Venerazione dei defunti
[Enciclopedia cattolica – vol. IV coll. 1315-1326)
III . NEL PENSIERO TEOLOGICO DELLA CHIESA CATTOLICA.
Le materne attenzioni della Chiesa nascente per il corpo dei fedeli defunti sono guidate da due articoli di fede: la risurrezione della carne (v.) e la santificazione sacramentale (v. SACRAMENTO).
1. La fede nella risurrezione, che il cristianesimo difese contro l’urto della generale incredulità (cf. Mt. 22, 23; Lc. XXII, 27; Act. 17, 32; s. Agostino: « In nulla re sic contra dicitur fidei christianae, quam in resurrectione carnis » Enarr. in Ps. 88,2: P L 37, 1134). Presso la salma dei cristiani alitò fin dall’inizio un’atmosfera di pace, di speranza, di gioia: il fedele non è morto, ma si è ritirato dalla terra d’esilio: recessit (epitafi cristiani) e ha preceduto gli altri nella patria : praecessit (epitafi cristiani); praecessit cum signo fidei (canone della Messa romana), perché è stato chiamato dal Signore: accersitione dominica ( Cipriano, De mortalitate 20 : P L 4, 596) e dagli angeli: accersitus ab Angelis (in due epitafi romani). Egli pertanto non è perduto, ma piuttosto mandato avanti quasi a preparare un posto agli altri fratelli: non amisimus sed praemisimus (Cipriano, loc. cit.), pertanto il giorno del suo obitus deve essere festeggiato come un novello dies natalis. La sua salma non è irrigidita dalla morte, ma composta nel sonno, in attesa dello squillo della risurrezione: « In christianis mors non est mors, sed dormitio et somnus » (s. Girolamo, Ep. 75 ad Theod. : P L 22, 685), onde il nome di cimitero (koimao = dormo) dato al luogo sacro, dove venivano deposte le salme. Per questa sublime concezione della morte gli antichi cristiani bandirono dai loro funerali i lamenti e i pianti: « Non ululatum, non planctus, ut inter saeculi homines fieri solet sed psalmorum linguis diversis examina concrepabant » (S. Girolamo, Epitaphium Paulae: PL 22, 878) e s. Paolino di Nola ne dà la ragione : « gaudentemque Deo fiere, nocens amor est » (Poem. 32, 44). In epitafio del sec. III è svolto questo delicato concetto: sia compresso il gemito dei cuori perché tu, innocente fanciullo, sei stato accolto dalla Madre della Chiesa (Mater Ecclesiae) mentre lieto facevi ritorno da questo mondo.
2. La santificazione sacramentale, di cui il corpo fu come il pernio « caro salutis cardo » (Tertulliano, De resurrectione carnis 8 : PL 2, 806) penetra in tutto l’essere umano, in modo che quando lo spirito ritorna a Dio, lascia impregnata di celesti fragranze la salma. Il corpo dei fedeli pertanto non è impuro, come ritenevano i giudei , non è sacro nel senso delle Dodici Tavole, ma è un resto umano consacrato dai carismi divini « caro abluitur . . . caro sigiungitur . . . caro corpore et sanguine Christi » (Tertulliano, loc. cit.) e votato alla più ambita delle sorti: la perfetta reintegrazione alla fine dei tempi. La pietà e l’umanità sorrette da questa fede moltiplicarono intorno alla salma dei fedeli le più delicate cure:
a) avvenuto il trapasso, si chiudevano gli occhi e la bocca del defunto : « Oculos illos et ora claudentes » (Eusebio, eccl., VII, 22 : PG 20, 690) e lavatolo con acqua tiepida, veniva modestamente composto sul letto « Exinde… manus componunt, oculos claudunt, caput directe statuunt, pedes reducunt, lavant » (s. Giovanni Crisostomo, Hom. in Iob. ; cf. Tertulliano, Apologeticum, 42: PL 1, 492).
b) Poi, ad imitazione del trattamento fatto al corpo del Redentore, si ungeva con preziosi aromi: « Thura plane non emimus; si Arabiae quaeruntur, sciant Sabæi pluris et carioris suas merces Christianis sepeliendis profligari quam diis fumigandis » (Tertulliano, Apologeticum, 42: PL 1,490). Al sec. IV ci si accontentava di un’aspersione di balsamo e di mirra: « Aspersaque mirra, sabæo corpus medicamine serva» ( Prudenzio, Chathemerinon, hymn., 10,51: P L 59,880). Talora s’introduceva il profumo attraverso piccoli fori praticati sulla pietra del sepolcro e molte volte si collocava presso il cadavere una fiala di essenze odorose, perché diffondesse il suo odore anche dopo la sepoltura.
c) La salma veniva poi avvolta in uno o due lenzuoli, generalmente bianchi: « Candore nitentia claro, prætendere lintea mos est » (Prudenzio, Cathemerinon , 10: PL 59, 870) e ricoperta di uno strato di calce. Se si trattava di membri del clero, si rivestivano degli abiti del loro grado; i martiri erano ravvolti in ricchi paludamenti. Le persone altolocate facevano un eccessivo sfoggio di abiti per i loro d., per cui furono talvolta ripresi: « Cur et mortuos vestros auratis abvolvitis vestibus? Cur ambitio inter luctus lacrymasque non cessat? An cadavera divitum nisi in serico putrescere nesciunt? (S. Girolamo, Vita s. Pauli Eremitae: PL 23, 28).
d) La salma cosi composta, si esponeva nella casa o nella Chiesa; si vegliava intorno ad essa con la recita di preghiere, specialmente dei salmi, che, quando era possibile, si cantavano (cf. s. Gregorio Nisseno, Vita Macrinæ, 41: PG 46, 992-93; s. Agostino, Confessiones, 9, 12: PL 32, 776). La salmodia era intercalata dal canto gioioso dell’Alleluia, come si usa ancora nella Chiesa orientale.
e) Il trasporto assumeva più o meno grande solennità, secondo le circostanze. In tempo di pace la salma portata sulle spalle o in appositi carretti (carrucæ), era accompagnata dal clero (cf. epitaffio di Pascasio, a Viviers) e dai fedeli recanti torce: « atque cereis calicibus funus duxerunt » (iscrizione di Chiusi). Talora assumeva l’aspetto di un triumphus, soprattutto quando si trasportavano i corpi dei martiri e dei confessori (cf. Vittore di Vita, Historia persecutionis vandalicæ, 1, 14: PL 58, 198). f) Nel luogo della depositio, che era il cimitero (catacombe) o la basilica annessa, si facevano le esequie: salmodia, preghiere, Messa: « Item antitypon regalis corporis Christi et acceptam seu gratam Eucharistiam offerte in ecclesiis vestris et in coemeteriis atque in funeribus mortuorum» (Costituzioni apostoliche, VI, 30). Agostino così descrive le esequie di s. Monica: « cum offerretur prò ea sacrificium pretii nostri, iam iuxta sepulcrum posito cadavere, antequam deponeretur, sicut fieri solet » (Confessiones, 9, 12: PL 32, 776).
3. S. Paolino di Nola chiese a s. Agostino se le cure dedicate alla salma dei morti giovino alla loro anima e il s. Dottore rispose magistralmente nel celebre trattato De cura gerenda prò mortuis (PL 40, 591-610). Direttamente « curatio funeris, conditio sepulturæ, pompa esequiarum, magis sunt solatia vivorum quam subsidia mortuorum», tuttavia queste delicate attenzioni « humanitatis officia » sono da approvare, perché indicano il rispetto per quei corpi, che santificati dai Sacramenti divennero strumenti dello Spirito Santo « ad omnia bona opera » (De civitate Dei, I. 1, cap. 13). Indirettamente queste premure giovano alle anime dei trapassati, in quanto ravvivano il ricordo e la preghiera « recordantis et precantis affectus », il quale « cum defunctis a fidelibus carissimis exhibetur, eum prodesse non dubium est iis, qui cum in corpore viverent, talia sibi post hanc vitam prodesse meruerunt ». S. Tommaso [Sum. Theol., suppl. q. 71, a. 11) riecheggia il pensiero di S. Agostino, che è divenuto dottrina comune della Chiesa (cf. cann. 1203-42; Pio X II, encicl. Mediator Dei, 30 nov. 1947, in AAS, 39 [1947], p. 530).
IV. NELLA LITURGIA DELLA CHIESA.
La preghiera per i d. è testificata da tutta l’antichità cristiana e più nel sec. II essa assume anche aspetto pubblico od ufficiale; perché dei d. si incominciava a fare memoria nel canone della Messa e le Costituzioni apostoliche del sec. IV ci parlano come di uso largamente diffuso delle riunioni presso le tombe dei d. al canto dei salmi con la lettura di passi della Scrittura nel giorno 3°, 9°, 30° e nell’anniversario della morte. Di pari passo con questo uso correva poi quello di raccomandarsi all’intercessione dei d., che si confidava avessero raggiunto la pace eterna.
I. ONORI ALLA SALMA NEL RITO OCCIDENTALE.
I primi cristiani continuarono (Act. VIII, 2) l’uso di lavare la salma affidandola in alcune Chiese a chierici o addetti, di ungerla e comporla secondo la costumanza locale, avvolgendola in bende, lenzuola di lino di seta, o, a segno di penitenza, nel cilicio. Alcune volte tali bende erano raccolte intorno alla testa e fermate con un sigillo di cera, asperso d’acqua benedetta; ai sacerdoti, talvolta, si poneva in mano un calice di stagno. Le persone che avevano ricoperto dignità ecclesiastiche o civili venivano rivestite degli abiti e delle insegne del loro proprio ufficio. Oggi è d’uso comune porre fra le mani del d. il Crocifisso od il Rosario. – L’uso della cassa si generalizzò alla fine del medioevo. Il cadavere veniva coperto, fuorché sul volto, da un drappo che scendeva sui fianchi, talvolta prezioso; oggi la coltre è nera con una croce nel mezzo e ricopre tutto il feretro; per le giovani nubili è ammesso possa essere di colore bianco. Per i bambini, come segno di purezza, tutto il rito si compie con il colore bianco e con un formulario proprio, informato al concetto che essi non hanno bisogno di suffragi. La consuetudine ammette pure che sul feretro o accanto o intorno ad esso si pongano o si portino i contrassegni del ceto sociale, degli uffici e dignità sostenuti dal d.; è permessa pure la presenza di vessilli di associazioni che non abbiano carattere di partito e di tendenze riconosciute avverse alla Chiesa. Questa dovette più volte per il passato intervenire per limitare lo sfarzo eccessivo nei funerali, specialmente di ecclesiastici; nel sec. XVII essa riteneva ancora come segno di vanità e di lusso il carro funebre. Ai fossori, che da principio erano incaricati di portare i cadaveri, si sostituivano talvolta in segno di onore chierici e persino vescovi; nel medioevo assolsero questa funzione i compagni d’arte o di mestiere, i colleghi di pari grado nel caso di ecclesiastici, escluse sempre le donne, essendo il funerale servizio liturgico. Oggi i vescovi devono essere portati da sacerdoti in cotta; gli ecclesiastici da altri ecclesiastici di grado inferiore, i laici da laici. – L’uso dei ceri nell’accompagnamento è antichissimo, ed ebbe la sua ragione dal fatto che i funerali si facevano di notte; poi rimase come un segno di onore. Con il cristianesimo ebbe il significato di luce e di vita eterna, e non mancò mai nella liturgia funebre, a cominciare dai ceri che si accendevano accanto al letto, poi accompagnavano il d. alla chiesa e rimanevano accesi intorno al cadavere durante l’ufficiatura. Se ne fa parola già nel funerale di s. Cipriano (m. nel 258) e s. Girolamo ne commentava l’uso « ad significandum lumine fidei illustratos sanctos decessisse et modo in superna patria lumine gloriæ splendescere » (Adv. Vigil., 13). – L’uso dei fiori nei funerali è per natura sua indifferente; riceve speciale significato dall’animo che lo accompagna. Il Rituale romano (tit. V , cap. 7, 1) dice a proposito dei bambini: « si impone sulla testa una corona di fiori o di erbe aromatiche ed odorifere in segno della integrità della carne e della verginità ». Per l’uso che dei fiori facevano i gentili nelle feste e nei conviti, cosicché essi apparivano segno di vanità, alcuni scrittori ecclesiastici come Tertulliano, Minucio Felice, Clemente Alessandrino, vi si dimostrarono contrari. I padri del sec. IV sembrano meno severi; s. Ambrogio e s. Girolamo avvertivano che vi si dovessero preferire preghiere ed elemosine. Prudenzio canta del sepolcro del cristiano: « Nos tecta fovebimus ossa – violis et fronde frequenti» (Cathemer.,X). Nessuna speciale prescrizione regola oggi le costumanze in proposito, qualora non si verifichino abusi locali; ma è consono allo spirito della Chiesa che i d. siano accompagnati al sepolcro con la preghiera e con opere benefiche più che con sfarzo di luminarie, di apparati, di fiori. I sacerdoti si recano processionalmente alla casa del d. per levarne il cadavere e lo accompagnano poi alla chiesa, di regola per la via più breve al canto dei salmi. Nella chiesa il feretro è posto in mezzo in modo che i piedi siano rivolti all’altare come faceva da vivo guardando l’altare stesso; se il d. è sacerdote ha il capo rivolto verso l’altare, perché in tale posizione egli era rispetto ai fedeli. – S. Agostino, nelle Confessioni (IX, 12), descrivendo il funerale della madre, fa comprendere come la parte principale consistesse nella Messa celebrata presso il sepolcro prima che vi venisse deposto il cadavere. Paolino scrive che, morto s. Ambrogio, fu portato nella chiesa e dopo la Messa fu sepolto. – Ed ancora oggi la parte sostanziale della liturgia funebre è la Messa. Il poco che precede e segue è composizione del tardo medioevo ( il Libera me Domine è del sec. IX); è detto «assoluzione funebre » il rito che nulla ha a che fare con l’assoluzione sacramentale, sebbene le preghiere si ispirino al medesimo concetto della potestà di sciogliere e legare conferita alla Chiesa. Se ne ha una prova nella classica formola « Absolve quaesumus, Domine, animam famuli tui », ancora oggi usata; l’aspetto di un giudizio appariva chiaro nel Pontificale romano della Curia (sec. XIII), dove il celebrante prima di procedere all’assoluzione di un chierico, ne chiedeva licenza al clero che gli stava attorno. Comunque gli antichi vedevano nel rito la remissione al d. della pena dovuta alle sue colpe e l’assoluzione dalle censure ecclesiastiche. Unica era un tempo la formola d’assoluzione, quale ancora appare nel Rituale romano. Ma il Pontificale ne assegna una più solenne per il Papa, i cardinali, i vescovi e gli insigni personaggi dello Stato, introdotta a Roma verso il sec. XIII. – In tale occasione l’assoluzione è data dal celebrante e da quattro vescovi, i quali, posti a quattro angoli del feretro, ripetono ogni volta l’incensazione, mentre la schola canta un responsorio con versetti e recita un’orazione. Il rito è chiuso con la quinta assoluzione del celebrante, preceduta da un sermone sulla vita del d. In assenza di vescovi può essere compiuta dai dignitari della cattedrale. Il sermone può essere anche tenuto da un semplice sacerdote. – Anche se Tertulliano e s. Cipriano già parlano di una Messa per i d., il suo tipo non doveva essere dissimile dal consueto, ma forse nel sec. IV ebbero inizio i formolari propri. L’introito Requiem æternam è preso dal IV Esd., che potè essere tenuto fra i libri canonici sino verso la fine del sec. V; esso si trova anche negli epitaffi di Ain Zara (Tripoli) nel VI sec. e venne sempre cantato con il Ps. 64, Te decet hymnus. Il Requiem al Graduale deve essere coevo all’Introito ed ha il versetto derivato dal Ps. III. Dal sec. II è escluso dalla liturgia dei d. l’Alleluia; tuttavia s. Girolamo lo ricorda nei funerali di Fabiola (PL 22, 697).
Il Dies irae (v.) è una sequenza medievale ricca di contenuto dottrinale, sentimento religioso e slancio lirico – drammatico; per questo fu accolta nella liturgia. L’offertorio Domine Iesu Christe si presta a discussioni per alcune frasi di sapore ritenuto persino pagano, ma che di fatto corrispondono ad espressioni bibliche; per l’accenno al signifer sanctus Michael, di schietto sapore orientale, forse copto; per l’emistichio Quam olim, ripetuto seconda l’uso antico e qui conservato perché più a lungo fu conservata nella Messa per i d. l’offerta da parte dei fedeli. Si ritiene sia stato composto a Roma nel sec. VIII i e modificato in Gallia nel sec. ix, probabilmente da un irlandese. Il testo aveva un tempo non uno, ma tre versetti. Al communio, il Lux aeterna sta già nei manoscritti del sec. X. Nella Messa dei d. si tralasciano alcune parti e cerimonie (Ps. 41 all’inizio, benedizione dell’acqua all’Offertorio, bacio di pace, Ite missa est, benedizione) perché non consone all’austerità particolare di tale Messa, o perché si è inteso far convergere tutto il rito al suffragio per i d. – L’accompagnamento alla sepoltura « non deve essere fatto da gemiti, pianti, come suole avvenire presso gli uomini del mondo (accenno alle praeficae, donne prezzolate per piangere nei funerali), ma dal canto dei salmi » (s. Girolamo: P L 22, 898). E tale infatti fu il proposito costante ed universale per cui stupende antifone, responsori e salmi accompagnano i d. per mano degli angeli, alla pace eterna, non alla sepoltura, ma al paradiso. La legge romana proibiva di seppellire entro le mura, ma poi tale precetto per ragioni diverse cadde in disuso e si seppellì in cimiteri intorno alla chiesa stessa; e la brevità del tragitto spiega bene il complesso delle formole ancora in uso. -Va notato l’uso, attestato già da s. Ambrogio di baciare prima della sepoltura il d., dicendogli tre volte addio secondo un costume orientale; più tardo è l’uso di spargere sul sepolcro un po’ di terra dicendo: “Sume terra quod tuum est, terra es et in terram ibis”, rimasto come uso popolare in più luoghi. Diffusa, sebbene disapprovata, fu anche la consuetudine di porre in bocca al morto l’Eucaristia; consuetudine corretta in molti luoghi con il porvela pochi istanti prima della morte, ovvero nel sepolcro, a tutela della salma contro influenze diaboliche o sacrileghe. Così pure fu praticato in alcuni luoghi, sin oltre il sec. VI, il rito del refrigerio, comunissimo già presso i pagani, che consisteva in una libazione di vino o in un banchetto celebrato dai parenti sulla tomba del d. Fu proibito per gli abusi che ne nascevano, come ne rende testimonianza il noto episodio di S. Monica (s. Agostino, Confess., V I , 2). – Si fa ricordo dei morti in ogni Messa, ma si ebbe sempre cura di pregare per essi particolarmente nei giorni esequiali: in Oriente e nei paesi gallicani d’occidente il 3°, 9°, 40° della morte; a Roma, in Africa, in Palestina il 3°, il 7°, 30°. Quest’uso si ispira ai fatti biblici: nel 3° giorno Gesù uscì dal sepolcro; Giuseppe ebreo indisse un lutto di 7 giorni per il padre (Gen. 50, 10); il popolo ebraico pianse per 30 giorni Mosè (Deut. XXXIV, 8) ed Aronne (Num. XX, 30). – In tali giorni e nell’anniversario si celebrano le esequie con riti che ricordano per testi e cerimonie quelli del funerale, evidentemente ridotti. – La liturgia ambrosiana ha un ordo per il funerale con schema uguale al romano, ma più ricco di elementi e con sapore di grande antichità; ha conservato il canto della Passio di Nostro Signore, già in uso a Roma, completa con altre aggiunte di antifone e responsori il funerale dei vescovi, sacerdoti e diaconi. Molto significativo pure il canto delle litanie dei santi. Nella riforma operata da s. Carlo si ebbero vari influssi romani: fino a s. Carlo la commemorazione di tutti i d., introdottasi a Milano tra il 1120 ed il 1125 ad opera di Olrico, era celebrata il lunedì seguente alla dedicazione della Chiesa Maggiore (3a domenica di ott.). Tale uso in determinata misura si è conservato nelle parrocchie della diocesi per il giorno successivo a quello della dedicazione della propria chiesa, o, non conoscendone la data, a quello dell’Ufficio per la dedicazione della chiesa minore.
II ONORI ALLA SALMA NEI RITI ORIENTALI
Nel rito bizantino i funerali comportano tre tappe: nella casa del d., in chiesa, al cimitero. Nella casa del d. il sacerdote celebra un breve ufficio accompagnato da una incensazione, e chiamato, quando si fa separatamente, “Αϗολουθια του νεκρωσιμου τρισαγίου” , o più spesso «piccola pannichida ». Comprende il canto di tre tropari, di una breve litania, di una orazione e dell’apolisi: tutto applicato al d.. Durante il trasporto si canta il Trisagio. In chiesa ha luogo l’ufficio, composto da testi diversi secondo la categoria alla quale appartiene il d.: uomo, donna, monaco, sacerdote. L’ultimo degli inni è sempre un commovente addio che accompagna il bacio della mano del d. Ripetuta la « piccola pannichida » risuona tre volte l’esclamazione: «Memoria eterna.» – Intanto, un sacerdote si avvicina alla bara e recita una preghiera di assoluzione. Poi, se il d. è un sacerdote, la bara è portata tre volte intorno alla chiesa prima di recarla al luogo della sepoltura. Là il celebrante getta un po’ di terra sulla bara, vi versa olio benedetto e la cosparge di cenere presa dall’incensiere. Mentre si chiude la bara e la tomba si recita una ultima volta la « piccola pannichida ». – Anche negli altri riti orientali l’ufficio funebre comprende un gran numero di canti, inni, composizioni ritmiche di diverso genere, di cui è ricca la liturgia orientale e che si applicano ad una grande varietà di categorie di persone. Ai sacerdoti sono riservati riti particolari (unzione con il s. crisma nel rito armeno, processione nel santuario o urto della bara contro le porte e le pareti della chiesa nei riti siri), che mettono in rilievo gli stretti vincoli che lo univano all’altare. L’addio è sempre commovente e spesso si esprime in dialoghi pieni di tenerezza fra il morto e quelli che rimangono. I Siri hanno un ufficio di consolazione per il secondo e terzo giorno dopo la sepoltura; presso i Copti le preghiere si protraggono durante sette giorni consecutivi. La commemorazione del d. ha luogo, nel rito armeno, il 2°, 7°, 15° e nell’anniversario; nel rito siro il 3°, 9°, 30° e nell’anniversario; nel rito copto i l 3°, 7°, 14° (o 15°), 40°, dopo un mese, sei mesi, un anno; nel rito etiopico il 7°, 12°, 30° , 40° , 60°, 80°, dopo sei mesi, un anno. . La commemorazione di tutti i d. si fa, nel rito bizantino, due volte l’anno, al sabato cosiddetto di carnevale e al sabato che precede la Pentecoste; nel rito armeno, cinque volte, nel giorno seguente le grandi feste : Epifania, Pasqua, Trasfigurazione, Assunzione, Esaltazione della Croce con la recita di un ufficio speciale nell’ora notturna; nel rito siro tre volte, e cioè i tre ultimi venerdì prima della Quaresima (il primo per i sacerdoti, il secondo per i fedeli e il terzo per gli stranieri); nel rito caldeo ogni anno, l’ultimo venerdì prima della Quaresima. – Ricordi speciali dei d. si fanno più volte durante la Messa, in particolare nella preparazione e offerta del Pane eucaristico, più lungamente nei dittici e nella preghiera di intercessione (prima o dopo la Consacrazione), in molte altre preghiere e litanie, o in certe ore dell’Ufficio divino. – È da notare che il colore nero per la liturgia dei d. non è conosciuto dagli Orientali, se non da alcuni cattolici i quali hanno subito, in tempi recenti, l’influsso latino; come anche i funerali non comportano per sé la celebrazione del Sacrificio eucaristico. Parecchi usi (ad es., olivi o pane benedetto presso i Bizantini, conviti funerari, bacio di addio) sono antichi e hanno precedenti negli usi pagani, santificati dal cristianesimo.
III. UFFICIATURA DELLA CHIESA LATINA DEI D. –
I testi più antichi dell’Ufficio dei d. datano dai secc. XI-XII, e sono stati pubblicati dal Tommasi (Op. min., ed. Vezzosi, IV, Roma 1747-54, PP- t63– 6 s ), da A. Mocquereau (Paléogr. musicale, IX, pp. 535-60); da M . Magistretti (Manuale Ambros., II, Milano 1905, pp. 487-91). La forma del testo corrisponde a quella che indicano già gli autori anteriori, p. es., Amalario e s. Angilberto nel suo Ordo, composto nell’800 pel nuovo nonastero di St – Riquier. Ma i Vespri e i Notturni non sono conformi al Breviario benedettino o al modo gallicano o ambrosiano, bensì a quello romano, cioè con 5 salmi nei Vespri, tre salmi e tre lezioni a ciascun notturno. Mancano gli elementi aggiunti all’Ufficio canonico posteriormente a s. Gregorio Magno: le preci introduttorie, l’invitatorio, gli inni, il Capitolo, la dossologia finale (né Gloria né Requiem dei Salmi). – Come l’Ufficio del Triduo sacro, così quello dei d. ha conservato il carattere arcaico. Già Amalario nota questa somiglianza, che spiega dall’indole di tristezza o di lutto che avrebbero ispirato la composizione di quest’Ufficio al modo di quello del Triduo sacro. In realtà, questa somiglianza indica la sua antichità. L’Ufficio dei d. sembra infatti rimontare al tempo prima di Gregorio Magno. Quindi la sua origine romana. Dai testi, quali l’Ordo di s. Angilberto, le prescrizioni del Concilio di Aquisgrana (817; cann. 12,50,66,73) e Amalario De eccl. Off., 1. IV, cap. 42; De ord. Antiphon., cap. 65), appare che l’Ufficio dei d. era già in uso nella Gallia prima della riforma di s. Benedetto di Aniane, tanto che Amalario non nota differenze fra i libri gallicani e quelli recentemente venuti da Roma. Dall’Orbo Romanus di Giovanni arcicantore (ed. Silva-Tarouca, Meni, della Pont. Acc. Di Rom. di Archeologia, I , Roma 1923, p. 211 sgg.) si conclude che già prima del 680 quest’Ufficio era in uso a Roma. – L’Ufficio dei d. constava prima soltanto del Vespro, con i 3 Notturni e le lodi. In seguito furono introdotte aggiunte e varianti : p. es., fin dal sec. IX a S. Gallo l’invitatorio col salmo 94, che venne in uso generale al sec. XIII (presente cadavere); s. Pio V lo rese obbligatorio, Fin dal sec. x si distingue un Ufficio funebre maggiore con 3 Notturni e 9 lezioni, ed uno minore di un solo Notturno, scelto fra i tre precedenti secondo il giorno. Ed anche le lezioni si mutavano: invece che da Giobbe, prendevano quelle tratte da Eccle. 7 « Melius est ire » o dal libro di s. Agostino De cura gerenda prò mortuis (come oggi al 2 nov.). Il testo di Notker (m. 1912 « Media in vita » si cantava spesso al « Benedictus » invece dell’antifona originale « Ego sum ». – L’Ufficio dei d. si recitava nei giorni 3°, 7°, 30°, nell’anniversario di un d. (per l’Ufficio presente cadavere, gli antichi ordini prescrivono la recita dei salmi secondo l’ordine del salterio). Poco a poco quest’Ufficio restò la sola preghiera ufficiale della Chiesa a suffragio dei d. Si recitava inoltre nelle esequie (indipendente dall’ Ufficio canonico del giorno) nel primo giorno libero del mese, in ogni lunedì della settimana o anche tutti i giorni, tranne il tempo pasquale e natalizio, per tutti i d.. – Nella riforma del Breviario sotto Pio X furono aggiunte la Compieta e le ore minori pel giorno della commemorazione
dei fedeli defunti (2 nov.), e furono cambiate le lezioni, mentre nell’uso comune l’Ufficio resta inalterato.
IV. COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI.
Di una commemorazione collettiva dei fedeli defunti si ha testimonianza in s. Agostino, il quale, nel De cura gerenda prò mortuis, c. IV, parla di preghiere che la Chiesa fa, in una commemorazione generale di tutti i fedeli defunti: « supplicationes pro spiritibus mortuorum, quas faciandas prò omnibus in Christiana et catholica societate defunti etiam tacitis nominibus sub generali commemorazione suscepit ecclesia ». Si trovano preghiere per i morti in genere già in un frammento di anafora antichissima della liturgia di Marco del tempo di s. Atanasio (295-375): « His qui obdormierunt, requiem animarum præsta» (Rev. des scienc. relig., 8 [1928″. Pag. 489-515), e nell’eucologio di Serapione di Thumuis (dopo 359), orat. IV: « Sanctifica omnes in Domino defunta ». La Chiesa romana aveva nell’orazione dei fedeli (Oratio fidelium), prima dell’Ore, una supplica speciale per tutti i fedeli d. Sparita l’orazione dei fedeli dal rito romano al tempo di Gelasio I (è rimasta nel rito ambrosiano), 1° preghiera per i morti fu sostituita con il Memento dopo la Consacrazione, ove si prega prima per i d. in modo speciale commemorati, poi per tutti; però fino al sec. XII-XIII soltanto nelle Messe dei morti e nelle Messe feriali, non in quelle della Domenica. Di questo Memento il cosiddetto Messale di Bobbio (PL72, 434) nella sua Missa Romensis cotti diana (sec. VIII) è il primo teste. Ma forse il Memento rimonta già al tempo di Gelasio (492-96), che col Memento ha sostituito la commemorazione dei d. nell’orazione dei fedeli. – Un giorno speciale per la commemorazione dei d. appare per la prima volta nella « Regula monachorum » attribuita a s. Isidoro di Siviglia (m. nel 636) fissato al lunedì dopo Pentecoste (PL 83, 894), cap. 24 n. 2 : « Pro spiritibus defunctorum altera die post Pentecosten sacrificaium Domino offeratur ». Questi usanza di un giorno speciale commemorativo si trova di regola nella fraternità di preghiere fra conventi; p. es., fra i conventi di Reichenau e di S. Gallo nell’800 (Monumenta Germ. Libri confraternitatum, ed. P. Pieper, Berlino, 1884). Era stabilito il giorno 14 nov. « commemoratio omnium fiat defunctorum memoria. Ipsoque die presbyteri ternas Missae et ceteri fratres psalterium decantent ». In seguito altri conventi si uniscono in questa fraternità la quale così si estese in Svizzera, Italia, Francia, Germania, Austria. Un altro centro è Fulda, dove è fissato come giorno di preghiere il 17 dic., nel quale si celebrava l’anniversario del primo abate fondatore Sturmio ed insieme la memoria di tutti i fratelli defunti (PL 400, n. 25). In altri luoghi erano fissati giorni differenti come notano per il 26 genn. Mabillon (Acta SS. Ord. S. Bened., VIII, p. 584, n. 111) e per il primo giorno dopo l’ottava dell’Epifania, 14 genn., Martene (De antiquis ecclesiae ritibus, Anversa 1738, 1. IV, c. 15 n. 16). – Nello stesso tempo si moltiplicano nei documenti i legati pii con l’obbligo di preghiere per tutti i fedeli. Da questa usanza delle Messe o preghiere fondate, deriva a Cluny la « fidelis inventio » di scegliere i l 2 novembre, giorno dopo la festa di Tutti i Santi, per la commemorazione speciale di tutti i fedeli defunti. Già Amalario nel De ordine Antiphonarii aveva avvicinato i due uffici, dei Santi e dei morti, ma senza stabilire un giorno speciale della commemorazione di tutti i d.. A s. Odilone, il grande abate di Cluny (994-1048), si deve la scelta nel calendario benedettino cluniacense del 2 nov. Come giorno di speciali preghiere per i d. di tutto il mondo e di tutti i tempi: «festivo more commemoratio omnium fidelium defunctorum, qui ab initio mundi fuerunt usque in finem » (PL 142, 1037, 38). In forza dello statuto di s. Odilone si facevano larghe elemosine di pane e di vino come nel giorno della Cena del Signore, a 13 poveri ed agli altri, e si cantavano i Vespri dei d. la sera antecedente, dopo i Vespri dei Santi. Nel giorno stesso si suonavano tutte le campane, come nelle feste, si recitava l’Ufficio dei d. e la Messa si celebrava con grande solennità. Tutti i sacerdoti dicevano le Messe per i d.. Oltre questa usanza del 2 nov. per tutti i d. del mondo, s. Odilone stabilì per un anniversario dei fratelli defunti alcune preghiere. Tra questi confratelli è nominato anche l’imperatore Enrico (m. nel 1024). La data dello statuto di s. Odilone è incerta, ma nella sua cronaca Sigeberto di Gembloux (m. nel 1112) l’ha fissata al 998, narrando sotto questa data gli avvenimenti leggendari che gli avrebbero dato origine (PL 160, 197-98). Tuttavia per determinarne i l tempo, è meglio attenersi alla « consuetudines Farfenses », scritte da Guidone di Farfa (cod. Vat. 6808), le quali notano questa innovazione per ben due volte: la prima recensione più breve senza il nome di Odilone e senza lo statuto di fraternità (con il nome dell’imperatore Enrico); la seconda più lunga attribuisce lo statuto a s. Odilone e contiene anche le prescrizioni per la fraternità stessa. Mortet e Wilmart darano le « Consuetudines Farfenses » agli anni 1039-1043; Hourlier al 1024-33, dal fatto che le insegne imperiali regalate da Enrico a s. Odilone dopo la sua incoronazione vennero portate nelle processioni. Nel 1033 esse furono quasi tutte vendute per l’aiuto ai bisognosi in una grande carestia. Un solo manoscritto della Biblioteca di Parigi (lat. 17716), un po’ tardo, fissa il decreto di s. Odilone al 1030-31, data che corrisponde a quella indicata dalle « Consuetudines Farfenses ». – Con il nome e con la autorità di s. Odilone, questa « fidelis inventio » del 2 nov. fu definitivamente introdotta nel calendario cluniacense e si propagò a tutte le dipendenze di Cluny e, ancora i n vita s. Odilone, fino a Farfa. Da Giovanni d’Avranches (m. nel 1079) si sa che fu accettata nella Normandia. Lanfranco, arcivescovo di Canterbury (1070-89), prescrisse nei suoi decreti che i monaci la dovessero osservare tanto nei monasteri che nelle cattedrali : « ipsa die sacerdotes omnes celebrent missæ prò omnibus fidelibus defunctis » (PL 150, 477). – Oltre i Benedettini accettarono la nuova usanza anche i Certosini (Consuetudines Guigonis, c. X I: PL 153, 655). Il clero secolare seguì poco a poco l’esempio dei monaci sia per propria iniziativa che per imposizione dei vescovi. A Milano fu introdotta nel 1120 dall’arcivescovo Udalrico, per il 16 ott., giorno dopo l’anniversario della dedicazione della Cattedrale; s. Carlo Borromeo la mise il 2 nov. – Sicardo, vescovo di Cremona (m. nel 1215) nel Mitrale 1. I X, cap. 50 (PL 213, 426), parla di essa come già in uso nel territorio di Cremona. A Roma era certamente nota ed in uso almeno al tempo dell’Ordo Romanus, XIV (1311), ove ai nn. 98 e 101 è indicata come « amniversarium omnium animarum »; non si predica e non si fa concistoro. Nell’Ordo Romanus XV tuttavia, secondo il card. Schuster (Liber Sacramentorum, IV, Torino 1932, p. 85), si trovano le tracce di una consuetudine liturgica assai più antica, giacché nell’8 luglio è indicato un « Officium defunctorum prò fratribus ( i cardinali) et Romanis Pontificibus » (PL 78, 1343), precisamente come nell’Ordo di Farfa del sec. X. – Una nuova fase della commemorazione dei fedeli defunti si inizia verso la fine del pontificato d i Pio X. Con decreto del 25 giugno 1914 (AAS, 6 [1914], p.378) fu concessa l’indulgenza plenaria « Toties quoties per il 2 nov., concessa già prima alla Chiesa dei Benedettini. Con la bolla Incruentum del 10 ag. 1915, Benedetto XV concesse ad ogni sacerdote il privilegio di dire tre Messe il 2 nov.: la prima secondo l’intenzione particolare del celebrante, la seconda per tutti i fedeli defunti, la terza secondo l’intenzione del Papa, cioè per soddisfare ai pii legati di Messe che nel corso dei secoli son divenuti insolubili, andati perduti o rimasti insoddisfatti. Tutti gli altari sono privilegiati. – Questo privilegio era già in uso nella Spagna, da prima del 1500. Nel 1540 Paolo III concesse alle chiese e cappelle della diocesi Orihuela di Spagna il privilegio di dire due Messe tanto nella festa di tutti i Santi quanto nel giorno dopo, cioè 2 nov., per soddisfare al gran numero di Messe richieste dal popolo a suffragi dei d.. Parimenti Giulio III confermò « vivae vocis oraculo » nel 1553 l’antico privilegio vigente nella provincia di Aragona (comprese Catalogna, Valencia, Navarra e le isole Baleari, Sardegna ed Ibiza, e nell’ordine domenicano di celebrare tre Messe al 2 nov. allo stesso fine. Ed il 25 giugno 1571 Pio V confermò lo stesso privilegio per la provincia dominicana di Spagna (con la Navarra distaccata dalla provincia di Aragona) Frattanto Ladislao IV, re di Polonia (1632-48), ottenne nel giorno della sua incoronazione per il suo regno lo stesso privilegio, ma in seguito rimadse dimenticato. – Alla richiesta dei re di Spagna e Portogallo, Benedetto XIV estese il privilegio di tre Messe al clero regolare e secolare dei loro regni e colonie (Benedicti XIV Bullarium, II , Venezia 1748, n. 225). Leone XIII nel 1897 lo concesse a tutta l’America latina. – In conseguenza del privilegio delle tre Messe Benedetto XV ha elevato (28 feb. 1917) il giorno 2 nov. a festa di rito doppio per la Chiesa universale.
Pietro Siffrin.
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Questo è quanto vige nella Chiesa Cattolica. Attualmente il Cattolico dei paesi apostati modernisti, non ha più la possibilità di utilizzare per sé ed i propri cari i riti prescritti, essendo il funerale incentrato sulla falsa messa del baphomet di Bugnini-Montini, per cui si commetterebbe un ennesimo ed estremo grave sacrilegio in disprezzo delle leggi della Chiesa Cattolica e del Sacrificio di Cristo offerto al “signore dell’universo”, cioè al lucifero massonico, per cui l’anima del presunto non-suffragato sarebbe definitivamente condannata ad essere fuori dalla Chiesa Cattolica con tutte le conseguenze per la vita eterna. In effetti noi ci troviamo come in un paese pagano, islamico, ateo, per cui, onde conservare la propria fede cattolica fino in fondo, è bene, in assenza di un vero prete Cattolico con Missione e Giurisdizione pontificia di S.S. Gregorio XVIII, predisporre direttamente la sepoltura cimiteriale, contattando quanto prima un sacerdote Cattolico anche a distanza, per officiare la vera Messa cattolica di sempre in suffragio dell’anima del defunto, come pure per le altre successive Messe.