiene i regni e le repubbliche: i principj del Cristianesimo. Se per arrestarla in un’opera di distruzione ci atteniamo ai mezzi della legislazione e dello spaventamento, non dubitale, che dessa non s’impedirà di pervenire al suo scopo, tardi o tosto. – Non voglio io già insinuare, che non si debba armare il potere; ben lungi da ciò. Io penso come voi, che il solo modo umano che ci resta è di stendere in sulla Francia un braccio possente, capace d’incatenare le fazioni anarchiche; ed all’ombra di somigliante protezione tutelare, di supplicare la Chiesa Cattolica d’affaticarsi attivamente intorno alla guarigione delle anime. Affinché la sua impresa si renda possibile, è di mestieri non solamente d’accordarle piena libertà; ma di più, che ciascuno inetta la mano all’opera per suo proprio conto, e cominci per dare l’esempio di quella riforma ch’egli desidera avvenire negli altri. In una parola, non è la riforma elettorale che salverà la Francia, sebbene la riforma morale. Questa è la meta, a cui tende la mia epistola d’oggi, come le precedenti: riprendo il seguito del nostro studio.

II.

Se dalle nazioni noi passiamo ai particolari, noi osserveremo pur anche che la profanazione della domenica, ben lungi d’esser una fonte di prosperità, codesta diventa una sorgente inesauribile di miserie. – Io vi presentai la questione nei suoi rapporti tra i1 padrone e l’operaio, ed affermo che il lavoro profanatore è tanto nocivo alluno quanto all’altro. Permettetemi voi da principio di farvi rimarcare che i particolari non sfuggono punto di più che la società all’azione delle leggi divine, che queste leggi intelligenti come il fuoco infernale, secondo 1’espressione di Tertulliano, percuotono ciaschedun delitto d’un castigo particolare, lo percuotono a proporzione della sua gravità; ed alla differenza de’ supplizi eterni, percuotono ognora il colpevole per convertirlo. – Nei tesori della sua giustizia, Iddio conserva della moneta per tutti coloro che l’offendono: al negoziante, all’industriale, al proprietario, profanatore della domenica, egli manda alternativamente il fallimento, la grandine, la siccità, 1’incendio, l’epidemia, lo stagnamento degli affari, e, in qualche ora, gli fa scontare con usura tutte le obbligazioni contratte verso la sua giustizia per un vietato lavoro. – Per pagare l’operaio della sua rivolta spedisce a lui, alla sua moglie, a’ suoi figliuoli, o la malattia, o i terribili giorni feriali, o la penuria, che gli ritoglie il guadagno illecito, di cui s’inorgoglì, e sovente assai più ancora. Nulla di più comune. sopratutto odiernamente, che quelle provvide liquidazioni. A meno d’ammettere effetti senza cagione, si manca forse di logica riconoscendovi la punizione della cupidità, e della profanazione della domenica, che n’è la sacrilega e permanente manifestazione? – Tratto la questione dal lato puramente umano, e non separo ancora il padrone dal lavorante. Ascoltiamo un personaggio perfettamente competente. In un rapporto recentemente indirizzato al governo, il primiero magistrato d’una delle nostre grandi città manifatturiere s’esprime cosi: « Dall’attività incessante del lavoro che non rispetta il giorno santo, nacque: « La concorrenza illimitata che produce le frodi nella produzione; » La rivalità ardente e di cattiva fede; » La rovina degli artigiani; » I1 monopolio de’grandi stabilimenti; » L’aumento del numero de’fallimenti; » Il disordine e l’ abbruttimento dei lavoranti; » La distruzione della vita di famiglia; » L’assenza d ogni vincolo morale fra il padrone e l’operaio ». – Questo ricco beneficio è indiviso tra colui che profana e quegli che fa profanare la domenica. Passiamo a quello che appartiene esclusivamente al padrone; mentre vedremo poscia il fruito che ne tocca all’operaio.

III.

Egli è brevissima pezza che m’intratteneva con un capo di fucina intorno appunto alla questione presente. Quest’uomo, con un buon senso rimarchevole, mi diceva: Il lavoro della domenica non giova né al padrone, né all’operaio. Di fatto, se si lavora in tutte le domeniche ed in tutti gli altri giorni senza riposarsi, si fabbrica troppo, sovra tutto dietro l’invenzione delle macchine. Inoltre havvi nell’annata cinquantadue domeniche ed alcune feste; da ciò ne risulta un aumento considerevole de’ prodotti. Ora, non basta il produrre; bisogna vendere. Se tutte le industrie di Francia fanno la stessa cosa, voi avrete ben tosto una fabbricazione superiore alla consumazione. E che, forse la profanazione della domenica aumenterà il novero de consumatori? Ciascuno non continuerà egli a spendere ad un dipresso la stessa somma per le sue vestimenta e per lo suo nutrimento? E perciò, i prodotti, in tutto od in parte rimarranno in magazzino, e voi subirete infallibilmente una doppia perdita: il detrimento inevitabile delle mercanzie e l’assopimento dei capitali. – Ecco quanto corre pei tempi ordinari. – Che ne sarà se sopravvenga una crisi commerciale? se la confidenza si perde, se cessa la vendita? Eccovi voi rovinati co’ vostri magazzini riempiti di mercanzie, od almeno eccovi costretti di restringere la produzione, di vendere a più basso prezzo, di ricorrere alle dilazioni e di licenziare i vostri artigiani: cose tutte deplorabili, che sarebbonsi assai più sicuramente evitate per una fabbricazione moderata. Quante case di commercio non potrebbonsi citare, le quali portano oggi la pena della loro esagerata fabbricazione al punto di vista dell’interesse temporale, e colpevole al punto di vista religioso! – Dirassi forse, che siffatto inconveniente non è punto da paventarsi, poiché, in luogo di celebrare la domenica, l’artefice fa vacanza il lunedì; ciò che riduce alla medesima cifra il numero de’ giorni di lavoro? Certamente non è la stessa cosa pel padrone, e ciò per tre ragioni: la prima, perché l’operaio che non lavora il lunedì, prolunga spesso la vacanza per intero od in parte infino al martedì, dal che risulta pel padrone un altro inconveniente, che è di non poter contare certamente sovra il lavorante, e di restare così con lavori, i quali premono in sulle braccia, nell’impossibilità di finirli nel giorno determinato, e di compiere la sua promessa. Da ciò nascono talora disdette considerabili a carico del padrone, gravi disgusti dalla parie de’ clienti, ed infine vien pur anco la perdita della fiducia. – La seconda, perché l’artigiano che passa abitualmente il lunedì nella bettola, si disusa nell’arte sua e ne strafalcia l’opera. Il lavorìo che eseguisce il martedì sotto le ultime emozioni dell’ubriachezza, non vale la metà del suo prezzo; e soventemente, come diceva un ispettore di manifattura, bisogna farlo ricominciare. – La terza, perché l’operaio che gode di non lavorare nel lunedì si abitua a dettar la legge al padrone. Se, dovunque abbonda il lavoro, ciascun dì si mostra presto a rompere l’accordo seco voi pattuito, e, come egli dice, n’impone alla borghesia, questo non rende i borghesi né più ricchi, né più felici. Se scarseggia il lavoro, e, l’operajo si rimanda, siccome è principio che niuno muore di fame, cosi tocca ancora al padrone, di concerto con altre persone caritatevoli, sopportare il peso di alimentare costui e la famiglia di lui; imperocché l’operaio che non lavora nel lunedì, non economizza certo. La sua cassa di risparmio è il banco del mercatante da vino, e cotesto banco ingoia tutto, e nulla mai rende. – M’inganno io, rende molto. Esso rende l’operaio bordelliere, infedele, invidioso, minacciante: bordelliere, s’infastidisce del lavoro, e malamente l’eseguisce: primo benefizio del padrone. Infedele, non si fa scrupolo mai di sprecare il tempo, e sentesi un grido generale contro al rilasso ed alla pigrizia de’ lavoranti, quando non sono sorvegliali dal padrone. Nulladimeno bisogna che questi loro paghi la giornata come se l’avessero coscienziosamente impiegala: secondo benefizio del padrone. Invidioso, perché l’abitudine alle allegrie ed all’oziosità contralta nella taverna, gli fa ambire la sorte di chi può vivere senza affaticarsi; e giura agli aristos un odio uguale alla sua gelosia: terzo benefizio del padrone. Minacciante, egli prestò l’orecchio ai canti, ed alle proposizioni le più anarchiche, linguaggio abituale de’ luoghi da lui frequentati, e la sua smania del benessere si infiammò siffattamente, che nell’occasione, per soddisfare ad esso, non retrocederà punto dinanzi ai mezzi i più violenti: quarto beneficio del padrone. – In breve, la concorrenza illimitata e sleale, l’ingombro de’prodotti, la sonnolenza de’capitali, i numerosi fallimenti, una minaccia perpetua alla vostra tranquillità e fortuna, son come la spada di Damocle, che sospesa sulle vostre teste dice: ecco, industriali, negozianti, proprietari, ricchi, qualunque siate voi, la cui cieca cupidigia comanda, o la cui stupida indifferenza autorizza la violazione del giorno sacro, ecco i vantaggi particolari che voi ne riscuotete. Voglia Iddio, che a voi non ne tornino altri! Voglia Iddio, che non abbiate voi a temere niente di più grave di quegli stormi popolari, de’ quali il vostro insolente disprezzo della legge di Dio ha scatenato le veementi passioni. Ma se mai quest’onda, che minaccia voi, e che ingrossa, viene a rompere l’ultimo suo riparo, voi saprete di chi n’è la colpa: gli avvertiménti non vi mancarono.

IV.

Se la profanazione della domenica è fatale agl’interessi del padrone, questa lo è pur anche agl’interessi dell’operaio. È qui, sig. Rappresentante, che noi tocchiamo al vivo la piaga. Primieramente, l’operaio guadagna assolutamente nulla pel lavorare del settimo giorno. Gli si sussurrò: cinquanta o sessanta giornate di lavoro di più per anno ti frutterà un considerabile benefizio. Ma al fianco di somigliante calcolo, che lo sedusse, si fe’ un’operazione, della quale non se ne avvide: si ricalò il salario. La è cosa di presente incontestabile, che l’artefice non lucra di più in sette giorni di lavoro, di quello che n’approfittava altre fiate in sei giorni. – Proseguiamo: questo settimo dì, l’artigiano non lo consacrò alla fatica, ma alla licenziosità; tanto che esso si trova odiernamente, per cagione della profanazione della domenica, ridotto, come pel passato, a sei giorni di lavoro per settimana, colla differenza d’essergli diminuito il salario, e di aver peggiorato nella buona condotta.

V.

Ohimè sì, la profanazione della domenica costa all’operaio 1’unico suo tesoro, la buona condotta. Da grande pezza, signore e caro amico, voi rimuginate l’origine della miseria, e dell’ indigenza delle classi lavoratrici; voi avete volto e rivolto la questione sotto tutti i suoi aspetti, e come tutti gli osservatori degni di questo nome, voi non conoscete che due cagioni reali della miseria per l’operajo: l’ozio e la mala condotta. L’ozio proviene da circostanze esteriori, che i mezzi ordinari possono attenuare o distruggere: la condotta sregolata nasce d’un male interno, che sfugge all’azione ordinaria dell’uomo. L’ozio non è per avventura che parziale e temporale; una tale condotta è disgraziatamente generale e permanente. – Per simil condotta dell’ operaio intendo le abitazioni d’accidia, d’imprevidenza, di lusso negli abbigliamenti, nei mobili, negli alimenti; di dissolutezza , cioè il bazzicare per le bettole. pe’ caffè, pe’ teatri e per altri luoghi. Ora, niuno può dissimularselo, che questa condotta, di tal modo intesa, e che, salvo errore, deve essere tale, esiste sopra una vasta scala nel seno delle classi artigiane delle nostre città. Ora che codesta divenga pur troppo cagione profonda e permanente della miseria, sarà superfluo il provarlo. In qualunque famiglia lavoratrice, in cui non si dia equilibrio tra l’uscita, e l’ entrata, v’alberga la miseria. Che troppo! l’immoralità diventa incompatibile con questa equilibrazione necessaria, perché la distrugge, divorandone assai più che non arreca il salario quotidiano, unica entrata della famiglia. – Donde origina la mala condotta deil’operaio? Deriva da ciò che ha spezzato il solo freno capace d’incatenar le sue inclinazioni, i suoi capricci, ed i suoi appetiti sregolati, divenuti talmente imperiosi che formano la regola abituale della sua maniera di vivere. – Or questo freno qual è mai? L’universo intero sorge per rispondere: questo freno è la religione. La religione, la quale di una mano segna infallibilmente al mortale i limiti del bene e del male; e col1’altra gl’infonde la forza per lottare vittoriosamente contro le proprie passioni la religione che lo colloca del continuo sotto l’occhio d’un Dio, il Quale vede tutto, alla presenza d’un giudice sovrano, il quale non si può né ingannare, né corrompere; la religione finalmente, la quale gli mostra, al di là della tomba, il cielo e l’inferno, inevitabile mercede di sue virtù o de’ suoi peccati. – Quale cosa mai è quella che infrange questo salutare freno? Quale cosa è quella che trucida la religione nel cuore del1’operaio, e l’abbandona conseguentemente come una preda senza difesa alle sue divoranti passioni? Avanti tutto, e sopratutto, la profanazione della domenica.

VI.

Per provarlo, io non dirò quivi che colla profanazione della domenica la religione non è, né conosciuta, né meditata, né praticata; bisognerebbe rifare la lettera, in cui vi sviluppai queste considerazioni. – Stabilisco la mia tesi invergando la questione sotto un novello punto di vista, e così pronuncio che l’uomo non potendo incessantemente lavorare, fa d’uopo che egli si riposi. Questa è una legge altrettanto irremovibile ed inflessibile quanto quella, la quale presiede al corso del sole. Ora se l’artefice non prende riposo nella domenica alla chiesa, egli vi si abbandona nel lunedì alla taverna. – È questa altresì una legge invariabile, il cui adempimento è così universale, e così costante come la profanazione della domenica. Ma il riposo della taverna, sapete voi ciò che è”? Codesto è l’immoralità in permanenza, e la feccia di tutto quello che la stessa ha di più degradante e di più rovinoso. – Vedete voi codest’operaio, codesto padre di famiglia gomitolato sovra una tavola insozzata degli avanzi d’una protratta orgia, scambiando co’ suoi compagnoni di dissolutezza canti anarchici, o discorsi sconci ed osceni? Sapete voi mai ciò che costui cionca nel bicchiere che vacilla nelle sue mani tremanti per /l’ubriachezza? Egli tracanna le lacrime, il sangue, la vita della sua sposa e de’ suoi fanciulli. Statuita la media , la taverna gli costa poco meno di cento scudi per anno: tre franchi per la giornata perduta, cd altri tre di spesa, cagionano una tale perdita, la quale, rinnovata cinquanta volte per anno, rimonta facilmente alla triste somma suindicata. Ora, se cento scudi di più per anno in una famiglia di operai, ne costituiscono l’agiatezza; cento scudi di meno, ne cagionano la miseria. Se questo disordine è generale, esso diventa la miseria permanente, la miseria incurabile per la classe lavoratrice di tutta una città, di tutto un reame. – Eppur! è di necessità il confessarlo adontandosene, che cotesto disordine si ingrandì in proporzione diretta della profanazione della domenica, di cui è la conseguenza; e che questa essendo divenuta generale, ancor quello diventò tale, e divenendolo, ci ha dotati della miseria, ed ha ucciso la vita di famiglia.— Uno sguardo solo sopra cotesto spaventevole progresso, più o meno rapido secondo le provincie, ma incontrastabile dovunque. Conosceva io una delle nostre città, la quale nel 1789 coniava una popolazione di 14,000 abitanti. Trovavansi tre alberghi, e due caffè, ne’ quali il popolo non entrava mai, e diciotto o venti osterie. Per contraccambio donavansi quasi in tutte le domeniche, e quasi in tutte le case modeste cene di famiglia, di cui tutti approfittavano: padre, madre, amici, fanciulli insieme piacevolmente mangiavano, bevevano, ciaramellavano, ed in dolce armonia lasciavansi.Di presente, questa stessa città per una popolazione di 16,000 anime possiede otto alberghi, ventisei caffè frequentatissimi dal popolo, e duecento ottantatrè osterie; in tutto trecento ventun venditori di vino e di liquori. Non fa di mestieri l’aggiungere che al partir dalla domenica dopo mezzodì, insino al lunedì sera, ed anche al martedì mattina, la più parte di codeste bettole sempre rigurgitano. – Calcolando, dietro le cifre ufficiali, oltre alla perdita della giornata, la spesa dei liquidi e dei commestibili, voi arrivate, mettendo tutto al minimum, ad un’imposizione annuale di più di 30,000 franchi, prelevati sovra questa condotta. – Ciò oltrepassa più del doppio quello che la città elargisce in elemosine. Ma però, non si danno più pranzi di famiglia, né si fanno più unioni, od altre feste domestiche, non più società; invece di tutto questo, vi regna la miseria sotto tutti i nomi, e sotto tutte le forme. Ecco qual vantaggio diretto produce la profanazione della domenica e la frequentazione delle taverne, che n’è l’inevitabile conseguenza. – Notiamo frattanto il beneficio indiretto. Tale condotta delle classi operaie, conseguenza della profanazione della domenica, non consiste solamente nelle dissolutezze delle bische, giacché conduce ad altre, che non voglio nominare, e che sono una novella scaturigine di spese, lo dirò solamente, perché tutto il mondo lo vede, che quella conduce al lusso esagerato nella toeletta, nelle suppellettili, ne1 cibi: quella conduce a’ piaceri degli spettacoli, e della danza. Ora, tutte siffatte cose sarebbero evitate, almeno in parie, e con un pochettino di più di timor di Dio e di fedeltà alla religione, conseguentemente con la santificazione della domenica, senza cui, come dimostrai, la religione è impossibile. – Per istare eziandio al di sotto della realtà, queste diverse spese cagionate per la condotta s’elevano ciascuna annata, per lo meno, a trenta franchi per famiglia. – Ora la città, di cui ragiono, annovera all’intorno 1,500 famiglie operaie. Ecco impertanto una novella imposizione di 45.000 franchi, che, aggiunta a 50,000 ci dona una contribuzione annuale di 95.000 franchi. Che questa somma smoderata riceva un impiego normale, cioè, che l’operaio divenga religioso ed onesto, ed in luogo della miseria profonda, ed incurabile, si godrà d’un’agiatezza, e d’un benessere generale; tal è il fallace compito dell’infelice città, di cui parlo, la quale non è necessario che l’annunci io, distinguendosi tristemente fra tutte per la profanazione della domenica.

VII.

Ecco quello della Francia intera. Secondo il censo generale fallo da qualche mese appena, si numerano in Francia 332,000 osterie, dove si spendono annualmente 105 milioni. Aggiungendovi le altre spese di lusso e di piacere, che noi abbiamo rimarcato come la conseguenza ordinaria della profanazione della domenica, e calcolate a 30 franchi per famiglia, voi avete, per quattro milioni di famiglie lavoratrici, una novella somma di 120 milioni, ciò che dona, per la Francia intera, la cifra enormissima di 225 milioni. Ma io temo che il novero delle famiglie suddette, sia della città, che della campagna, le quali profanano la domenica, e delle quali i genitori ed i figliuoli frequentano i ridotti, siano assai più considerabile. – Nel 1841, la somma degli operai nelle fabbriche, nelle manifatture e nei laboratori delle diverse professioni era di 6,000,000; quella degli agricoltori e braccianti della campagna di 421,978,278. Io non pretendo punto attribuire alla dissolutezza sola tulle le spese fatte nelle taverne; ma, riducendo alla metà quelle che sono le imputabili, comprendete voi ancora qual ammontare eccessivo di troppo paga la mala condotta. E poi, che è addivenuto, nella Francia intera, della vita di famiglia, dell’educazione della figliolanza, e dello spirito di società nella riunione dominicale de’parenti e degli amici attorno ad una mensa moderatamente imbandita? Ogni cosa disparve colla santificazione della domenica. – Spiegate voi, pertanto, perché le numerose elemosine che si versano ciascun anno nel grembo delle popolazioni, non migliorano la loro sorte; perché questo fiume d’oro stillante come tante gocce d’acqua nella botte delle Danaidi; perché, nonostante tante molteplici opere di carità spirituale e corporale. L’immoralità diventa di giorno in giorno più generale e più profonda; perché la mendicità, codesta cangrena corroditrice delle società moderne, invece d’essere arrestata nel suo invadente cammino, minaccia, sotto il nome di comunismo, di divorar ben tostamente i popoli profanatori della domenica; perché, al postutto, in Parigi, dove cotesto disordine tocca all’estremo, i due quinti della popolazione muoiono all’ospedale? Ehi mio Dio! La spiegazione non è difficile a trovarsi: i sudori dell’artigiano, ed una parte delle elemosine del ricco si scialacquano alla taverna, e ciò è la profanazione della domenica che moltiplica, ed arricchisce la bettola; e codesta diventa la strada dell’ospedale, quando pure non si trasformi in quella della galera. – E come mai potrebbe altrimenti succedere? – Il lavorante che travaglia nella domenica, si trova solo nel lunedì. La sua donna sta occupata sia al di fuori, sia al di dentro delle faccende famigliari; i suoi figliuoli sono al tirocinio od alla scuola: che volete voi che ne addivenga? Egli s’annoia della sua solitudine, e vola naturalmente alla bettola per cercare la società e i godimenti ch’egli non trova al focolare domestico. – Al contrario, se lo stesso si riposasse nella domenica, il pericolo della solitudine per lui non esisterebbe. Libero dalle esteriori occupazioni, la sua moglie e i suoi fanciulli n’attirerebbero l’attenzione. Il loro esempio, le loro sollecitudini, il timore solo di restare isolato, sufficienti sarebbero alla lunga per risolverlo a mettersi fra’ piedi con esso loro la via della chiesa, e renderlo, ciò che non sarà giammai profanando la domenica, un buon padre, un buono sposo, un operaio onesto, laborioso, economo. – E dunque dirittamente stabilito che la menzogna la più mostruosa che siasi giammai commessa, dopo quella di satanasso nel paradiso terrestre, consiste nel buccinare che il lavoro della domenica è una sorgente del benessere per i particolari e per i popoli. Cotesto n’è, ne fu e ne sarà sempre mai la rovina. Gradite, ecc.

MESSA DELL’EPIFANIA

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Introitus

Malach III:1; 1 Par XXIX:1

Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium.

Ps LXXI:1 Deus, judícium tuum Regi da: et justítiam tuam Fílio Regis. V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium

[Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero. Ps 71:1 – O Dio, concedi al re il tuo giudizio, e la tua giustizia al figlio del re. V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo. R. Come era nel principio è ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Orémus.

Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum géntibus stella duce revelásti: concéde propítius; ut, qui jam te ex fide cognóvimus, usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis perducámur.

[O Dio, che oggi rivelasti alle genti il tuo Unigenito con la guida di una stella, concedi benigno che, dopo averti conosciuto mediante la fede, possiamo giungere a contemplare lo splendore della tua maestà.]

Lectio Léctio Isaíæ Prophétæ. Is LX:1-6

Surge, illumináre, Jerúsalem: quia venit lumen tuum, et glória Dómini super te orta est. Quia ecce, ténebræ opérient terram et caligo pópulos: super te autem oriétur Dóminus, et glória ejus in te vidébitur. Et ambulábunt gentes in lúmine tuo, et reges in splendóre ortus tui. Leva in circúitu óculos tuos, et vide: omnes isti congregáti sunt, venérunt tibi: fílii tui de longe vénient, et fíliæ tuæ de látere surgent. Tunc vidébis et áfflues, mirábitur et dilatábitur cor tuum, quando convérsa fúerit ad te multitúdo maris, fortitúdo géntium vénerit tibi. Inundátio camelórum opériet te dromedárii Mádian et Epha: omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.

[Lettura del Profeta Isaia: Sorgi, o Gerusalemme, sii raggiante: poiché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te. Mentre le tenebre si estendono sulla terra e le ombre sui popoli: ecco che su di te spunta l’aurora del Signore e in te si manifesta la sua gloria. Alla tua luce cammineranno le genti, e i re alla luce della tua aurora. Leva gli occhi e guarda intorno a te: tutti costoro si sono riuniti per venire a te: da lontano verranno i tuoi figli, e le tue figlie sorgeranno da ogni lato. Quando vedrai ciò sarai raggiante, il tuo cuore si dilaterà e si commuoverà: perché verso di te affluiranno i tesori del mare e a te verranno i beni dei popoli. Sarai inondata da una moltitudine di cammelli, dai dromedarii di Madian e di Efa: verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Graduale

Isa LX:6; LX:1 Omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes. V. Surge et illumináre, Jerúsalem: quia glória Dómini super te orta est. Allelúja, allelúja [Verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore. Sorgi, o Gerusalemme, e sii raggiante: poiché la gloria del Signore è spuntata sopra di te. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Matt II:2. Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum. Allelúja.

[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni per adorare il Signore. Alleluja.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum

Gloria tibi, Domine!

Matt II:1-12

Cum natus esset Jesus in Béthlehem Juda in diébus Heródis regis, ecce, Magi ab Oriénte venerunt Jerosólymam, dicéntes: Ubi est, qui natus est rex Judæórum? Vidimus enim stellam ejus in Oriénte, et vénimus adoráre eum. Audiens autem Heródes rex, turbatus est, et omnis Jerosólyma cum illo. Et cóngregans omnes principes sacerdotum et scribas pópuli, sciscitabátur ab eis, ubi Christus nasceretur. At illi dixérunt ei: In Béthlehem Judae: sic enim scriptum est per Prophétam: Et tu, Béthlehem terra Juda, nequaquam mínima es in princípibus Juda; ex te enim éxiet dux, qui regat pópulum meum Israel. Tunc Heródes, clam vocátis Magis, diligénter dídicit ab eis tempus stellæ, quæ appáruit eis: et mittens illos in Béthlehem, dixit: Ite, et interrogáte diligénter de púero: et cum invenéritis, renuntiáte mihi, ut et ego véniens adórem eum. Qui cum audíssent regem, abiérunt. Et ecce, stella, quam víderant in Oriénte, antecedébat eos, usque dum véniens staret supra, ubi erat Puer. Vidéntes autem stellam, gavísi sunt gáudio magno valde. Et intrántes domum, invenérunt Púerum cum María Matre ejus, hic genuflectitur ei procidéntes adoravérunt eum. Et, apértis thesáuris suis, obtulérunt ei múnera, aurum, thus et myrrham. Et re sponso accépto in somnis, ne redírent ad Heródem, per aliam viam revérsi sunt in regiónem suam,

[Seguito ✠ del Santo Vangelo secondo Matteo. R. Gloria a Te, o Signore! Matt II:1-12

Nato Gesú, in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco arrivare dei Magi dall’Oriente, dicendo: Dov’è nato il Re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo. Sentite tali cose, il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E, adunati tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, voleva sapere da loro dove doveva nascere Cristo. E questi gli risposero: A Betlemme di Giuda, perché cosí è stato scritto dal Profeta: E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra i príncipi di Giuda: poiché da te uscirà il duce che reggerà il mio popolo Israele. Allora Erode, chiamati a sé di nascosto i Magi, si informò minutamente circa il tempo dell’apparizione della stella e, mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e cercate diligentemente il bambino, e quando l’avrete trovato fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo. Quelli, udito il re, partirono: ed ecco che la stella che avevano già vista ad Oriente li precedeva, finché, arrivata sopra il luogo dov’era il bambino, si fermò. Veduta la stella, i Magi gioirono di grandissima gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino con Maria sua madre qui ci si inginocchia e prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non passare da Erode, tornarono al loro paese per un altra strada. – Lode a Te, o Cristo.]

Sermone di san Leone Papa

Sermone 2 sull’Epifania

Gioite nel Signore, o dilettissimi, di nuovo dico, gioite: perché dopo breve intervallo di tempo dalla solennità della Nascita di Cristo, risplende la festa della sua manifestazione: e colui che in quel giorno la Vergine diede alla luce, il mondo l’ha riconosciuto quest’oggi. Infatti il Verbo fatto uomo dispose il suo ingresso nel mondo in tal maniera, che il bambino Gesù fu manifestato ai credenti e occultato ai suoi persecutori. Fin d’all’ora dunque «i cieli proclamarono la gloria di Dio, e il suono della verità si sparse per tutta la terra» (Ps. 18,1), quando una schiera d’Angeli apparve ai pastori per annunziare loro la nascita del Salvatore, e una stella fu di guida ai Magi per venire ad adorarlo; affinché dall’oriente fino all’occidente risplendesse la venuta del vero Re, perché così i regni d’Oriente appresero dai Magi gli elementi della fede, ed essi non rimasero nascosti all’impero Romano. – Poiché anche la crudeltà d’Erode, che voleva soffocare in sul nascere il Re che gli era sospetto, serviva, a sua insaputa, a questa diffusione della fede; ché, mentre intento a un atroce delitto perseguitava, con un massacro generale di bambini, l’ignoto bambino, ovunque più solennemente si spargeva la fama della nascita annunziata dal dominatore del cielo, rendendola più pronta e più atta alla divulgazione, e la novità d’un segno nuovo nel cielo e l’empietà del crudelissimo persecutore. Allora pertanto il Salvatore fu portato anche in Egitto, affinché questo popolo, in preda a vecchi errori, fosse preparato, con una grazia secreta, a ricevere la sua prossima salute; e affinché, prima ancora d’aver bandito dall’animo la superstizione, ricevesse già ospite la stessa verità. – Riconosciamo dunque, o dilettissimi, nei Magi adoratori di Cristo, le primizie della nostra vocazione e della nostra fede; e con animo esultante celebriamo i princìpi di questa beata speranza. Poiché fin d’allora cominciammo ad entrare nell’eterna eredità: fin d’allora ci si scoprirono i passi misteriosi della Scrittura intorno a Cristo; e la verità, che la cecità dei Giudei non accolse, sparse la sua luce in tutte le nazioni. Onoriamo dunque questo santissimo giorno in cui l’Autore della nostra salute s’è fatto conoscere: e quello che i Magi adorarono bambino nella culla, noi adoriamolo onnipotente nei cieli. E come quelli coi loro tesori offrirono al Signore dei mistici doni, così ancor noi sappiamo cavare dai nostri cuori dei doni degni di Dio.

Omelia di san Gregorio Papa

Omelia 10 sul Vangelo

Come avete udito, fratelli carissimi, nella lettura del Vangelo, un re della terra si turba alla nascita del Re del cielo: ciò perché ogni grandezza terrena rimane confusa allorché si manifesta la grandezza del cielo. Ma noi dobbiamo cercare perché, alla nascita del Redentore, un Angelo apparve ai pastori nella Giudea, mentre non un Angelo, ma una stella condusse i Magi d’Oriente ad adorarlo. Perché cioè i Giudei, servendosi della ragione per conoscerlo, era giusto che lo annunziasse loro una creatura ragionevole, vale a dire, un Angelo: mentre invece i Gentili, perché non sapevano servirsi della ragione, vennero condotti a conoscere il Signore non per mezzo d’una voce, ma con dei segni. Onde anche Paolo dice: «Le profezie sono date ai fedeli e non agl’infedeli; i segni al contrario agl’infedeli e non ai fedeli» (1Cor. 14,22). E così a quelli son date le profezie, perché erano fedeli, non già infedeli; e a questi sono dati i segni, perché erano infedeli, e non fedeli. – Ed è a notare, che allorquando il nostro Redentore sarà giunto all’età d’uomo perfetto, gli Apostoli lo predicheranno agli stessi Gentili, mentre bambino e non ancora capace di parlare con gli organi corporali, una stella lo annunzia alla Gentilità: ciò senza dubbio perché l’ordine della ragione richiedeva che fossero dei predicatori che parlassero per farci conoscere il Signore, quando lui stesso avesse parlato, e che dei muti elementi l’annunziassero quando egli non parlava ancora. Ma in tutti i prodigi che apparvero sia alla nascita del Signore, sia alla morte di lui, noi dobbiamo considerare quale fu la durezza di cuore di quei Giudei, i quali non lo riconobbero né al dono della profezia, né ai suoi miracoli. – Tutti infatti gli elementi resero testimonianza alla venuta del loro autore. E per parlare di essi secondo il linguaggio umano: i cieli lo riconobbero Dio, perché inviarono subito la stella. Lo riconobbe il mare, perché sotto i suoi piedi si dimostrò traversabile. Lo riconobbe la terra, perché tremò alla morte di lui. Lo riconobbe il sole, perché nascose la luce dei suoi raggi. Lo riconobbero i sassi e le pareti, perché al momento della sua morte si spezzarono. Lo riconobbe l’inferno, perché restituì i morti che teneva. E tuttavia, colui che tutti gli insensibili elementi riconobbero per Signore, i cuori degli infedeli Giudei ancora non lo riconoscono per Dio, e, più duri dei sassi, non si vogliono aprire al pentimento.

Omelia di S.S. Gregorio XVII per

EPIFANIA (1977)

Parrebbe, cari fedeli, che l’odierna solennità sia destinata soltanto a ricordare il fatto della venuta dei Magi, che avete sentito raccontare ora nella lettura del Santo Vangelo (Mt II, 1-12), ma non è così. Questa solennità ha un respiro molto più ampio, e questo respiro molto più ampio ci è indicato dalle letture che hanno preceduto quella del Vangelo. – Ma quello che impressiona è il cantico – perché in realtà è un cantico -, che abbiamo sentito leggere nella prima lettura ed è tolto dal cap. LX del profeta Isaia (vv. 1-6). Questo capitolo ha un andamento non solo poetico, ma trionfale, ed è questo che dobbiamo cogliere ed è questo che ci dà la dimensione forse più profonda di questa solennità. Cosa dice Isaia in quel cantico? Dice questo: rinnova la promessa contenuta già nel cap. 54 della stessa profezia del ritorno dall’esilio che doveva ancora accadere – sarebbe accaduto quasi tre secoli dopo -, dall’esilio babilonese, e pertanto canta la ricostruzione di Gerusalemme. Ma come è solito nella letteratura tanto del Vecchio quanto del Nuovo Testamento, dal fatto contingente nel tempo l’agiografo si leva alla considerazione universale e dalla Gerusalemme materiale, capitale della Palestina, sorge contemplare un’altra Gerusalemme, un’altra città, un altro regno. La chiama Gerusalemme, ma in senso figurato, che aduna tutto il mondo, che porta tutto il mondo, da tutte le genti, con tutte le lingue, con tutti i canti, verso Colui che deve venire. Cioè la prima lettura ci dice questo: che l’Epifania, manifestazione globale di Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è anche e soprattutto la vocazione di tutte le genti alla fede, cioè la chiamata delle genti a Gesù Cristo. Ed è questo il punto sul quale io voglio attirare la vostra attenzione. – La chiamata di tutte le genti costituisce un mistero, e ve ne accorgerete da quello che sto per dire. Ed un mistero sotto diversi aspetti. Anzitutto la chiamata di tutte le genti non significa la connversione di tutte le genti, per la ragione che Dio chiama, ma lascia liberi, perché rispetta la libertà che ha donato; è coerente Iddio, non lo siamo noi, generalmente, ma Lui sì. Rispetta questa libertà, che è il fondamento del valore personale, del merito personale dell’uomo. Pertanto chiamata universale non significa cammino universale, anche se questo cammino universale è adombrato nel cantico di Isaia. Chiamata delle genti: noi restiamo un po’ sopra pensiero, perché ne vediamo molte riottose, ne vediamo molte poco fedeli, ne vediamo molte ancora nelle tenebre. Sì, il Vangelo è annunziato fino agli estremi della terra – tant’è vero che il giorno di Natale è sentito da tutto il mondo, cristiani e non cristiani -, ma le cose non sono così completamente perfette e limpide. Questa chiamata delle genti lascia il cielo coperto, soltanto si vede qua e là qualche sprazzo di sereno e questo è un mistero per noi, ma non tanto. Perché? Per questo motivo: nella Sacra Scrittura è asserito che Dio vuole salvi tutti gli uomini (cfr. I Tim II, 4) e non vuole che alcuno di essi perisca. – Questo è quello che vuole Dio: desiderio divino, ma non desiderio tale da pigliar per il collo gli uomini. Però indica che Dio da parte Sua fa tutto perché tutti gli uomini siano salvi. Ed è proprio da quest’affermazione della Sacra Scrittura che la dottrina cattolica ha derivato un’affermazione dottrinale certa e che non può essere messa in dubbio: che Dio dà a tutti gli uomini la grazia necessaria per salvarsi. È questo il mistero: come, quando, in che modo noi non lo constatiamo; lo sappiamo, perché l’ha detto, ma non lo constatiamo. E a questo punto sul margine del corpo visibile, societario, gerarchico della Chiesa siamo obbligati a spaziare sul mare immenso di cui non conosciamo i confini, cioè sulla moltitudine di quegli uomini che furono, che sono e che saranno e che attraverso un filo sottile e segreto, non iscritto nei fatti esterni e umani, Dio chiama a sé, ne ascolta anche la più piccola risposta affermativa data nel semplice ordine naturale, la accoglie e porta a perfezione, compiendo Lui, al di la della constatazione esterna, quanto occorre perché si abbia l’atto di fede esplicita nei misteri principali della Trinità e dell’Incarnazione ed implicita su tutto il rimanente corpo rivelato e perché si abbia l’atto di adesione a Dio, e attraverso questo atto di fede e di amore possa avvenire la salvezza. Badate che questo mare va all’infinito. Chi lo può contare? E il mistero di Dio! Non è un mistero nel fatto che esiste, è un mistero nel modo per cui si realizza. Per cui la famiglia di Dio non è larga quanto è compresa negli annuari. No, molto di quelli che sono compresi negli annuari della Chiesa ci sono ben poco e alcuni che sembrano esserci e scritti a caratteri anche a rilievo non ci sono affatto, perché hanno perduta la fede e l’hanno corrotta; e senza fede, che è adesione alla verità certa, è impossibile – parlo con le parole della Scrittura -, è impossibile piacere a Dio (cfr. Eb XI,6). Ma i confini del Regno di Dio veramente si estendono su tutta la terra, e noi, che qualche volta possiamo essere colti da un pensiero di superbia, come ad essere i privilegiati, i vicini, i carismatici, noi dobbiamo umilmente riconoscere che al di là del cerchio visivo dei nostri poveri occhi esistono tante altre anime che piacciono a Dio, che sono sulla via della salvezza. Ne esistono anche tante che hanno detto di no e diranno di no. Ci saranno giusti e ci saranno reprobi all’ultimo giudizio di Dio – ce lo dice il Vangelo -, ma ci sono tanti altri che dicono di sì. Dio non concede a noi per ragioni Sue, che forse in parte possiamo intuire, di avere la visione dettagliata di questo stupendo e trionfale accorrere da tutte le genti a Cristo Redentore, al Verbo di Dio incarnato, ma sappiamo che c’è ed è questo che rende grande il giorno della Epifania del Signore festa. Io consiglierei alle medesime di studiarsi meglio il catechismo e la Sacra Scrittura, perché forse capirebbero quello che non hanno mai capito. E l’augurio che faccio a loro e, se qui dentro ci fosse qualcuno che avrebbe bisogno di questo augurio, lo faccio anche a lui!

Credo …

 

Antif. All’Offertorio

Orémus Ps LXXI:10-11 Reges Tharsis, et ínsulæ múnera ófferent: reges Arabum et Saba dona addúcent: et adorábunt eum omnes reges terræ, omnes gentes sérvient ei.

[I re di Tharsis e le genti offriranno i doni: i re degli Arabi e di Saba gli porteranno regali: e l’adoreranno tutti i re della terra: e tutte le genti gli saranno soggette.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quæsumus, Dómine, dona propítius intuere: quibus non jam aurum, thus et myrrha profertur; sed quod eisdem munéribus declarátur, immolátur et súmitur, Jesus Christus, fílius tuus, Dóminus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

[Guarda benigno, o Signore, Te ne preghiamo, alle offerte della tua Chiesa, con le quali non si offre più oro, incenso e mirra, bensì Colui stesso che, mediante le medesime, è rappresentato, offerto e ricevuto: Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore: Lui che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

Communio

Matt II:2 Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.

[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni ad adorare il Signore.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, quæ sollémni celebrámus officio, purificátæ mentis intellegéntia consequámur. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

[V. Il Signore sia con voi. R. E con il tuo spirito. Preghiamo. Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che i misteri oggi solennemente celebrati, li comprendiamo con l’intelligenza di uno spirito purificato. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

In preparazione all’EPIFANIA

“Orietur stella ex Jacob, et consurget virga de Israel”

[UNA STELLA sorgerà da Giacobbe; uno scettro spunterà da Israele]

stella-dei-magi

EPIFANIA DI NOSTRO SIGNORE

[Dom. Guéranger. L’anno liturgico, vol. I]

Il nome della festa.

La festa dell’Epifania è la continuazione del mistero di Natale; ma si presenta, sul Ciclo cristiano, con una sua propria grandezza. – Il nome, che significa Manifestazione, indica abbastanza chiaramente che essa è destinata ad onorare l’apparizione di Dio in mezzo agli uomini. – Questo giorno, infatti, fu consacrato per parecchi secoli a festeggiare la Nascita del Salvatore; e quando i decreti della Santa Sede obbligarono tutte le Chiese a celebrare, insieme con Roma, il mistero della Natività il 25 dicembre, il 6 gennaio non fu completamente privato della sua antica gloria. Gli rimase il Nome di Epifania con la gloriosa memoria del Battesimo di Gesù Cristo, di cui la tradizione ha fissato a questo giorno l’anniversario. – La Chiesa Greca dà a questa Festa il venerabile e misterioso nome di Teofania, celebre nell’antichità per significare un’Apparizione divina. Ne parlano Eusebio, san Gregorio Nazianzeno, sant’Isidoro di Pelusio, e, nella Chiesa Greca, è il titolo proprio di questa ricorrenza liturgica. – Gli Orientali chiamano ancora questa solennità i santi Lumi, a motivo del Battesimo che si conferiva un tempo in questo giorno in memoria del Battesimo di Gesù Cristo nel Giordano. È noto come il Battesimo sia chiamato dai Padri illuminazione, e quelli che l’hanno ricevuto “illuminati”[oggi “illuminati” si definiscono gli appartenenti ad una setta dell’alta massoneria! –ndr.-] – Infine, noi chiamiamo comunemente, in Francia, tale festa la Festa dei Re, in ricordo dei Magi la cui venuta a Betlemme è celebrata oggi in modo particolare. – L’Epifania condivide con le Feste di Natale, di Pasqua, della Ascensione e di Pentecoste, l’onore di essere qualificata con il titolo di giorno santissimo, nel Canone della Messa; e viene elencata fra le feste cardinali, cioè fra le solennità sulle quali si basa l’economia dell’Anno liturgico. Una serie di sei domeniche prende nome da essa, come altre serie di domeniche si presentano sotto il titolo di Domeniche dopo Pasqua, Domeniche dopo la Pentecoste. – Il giorno dell’Epifania del Signore è dunque veramente un gran giorno; e la letizia nella quale ci ha immersi la Natività del divino Bambino deve effondersi nuovamente in questa solennità. Infatti, questo secondo irradiamento della Festa di Natale ci mostra la gloria del Verbo incarnato in un nuovo splendore; e senza farci perdere di vista le bellezze ineffabili del divino Bambino, manifesta in tutta la luce della sua divinità il Salvatore che ci è apparso nel suo amore. Non sono più soltanto pastori che son chiamati dagli Angeli a riconoscere il verbo fatto carne, ma è il genere umano, è tutta la natura che la voce di Dio stesso chiama ad adorarlo e ad ascoltarlo.

I misteri della festa.

Nei misteri della divina Epifania, tre raggi del sole di giustizia scendono fino a noi. Questo sesto giorno di gennaio, nel ciclo della Roma pagana, fu assegnato alla celebrazione del triplice trionfo d’Augusto, autore e pacificatore dell’Impero; ma quando il nostro pacifico Re, il cui impero è eterno e senza confini, ebbe deciso, con il sangue dei suoi martiri, la vittoria della propria Chiesa, questa Chiesa giudicò, nella sapienza del cielo che l’assiste, che un triplice trionfo dell’Imperatore immortale dovesse sostituire, nel rinnovato Ciclo, i tre trionfi del figlio adottivo di Cesare. Il 6 gennaio restituì dunque al venticinque dicembre la memoria della Nascita del Figlio di Dio; ma in cambio tre manifestazioni della gloria di Cristo vennero ad adunarsi in una stessa Epifania: il mistero dei Magi venuti dall’Oriente sotto la guida della Stella per onorare la divina Regalità del Bambino di Betlemme; il mistero del Battesimo di Cristo proclamato Figlio di Dio nelle acque del Giordano dalla voce stessa del Padre celeste; e infine il mistero della potenza divina di quello stesso Cristo che trasforma l’acqua in vino al simbolico banchetto delle Nozze di Cana. – Il giorno consacrato alla memoria di questi tre prodigi è insieme l’anniversario del loro compimento? È una questione discussa. Ma basta ai figli della Chiesa che la loro Madre abbia fissato la memoria di queste tre manifestazioni nella Festa di oggi, perché i loro cuori applaudano i trionfi del divin Figlio di Maria. Se consideriamo ora nei particolari il multiforme oggetto della solennità, notiamo innanzi tutto che l’adorazione dei Magi è il mistero che la santa Romana Chiesa onora oggi con maggior compiacenza. – A celebrarlo è impiegata la maggior parte dei canti dell’Ufficio e della Messa, e i due grandi Dottori della Sede Apostolica, san Leone e san Gregorio, sembra che abbiano voluto insistervi quasi unicamente, nelle loro Omelie sulla festa, benché confessino con sant’Agostino, san Paolino di Nola, san Massimo di Torino, san Pier Crisologo, sant’Ilario di Arles e sant’Isidoro di Siviglia, la triplicità del mistero dell’Epifania. La ragione della preferenza della Chiesa Romana per il mistero della Vocazione dei Gentili deriva dal fatto che questo grande mistero è sommamente glorioso a Roma che, da capitale della gentilità quale era stata fino allora, è diventata la capitale della Chiesa cristiana e dell’umanità, per la vocazione celeste che chiama oggi tutti i popoli alla mirabile luce della fede, nella persona dei Magi. – La Chiesa Greca non fa oggi menzione speciale dell’adorazione dei Magi. Essa ha unito questo mistero a quello della Nascita del Salvatore negli Uffici per il giorno di Natale. Tutte le sue lodi, nella solennità odierna, hanno per unico oggetto il Battesimo di Gesù Cristo. – Questo secondo mistero dell’Epifania è celebrato insieme con gli altri due dalla Chiesa Latina, il 6 gennaio. Se ne fa più volte menzione nell’Ufficio di oggi; ma siccome la venuta dei Magi alla culla del neonato Re attira soprattutto l’attenzione della Roma cristiana in questo giorno, è stato necessario, perché il mistero della santificazione delle acque fosse degnamente onorato, legare la sua memoria a un altro giorno. Dalla Chiesa d’Occidente è stata scelta l’Ottava dell’Epifania per onorare in modo particolare il Battesimo del Salvatore. – Essendo inoltre il terzo mistero dell’Epifania un po’ offuscato dallo splendore del primo, benché sia più volte ricordato nei canti della Festa, la sua speciale celebrazione è stata ugualmente rimessa a un altro giorno, e cioè alla seconda Domenica dopo l’Epifania. Alcune Chiese hanno associato al mistero del cambiamento dell’acqua in vino quello della moltiplicazione dei pani, che ha infatti parecchie analogie con il primo, e nel quale il Salvatore manifestò ugualmente la sua potenza divina; ma la Chiesa Romana tollerando tale usanza nel rito Ambrosiano e in quello Mozarabico, non l’ha mai accolta, per non venir meno al numero di tre che deve segnare nel Ciclo i trionfi di Cristo il 6 gennaio, e anche perché san Giovanni ci dice nel suo Vangelo che il miracolo della moltiplicazione dei pani ebbe luogo nella prossimità della Festa di Pasqua, il che non potrebbe attribuirsi in alcun modo al periodo dell’anno nel quale si celebra l’Epifania. – Diamoci dunque completamente alla letizia di questo bel giorno e nella Festa della Teofania, dei santi Lumi, dei Re Magi, consideriamo con amore la luce abbagliante del nostro divino Sole che sale a passi da gigante, come dice il Salmista (Sal. XVIII, 18) e che riversa su di noi i fasci d’una luce tanto dolce quanto splendente. Ormai i pastori accorsi alla voce dell’Angelo hanno visto accrescere la loro schiera fedele; il Protomartire, il Discepolo prediletto, la bianca coorte degli Innocenti, il glorioso san Tommaso, Silvestro, il Patriarca della Pace, non sono più soli a vegliare sulla culla dell’Emmanuele; le loro file si aprono per lasciar passare i Re dell’Oriente, portatori dei voti e delle adorazioni di tutta l’umanità. L’umile stalla è diventata troppo stretta per un simile afflusso di persone; e Betlemme appare vasta come il mondo. Maria, il Trono della divina Sapienza, accoglie tutti i membri di quella corte con il suo grazioso sorriso di Madre e di Regina; presenta il Figlio alle adorazioni della terra e alle compiacenze del cielo. Dio si manifesta agli uomini, perché è grande, ma si manifesta attraverso Maria, perché è misericordioso.

Ricordi storici.

Nei primi secoli della Chiesa troviamo due avvenimenti notevoli che hanno illustrato il grande giorno che ci raduna ai piedi del Re pacifico. Il 6 gennaio del 361, l’imperatore Giuliano già apostata nel cuore, alla vigilia di salire sul trono imperiale, che presto la morte di Costanzo avrebbe lasciato vacante, si trovava a Vienne nelle Gallie. Aveva ancora bisogno dell’appoggio di quella Chiesa cristiana nella quale si diceva perfino che avesse ricevuto il grado di Lettore, e che tuttavia si preparava ad attaccare con tutta l’astuzia e tutta la ferocia della tigre. Nuovo Erode, artificioso come il primo, volle inoltre, in questo giorno dell’Epifania, andare ad adorare il Neonato Re. Nella relazione del suo panegirista Ammieno Marcellino, si vede il filosofo incoronato uscire dall’empio santuario dove consultava segretamente gli aruspici, avanzare quindi sotto i portici della Chiesa e in mezzo all’assemblea dei fedeli offrire al Dio dei cristiani un omaggio tanto solenne quanto sacrilego. – Undici anni dopo, nel 372, anche un altro Imperatore penetrava nella chiesa, sempre nel giorno dell’Epifania. Era Valente, cristiano per il Battesimo come Giuliano, ma persecutore, in nome dell’Arianesimo, di quella stessa Chiesa che Giuliano perseguitava in nome dei suoi dèi impotenti e della sua sterile filosofia. La libertà evangelica d’un santo Vescovo abbatté Valente ai piedi di Cristo Re nello stesso giorno in cui la politica aveva costretto Giuliano ad inchinarsi davanti alla divinità del Galileo. – San Basilio usciva allora allora dal suo celebre colloquio con il prefetto Modesto, nel quale aveva vinto tutta la forza del secolo con la libertà della sua anima episcopale. Valente giunse a Cesarea con l’empietà ariana nel cuore, e si reca alla basilica dove il Pontefice celebrava con il popolo la gloriosa Teofania. « Ma – come dice eloquentemente san Gregorio Nazianzeno – l’Imperatore ha appena varcato la soglia del sacro tempio, che il canto dei salmi risuona al suo orecchio come un tuono. Egli contempla sbalordito la moltitudine del popolo fedele simile ad un mare. » L’ordine, e la bellezza del santuario risplendono ai suoi occhi con una maestà più angelica che umana. Ma ciò che lo colpisce più di tutto, è l’Arcivescovo ritto davanti al suo popolo, con il corpo, gli occhi e la mente raccolti come se nulla di nuovo fosse accaduto, e tutto intento a Dio e all’altare. Valente osserva anche i ministri sacri, immobili nel raccoglimento, pieni del sacro terrore dei Misteri. – Mai l’Imperatore aveva assistito a uno spettacolo così sublime. La sua vista si oscura, il capo gli gira, e la sua anima è presa dallo sbigottimento e dall’orrore ». – Il Re dei secoli. Figlio di Dio e Figlio di Maria, aveva vinto. Valente sentì svanire i suoi progetti di violenza contro il santo Vescovo, e se in quel momento non adorò il Verbo consustanziale al Padre, confuse almeno i suoi omaggi esteriori a quelli del gregge di Basilio. Al momento dell’offertorio, avanzò verso la balaustra, e presentò i suoi doni a Cristo nella persona del suo Pontefice. Il timore che Basilio non lo volesse ricevere agitava con tanta violenza il principe che la mano dei ministri del santuario dovette sostenerlo perché, non cadesse, nel suo turbamento, ai piedi stessi dell’altare. – Così, in questa grande solennità, la Regalità del neonato Salvatore è stata onorata dai potenti di questo mondo che si son visti, secondo la profezia del Salmo, abbattuti e prostrati bocconi a terra ai suoi piedi (Sal. LXXI). – Ma dovevano sorgere nuove generazioni d’imperatori e di re che avrebbero piegato i ginocchi e presentato a Cristo Signore l’omaggio d’un cuore devoto e ortodosso. Teodosio, Carlo Magno, Alfredo il Grande, Stefano d’Ungheria, Edoardo il Confessore, Enrico II Imperatore, Ferdinando di Castiglia, Luigi IX di Francia tennero questo giorno in grande devozione, e furono orgogliosi di presentarsi insieme con i Re Magi ai piedi del divino Bambino e di offrirGli i loro cuori come quelli Gli avevano offerto i loro tesori. – Alla corte di Francia s’era anche conservata, fino al 1378 e oltre (come testimonia il continuatore di Guillaume de Nangis) l’usanza che il Re cristianissimo, giunto all’offertorio, presentasse dell’oro, dell’incenso e della mirra come un tributo all’Emmanuele.

Usanze.

Ma questa rappresentazione dei tre mistici doni dei Magi non era in uso solo nella corte dei re. Nel medioevo, anche la pietà dei fedeli presentava al Sacerdote, perché lo benedicesse, nella festa dell’Epifania, dell’oro, dell’incenso e della mirra; e si conservavano in onore dei tre Re quei commoventi segni della loro devozione verso il Figlio di Maria, come un pegno di benedizione per le case e per le famiglie. Tale usanza è rimasta ancora in alcune diocesi della Germania. – Più a lungo è durata un’altra usanza, ispirata anch’essa dall’età di fede. Per onorare la regalità dei Magi venuti dall’Oriente verso il Bambino di Betlemme, si eleggeva a sorte, in ogni famiglia, un Re per la festa dell’Epifania. In un banchetto animato da una santa letizia, e che ricordava quello delle nozze di Galilea, si rompeva una focaccia di cui una parte serviva a designare l’invitato al quale era attribuita quella momentanea regalità. Due porzioni della focaccia erano prese per essere offerte al Bambino Gesù e a Maria, nella persona dei poveri che godevano anch’essi in quel giorno del trionfo del Re umile e povero. Le gioie della famiglia si confondevano con quelle della religione; i legami della natura, dell’amicizia, della vicinanza si rinforzavano attorno alla tavola dei Re; e se la debolezza poteva apparire qualche volta nell’abbandono di un banchetto, l’idea cristiana non era lontana e splendeva in fondo ai cuori. – Beate ancor oggi le famiglie nel cui seno si celebra con cristiana pietà la festa dei Re! Per troppo tempo un falso zelo ha trovato da ridire contro queste semplici usanze nelle quali la gravità dei pensieri della fede si univa alle effusioni della vita domestica. – Si faceva guerra a queste tradizioni della famiglia con il pretesto del pericolo dell’intemperanza, come se un banchetto privo di ogni linea religiosa fosse meno soggetto agli eccessi. Con uno spirito di ricerca alquanto difficile a giustificarsi, si è giunti fino a pretendere che la focaccia dell’Epifania e la innocente regalità che l’accompagnava non fossero altro che un’imitazione dei Saturnali pagani, come se fosse la prima volta che le antiche feste pagane avessero dovuto subire una trasformazione cristiana. Il risultato di sì imprudenti conclusioni doveva essere ed è stato, infatti, su questo punto come su tanti altri, di isolare dalla Chiesa i costumi della famiglia, di espellere dalle nostre tradizioni una manifestazione religiosa, di favorire quella che è chiamata la secolarizzazione della società. – Ma torniamo a contemplare il trionfo del regale Bambino la cui gloria risplende in questo giorno con tanta luce. La santa Chiesa ci inizierà essa stessa ai misteri che dobbiamo celebrare. Rivestiamoci della fede e dell’obbedienza dei Magi; adoriamo, con il Precursore, il divino Agnello al di sopra del quale si aprono i cieli; prendiamo posto al mistico banchetto di Cana, presieduto dal nostro Re tre volte manifestato, e tre volte glorioso. Ma, nei due ultimi prodigi, non perdiamo di vista il Bambino di Betlemme, e nel Bambino di Betlemme non cessiamo inoltre di vedere il gran Dio del Giordano, e il padrone degli elementi.

SULLA FESTA DELL’EPIFANIA.

[da Manuale di Filotea del sac. G. Riva, XXX ed. Milano 1888]

ISTRUZIONE.

Epifania è una parola greca che significa Manifestazione. Con questo nome fu chiamata la festa che si celebra 13 giorni dopo il Natale, perché dopo la prima manifestazione del Signore ai pastori dei dintorni di Betlem nella notte della sua Natività, ci ricorda tre altre principali circostanze in cui Gesù Cristo si è fatto conoscere agli uomini come il promesso Messia, cioè ai Gentili, nell’adorazione dei Magi chiamati e condotti per mezzo d’una stella prodigiosa alla capanna di Betlemme; ai Giudei nel suo Battesimo per mezzo dello Spirito Santo apparso sopra di Lui in forma di Colomba e del divin Padre che sul Tabor, disse a voce chiarissima: Questo è il mio Figlio nel quale io mi sono compiaciuto, ai Discepoli, nelle nozze di Cana col cangiamento miracoloso dell’acqua in vino. Nel rito Ambrosiano si aggiunge una quarta manifestazione, ed è quella fatta a tutte le turbe quando Gesù Cristo moltiplicando pochi pani, che avevano i suoi discepoli, saziò più di 5 mila persone che da tre giorni Lo seguitavano, e c’era pericolo che svenissero per la fame ritornando digiuni alle loro case. – Comunemente si tien per certo che i Magi giungessero al Presepio nel giorno 6 di Gennaio; e che al sei di Gennaio trenta anni dopo accadesse anche i l Battesimo del Signore. – Ma il cangiamento dell’acqua in vino si crede avvenuto verso la fine di Febbraio nell’anno stesso del Battesimo. – Tuttavia la Chiesa stimò conveniente il ricordare con una sola festa solenne tutti questi meravigliosi avvenimenti! – Vuolsi che questa festa abbia cominciato ad essere celebrata fino dai tempi apostolici, perché ne parlano nelle loro opere i Padri più antichi. Siccome però lo scopo primario di questa festa è di celebrare la manifestazione di Cristo ai Gentili, cioè la lor vocazione alla fede nella persona dei Santi Magi, su di questo fatto particolarmente terremo qualche discorso. – La stella che apparve ai Magi era profetizzata nel capo XXIV del libro dei Numeri in quelle parole dette da Balaam: “ da Giacobbe nascerà una stella, e da Israele spunterà uno scettro”. “Orietur stella ex Jacob, et consurget virga de Israel”. Essa apparve subito dopo la nascita del divin infante, come osserva il cardinal Lambertini, poi Papa Benedetto XIV, nelle sue annotazioni sopra le feste deducendole dalle Parole dette dai Magi in Gerusalemme. Dov’è il nato Re de’ Giudei, imperocchè abbiam veduto la sua stella nell’Oriente, e siamo venuti ad adorarlo “Ubi est qui natus est Rex Judæorum? Vidimus enim stellam ejus in Oriente et venimus adorare eum” (Matteo II, 2). Infatti se avessero creduto che la stella fosse segnale della nascita vicina anziché già avvenuta, avrebbero detto: “Ov’e che deve nascere il Re de’ Giudei”, e non già “Dov’è che Egli si trova il nato Re de’ Giudei?” – In qual natura poi fosse quella stella, varii sono i pareri: secondo il Cardinal Lambertini, la più vera opinione si è che la stella fosse una Meteora formata da un Angelo, tutta piena di luce così viva da non confondersi con alcun’altra, in figura di stella e mossa dall’Angelo stesso da Oriente verso Occidente nella media regione dell’aria, a somiglianza della colonna di fuoco che condusse il popolo Ebreo nel deserto; oppure una stella creata di nuovo, non nel cielo ma nell’aria a poca distanza dalla terra che muovevasi come Dio voleva. – Matteo non dice dei Magi né quanti fossero, né come si chiamassero, ma la tradizione più antica vuole che fossero tre: e secondo l’asserzione del Venerabile Beda, scrittore del secolo ottavo, essi erano anche prima de’ suoi tempi conosciuti sotto i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Si ritiene pure comunemente che essi fossero Re cioè Signori di qualche territorio, sebbene non molto esteso, ove alla cura del governo dei loro sudditi, univano l ‘amore allo studio, perciò chiamati con voce persiana Magi, che significa uomini eruditi nella Filosofia e nella Astrologia. – Essi vennero dall’Arabia Felice che, rispetto alla Giudea, è regione Orientale. E che di là venissero, Io prova la qualità dei doni che seco recarono per presentarli al nuovo Re dei Giudei. Per venirvi si servirono di Dromedari così veloci al corso da fare non meno di 120 miglia al giorno. Onde i Magi agevolmente poterono compiere il lungo viaggio fino a Betlemme in soli 13 giorni, cioè dal 25 Dicembre al 6 Gennaio. Qui trovarono il Bambino Gesù con Maria nel Presepio, come lo attesta S. Girolamo praticissimo dei Luoghi Santi, nella sua lettera 44 a Marcella, e lo conferma la Chiesa nell’antifona di questo giorno. Vedere il Divino Infante, e adorarLo, prostrati colla fronte per terra, fu per loro la medesima cosa, indi Gli offrirono in dono, Oro, Incenso e Mirra per denotare in Gesù Cristo la Divinità, la Dignità Reale, e la Umanità, convenendo l’Incenso a Dio, l’Oro ad un Re, e la Mirra ad un uomo mortale il cui corpo dopo morte dovevasi imbalsamare. – Qual vita menassero essi dopo il ritorno alla loro patria non si sa con certezza; ma il culto che loro presta la Chiesa ci prova fuor d’ogni dubbio che essi professarono costantemente la Religione Cristiana e morirono così santamente da meritarsi la pubblica venerazione. Quindi niente è più probabile di ciò che si asserisce da più autori, che essi siano stati pienamente istruiti nella Fede dall’Apostolo S. Tommaso, e da battezzati ed ordinati Vescovi delle loro patrie ove cooperarono con gran fervore alla dilatazione del Cristianesimo. – I santi corpi dalla città di Serva nell’Arabia, ov’erano stati sepolti, vennero, per ordine di Costantino Magno, trasportati in Costantinopoli e poi donati ad Eustorgio governatore di Milano, che fu poi fatto vescovo di questa città, e da lui collocati nella Chiesa che dal nome di questo santo vescovo fu detta Eustorgiana, mentre pel sacro deposito dei santi Magi si chiamava prima la Basilica dei Re. Ivi stettero i sacri corpi fino all’anno 1162 in cui l’imperatore Federico Barbarossa, impadronitosi di Milano, li levò dal loro marmoreo sepolcro, che è vasto come una piccola camera, e li diede in dono a Rainoldo Arcivescovo di Colonia, nella qual città furono trasferiti il 23 Luglio 1164; il che vien confermato”‘ dalla festa che ogni anno si celebra nella città di Colonia in detto giorno per solennizzare la detta Traslazione, come all’11 di Gennaio si solennizza la memoria della preziosa loro morte. – Nella Diocesi di Milano esistono ancora i tre diti anulari dei Santi Magi, riposti in un bel Reliquiario d’argento di lavoro antico. Essi erano nell’Altare di S. Ambrogio, oratorio sotto la parrocchia di Brugherio presso Monza. Quando l’Arcivescovo cardinale Federico Borromeo nel 1611 vi fece la visita, li riconobbe per reliquie autentiche, e li trasferì nella parrocchia dove sono tuttora in molta venerazione. La tradizione dice, che santa Marcellina abbia fondato ed abitato quel monastero, e che da suo fratello S. Ambrogio, abbia avuto in dono questi tre dita.

La tua luce è venuta, o Gerusalemme, e la gloria del Signore brilla sopra di te, e le genti cammineranno dalla tua luce.

Ai SANTI MAGI

Per la Novena, la Festa e l’Ottava dell’Epifania

I. O santi Magi, che viveste in continua aspettazione della stella di Giacobbe, la quale doveva annunziare la nascita del vero sole di Giustizia, otteneteci la grazia di vivere sempre nella speranza di vedere spuntato sopra di noi il giorno della verità, la beatitudine del Paradiso. Gloria.

II. O Santi Magi, che al primo brillar della stella miracolosa abbandonaste i patrii paesi, per andar tosto in cerca del neonato re dei Giudei, otteneteci la grazia di corrispondere, come voi, prontamente a tutte le divine ispirazioni. Gloria.

III. O Santi Magi, che non temeste i rigori delle stagioni e gli incomodi dei viaggi per giungere e ritrovare il nato Messia, otteneteci la grazia di non sgomentarci giammai per le difficoltà che si incontrano nella via della salute. Gloria.

IV. O Santi Magi, che abbandonati dalla stella nella città di Gerusalemme, ricorreste umilmente e senza umano rispetto a chi poteva darvi certa notizia sul luogo ove si trovava l’oggetto delle vostre ricerche, otteneteci la grazia che in tutti i dubbi, in tutte le perplessità noi ricorriamo umilmente e fedelmente ci atteniamo al consiglio dei nostri superiori, che rappresentano sulla terra la stessa Persona di Dio. Gloria.

V. O Santi Magi, che, contro ogni vostra aspettazione, foste di nuovo consolati dalla stella ricomparsa a servirvi di guida; otteneteci dal Signore la grazia che, rimanendo a Lui fedeli in tutte le afflizioni, meritiamo di essere consolati dalla sua grazia, nel tempo, e dalla sua gloria nell’eternità. Gloria,

VI. O santi Magi, che, entrati pieni di fede nella stalla di Betlemme, prostesi a terra, adoraste il nato Re dei Giudei, quantunque non fosso circondato che da indizi di povertà e di debolezza, otteneteci dal Signore la grazia di ravvivar sempre la nostra fede quando entriamo nella sua casa, alfine di dimorarvi con quel rispetto, che è dovuto alla grandezza della sua maestà. Gloria.

VII. O santi Magi, che offrendo a Gesù Cristo, Oro, Incenso e Mirra, Lo riconosceste concordemente come Re, come Dio e come Uomo, otteneteci dal Signore la grazia che non ci presentiamo mai colle mani vuote davanti a Lui e Gli offriamo anzi continuamente l’Oro della carità, l’Incenso dell’adorazione, la Mirra della penitenza, giacché senza questa virtù è impossibile incontrare il suo gradimento. Gloria.

VIII. O santi Magi, che, avvisati da un angelo di non ritornare da Erode, vi avviaste subito per altra strada alla vostra patria, otteneteci dal Signore la grazia che, dopo esserci con Lui riconciliati nei santi Sacramenti, viviamo lontani da tutto quello che potrebbe esserci occasione di nuovi peccati. Gloria.

IX. O santi Magi, che, chiamati per i primi fra i Gentili alla cognizione di Gesù Cristo, perseveraste fino alla morte nella professione di sua fede, otteneteci dal Signore la grazia di viver sempre in conformità alle promesse da Lui fatte nel santo Battesimo, di rinunciare cioè costantemente al Mondo ed alle sue pompe, alla Carne ed alle sue lusinghe, al demonio e alla sue suggestioni, affine di meritarci come voi la visione beatifica di quel Dio che forma qui in terra l’oggetto di nostra fede. Gloria.

ORAZIONE.

“Deus, qui hodierna die Unigenitum tuum Gentìbus, stella duce revelasti, concede propitius; ut qui jam te ex fide cognovimus, usque ad contemplandam speciem tuae celsitudinis perducamur. Per eundem Dominum etc.”

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– A GESÙ ADORATO DAI MAGI-

I Magi prostrati ai vostri piedi, o mio Salvatore, sono le primizie della Gentilità. Vi ringrazio mille volte della loro vocazione; essa fu pegno della mia; ma sono io poi altrettanto fedele a corrispondervi quanto lo furono questi primi apostoli della Religione, miei veri modelli, miei colleghi nella fede? Ah! Signore, risuscitate in me lo spirito di quella preziosissima grazia la cui memoria mi vien richiamata nell’adorazione dei Magi, di quella grazia inestimabile di cui già mi favoriste con una predilezione speciale, e che troppo sovente ho meritato di perdere dopo di averla ricevuta. La memoria della mia vocazione al Cristianesimo sia per l’avvenire, o mio Dio, il motivo della mia più viva riconoscenza, le sue massime e le obbligazioni che ella mi impone facciano tutta la regola di mia condotta per meritarmi così il diritto all’eredità dei veri credenti.        3 Gloria.

I SACRAMENTI AGLI ADULTERI sono tassativamente vietati dalla CHIESA CATTOLICA “VERA”

Un’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL  MODERNISTA APOSTATA DI TORNO!

BENEDETTO XIV

benedetto-xiv

“INTER OMNIGENAS”

Studieremo oggi un’Enciclica di S.S. Benedetto XIV, P. Lambertini, per capire cosa la Chiesa Cattolica pensi su come comportarsi nei rapporti con la setta dei maomettani che invadono, al tempo la Serbia, ed oggi, gestiti dalla setta di coloro che “odiano Dio e tutti gli uomini”, i territori una volta cristiani. Importante è in particolare osservare cosa la Chiesa cattolica abbia sempre pensato, vietandoli nel modo più assoluto, dei Sacramenti amministrati a coloro che violino, a qualunque titolo ed in forme diverse, le leggi sul matrimonio cattolico, che non sono affatto difformi dai dettami del divino Maestro. Questo per renderci conto delle sataniche idiozie inventate oggi dalla setta degli apostati modernisti, i vati-cani-muti, che cercano di gettare quante più anime all’inferno, dal loro padre che “le” attende e “li” attende a braccia aperte per conservarli bene al caldo del fuoco eterno! Il Magistero della Chiesa è infallibile ed assolutamente irreformabile, se non da chi è una “patacca”, “agente di lucifero”! E allora cominciamo:

“Inter omnigenas calamitates,  quibus Ecclesiæ Filii sub infidelium dominazione degentes …”

“Fra le calamità di ogni specie dalle quali i figli della Chiesa che abitano sotto il dominio degli infedeli sono oppressi da ogni parte, e delle quali, tutte, sentiamo compassione con paterna carità, quelle che più sollecitano e premono il nostro animo sono quelle da cui temiamo che nasca occasione di perdizione per le anime redente dal Sangue di Cristo, con la conseguenza che possa essere causato un danno alla integrità della Fede cattolica e della disciplina. Fra tali calamità che Voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, sostenete da tempo nel Regno di Serbia sotto il durissimo giogo dei Turchi, e che altre volte giunsero alle Nostre orecchie da molte parti, Ci colpirono con incredibile dolore le ultimissime che Ci furono spiegate con maggiori particolari e quasi mostrate ai Nostri occhi dal Venerabile Fratello Giovanni Battista, da Noi eletto e costituito Arcivescovo di Skopje. Infatti, anche se abbiamo dovuto lodare e anzi ammirare l’assidua vigilanza e sollecitudine per il proprio gregge dei Pastori di codesto Regno e la ferma costanza dei popoli nella Fede e nella pietà, fra le gravissime vessazioni e persecuzioni inferte dalla crudeltà degli infedeli e dall’odio degli scismatici, tuttavia Ci causarono molto dolore sia il comportamento non lineare e fluttuante o anche arbitrario, in cose della massima importanza, di alcuni di loro, sia la corruzione dei costumi e della disciplina portata nella maggior parte dei fedeli dalla compagnia degli stranieri, ma soprattutto la turpe occultazione della professione cristiana, somigliante all’infedeltà, che molti in codeste regioni mostrano di usare, per timore di danni materiali. – 1. In verità, quelle cose che si dice si siano introdotte fra i fedeli di codeste Chiese contro la purezza della fede e dei costumi dovevano, per la maggior parte, essere prevenute o corrette ed emendate in forza delle sanzioni sufficientemente conosciute del diritto pontificio e canonico, dei decreti della Sede Apostolica emanati più spesso attraverso l’organo dei Venerabili Nostri Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti agli affari di “Propaganda fide”, ma specialmente a motivo di ciò che fu stabilito nel Concilio Albanese che fu indetto e celebrato, sotto il Nostro predecessore di felice memoria Clemente XI, dal Primate di codesto Regno, per tutto il clero e il popolo di Albania e Serbia. Perciò, richiamando alla memoria a tutti voi tutte le predette leggi del Diritto Ecclesiastico e della Sede Apostolica e raccomandando molto di studiarle e osservarle, comandiamo che il predetto Concilio Albanese, adattato specialmente alla vostra situazione e all’opportunità dei tempi, sia in tutto mantenuto e dappertutto osservato, volendo che tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Parroci e Missionari e gli altri che sono in cura d’anime in codesto Regno, abbiano presso di sé qualche copia di quel Concilio e cerchino di regolare e di conformare il loro comportamento e quello dei loro fedeli secondo quelle norme. – 2. Tuttavia, affinché siano tolti del tutto ed eliminati per sempre i più gravi abusi riguardanti l’integrità della Fede, dei costumi e dei riti, che sono giunti a Nostra conoscenza da codeste regioni, dopo averli Noi stessi considerati ed esaminati con attenzione e diligenza, abbiamo stabilito, col consiglio dei Nostri Venerabili Fratelli, di riferirvi e di annunciarvi quei Decreti che seguono, le cui disposizioni confidiamo nel Signore che debbano essere abbracciate volentieri da tutti voi, a cui spetta, come utili e necessarie, e nondimeno ordiniamo con autorità Apostolica che siano esattissimamente compiute e custodite. – 3. Cominciando perciò dalle cose della Fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio, ordiniamo e comandiamo rigorosamente a tutti e singoli i fedeli di codesto Regno che vogliono mantenere la comunione con la Chiesa cattolica, che si guardino dal fare o dall’ammettere alcunché contro i precetti e le norme Evangeliche, al fine di occultare il possesso della Religione cristiana, per quanto talvolta sia lecito e necessario; specialmente quelle cose che implicano una affermazione della setta Maomettana. Perciò, se avranno ricevuto la circoncisione, sappiano che Cristo non gioverà ad essi per nulla, secondo la parola dell’Apostolo. Evitino del tutto di assumere nomi turchi, che non dovrebbero nemmeno ricordare con le labbra; di frequentare gli abominevoli templi degli infedeli, chiamati Mosche e; di profanare, mangiando carne, i giorni dei digiuni Ecclesiastici: ciò, al fine di essere creduti Maomettani. Tutte queste cose infatti, anche se la Fede di Cristo è mantenuta nel cuore, non si possono fare senza la simulazione degli errori di Maometto, contraria alla sincerità cristiana; tale simulazione contiene una menzogna in materia gravissima e comporta una virtuale negazione della Fede, con gravissima offesa di Dio e scandalo del prossimo. – 4. Ma molto più, nel caso che siano interrogati dalle pubbliche autorità, sappiano che non è loro lecito professarsi seguaci della setta Maomettana, ma ricordino che quello è il tempo in cui – brandendo lo scudo della Fede – debbono non solo credere col cuore alla giustizia, ma anche confessare Cristo con la bocca per la salvezza, altrimenti, se avranno osato rinnegarlo davanti agli uomini, anche Lui li rinnegherà davanti al Padre Suo. – 5. Ugualmente empio ed illecito è l’abuso di quei Cristiani di Serbia che, prossimi a morire, permettono o dispongono che i loro cadaveri siano consegnati alle sepolture dei Turchi, con l’assistenza di costoro e con l’uso dei riti Maomettani; infatti, se non devono affatto vergognarsi di Cristo in vita, quanto meno lo devono nel momento in cui stanno per comparire al Suo tremendo giudizio, affinché Egli non si vergogni di loro davanti al Suo Eterno Padre. – 6. Sarà dunque compito dei Vescovi, dei Parroci e dei Missionari, ammaestrare ed ammonire seriamente quei Cristiani che empiamente osano fare le cose suddette, con grande offesa della Fede; invano si vantano della custodia, dello zelo nella legge cristiana e della educazione dei figli nella medesima legge, poiché se mancano anche in uno solo di questi punti, si rendono colpevoli di tutti. Perciò dichiarino ad essi apertamente che chiunque, per timore di qualsivoglia potestà o per paura di perdere i beni materiali, tradisce la sua Fede, provoca l’ira di Dio su di sé e si esclude da ogni speranza di salvezza, a meno che se ne penta, poiché teme più l’uomo che Dio e preferisce conservare le cose effimere di questa terra piuttosto che acquistare le realtà eterne. Se poi alcuni vorranno continuare ostinati in questa via di empietà, saranno privati dei Sacramenti in vita e, se morranno impenitenti, dei suffragi dopo la morte; a questi nessun Ministro della Chiesa osi ammetterli, altrimenti dovrà essere punito dal proprio Vescovo con le pene canoniche, secondo quanto è prescritto anche dal suddetto Concilio Albanese. – 7. Sono ugualmente da tener lontane dai Sacramenti della Chiesa quelle donne che, introdotte nel padiglione dei Turchi col titolo di mogli, celando la professione della religione cristiana, là conducono una vita lontana da ogni esercizio della religione; ad esse dev’essere dichiarato dai Pastori che non ripongano fiducia per l’eterna salvezza in quella fede che, morta senza le opere, si convincono di poter conservare utilmente soltanto nel cuore. – 8. Quanto ai figli di queste donne, che vengono presentati ai Parroci per essere battezzati, se la loro vita sembra in pericolo, i predetti Parroci non esitino a battezzarli, ammonendo le madri che, se guariranno, dovranno educarli con impegno nella religione cristiana. Riguardo a quelli di sana e robusta costituzione, che sono presentati al Battesimo dalle suddette madri senza fini superstiziosi, ma con l’unico scopo di ottenere la salvezza, poiché è impossibile esaminare le singole circostanze che possono convincere se essi persevereranno nel culto della legge Evangelica e della Fede, o se, privati dell’educazione Cristiana da madri di quel genere, seguiranno l’empietà del padre Maomettano, considerati anche i pericoli dell’età infantile per i quali dicono che, per lo più, un terzo degli uomini muore prima di compiere i 10 anni, pensiamo di non dover comandare nulla espressamente. Solamente esortiamo i Ministri Ecclesiastici che, dopo aver invocato con gemiti la luce dello Spirito Santo, si comportino secondo la sua guida e le indicazioni della sua prudenza. Se poi crederanno di poterli ammettere al Battesimo, non omettano di inculcare nelle madri l’obbligo rigoroso a cui sono tenute, di far conoscere la verità di Dio a questi figli della Chiesa, se arriveranno all’uso di ragione, e di educarli nella disciplina e nella legge del Signore. – 9. Giunge alle Nostre orecchie anche la notizia grave e molto incresciosa che i Decreti del Concilio Tridentino sul Sacramento del Matrimonio da alcuni non sono osservati in codeste regioni nelle quali – come comprova lo stesso Concilio Albanese – essi furono a suo tempo debitamente pubblicati. Perciò, dichiarando che tutti i fedeli di codeste parti sono tenuti ai suddetti Decreti, definiamo completamente invalidi e nulli quei pretesi matrimoni che sono contratti davanti al solo giudice dei Turchi, detto “cadì”, o anche senza di lui, dai soli sposi, e non secondo le prescrizioni del predetto Concilio Tridentino. Coloro che contrassero nozze nulle e clandestine di tal genere e, dopo averle contratte, convivono, comandiamo che, come persone che vivono in illecito concubinato, a meno che facciano penitenza del passato e siano congiunti con matrimonio valido riguardo alla Chiesa, siano tenuti lontani dalla partecipazione ai Sacramenti. – 10. Ma quando il matrimonio è stato contratto secondo il rito dai fedeli, non permettiamo affatto a loro, neppure per salvaguardare le mogli dal rapimento dei Turchi, di rinnovarlo davanti al Cadì per mezzo di procuratori secondo il rito turco, salvo che il rito maomettano delle nozze sia puramente civile e non contenga nessuna invocazione a Maometto o qualunque altra specie di superstizione. Infatti, benché facciano questo non di persona, ma per mezzo di procuratori, tuttavia non devono mai essere considerati innocenti di quel crimine che viene commesso per loro autorità o mandato. – 11. Per quanto riguarda le pubblicazioni stabilite dal Concilio Tridentino, benché si dica che in Serbia non sono affatto confermate dall’uso, in quanto tuttavia sono prescritte ai Parroci anche di Serbia nel prelodato Concilio Albanese, tolta la facoltà di dispensarne tranne che per motivo di necessità urgente, comandiamo che ciò sia osservato in tutto, per quanto si possa fare. – 12. Se poi la moglie di qualche fedele fugge fra i Turchi e osa contrarre nozze scellerate con qualcuno di loro, non è lecito al marito sposarne un’altra al posto di quella, in quanto il Matrimonio, indissolubile per diritto divino finché vivono i coniugi, non viene affatto dissolto dal misfatto di una donna di tal fatta. Quindi se uno in tale situazione ne sposa un’altra, commette adulterio e, se non si separa completamente da lei, dev’essere tenuto lontano dai Sacramenti. – 13. E pure a tutti è chiaro che cosa si debba dire sulla salvezza di simili donne, a meno che facciano penitenza. Riguardo alle donne cristiane rapite con la forza dai Turchi e sposate a forza o nell’infanzia che, senza essere congiunte da nessun diritto di fede sacramentale, perseverano in illecito concubinato con gli infedeli, stabiliamo in tutto la medesima cosa che fu decretata nel predetto Concilio Albanese: siano loro negati i Sacramenti della Chiesa, non tenendo in nessun conto né la loro pretesa perseveranza nella fede cristiana, né la violenza usata loro dai Turchi in età infantile, e nemmeno il fatto che siano considerate dai Turchi come moglie unica o migliore o giusta. Queste cose non danno nessun diritto, a chi vive in concubinato o fornicazione, a ricevere i Sacramenti, e non offrono ai Sacerdoti nessuna facoltà ad amministrarli a chi ne è indegno. – 14. Circa le dispense matrimoniali, i Vescovi e i Missionari di Serbia stiano attenti a non servirsi senza giudizio o verso gli immeritevoli delle facoltà loro comunicate da questa Santa Sede, e a non oltrepassare i limiti della loro autorità. Abbiamo perciò stabilito che non si debba concedere nessuna dispensa a quei cristiani occulti, di cui si è detto, che fingono di seguire i riti maomettani; infatti costoro, poiché si vergognano di Cristo, si rendono indegni delle grazie della Chiesa, che di Cristo è la sposa. Inoltre non concedano nessuna dispensa nei casi in cui prevedano che i matrimoni non saranno celebrati validamente e santamente secondo il rito della Chiesa Cattolica, come detto sopra; in tal caso infatti non sarebbero dispense, ma dissipazioni e incitamenti all’incontinenza, dalle quali il fedele e prudente ministro di Cristo deve tenersi lontano in ogni modo. – 15. Specialmente poi considerino che, fra le altre facoltà loro comunicate, non si trova quella di dispensare dall’impedimento di giustizia di pubblica onestà, proveniente dal matrimonio rato che sia intercorso altra volta fra l’una o l’altra delle parti e il consanguineo in primo grado dell’altra parte, ma che sia stato sciolto prima della consumazione o per morte o per altra legittima causa. Infatti questo impedimento è più forte di quello che nasce dagli sponsali: perciò dovranno evitare di concedere una dispensa di tal genere. – 16. Nel celebrare le nozze si osservino i tempi prescritti dalla Chiesa Cattolica. Se poi i Maomettani, celebrando le loro nozze nei tempi proibiti, avranno invitato qualche fedele a motivo del suo ufficio, poiché i precetti della Chiesa non riguardano minimamente coloro che ne sono fuori, non si proibisce ai cattolici di Serbia di parteciparvi, comportandosi con cristiana modestia, purché lo si possa fare senza offendere il Creatore, né i fedeli, né la Chiesa di Dio, e non ci sia nessuna invocazione a Maometto nelle nozze dei Turchi e nessun rito superstizioso, ai quali i cristiani invitati debbano partecipare o consentire con la bocca o con le azioni. Tuttavia, se cercheranno, per quanto potranno, di scansare quelle adunanze di infedeli e quei conviti profani, eviteranno molti pericoli per le loro anime. – 17. Per quanto riguarda la cognazione spirituale, comandiamo che in Serbia siano osservati in tutto i sapientissimi Decreti del Concilio Tridentino, nonostante qualsiasi consuetudine contraria. Perciò non permettiamo che sia estesa oltre le persone e i gradi definiti dallo stesso Concilio quella cognazione che nasce dai Sacramenti del Battesimo e della Confermazione, ed espressamente dichiariamo che nessuna cognazione spirituale nasce da altra causa e specialmente dall’assistenza prestata al matrimonio, anche su invito dei contraenti; come neppure fra coloro dai quali vengono tagliati i capelli ai bambini per la prima volta. Infatti è importante il motivo del predetto Decreto conciliare che, a causa delle troppe proibizioni, non avvenga più spesso che si contraggano matrimoni in casi proibiti senza saperlo, o si perseveri nel peccato, o che debbano essere sciolti con scandalo. Ciò che fu stabilito sapientemente circa quei casi di cognazione spirituale che erano già stati accolti nella Chiesa, a molto maggior ragione deve valere in altre specie di tal genere che, ignote nella Chiesa Cattolica, hanno un’origine infetta dagli scismatici, dei quali è tipico imporre agli uomini pesi gravi e impossibili a portarsi, senza muoverli nemmeno con un dito. Perciò è sicuramente da disprezzarsi lo scandalo di costoro, se avranno saputo dell’osservanza di questo decreto fra i fedeli. – 18. Riguardo poi ai sacri riti, in cui le Chiese di codeste regioni, mettendosi davanti come specchio ed esempio questa Chiesa Romana, Madre e Maestra di tutte le altre, mostrano di usare non altro che il Messale, il Rituale ed il Cerimoniale Romano, esortiamo i Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi a non cambiare niente in questa consuetudine sicura e lodevole; tanto nella celebrazione dei Santi Misteri e nella amministrazione dei Sacramenti, quanto nelle Benedizioni e negli Esorcismi, non permettano che sia aperto l’ingresso, sotto qualunque pretesto, a qualsivogliano altri riti, cerimonie e preghiere, presi da altre parti. – 19. Badino poi che le cause di timore che talvolta sono addotte per omettere nell’amministrazione del Battesimo le cerimonie prescritte dal Rituale Romano, non siano inutili o leggere; e, qualora capiti che siano trascurate per veri e gravi motivi, cureranno anche che, appena possibile, siano compiute. Infatti riti di così grande importanza e di tanta antichità e sommamente necessari a procurare riverenza al Sacramento, non si trascurano senza peccato grave. – 20. È da curare altresì che, tolto il caso di necessità e di giusto timore ispirato dagli infedeli, non si usi nell’amministrazione del Battesimo l’acqua comune e naturale e nemmeno quella che viene benedetta per le purificazioni; né temerariamente si ometta di usare l’acqua benedetta a questo preciso scopo secondo la prescrizione del Rituale Romano. Infatti può difficilmente accadere senza massima incuria e vano timore (anche secondo il senso del Concilio Albanese), che nelle Chiese Parrocchiali, dove esistono, non siano benedetti i fonti battesimali nei tempi stabiliti e secondo i riti, o che non ci sia una sufficiente quantità di Sacri Oli per questo. – 21. Per compiere il loro dovere pastorale, vigilino anche che ai fedeli dimoranti in qualunque luogo, non manchino Sacerdoti Cattolici che possano amministrare loro la Sacrosanta Eucaristia nella solennità di Pasqua, sia perché sia osservato il Decreto del Concilio Laterano per tutti i fedeli di ambo i sessi, sia perché, nella comune letizia di tutta la Chiesa per la Risurrezione del Signore, i figli della Chiesa siano nutriti e irrobustiti da questo vivificante pascolo che è anche simbolo dell’unità. E se capitasse che, a causa della infelicità dei luoghi e dei tempi, questo non si possa in alcun modo fare entro le due settimane che intercorrono dalla domenica delle Palme alla domenica in Albis, in tal caso, a tenore di questa Lettera, concediamo e permettiamo che i popoli di codeste regioni della Serbia possano soddisfare quel precetto o in Quaresima o nella solennità di Pentecoste e nei giorni precedenti, secondo il consiglio del proprio Sacerdote. – 22. Con troppo dolore abbiamo poi saputo che le Chiese di codeste regioni sono talmente abbandonate e rovinose e che il furore degl’infedeli è così insolente che non è possibile conservare la Santissima Eucaristia in modo decente e sicuro, come si conviene. Da ciò deriva che la maggior parte dei fedeli infermi paga il debito alla natura senza il Viatico della salvezza. Per l’avvenire si deve ovviare e provvedere, per quanto possibile, a questo gravissimo male; perciò i Parroci devono cercare con ansiosa diligenza di aver notizia degli infermi, non solo per purificarli col Sacramento della Penitenza, e per aiutarli e sollevarli con esortazioni cristiane e conforti spirituali, ma anche perché siano ristorati col santissimo Corpo di Cristo e fortificati per affrontare l’ultima battaglia. Perciò, quando vedano che il pericolo di morte sovrasta qualche fedele, al più presto gli somministrino il predetto Sacramento dell’Eucaristia e, se possono farlo senza pericolo, presolo dalla Chiesa, se ce n’è qualcuna, lo devono portare a casa dell’infermo, dal momento che non è lecito celebrare la Messa presso gli infermi, in luogo non consacrato, eccetto il caso gravissimo di necessità. – 23. Mentre poi il Sacerdote porta agli infermi un così grande Sacramento, osservi con esattezza i decreti promulgati nel Concilio Albanese, con i quali si comanda che, indossata la cotta e posta la stola sulle spalle, con davanti almeno un cero, recitando a bassa voce inni e salmi, porti devotamente il Sacramento entro la Sacra Pisside o in un Calice pulito, tenendolo davanti al petto con le due mani. Ma quando la prepotenza e l’iniquità dei Turchi è più forte (come si aggiunge nello stesso luogo), il Sacerdote porti sempre la stola coperta dalle proprie vesti, nasconda la Pisside in un sacchetto o in una borsa che, appesa al collo con cordicelle, tenga sul seno, e non vada mai solo, ma si faccia accompagnare almeno da un fedele, in mancanza del chierico. – 24. Infine, riguardo alla sepoltura dei cadaveri dei fedeli, si evitino tutte le vane credenze dei Turchi, dalle quali in verità traggono un’impura origine alcuni riti superstiziosi, come lavature che vengono eseguite con incenso e con la recita di certe preghiere che sono disapprovate dalla Chiesa Cattolica. Pertanto, astenendosi, per quanto potranno, da ogni apparenza negativa e dalla imitazione degli infedeli, i popoli di codeste regioni imparino che in tali riti non c’è nulla che sia necessario alla salvezza e al suffragio dei defunti, e non diano importanza né alle dicerie e alle derisioni dei Turchi, né ai vani discorsi degli scismatici. – 25. Nel giudicare poi i pericoli in presenza dei quali abbiamo dichiarato che può essere addolcito il rigore della disciplina Ecclesiastica nelle circostanze sopra enunciate, ammoniamo e preghiamo tutti i fedeli di codeste regioni, e specialmente i Pastori delle Anime, affinché, innalzando con cristiana fortezza gli animi abbattuti, considerino che cosa sia davvero da temere e che cosa da disprezzare; osservino i precetti di Dio e della Chiesa non con angustia e timore delle autorità terrene, ma con la larghezza della carità e l’ardore dell’amore che scaccia il timore; amministrino la cura delle Anime. E se giudicheranno giusto motivo per trasgredire i precetti della Religione Cristiana o per trascurare la cura delle Anime loro affidate, la sola paura degli insulti dei Turchi o il pericolo di lievi incomodi, veramente di loro si potrà dire: “Trepidarono di timore laddove non c’era da temere“. Perciò esortiamo nel Signore e scongiuriamo i Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, che lo Spirito Santo pose a reggere codeste Chiese oppresse da un cumulo di gravissime calamità, a scacciare questi vani timori dal petto dei Ministri inferiori della Chiesa e di tutti i fedeli, e a sollevarli e a stimolarli affinché, calpestati ugualmente le lusinghe e i terrori del mondo, per il sentiero arduo e angusto, seguano con costanza Cristo, Capo della Chiesa, che li chiama alla vetta della santificazione. – 26. Riconoscano infine la singolare misericordia nei loro confronti del nostro Dio, il quale, mentre con terribile giudizio permise che in altre regioni sottoposte alla dominazione degli infedeli la Religione Cristiana fosse completamente calpestata ed estinta, volle invece che in codesto Regno di Serbia splendesse la luce della sua verità, guardando la quale gli uomini che si trovano nelle angustie e nelle tribolazioni potessero ricevere consolazione in questa vita, e fossero condotti a conseguire l’altra migliore e più beata. – 27. Perciò, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, meditate ancora, e ancora guardate che, per il vizio di un animo ingrato, non si inaridisca il flusso della divina pietà verso di voi e sia tolto a voi il Regno di Dio, dal momento che avrete sdegnato di ottemperare alle sue leggi e di conservare i costumi rettamente stabiliti. – 28. Se poi i sopraesposti decreti, ai quali amiamo richiamare il vostro modo di fare per la purezza delle santissime leggi della Chiesa, e che con Apostolica autorità con questa nostra Lettera vi dichiariamo che devono essere in tutto eseguiti da voi, vi sembreranno pesanti e impossibili da portarsi, badate di non attribuire per vostra opinione al leggero peso di Cristo e al giogo soave della sua legge quella pesantezza e molestia che traggono principio o dalla eccessiva sollecitudine di conservare i beni temporali, o dalla cupidigia di acquistarli. Se rigetterete queste cose e riterrete che non si può conciliare la servitù del mondo con quella che avete dichiarato a Cristo, tutto vi sembrerà davvero leggero e spedito nell’osservanza della legge cristiana. E poi Dio è fedele e non permetterà che voi siate perseguitati dagli infedeli né che siate tentati oltre le vostre forze, ma anzi dalla tentazione ricaverà un guadagno e ripagherà abbondantemente i pochi momenti delle vostre tribolazioni con un eterno cumulo di gloria. La qual cosa augurandovi di cuore dallo stesso Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, impartiamo a voi tutti affettuosamente la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 2 febbraio 1744, quarto anno del Nostro Pontificato.

[Le sottolineature, il grassetto ed il colore, sono redazionali]

 

DOMENICA FRA L’OTTAVA DELLA NATIVITA’

DOMENICA FRA L’OTTAVA

DELLA NATIVITÀ’ DEL SIGNORE

 Introitus Sap XVIII:14-15. Dum médium siléntium tenérent ómnia, et nox in suo cursu médium iter háberet, omnípotens Sermo tuus, Dómine, de coelis a regálibus sédibus venit

[Mentre tutto era immerso in profondo silenzio, e la notte era a metà del suo corso, l’onnipotente tuo Verbo, o Signore, discese dal celeste trono regale].

Ps XCII:1 Dóminus regnávit, decórem indútus est: indútus est Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se.

[Il Signore regna, rivestito di maestà: Egli si ammanta e si cinge di potenza]..

Orémus. Omnípotens sempitérne Deus, dírige actus nostros in beneplácito tuo: ut in nómine dilécti Fílii tui mereámur bonis opéribus abundáre:

[Colletta: Onnipotente e sempiterno Iddio, indirizza i nostri atti secondo il tuo beneplacito, affinché possiamo abbondare in opere buone, in nome del tuo diletto Figlio]

Lectio:

Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Gálatas. Gal IV:1-7

Patres: Quanto témpore heres párvulus est, nihil differt a servo, cum sit dóminus ómnium: sed sub tutóribus et actóribus est usque ad præfinítum tempus a patre: ita et nos, cum essémus párvuli, sub eleméntis mundi erámus serviéntes. At ubi venit plenitúdo témporis, misit Deus Fílium suum, factum ex mulíere, factum sub lege, ut eos, qui sub lege erant, redímeret, ut adoptiónem filiórum reciperémus. Quóniam autem estis fílii, misit Deus Spíritum Fílii sui in corda vestra, clamántem: Abba, Pater. Itaque iam non est servus, sed fílius: quod si fílius, et heres per Deum.

 [Fratelli: Fin quando l’erede è minore di età, benché sia padrone di tutto, non differisce in nulla da un servo, ma sta sotto l’autorità dei tutori e degli amministratori, fino al tempo prestabilito dal Padre. Così anche noi, quando eravamo minori d’età, eravamo servi degli elementi del mondo. Ma quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, affinché redimesse quelli che erano sotto la legge, e noi ricevessimo l’adozione in figli. Ora, poiché siete figli, Iddio ha mandato lo spirito del suo Figlio nei vostri cuori, il quale grida: Abba, Padre. Perciò, ormai nessuno è più schiavo, ma figlio, e se è figlio, è anche erede, per la grazia di Dio].

Sequéntia sancti Evangélii secundum Lucam

Luc II:33-40

“In illo témpore: Erat Ioseph et Maria Mater Iesu, mirántes super his quæ dicebántur de illo. Et benedíxit illis Símeon, et dixit ad Maríam Matrem eius: Ecce, pósitus est hic in ruínam et in resurrectiónem multórum in Israël: et in signum, cui contradicétur: et tuam ipsíus ánimam pertransíbit gládius, ut reveléntur ex multis córdibus cogitatiónes. Et erat Anna prophetíssa, fília Phánuel, de tribu Aser: hæc procésserat in diébus multis, et víxerat cum viro suo annis septem a virginitáte sua. Et hæc vídua usque ad annos octogínta quátuor: quæ non discedébat de templo, ieiúniis et obsecratiónibus sérviens nocte ac die. Et hæc, ipsa hora supervéniens, confitebátur Dómino, et loquebátur de illo ómnibus, qui exspectábant redemptiónem Israël. Et ut perfecérunt ómnia secúndum legem Dómini, revérsi sunt in Galilaeam in civitátem suam Názareth. Puer autem crescébat, et confortabátur, plenus sapiéntia: et grátia Dei erat in illo”.

Laus tibi, Christe!

[In quel tempo: Giuseppe e Maria, madre di Gesù, restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, e disse a Maria, sua madre: Ecco egli è posto per la rovina e per la resurrezione di molti in Israele, e sarà bersaglio di contraddizioni, e una spada trapasserà la tua stessa anima, affinché restino svelati i pensieri di molti cuori. C’era inoltre una profetessa, Anna, figlia di Fanuel, della tribù di Aser, molto avanti negli anni, vissuta per sette anni con suo marito. Rimasta vedova fino a ottantaquattro anni, non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con preghiere e digiuni. E nello stesso tempo ella sopraggiunse, e dava gloria al Signore, parlando di lui a quanti aspettavano la redenzione di Israele. E quando ebbero compiuto tutto secondo la legge del Signore, se ne tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret. E il fanciullo cresceva e si irrobustiva, pieno di sapienza: e la grazia di Dio era con lui.]

OMELIA

DELLA DOMENICA FRA L’OTTAVA

DELLA NATIVITÀ’ DEL SIGNORE

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

[Vang. sec. S. Luca II, 33-40]

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Gesù posto in rovina e risurrezione di molti.

 Ecce positus est hic in ruinam, et resurrectionem Multorum”. Ella è questa una parte della celebre profezia che fece il santo vecchio Simeone alla Vergine Madre alloraché, in adempimento della legge di Mose, presentò il suo divin Figliuolo al Tempio, come ci narra San Luca dell’odierno sacrosanto Vangelo. “Questo pargoletto tuo figlio, le disse, sarà per molti causa di risurrezione e di salute, e per altri molti occasione di rovina e di morte” – “positus est hic in ruinam, et resurrectionem multorum”. Ma come, dirà forse alcun di voi, non è Egli Gesù, il nostro Salvatore, la nostra luce, la nostra vita? Come dunque può essere insieme cagion di nostra perdita, e di nostra rovina? A questa interrogazione, a questa difficoltà darò risposta e scioglimento del corso della presente spiegazione, se per poco d’ora mi favorite della gentile vostra attenzione. Gesù adunque è per molti causa di salute, e per molti altri occasione di rovina? Così è! Non sorprenda, uditori miei, che una stessa causa produca effetti diversi. La luce si fa candida nel giglio, pallida nella viola, e nella rosa vermiglia, e pur è sempre la stessa luce. L’ape e la serpe da un medesimo fiore suggono l’umore stesso, e pur nel seno dell’ape quel sugo si cambia in miele, nel sen della serpe si cangia in veleno. La manna nel deserto per molti era cibo leggero e nauseante, e per altri era cibo avente in sé ogni squisito sapore. Così Gesù luce del mondo, fior nazzareno, manna dal ciel disceso, sempre buono, sempre uguale in se stesso, per la malizia degli uomini riesce diverso nei suoi effetti, e ciò in speciale maniera, o si riguardi la sua fede, o la sua legge, o i suoi sacramenti. Vediamolo a parte a parte. – La fede in Gesù Cristo è la sola che salva. Questa fede, che ha origine dal principio del mondo, allor che dopo la caduta dei nostri progenitori venne loro promesso un liberatore, fu quella che li salvò colla penitenza di tutta lor vita. Abele innocente, Seth temente Iddio, il giusto Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giobbe, Tobia, Davide, in una parola tutti i patriarchi e profeti e tutti quei personaggi santissimi, i nomi dei quali stanno nel libro della vita, e nell’antico Testamento, si sono salvati per la fede in Gesù Cristo, poiché non vi è altro nome in cui si possa essere salvezza, e siccome noi ci salviamo per la fede in Cristo già venuto, così si salvarono essi per la fede in Cristo venturo, unendo alla loro fede le più eccellenti virtù. Tale essere deve la nostra fede, fede viva, operante, fede osservatrice della divina legge, seguace degli esempi del Redentore, ed Egli allora si potrà e si dovrà dire esser causa benefica di nostra resurrezione e salvezza, “positus est hic in resurrectionem multorum”. Udite com’Egli medesimo si esprime nel suo santo Vangelo: “Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me (e in Cristo non può dirsi che veramente creda chi con la fede non unisce l’opere buone da Lui prescritte) ancorché fosse morto per il peccato, risorga a nuova vita di grazia, e vivrà in eterno”. Ego sum resurrectio et vita; “qui credit in me, etiamsi mortuus fuerit, vivet, et omnis qui credit et credit in me, non morietur in æternum” (Io. XI, 25, 26). – Che diremo ora di quelli sconsigliati, che spargono dubbi circa la cristiana credenza, bestemmiano quel che ignorano, e col carattere della fede in Gesù Cristo impresso nell’anime loro nel santo Battesimo, accoppiano vita e costumi da epicurei e da maomettani? Diremo non per insultarli, quel che di ciascun d’essi pronunzia l’Evangelista Giovanni: è già giudicato chiunque non crede, “qui non credit, iam judicatus est” (Io. III, 17): diremo che convien pregare il Padre dei lumi acciò rischiari la mente di quei che giacciono nelle tenebre e nelle ombre di morte. Diremo che un cuor retto, un animo non vizioso, un costumato cattolico, mai si rivolta contro la fede. Solo della fede è nemico un cuor guasto, uno spirito corrotto da ree passioni. E perché? Perché fede e peccato, fede e viziose abitudini, fede e sregolate passioni, sono tra loro in necessaria guerra; onde ne segue che chi non vuol abbandonare il peccato, e del peccato non vuol soffrire i rimorsi, si arma, si scaglia contro la fede, come sua nemica, per tentare se per questa via gli riesca di far tacere i latrati, e mitigare i rimorsi della rea coscienza. Ed ecco in ciò come Gesù Cristo, che per costoro esser doveva, per mezzo della sua fede, pietra fondamentale e causa di salute vien dalla loro incredulità trasformato in pietra d’inciampo ed occasione di rovina: “positus est hic in ruinam”. – Va del pari con la fede di Gesù Cristo la santa sua legge. Anch’essa ha il suo principio dall’origine del mondo, anzi da Dio medesimo, che è la legge eterna. Tre leggi, direte voi, son note a tutti, una che chiamasi di natura, l’altra scritta, la terza Evangelica. No, miei carissimi, sono tre nomi diversi, ma una sola è la legge. In quella guisa ch’è sempre lo stesso uomo quel che bambino vagisce in cuna, quel che cresce in giovane adulto, quel che poi nella virilità arriva ad essere uomo perfetto; così la legge di natura scritta da Dio nel nostro cuore fu una legge bambina; passò ad essere una legge adulta quando dal dito di Dio fu scritta sulle tavole a Mosè; e finalmente fu legge perfetta, quando uscì dalla bocca dell’incarnata Sapienza Cristo Gesù, e si promulgò col suo santo Vangelo; ma è sempre una stessa legge nel suo principio, nel suo progresso e nella sua perfezione; ond’è che Gesù Cristo si protestò altamente che non era venuto al mondo per togliere la legge, ma per adempirla e perfezionarla “Non veni volvere legem, sed adimplere” (Io. V, 17). – In questa legge divina, e nell’osservanza della medesima sta la salute e la vita, e perciò a quel giovane, che domandò al redentore per qual mezzo poteva conseguire la vita eterna, rispose: “serva mandata” (Matth. XIX, 17). Questi comandamenti li sapete dalla vostra infanzia. Adora ed ama il tuo Dio, non profanare il suo santo nome, santifica le feste a Lui consacrate, rispetta, ubbidisci, soccorri i tuoi genitori, non togliere ai tuoi simili né roba, né vita, né fama, astieniti dal vizio impuro, dallo spergiuro, e dal desiderio perfino di tutto ciò che non è tuo, ma del tuo prossimo. Ecco la legge, ecco la via per andar salvi. Nella fedele osservanza di questa legge è riposta la nostra giustificazione e salute. “Factores legis iustificabuntur” (Ad Rom. II, 13). Sarà Gesù allora causa propizia del nostro risorgimento e della nostra salvezza, “positus est hic in resurrectionem”. – or questa legge così cauta e salutare come da noi viene adempiuta? Ohimè un’altra legge regna nel cuore dell’uomo: le legge del peccato e della carnale concupiscenza, Oh quanti  osservatori conta questa legge tiranna! Un’altra legge si fa ubbidire con minore efficacia: la legge del mondo perverso e perversore, che consiglia, che comanda odio ai nemici, vendetta degli affronti, oppressione degli umili, disprezzo dei maggiori. Legge del mondo che approva le usure e i monopoli, che autorizza la frode e la bugia nei contratti, che fa prevalere l’impegno alla giustizia, il danaro all’onestà, l’interesse all’anima e a Dio. E non è questo il secolo della pressoché universale depravazione della legge dell’Altissimo? Non sarà iperbole, se noi ripeteremo nell’amarezza dell’animo ciò a Dio rivolto diceva piangendo il Re Profeta: “Tempus faciendi, Domine”. Questo è il tempo, o Signore, in cui per le umane azioni non vi è più né regola né freno, e la vostra legge francamente si disprezza e si calpesta … “tempus faciendi, Domine, dissipaverunt legem tuam” (Ps. CXVIII). Qual meraviglia poi, se per questi prevaricatori della divina legge sia posto Gesù in loro spirituale ed eterna rovina? “Positus est hic in ruinam multorum”, – Finalmente Gesù nei suoi sacramenti è causa di vita, e occasione di morte. Tra questi per esser breve, mi restringo ai due più frequentati, la Penitenza cioè, e l’Eucaristia. Rapporto al primo vi accostate al tribunale di penitenza in spirito di umiltà, e col cuore contrito (appressatevi pure con fiducia a questa salubre Probatica, e ne uscirete risanati. Sarà Cristo, per mezzo del suo ministro, il pietoso Samaritano, che col vino della sapienza e con l’olio della misericordia medicherà le vostre ferite, se foste morti alla grazia, Egli sarà il vostro risorgimento, “positus est in resurrectionem”. – Ma se invece senza esame, senza dolore, senza sincerità nelle accuse, senza proposito e volontà di lasciare il peccato e l’occasione dello stesso, vi presentaste ai piedi del Sacerdote, voi avrete il mal incontro. Il sangue adorabile di Gesù-Cristo, che con la sacramentale assoluzione s’applica all’anima vostra, si cangerà in materia di dannazione; discenderà sopra di voi questo sangue tremendo come disceso su gl’imperversati Giudei di rovina e di sterminio. – carissimi miei, tenetevi a mente questa figura, che parmi assai spiegante ed istruttiva. Ecco là nella prigione Giuseppe in mezzo a due carcerati: uno è il coppiere, l’altro il panettiere del faraone. Tutti e due han fatto un sogno, e ne domandano a Giuseppe l’interpretazione. Io, dice il primo, sognando premeva a mano un grappolo d’uva nella coppa del mio sovrano. Buon presagio, rispose il divino interprete, tu sarai rimesso in grazia del tuo signore, e ristabilito nel tuo impiego. E a me, soggiunge l’altro, pareva di portare un canestro pieno di pani e di ciambelle per la regia mensa, e mentre mi stava sul capo, una torva di corvi e di altri uccelli rapaci nol lasciarono vuota la cesta. Cattivo pronostico, rispose Giuseppe: tu sarai sospeso ad un legno, ed i corvi e gli avvoltoi si divoreranno le tue carni. Tanto disse e tanto avvenne! Applicate la figura, uditori miei. Siede sul sacro tribunale il sacerdote, interprete della divina volontà, e giudice da Dio costituito, portate ai piedi suoi un cuore come un grappolo del coppiere, premuto dal dolore e mutato in un altro cuore, cioè di cuor peccatore in cuore penitente, come l’uva di grappolo cangiata in vino. Consolatevi, voi avrete buone risposte, sarete ammessi al perdono, ritornerete in grazia del vostro Dio, risorti a nuova vita. – Se per l’opposto accostandovi al sacro ministro porterete solo in mente e nella memoria le vostre colpe, come il canestro sul capo del panettiere tanto da farne al confessore una fredda narrazione, ma senza dolore d’averle commesse, senza proposito di emendarvi, senza volontà di restituire la roba altrui, di abbandonare le occasioni pericolose, di adempiere le obbligazioni del proprio stato, guai per voi! O vi saran date giuste come da giuste ma funeste risposte, o se riceverete la sacramentale assoluzione, vi aggraverete di un nuovo e maggiore peccato e morendo in questo misero stato, i demoni faranno di voi orrido strazio; perché la sacramentale confessione, da Gesù Cristo istituita per salvarvi, l’avete praticata per perdervi, e l’abuso sacrilego che fatto ne avete ha trasformato Gesù Salvatore in vostro nemico e in vostra rovina. Positus est in ruinam. – Lo stesso avviene nel sacramento della santissima Eucaristia. Ogni fedele che con cuore e con l’anima monda, almeno da grave peccato, si pasce delle carni dell’Immacolato Agnello di Dio, riceve conforto, ristoro ed aumento di grazia santificante, e Gesù, che è pane di vita, vita gli dà spirituale ed eterna. – Se poi taluno ardisse mangiar questo divin pane con la coscienza rea di colpa mortale, si mangerebbe quest’indegno, dice l’Apostolo, il suo giudizio e la sua condanna. Osservate soggiunge l’Angelico, come lo stesso pane celeste per l’anime buone è cibo di vita, per le malvagie è cibo di morte. “Mors est malis, vita bonis: vide par is sumptionis quam sit dispar exitus”. – Si legge nel libro quinto dei Numeri, che se un marito per ragionevole sospetto temuto avesse della fedeltà della proprii consorte, era autorizzato dalla legge di Mosè a condurla innanzi al sacerdote. Questi, a depurare il dubbio, raccolta dal pavimento del Tabernacolo poca polvere e mescolatala con acqua, la dava a bere alla donna sospetta. Se questa era rea, quella bevanda, come fosse potentissimo veleno, la faceva sull’istante cadere morta ai piedi dei circostanti, se innocente, senza soffrire alcun nocumento ritornava a casa sua fra gli applausi dei congiunti e dei cittadini. Lo stesso, vedete, miei cari, lo stesso avviene, sebbene in modo invisibile, nella santa Eucaristica Comunione. Guai a quell’anima che conscia di peccato mortale dalla man del sacerdote riceve la sacra particola! Sarà questa per lei micidiale veleno. Buon per quell’altra che se ne pasce con cuore innocente e con un cuor purgato da vera penitenza; fra gli applausi degli Angeli avrà vita e salute e pegno di vita eterna. – Ed ecco come Gesù Cristo positus est in ruinam et resurrectionem multorum”. Ah dunque, miei cari, teniamoci ben stretti alla fede di Gesù Cristo, ch’è la sola che salva: osserviamo la sua legge, che è la necessaria condizione per salvarci: siam peccatori? Andiamo ai suoi piedi al tribunale di penitenza col cuore umiliato e contrito, e saremo giustificati: accostiamoci alla sacra mensa colle debite disposizioni, e Gesù sarà per noi cibo, vita, salute, seme d’immortalità, pegno della futura gloria, che per sua grazia ci conceda.

Credo

Antif. All’Offertorio

Ps XCII:1-2 Deus firmávit orbem terræ, qui non commovébitur: paráta sedes tua, Deus, ex tunc, a saeculo tu es.

[Iddio ha consolidato la terra, che non vacillerà: il tuo trono, o Dio, è stabile fin da principio, tu sei da tutta l’eternità].

Secreta

Concéde, quaesumus, omnípotens Deus: ut óculis tuæ maiestátis munus oblátum, et grátiam nobis piæ devotiónis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat.

[Concedi, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che questa offerta, presentata alla tua maestà, ci ottenga la grazia di una fervida pietà e ci assicuri il possesso della eternità beata].

Communio Matt II:20 Tolle Púerum et Matrem eius, et vade in terram Israël: defúncti sunt enim, qui quærébant ánimam Púeri.

[Prendi il bambino e sua madre, e va nella terra di Israele: quelli che volevano farlo morire sono morti].

Post communio

Per huius, Dómine, operatiónem mystérii, et vitia nostra purgéntur, et iusta desidéria compleántur. [Per l’efficacia di questo mistero, o Signore, siano distrutti i nostri vizii e compiuti i nostri giusti desideri]

IL SS. NOME DI GESU’

2 gennaio: Il SANTISSIMO NOME DI GESÙ

 Rango: Doppio della Classe II.

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 Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha risuscitato, e Gli ha dato un NOME, che è al di sopra tutti i nomi; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si piega.

Gesù! Nome dato al Verbo Incarnato non dagli uomini, ma da Dio stesso. Apparve l’Angelo a San Giuseppe, e poiché egli pensava di rimandare occultamente Maria sua santissima Sposa, lo rassicura: « Giuseppe, gli disse, figlio di David, non temere di prender teco Maria la tua consorte, perché ciò che è nato in Lei è dallo Spirito Santo. Darà alla luce un figliuolo cui porrai nome Gesù, poiché sarà Lui che libererà il popolo suo dai peccati». Nacque il Bambino e otto, giorni dopo fu circonciso, e fu chiamato Gesù, cioè Messia, Salvatore. Gesù! Nome per noi d’allegrezza, nome per noi di speranza, per noi nome d’amare. – Nome d’allegrezza. Quando ci affligge la memoria dei nostri mali trascorsi, quando il rimorso si fa sentire più forte entro la nostra coscienza, quando lo spavento degli eterni castighi ci assale, il demonio vorrà precipitarci in seno alla disperazione, noi pensiamo a Gesù, il Salvatore, ed una gioia, una nuova giocondità ci conforta, ritroviamo in esso la luce, quella luce che illumina, che salva, che santifica. – Nome di speranza. Gesù stesso ci dice: « Se chiederete qualcosa al Padre in nome mio, Egli ve la darà ». O uomini, di che temete? Se la vostra miseria vi fa arrossire, se temete pei vostri peccati il Padre mio, se non osate chiedere a Lui ciò che a voi sta a cuore, fate coraggio, chiedetelo in Nome mio, poiché « se qualcosa chiederete al Padre in mio nome, ve lo darà ». Sperate adunque. Gesù, nome d’amore. Oh sì! Chi pronunciando questo dolcissimo Nome non ricorda quanto sia costata la nostra Redenzione? Chi non si commuove innanzi ad un eccesso di tanto amore? E Gesù, Dio uguale al Padre, che si sacrifica su di una croce, agonizza fra atroci tormenti, egli innocente, muore schernito e vilipeso da quelli stessi per cui dà la vita. Nome d’amore, d’infinito amore, nome che a Gesù solo compete, perché dopo aver creato viene a redimere e per redimere si è annichilito facendosi l’Uomo dei dolori, ed obbediente sino alla dura morte di croce; per la qual cosa il Padre Gli diede un nome che è sopra ogni nome : « dedit illi nomen quod est super omne nomen », a questo nome piegano la fronte gli Angeli ed i beati del Cielo, tremano al suono di questo le forze degli abissi, a questo riverenti si inchinano gli abitanti della terra. – Quel Bambino che i profeti da tanti anni preannunziarono quel Bambino di cui parlano le Scritture, quello che l’umanità da tanto tempo aspettava come un liberatore, oggi Lo conosciamo, si chiama Gesù, Salvatore; Egli è che chiuderà le porte dell’inferno ed aprirà quelle del Cielo, Egli che porterà la pace alla terra, Egli ancora che per i poveri uomini darà al Padre suo quella gloria che a Lui solo è dovuta.

PRATICA. — Non pronunciamo mai invano, o senza tutto il dovuto rispetto il nome di Gesù; invochiamoLo invece, con fede in ogni nostro bisogno.

PREGHIERA. — Gesù mio, scrivete il vostro Nome sul mio povero cuore, e sulla mia lingua, acciocché, tentato a peccare, io resista con invocarvi, tentato a disperarmi, io confidi nei vostri meriti, trovandomi tiepido in amarvi il vostro Nome m’infiammi col ricordarmi quanto Voi mi avete amato. Sia, o Signore, il vostro Nome sempre la mia speranza, la mia difesa, sempre e l’unico mio conforto, sempre la fiamma che mi terrà acceso del vostro divino amore.

[da: I Santi per ogni giorno dell’anno”. S. Paolo ed. Alba- Roma, 1933]

L’IMPOSIZIONE DEL NOME

[da: I Sermoni – S. Antonio da Padova]

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«E gli fu posto nome Gesù» (Lc II,21). Nome dolce, nome soave, nome che conforta il peccatore, nome di beata speranza. Giubilo al cuore, melodia all’orecchio, miele alla bocca. Piena di giubilo, la sposa del Cantico dei cantici dice di questo nome: «Olio sparso è il tuo nome» [Profumo olezzante è il tuo nome] (Ct I, 2). Osserva che l’olio ha cinque proprietà: galleggia sopra tutti i liquidi, rende cedevoli le cose dure, tempera quelle acerbe, illumina le oscure, sazia il corpo. Così anche il nome di Gesù, per la sua grandezza è al di sopra di tutti i nomi degli uomini e degli Angeli, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si piega (cf. Fil II, 10). Quando lo proclami intenerisce i cuori più duri, se lo invochi tempera le tentazioni più aspre, se lo pensi illumina il cuore, se lo leggi sazia il tuo spirito. – E fa’ attenzione che questo nome di Gesù non è detto soltanto «olio», ma olio «sparso». Da chi? E dove? Dal cuore del Padre, nel cielo, sulla terra e negli inferi. In cielo per l’esultanza degli Angeli, che perciò acclamano esultanti: «Salvezza al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap VII, 10), cioè a Gesù, che è chiamato «Salvezza, Salvatore»; sulla terra per la consolazione dei peccatori: «Al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio. Di notte anela a te l’anima mia» (Is XXVI, 8-9); negli inferi per la liberazione dei prigionieri, infatti si dice che, prostrati alle sue ginocchia, abbiano gridato: «Sei venuto finalmente, o nostro Redentore!…» (Breviario Romano, antico Ufficio dei defunti).- Riporterò brevemente ciò che scrive Innocenzo di questo nome. Questo nome di Gesù (lat. Jesus) è composto di due sillabe e di cinque lettere: tre vocali e due consonanti. Due sillabe, perché Gesù ha due nature, la divina e l’umana: la divina dal Padre, dal Quale è nato senza madre; l’umana dalla Madre, dalla quale è nato senza padre. Ecco, due sono le sillabe in quest’unico nome, perché due sono le nature in quest’unica persona. – Da notare però che la vocale è quella che ha un suono per se stessa, la consonante invece ha suono solo unita con una vocale. Quindi nelle tre vocali è simboleggiata la divinità la quale, essendo unica in se stessa, produce il suono nelle tre persone. Infatti “tre sono quelli che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno» (lGv V, 7). – Nelle due consonanti è simboleggiata l’umanità la quale, avendo due sostanze, cioè il corpo e l’anima, non ha suono per se stessa, ma solo in virtù dell’altra natura, alla quale è congiunta nell’unità della persona. «Infatti come l’anima razionale e la carne sono un solo uomo; così Dio e l’uomo sono un solo Cristo» (Simbolo atanasiano). La persona infatti è definita «una sostanza razionale a se stante», e tale è Cristo. – Cristo è Dio e anche uomo, ma per sé «suona» in quanto è Dio, e non in quanto è uomo, perché la divinità conservò il diritto di personalità assumendo l’umanità, ma l’umanità assunta non ricevette il diritto di personalità [poiché non la persona assunse la persona, né la natura assunse la natura, ma la persona assunse la natura] (Innocenzo III, papa, Sermone sulla Circoncisione). – Questo dunque è il nome santo e glorioso «che è stato invocato sopra di noi» (Ger XIV, 9), e non c’è altro nome – dice Pietro – sotto il cielo, nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati (cf. At IV.12). – Per la virtù di questo nome ci salvi Dio, Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto sopra tutte le cose nei secoli dei secoli. Amen.

 INNO

Jesu decus angelicum,

In aure dulce canticum,

In ore mel mirificum,

In corde nectar caelicum.

Qui te gustant, esuriunt;

Qui bibunt, adhuc sitiunt;

Desiderare nesciunt,

Nisi Jesum, quem diligunt.

O Jesu mi dulcissime,

Spes suspirantis animae!

Te quaerunt piae lacrimae,

Te clamor mentis intimae.

Mane nobiscum, Domine,

Et nos illustra lumine;

Pulsa mentis caligine,

Mundum reple dulcedine.

Jesu, flos Matris Virginis,

Amor nostrae dulcedinis,

Tibi laus, honor nominis,

Regnum beatitudinis. Amen.

[Gesù, decoro degli Angeli, all’orecchio dolce cantico, alla bocca miele dolcissimo, al cuore nettar celeste. Quelli che ti gustano, hanno ancor fame; quelli che ti bevono, hanno ancor sete; desiderar non sanno, se non Gesù, che amano. O Gesù mio dolcissimo, speranza dell’anima che sospira! te cercano le pie lacrime, te il grido intimo del Cuore. Rimani con noi, o Signore, e c’illumina colla tua luce: ne fuga la caligine dell’anima, riempi il mondo della tua dolcezza. Gesù, fior della Vergine Madre, amor nostro dolcissimo, a te la lode, l’onor del nome, il regno della beatitudine. Amen.]

V. Sia benedetto il Nome del Signore. Alleluia. Alleluia.

 R. Ora, e per sempre. Alleluia. Alleluia.

OREMUS

Deus, qui unigenitum Filium tuum constituisti humani generis Salvatorem, et Jesum vocari jussisti: concede propitius; ut cujus sanctum nomen veneramur in terris, ejus quoque aspectu perfruamur in cælis.

Preghiamo [O Dio, che hai costituito Salvatore del genere umano il Figlio tuo unigenito e hai voluto che si chiamasse Gesù: concedi benigno, che, come ne veneriamo il santo nome in terra, così ne godiamo ancora la vista in cielo].

V. Adjutorium nostrum in nomine Domini. R. Qui fecit cœlum et terram.

Il nostro aiuto è nel nome del Signore;

Che ha fatto cielo e terra.

LA CIRCONCISIONE DI GESU’

LA CIRCONCISIONE DI GESU’

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[da “I Sermoni” – S. Antonio di Padova]

«Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione del bambino» (Lc II,21). In questa prima parte ci viene insegnato, in senso anagogico (mistico), come tutti i giusti, nella risurrezione finale, saranno circoncisi di ogni corruzione. Ma poiché nel Verbo circonciso avete sentito una parola «circoncisa», anche ne parleremo circoncisamente (brevemente) della sua circoncisione. Cristo fu circonciso soltanto nel corpo, perché nulla c’era da circoncidere nel suo spirito. Infatti «egli non commise peccato, e non si trovò inganno sulla sua bocca» (lPt II,22). E neppure contrasse il peccato [di origine] perché, come dice Isaia: «Salì su una nuvola leggera» (Is XIX,1), assunse cioè una carne immune da peccato. – Venendo tra i suoi, poiché “i suoi non l’avrebbero accolto” (Gv.I, 11), dovette essere circonciso, affinché i giudei non avessero contro di Lui dei pretesti, con il dire: E un incirconciso, dev’essere eliminato dal popolo perché, come è scritto nella Genesi, “il maschio al quale non è stato reciso il prepuzio, sarà eliminato dal suo popolo” (Gen XVII, 14). Sei un trasgressore della legge, non vogliamo uno che è contro la legge. – Fu quindi circonciso per almeno tre motivi: primo, per osservare la legge – si dovette compiere il mistero della circoncisione finché non fu sostituito dal Sacramento del Battesimo -; secondo per togliere ai giudei il pretesto di calunniarlo; terzo, per insegnarci la circoncisione del cuore, della quale dice l’Apostolo: “La circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini, ma da Dio» (Rm II, 29). – “Passati gli otto giorni prescritti”. Vediamo il significato di queste tre cose: il giorno ottavo, il bambino e la sua circoncisione. La nostra vita si svolge, per così dire, in un giro di sette giorni (settenario): segue poi il «giorno ottavo» (ottonario) della risurrezione finale. Dice l’Ecclesiaste: «Da’ la loro parte a sette, e anche a otto, perché non sai che cosa di male potrà venire sulla terra» (Eccle XI, 2). – Come dicesse: fa’ che i sette giorni della tua vita prendano parte alle opere buone (siano impegnati nell’operare il bene), perché poi ne riceverai la ricompensa nel giorno ottavo, quello della risurrezione; in quel giorno sopra la terra, cioè per coloro che amano la terra, ci sarà un male così grande, quale nessun uomo potrà immaginare. – Allora l’aia sarà ripulita, il grano sarà separato dalla paglia, le pecore saranno divise dai capri (cf. Mt III, 12; XXV, 32; Lc III,17). La ripulitura dell’aia simboleggia la revisione che sarà operata nell’ultimo giudizio. Il grano raffigura i giusti che saranno accolti nei granai del cielo. Dice Giobbe: «Te ne andrai nella tomba, pieno di anni, come si ammucchia il grano a suo tempo» (Gb V, 26). La tomba indica la vita eterna, dove i giusti entreranno carichi di opere buone, e saranno al riparo dagli attacchi dei demoni, come uno che si nasconde in una tomba per sfuggire agli uomini. La paglia invece, cioè i superbi, superficiali e incostanti, saranno bruciati nel fuoco. Di essi dice Giobbe: «Saranno come paglia al soffio del vento e come pula che l’uragano disperde» (Gb XXI,18). Gli agnelli o le pecore, cioè gli umili e gli innocenti, saranno posti alla destra di Dio: «Come un pastore pascerà il suo gregge, con il suo braccio radunerà gli agnelli, li solleverà al suo petto ed egli stesso porterà le pecore gravide» (Is. XL,11). – Osserva che in queste quattro parole: pascerà, radunerà, solleverà e porterà, si possono ravvisare le quattro prerogative delle quali sarà dotato il corpo dei giusti nel giorno ottavo, cioè nella risurrezione finale. – Pascerà con lo splendore: «Dolce è la luce, e agli occhi piace vedere il sole» (Eccle XI,7); e i giusti splenderanno come il sole nel regno di Dio (cf. Mt XIII,43). Se l’occhio ancora corruttibile tanto si diletta dell’illusorio splendore di un misero corpo, quanto più grande sarà quel piacere di fronte al vero splendore di un corpo glorificato? Radunerà con l’immortalità: la morte dissolve e divide, l’immortalità riunisce e raduna. Solleverà con l’agilità: ciò che è agile si solleva facilmente. Porterà con la sottigliezza: ciò che è sottile [una veste] si porta senza fatica. Invece i capri, cioè i lussuriosi, saranno appesi per i piedi ganci dell’inferno. Infatti il Signore, per bocca di Amos, minaccia le vacche grasse» (cf. Am IV, 1), cioè i prelati della Chiesa superbi e lussuriosi: «Ecco, verranno per voi i giorni in cui [i demoni] vi appenderanno ai ganci, e getteranno i rimanenti di voi in caldaie bollenti. Uscirete per le brecce uno contro l’altro; e sarete scagliati contro l’Hermon» (Am IV, 2-3), che s’interpreta «scomunica», perché i superbi e i lussuriosi, scomunicati e maledetti dalla chiesa trionfante sprofonderanno nell’eterno supplizio. – Tutto questo, cioè la gloria e la pena, sarà dato a ciascuno nel giorno ottavo, cioè nella risurrezione, secondo ciò che ha fatto nella settimana di questa vita. Dice in proposito la Genesi: «Giacobbe servì sette anni per [avere] Rachele, e gli sembrarono pochi giorni tanto grande era l’amore che nutriva per lei» (Gen XXIX, 20). Infatti era una donna molto bella di forme e di aspetto avvenente (Gen XXIX. 17). E continua: «Passata la settimana, prese Rachele in moglie» (XXIX, 28). E più avanti dice: «Di giorno mi divorava il caldo e il gelo di notte, e il sonno fuggiva dai miei occhi» (Gen XXXI, 40). – O amore della bellezza! O bellezza dell’amore! O gloria della risurrezione, quante cose riesci a far sopportare all’uomo, per giungere alle nozze con te! Il giusto fatica per tutti i sette giorni della sua vita nell’indigenza del corpo e nell’umiltà del cuore: di giorno, cioè quando gli sorride la prosperità nel calore della vanagloria; e di notte, vale a dire quando sopravvengono le avversità e viene tormentato dal gelo della tentazione del diavolo. E così il sonno e il riposo fuggono da lui perché ci sono battaglie all’interno e paure all’esterno (cf. 2Cor VII, 5). Teme il mondo, è combattuto in se stesso, e tuttavia in mezzo a tante sofferenze i giorni gli sembrano pochi a motivo della grandezza dell’amore. Infatti «per chi ama nulla è difficile (Cicerone). – O Giacobbe, ti scongiuro: lavora con pazienza, sopporta con umiltà perché, finita la settimana della presente miseria, conquisterai le bramate nozze della gloriosa risurrezione, nella quale sarài finalmente circonciso di ogni fatica e di ogni schiavitù di corruzione. – «Passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione del fanciullo». In lat. è detto puer, fanciullo, non vecchio. Nella risurrezione finale ogni eletto sarà circonciso, perché risorgerà per la gloria, come dice Plinio, senza alcun difetto, senza alcuna deformità. Sarà ben lontana ogni infermità, ogni incapacità, ogni corruzione, ogni inabilità e ogni altra carenza indegna di quel regno del sommo Re, nel quale i figli della risurrezione e della promessa saranno uguali agli angeli di Dio (cf. Lc. XX, 36); allora ci sarà la vera immortalità. – La prima condizione dell’uomo fu il poter non morire; per causa del peccato gli fu inflitta la pena di non poter non morire: seconda condizione; lo attende, nella futura felicità, la terza condizione: non poter più morire. Allora usufruiremo in modo perfetto del libero arbitrio, che al primo uomo fu dato in modo che «potesse non peccare»; sarà appunto perfetto quando questo libero arbitrio sarà tale da «non poter peccare». – O giorno ottavo, tanto desiderabile, che in modo così meraviglioso, circoncidi dal bambino tutti i mali!

ISTRUZIONE SUL PRIMO GIORNO DELL’ANNO

ISTRUZIONE SUL PRIMO GIORNO DELL’ANNO

[da: Manuale di Filotea del sac. G. Riva, XXX ed. Milano 1888]

giudizio

Qualunque affare del mondo, perché abbia buon riuscimento convien che cominci da Dio, che è il Padrone di tutti gli eventi. E ciò si fa coll’invocare preventivamente il suo santo aiuto. – Cosi fece Davide prima di agitare la sua fionda, per agitare la sua fionda per abbattere il gigante Golia. Così fece Giuditta prima di vibrare quel colpo che, troncando il capo a Oloferne, doveva salvare tutta Betulla. E così fanno tutti i buoni cristiani, facendosi il segno della Croce al principio d’ogni azione di qualche rilievo. Quanto più dunque deve ciò farsi al principio dell’anno, che è il principio di innumerevoli azioni? Tanto più che Dio è sempre stato geloso delle primizie, volendo con esse venir da noi riconosciuto per unico Autor di ogni bene; quindi ordinò nel Levitico che, al primo mietersi delle nuove biade, Gli si offerissero in sacrificio due pani formati col grano novello. Quanto più dunque, sul cominciare dell’Anno, esigerà Egli le primizie della nostra devozione, del nostro spirito. – Per determinarci a una special santificazione di questo primo giorno, conviene riflettere al nuovo debito che ognuno contrae in oggi con Dio, essendo per sua sola benignità che ci è concesso di vivere ancora in quest’anno mentre, per l’abuso fatto degli anni antecedenti, noi meritammo d’aver troncata la nostra vita. E’ bene anche considerare che quest’anno potrebbe per noi essere l’ultimo in cui il Signore voglia soffrire la nostra malvagità ed aspettarci a penitenza, facendo con noi come fece con quell’albero di fico infruttuoso descritto al capo di S. Luca. Avendo il padrone condannato alla scure ed alle flamme in pena del non aver esso per tre anni continui reso alcun frutto. Ma, per le preghiere del vignaiuolo, si accontentò di aspettare un altro anno per vedere se con nuova coltura potesse rendersi fruttuoso. Nella stessa guisa il Signore, dopo aver sopportato tanti anni la nostra vita sterile affatto d’ogni bene e solo feconda di colpe, ci concede adesso quest’altro anno, affinché ci ravvediamo dei nostri falli, e corrispondiamo con fervore a tanti suoi benefici. Diciamo dunque con Davide — Ho fatta la mia risoluzione — Voglio proprio cominciare davvero ed essere buono! = Ego dìxi, nunc coepi. – Anno nuovo. Vita nuova. – A questo intento sono utilissime le pratiche seguenti. 1. Prolungar le proprie orazioni per implorar il divino aiuto. 2. Comunicarsi con gran devozione. 3. Dare in limosina tante monete quanti sono gli anni della propria vita, oppure recitare altrettanti Pater ed Ave onde ringraziare il Signore d’averci finora conservati. 4. Fare le proteste le più sincere di una vita tutta piena di opere buone a santificazione di sé, e ad edificazione del proprio prossimo. – Tanto più che a questa vita tutta piena di opere buone ci invita oggi la Chiesa col metterci sott’occhio il mistero della circoncisione. Gesù Cristo essendo Dio, avrebbe potuto sottrarsi a questa dolorosa ed umiliante cerimonia mosaica. Tuttavia Egli volle sottomettervisi per più ragioni che meritano di essere attentamente considerate: 1. Per abolire in modo amorevole un rito instituito da Dio medesimo onde distinguere, fino alla Nuova Alleanza, da tutte le altre nazioni il suo popolo. 2. Per mostrare che il corpo da Lui assunto in unità di persona col divin Verbo era un corpo vero e reale, non già apparente e fantastico come sognarono certi eretici. 3. Per mostrare che Egli non solo era Figliuolo dell’ uomo, ma dell’uomo dalla stirpe del quale doveva venire il Messia. 4. Per insegnare a noi, non solo a sottomettersi volentieri alle leggi che ci obbligano strettamente, ma ancora a cercare spontaneamente le umiliazioni e i patimenti. 5. Per darci, fin dai primi suoi giorni il pegno più certo del suo amore, cominciando appena nato a patire e versar sangue per la nostra salute. 6. Per insegnarci fin da principio la virtù fondamentale della vita cristiana, che è la circoncisione del cuore per cui s’intende la mortificazione di ogni scorretto appetito. – Secondo l’asserzione di Durando, che scriveva nel secolo decimoterzo, anticamente si usava in questo giorno di celebrare due Messe 1° una della Circoncisione per festeggiare il Mistero, e l’altra della Madonna per esprimere la propria ricoscenza a Colei la quale ebbe tanta parte nei misteri del divin suo Figlio. Facciamoci dunque ancor noi un dovere di onorare in modo speciale la Santa Vergine Maria mettendoci con nuove proteste sotto la sua protezione. – In molti luoghi si costuma in questo giorno distribuire a ciascuno degli intervenienti alla Dottrina l’immagine di un Santo, onde serva di speciale protettore per tutto l’anno. Facciamo la debita stima di un’usanza sì bella, ricordandoci che in ogni Santo che la Provvidenza ci dà per protettore noi abbiamo un modello, un avvocato ed un giudice. Un Modello di cui dobbiamo imitar la virtù; un Avvocato di cui dobbiamo con gran fiducia implorare il patrocinio; un Giudice di cui dobbiamo temere i rimproveri quando avessimo trascurato di imitarne le virtù e implorarne l’assistenza. – Quando si facciano tutte queste considerazioni si sentirà stretto dovere di realizzare il detto di sopra. — Anno nuovo, Vita nuova!

ORAZIONE PEL PRIMO GIORNO DELL’ANNO.

I . Che sarà di me, o mio Dio, in quest’anno, a cui per vostra misericordia do lietamente principio in questo giorno? Avrò io la sorte di aggiungerlo intero ai molti altri che già mi avete concessi, o sarà quello che chiuderà il corso della mia vita a cui terrà dietro il terribil passaggio dal tempo all’eternità? Voi solo che siete l’arbitro sovrano di tutti i tempi, sapete tutto quello che ha da avverarsi: io non so altro se non che colla mia passata condotta ho meritato d’essere le mille volte cancellato dal numero dei viventi, e sepolto nel baratro de’ reprobi: quindi non cesserò mai di lodare e di benedire la vostra misericordia, che si compiacque di sottrarmi ai rigori della vostra giustizia, e di farmi parte di quei favori che si dovrebbero solamente a chi vi serve con fedeltà. E, siccome per nostro bene avete nascosto a noi tutti il momento da voi stabilito per chiamarci al vostro giudizio, così fate che io approfitti di questa incertezza per viver sempre in conformità ai vostri santi comandamenti, e così prepararmi propizia la gran sentenza che deve fissare la mia sorte per tutta quanta l’eternità. Ma, cosa sono io, o Signore senza ì’aiuto della vostra grazia, se non un terreno arido e secco, che non produce che triboli e spine? Piovete dunque sopra di me questa misteriosa rugiada, onde, benedetto da voi, possa col successe il più felice applicarmi all’estirpamento di tutti gli abiti peccaminosi che mi dominarono fino al presente, all’acquisto di tutte quelle virtù che ho finora trascurate, alla pratica di tutte quelle opere che sono indispensabili all’assicurazione della mia eterna salvezza. La sanità del mio corpo, la prosperità de’miei interessi, la preservazione di tutti i mali che possono in qualche maniera o molestare la mia persona, o alterare la mia sorte, io le rimetto interamente nelle vostre mani, ben persuaso che Voi non mi lascerete mancare giammai quanto mi può essere vantaggioso, o terrete sempre da me lontano tutto quello che può compromettere la mia santificazione o la mia salute. – Siccome però le mie preghiere sono troppo miserabili, così, ad assicurarmi il conseguimento di tutte queste grazie, interponete Voi, o gran Vergine, la vostra potentissima mediazione; tenetemi sempre sotto il manto del vostro amorevole patrocinio: fate sempre le parti d’avvocata per me ; amatemi sempre qual vostro figlio, e non permettete giammai che un solo istante io mi raffreddi nel vostro santo servizio, giacché sarebbe questo un declinare dalla strada sicura per cui si giunge a salvamento. – Angelo mio Custode, che già da tanti anni vegliate amorosamente sopra di me, non permettete che io contristi di nuovo il vostro amantissimo cuore e il vostro purissimo sguardo coll’assecondare, come per lo passato, le mie disordinate passioni. Rispetti sempre la vostra presenza; ascolti sempre i vostri consigli; e tema sempre le vostre minacce, giacché voi non cercate altro che il vero mio bene temporale ed eterno. – Santi tutti del cielo, e specialmente Voi che vi trovaste già nel mio stato, Voi il di cui nome io porto, Voi che la Provvidenza mi ha assegnato a particolari Protettori in quest’anno, ottenetemi colla vostra intercessione che, camminando sempre fedele nella strada da voi già percorsa, tanto più acquisti di merito quanto più mi è dato di vita, e, a somiglianza delle Vergini prudenti, vivendo sempre in aspettazione dell’arrivo dello Sposo, tenga sempre ben allestita la lampada misteriosa della fede, della carità e delle buone opere, senza di cui non è possibile partecipare al convitto a cui foste già ammessi, e che sarà sempre fecondo delle più squisite delizie per tutta quanta l’eternità.

Pater, Ave, Gloria, Salve Regina, Angele Dei.

In fine Veni Creator.

AVVERTENZA,

Siccome il vivere meno conforme ai propri doveri dipende dal non avere sott’occhio i santi e gravissimi impegni contratti nel nostro Battesimo, così è pratica non mai lodata abbastanza quella di fare, se non in pubblico, come già si usa in varii luoghi, almeno in privato, la rinnovazione dei Voti Battesimali, ed è perciò che alla predetta Orazione per il primo giorno dell’anno si fa succedere immediatamente la relativa formula:

ognissanti

PER RINNOVARE LE PROMESSE DEL BATTESIMO.

Trinità santissima, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, Dio solo in tre Persone, io vi adoro insieme a tutte le creature da voi redente; vi benedico per le grandi misericordie delle quali vi è piaciuto di favorirmi in tutti i giorni della mia vita; ma sopra tutto io Vi ringrazio, o mio Dio, del benefizio sì distinto del santo Battesimo, per cui sono entrato a parte di tutti i vostri tesori di grazia, ed ho cominciato a vivere a Voi per vivere un giorno anche con Voi gloriosamente nel cielo. Veramente non posso rammentare un favore sì grande, senza piangere sull’abuso che ne ho fatto avendo tante volte violate le promessa fatte a voi e condotta una vita indegna di quel carattere augusto di vostro figlio del Quale vi siete degnato di onorarmi. Detesto, o mio Gesù, una ingratitudine sì enorme: e vorrei averVi amato e servito sì bene, come hanno fatto i più gran Santi. Rinunzio di nuovo, e rinunzio per sempre, al cospetto di tutto il cielo come ho rinunziato nel Battesimo, a satanasso ed alle sue suggestioni, al Mondo ed allo sue pompe, alla Carne e alle sue lusinghe, a me stesso e a tutte le cattive inclinazioni del mio cuore, e vi prometto di voler sempre tenere nella mia vita avvenire il Vangelo per regola e Gesù Cristo per modello. – Ma Voi, o Padre eterno, che Vi siete degnato di adottarmi in Gesù Cristo per uno de’ vostri figliuoli, e chiamarmi alla eredità vostra, risvegliate in me la grazia dell’adozione divina; e poiché non son rigenerato che per Voi e pel cielo, fate che io non viva e non travagli che per la vostra gloria e la mia salute. – Gesù, figlio unico del divin Padre, e mio amabilissimo Redentore, che unicamente per la vostra carità mi avete unito al vostro corpo mistico, qual è la vostra Chiesa, lavato col vostro sangue, e arricchito de’ vostri misteri, perfezionate in me l’opera vostra facendomi colla vostra grazia morir a tutte le disordinate passioni, e vivere soltanto della vostra nuova vita celeste, e colla pratica delle vostre sante virtù in me rappresentare l’immagine vostra, come vero cristiano.Spirito Santo, principio adorabile dell’adozione divina e della mia spirituale rigenerazione, siate ancora il principio di tutti i movimenti del mio cuore e di tutte le opere mie, perché siano degne di un figlio adottivo di Dio, di un membro vivo di Gesù Cristo. Siatemi Spirito di fortezza contro lo spirito del mondo e le lusinghe delle passioni; Spirito di penitenza per piangere le mie infedeltà alla grazia e alle obbligazioni del santo Battesimo; Spirito di consiglio, per ben dirigermi in tutte le oscurità ed in tutti i pericoli della vita; e Spirito finalmente di gemito e di preghiera per gemere in questo luogo di esilio sui tristi effetti del peccato, e aspirare di continuo alla felice libera dei figliuoli di Dio o alla patria beata del Paradiso. E Voi, o Vergine Santa, Protettori immortali, Angelo mio Custode, sotto i cui auspici sono rinato al cielo, ottenetemi tutta quella abbondanza di grazia per cui sia fedele alle mie promesse; e dietro gli esempi vostri, valendomi di un sì gran dono a gloria di Dio ed a mia santificazione, possa giungere sicuramente al cielo, ed ivi amare e lodare con Voi per sempre quella Trinità Santissima che è l’unica sorgente di ogni bene, a cui sia onore, gloria e benedizione per tutti i secoli. Così sia.

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FORMULA

PER LA RINNOVAZIONE DEI VOTI BATTESIMALI

da farsi in pubblica Chiesa.

Sacerdote. Credete voi in Dio Padre Onnipotente Creatore del Cielo e della Terra?

Popolo. Credo.

Sac. Credete voi in Gesù Cristo, suo figliuolo unico, Signor nostro, vero Dio e vero Uomo, che concepito per opera dello Spirito Santo, nato da Maria Vergine, patì e mori in croce per la salute di tutto il genere umano: poi, risorto glorioso, ascese al Cielo, ove siede alla destra di Dio Padre, intercedendo sempre per noi, e d’onde ha da venire a giudicare i vivi ed i morti?

Pop. Credo.

Sac. Credete voi nello Spirito Santo, la Santa Chiesa Cattolica, la Comunione dei Santi, la Remissione dei peccati, la Risurrezione della Carne, e la Vita eterna?

Pop. Credo.

Sac. Promettete voi, coll’aiuto che sperate da Dio, di osservare la santa sua legge, tutti i precetti della sua Chiesa, e di amare Iddio con tutto il cuore sopra ogni cosa ed il prossimo come voi stessi per amore di Dio?

Pop. Prometto.

Sac. Rinunciate voi al Mondo ed alle sue pompe, alla Carne ed alle sue lusinghe, al Demonio ed alle sue suggestioni, onde non mai contaminarvi di alcun peccato?

Pop. Rinuncio.

Sac. In nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, a cui sia gloria e benedizione per tutti i secoli.

Pop. Cosi sia

Che in questo nuovo anno il Signore faccia risplendere di nuova luce la SANTA CHIESA CATTOLICA oggi in eclisse!