LETTERA VIII.
2 maggio,
LA PROFANAZIONE DELLA DOMENICA
ROVINA DEL BENESSERE.
(Seguito)
Signore e caro amico,
I.
« I provvedimenti presi per la difesa di Parigi nulla lasciano a desiderare; la confidenza rinasce; i fondi sono saliti di sessanta centesimi; la legge elettorale è in via di purificare il suffragio universale, e dar la vittoria al partito dell’ordine: né la sollevazione osa si prestamente agitarsi per le vie. » Ecco quello, che voi mi scrivete nell’ultima vostra lettera, aggiungendomi tale esser l’opinione delle persone oneste. Ne domando io perdono alle vostre persone oneste, e queste, come spero, mi scuseranno, se non posso avere tutta la fiducia loro. Il male trovasi nelle anime, ed insino a tanto che non vi vedrò apportare il rimedio là dove sta il male, io sarò pochissimo rassicurato. Ora, infino al presente io non vedo, che se ne occupino ben seriamente. Quando una società è minata come la nostra, non si salva questa né a colpi di legge, né a colpi di cannone, né a colpi di bollettini. Lo compiango sinceramente il popolo che non conosceva altri ripieghi di quelli in fuori, e che misura la sua sicurezza in sull’aumento, o discredito del suo traffico. Egli è vero, l’ammutinata plebaglia non discende nelle contrade col moschetto ad armacollo, e coi ciottoli del selciato nella mano; ma costei vi discende ogni giorno sotto la maschera del borghese volteriano, sotto la maschera dell’empio giornale, sotto la maschera del libro osceno, sotto la maschera del profanatore della domenica; ed incessantemente essa corrode, scuote, e va minando ciò che solo sostiene i regni e le repubbliche: i principj del Cristianesimo. Se per arrestarla in un’opera di distruzione ci atteniamo ai mezzi della legislazione e dello spaventamento, non dubitale, che dessa non s’impedirà di pervenire al suo scopo, tardi o tosto. – Non voglio io già insinuare, che non si debba armare il potere; ben lungi da ciò. Io penso come voi, che il solo modo umano che ci resta è di stendere in sulla Francia un braccio possente, capace d’incatenare le fazioni anarchiche; ed all’ombra di somigliante protezione tutelare, di supplicare la Chiesa Cattolica d’affaticarsi attivamente intorno alla guarigione delle anime. Affinché la sua impresa si renda possibile, è di mestieri non solamente d’accordarle piena libertà; ma di più, che ciascuno inetta la mano all’opera per suo proprio conto, e cominci per dare l’esempio di quella riforma ch’egli desidera avvenire negli altri. In una parola, non è la riforma elettorale che salverà la Francia, sebbene la riforma morale. Questa è la meta, a cui tende la mia epistola d’oggi, come le precedenti: riprendo il seguito del nostro studio.
II.
Se dalle nazioni noi passiamo ai particolari, noi osserveremo pur anche che la profanazione della domenica, ben lungi d’esser una fonte di prosperità, codesta diventa una sorgente inesauribile di miserie. – Io vi presentai la questione nei suoi rapporti tra i1 padrone e l’operaio, ed affermo che il lavoro profanatore è tanto nocivo alluno quanto all’altro. Permettetemi voi da principio di farvi rimarcare che i particolari non sfuggono punto di più che la società all’azione delle leggi divine, che queste leggi intelligenti come il fuoco infernale, secondo 1’espressione di Tertulliano, percuotono ciaschedun delitto d’un castigo particolare, lo percuotono a proporzione della sua gravità; ed alla differenza de’ supplizi eterni, percuotono ognora il colpevole per convertirlo. – Nei tesori della sua giustizia, Iddio conserva della moneta per tutti coloro che l’offendono: al negoziante, all’industriale, al proprietario, profanatore della domenica, egli manda alternativamente il fallimento, la grandine, la siccità, 1’incendio, l’epidemia, lo stagnamento degli affari, e, in qualche ora, gli fa scontare con usura tutte le obbligazioni contratte verso la sua giustizia per un vietato lavoro. – Per pagare l’operaio della sua rivolta spedisce a lui, alla sua moglie, a’ suoi figliuoli, o la malattia, o i terribili giorni feriali, o la penuria, che gli ritoglie il guadagno illecito, di cui s’inorgoglì, e sovente assai più ancora. Nulla di più comune. sopratutto odiernamente, che quelle provvide liquidazioni. A meno d’ammettere effetti senza cagione, si manca forse di logica riconoscendovi la punizione della cupidità, e della profanazione della domenica, che n’è la sacrilega e permanente manifestazione? – Tratto la questione dal lato puramente umano, e non separo ancora il padrone dal lavorante. Ascoltiamo un personaggio perfettamente competente. In un rapporto recentemente indirizzato al governo, il primiero magistrato d’una delle nostre grandi città manifatturiere s’esprime cosi: « Dall’attività incessante del lavoro che non rispetta il giorno santo, nacque: « La concorrenza illimitata che produce le frodi nella produzione; » La rivalità ardente e di cattiva fede; » La rovina degli artigiani; » I1 monopolio de’grandi stabilimenti; » L’aumento del numero de’fallimenti; » Il disordine e l’ abbruttimento dei lavoranti; » La distruzione della vita di famiglia; » L’assenza d ogni vincolo morale fra il padrone e l’operaio ». – Questo ricco beneficio è indiviso tra colui che profana e quegli che fa profanare la domenica. Passiamo a quello che appartiene esclusivamente al padrone; mentre vedremo poscia il fruito che ne tocca all’operaio.
III.
Egli è brevissima pezza che m’intratteneva con un capo di fucina intorno appunto alla questione presente. Quest’uomo, con un buon senso rimarchevole, mi diceva: Il lavoro della domenica non giova né al padrone, né all’operaio. Di fatto, se si lavora in tutte le domeniche ed in tutti gli altri giorni senza riposarsi, si fabbrica troppo, sovra tutto dietro l’invenzione delle macchine. Inoltre havvi nell’annata cinquantadue domeniche ed alcune feste; da ciò ne risulta un aumento considerevole de’ prodotti. Ora, non basta il produrre; bisogna vendere. Se tutte le industrie di Francia fanno la stessa cosa, voi avrete ben tosto una fabbricazione superiore alla consumazione. E che, forse la profanazione della domenica aumenterà il novero de consumatori? Ciascuno non continuerà egli a spendere ad un dipresso la stessa somma per le sue vestimenta e per lo suo nutrimento? E perciò, i prodotti, in tutto od in parte rimarranno in magazzino, e voi subirete infallibilmente una doppia perdita: il detrimento inevitabile delle mercanzie e l’assopimento dei capitali. – Ecco quanto corre pei tempi ordinari. – Che ne sarà se sopravvenga una crisi commerciale? se la confidenza si perde, se cessa la vendita? Eccovi voi rovinati co’ vostri magazzini riempiti di mercanzie, od almeno eccovi costretti di restringere la produzione, di vendere a più basso prezzo, di ricorrere alle dilazioni e di licenziare i vostri artigiani: cose tutte deplorabili, che sarebbonsi assai più sicuramente evitate per una fabbricazione moderata. Quante case di commercio non potrebbonsi citare, le quali portano oggi la pena della loro esagerata fabbricazione al punto di vista dell’interesse temporale, e colpevole al punto di vista religioso! – Dirassi forse, che siffatto inconveniente non è punto da paventarsi, poiché, in luogo di celebrare la domenica, l’artefice fa vacanza il lunedì; ciò che riduce alla medesima cifra il numero de’ giorni di lavoro? Certamente non è la stessa cosa pel padrone, e ciò per tre ragioni: la prima, perché l’operaio che non lavora il lunedì, prolunga spesso la vacanza per intero od in parte infino al martedì, dal che risulta pel padrone un altro inconveniente, che è di non poter contare certamente sovra il lavorante, e di restare così con lavori, i quali premono in sulle braccia, nell’impossibilità di finirli nel giorno determinato, e di compiere la sua promessa. Da ciò nascono talora disdette considerabili a carico del padrone, gravi disgusti dalla parie de’ clienti, ed infine vien pur anco la perdita della fiducia. – La seconda, perché l’artigiano che passa abitualmente il lunedì nella bettola, si disusa nell’arte sua e ne strafalcia l’opera. Il lavorìo che eseguisce il martedì sotto le ultime emozioni dell’ubriachezza, non vale la metà del suo prezzo; e soventemente, come diceva un ispettore di manifattura, bisogna farlo ricominciare. – La terza, perché l’operaio che gode di non lavorare nel lunedì si abitua a dettar la legge al padrone. Se, dovunque abbonda il lavoro, ciascun dì si mostra presto a rompere l’accordo seco voi pattuito, e, come egli dice, n’impone alla borghesia, questo non rende i borghesi né più ricchi, né più felici. Se scarseggia il lavoro, e, l’operajo si rimanda, siccome è principio che niuno muore di fame, cosi tocca ancora al padrone, di concerto con altre persone caritatevoli, sopportare il peso di alimentare costui e la famiglia di lui; imperocché l’operaio che non lavora nel lunedì, non economizza certo. La sua cassa di risparmio è il banco del mercatante da vino, e cotesto banco ingoia tutto, e nulla mai rende. – M’inganno io, rende molto. Esso rende l’operaio bordelliere, infedele, invidioso, minacciante: bordelliere, s’infastidisce del lavoro, e malamente l’eseguisce: primo benefizio del padrone. Infedele, non si fa scrupolo mai di sprecare il tempo, e sentesi un grido generale contro al rilasso ed alla pigrizia de’ lavoranti, quando non sono sorvegliali dal padrone. Nulladimeno bisogna che questi loro paghi la giornata come se l’avessero coscienziosamente impiegala: secondo benefizio del padrone. Invidioso, perché l’abitudine alle allegrie ed all’oziosità contralta nella taverna, gli fa ambire la sorte di chi può vivere senza affaticarsi; e giura agli aristos un odio uguale alla sua gelosia: terzo benefizio del padrone. Minacciante, egli prestò l’orecchio ai canti, ed alle proposizioni le più anarchiche, linguaggio abituale de’ luoghi da lui frequentati, e la sua smania del benessere si infiammò siffattamente, che nell’occasione, per soddisfare ad esso, non retrocederà punto dinanzi ai mezzi i più violenti: quarto beneficio del padrone. – In breve, la concorrenza illimitata e sleale, l’ingombro de’prodotti, la sonnolenza de’capitali, i numerosi fallimenti, una minaccia perpetua alla vostra tranquillità e fortuna, son come la spada di Damocle, che sospesa sulle vostre teste dice: ecco, industriali, negozianti, proprietari, ricchi, qualunque siate voi, la cui cieca cupidigia comanda, o la cui stupida indifferenza autorizza la violazione del giorno sacro, ecco i vantaggi particolari che voi ne riscuotete. Voglia Iddio, che a voi non ne tornino altri! Voglia Iddio, che non abbiate voi a temere niente di più grave di quegli stormi popolari, de’ quali il vostro insolente disprezzo della legge di Dio ha scatenato le veementi passioni. Ma se mai quest’onda, che minaccia voi, e che ingrossa, viene a rompere l’ultimo suo riparo, voi saprete di chi n’è la colpa: gli avvertiménti non vi mancarono.
IV.
Se la profanazione della domenica è fatale agl’interessi del padrone, questa lo è pur anche agl’interessi dell’operaio. È qui, sig. Rappresentante, che noi tocchiamo al vivo la piaga. Primieramente, l’operaio guadagna assolutamente nulla pel lavorare del settimo giorno. Gli si sussurrò: cinquanta o sessanta giornate di lavoro di più per anno ti frutterà un considerabile benefizio. Ma al fianco di somigliante calcolo, che lo sedusse, si fe’ un’operazione, della quale non se ne avvide: si ricalò il salario. La è cosa di presente incontestabile, che l’artefice non lucra di più in sette giorni di lavoro, di quello che n’approfittava altre fiate in sei giorni. – Proseguiamo: questo settimo dì, l’artigiano non lo consacrò alla fatica, ma alla licenziosità; tanto che esso si trova odiernamente, per cagione della profanazione della domenica, ridotto, come pel passato, a sei giorni di lavoro per settimana, colla differenza d’essergli diminuito il salario, e di aver peggiorato nella buona condotta.
V.
Ohimè sì, la profanazione della domenica costa all’operaio 1’unico suo tesoro, la buona condotta. Da grande pezza, signore e caro amico, voi rimuginate l’origine della miseria, e dell’ indigenza delle classi lavoratrici; voi avete volto e rivolto la questione sotto tutti i suoi aspetti, e come tutti gli osservatori degni di questo nome, voi non conoscete che due cagioni reali della miseria per l’operajo: l’ozio e la mala condotta. L’ozio proviene da circostanze esteriori, che i mezzi ordinari possono attenuare o distruggere: la condotta sregolata nasce d’un male interno, che sfugge all’azione ordinaria dell’uomo. L’ozio non è per avventura che parziale e temporale; una tale condotta è disgraziatamente generale e permanente. – Per simil condotta dell’ operaio intendo le abitazioni d’accidia, d’imprevidenza, di lusso negli abbigliamenti, nei mobili, negli alimenti; di dissolutezza , cioè il bazzicare per le bettole. pe’ caffè, pe’ teatri e per altri luoghi. Ora, niuno può dissimularselo, che questa condotta, di tal modo intesa, e che, salvo errore, deve essere tale, esiste sopra una vasta scala nel seno delle classi artigiane delle nostre città. Ora che codesta divenga pur troppo cagione profonda e permanente della miseria, sarà superfluo il provarlo. In qualunque famiglia lavoratrice, in cui non si dia equilibrio tra l’uscita, e l’ entrata, v’alberga la miseria. Che troppo! l’immoralità diventa incompatibile con questa equilibrazione necessaria, perché la distrugge, divorandone assai più che non arreca il salario quotidiano, unica entrata della famiglia. – Donde origina la mala condotta deil’operaio? Deriva da ciò che ha spezzato il solo freno capace d’incatenar le sue inclinazioni, i suoi capricci, ed i suoi appetiti sregolati, divenuti talmente imperiosi che formano la regola abituale della sua maniera di vivere. – Or questo freno qual è mai? L’universo intero sorge per rispondere: questo freno è la religione. La religione, la quale di una mano segna infallibilmente al mortale i limiti del bene e del male; e col1’altra gl’infonde la forza per lottare vittoriosamente contro le proprie passioni la religione che lo colloca del continuo sotto l’occhio d’un Dio, il Quale vede tutto, alla presenza d’un giudice sovrano, il quale non si può né ingannare, né corrompere; la religione finalmente, la quale gli mostra, al di là della tomba, il cielo e l’inferno, inevitabile mercede di sue virtù o de’ suoi peccati. – Quale cosa mai è quella che infrange questo salutare freno? Quale cosa è quella che trucida la religione nel cuore del1’operaio, e l’abbandona conseguentemente come una preda senza difesa alle sue divoranti passioni? Avanti tutto, e sopratutto, la profanazione della domenica.
VI.
Per provarlo, io non dirò quivi che colla profanazione della domenica la religione non è, né conosciuta, né meditata, né praticata; bisognerebbe rifare la lettera, in cui vi sviluppai queste considerazioni. – Stabilisco la mia tesi invergando la questione sotto un novello punto di vista, e così pronuncio che l’uomo non potendo incessantemente lavorare, fa d’uopo che egli si riposi. Questa è una legge altrettanto irremovibile ed inflessibile quanto quella, la quale presiede al corso del sole. Ora se l’artefice non prende riposo nella domenica alla chiesa, egli vi si abbandona nel lunedì alla taverna. – È questa altresì una legge invariabile, il cui adempimento è così universale, e così costante come la profanazione della domenica. Ma il riposo della taverna, sapete voi ciò che è”? Codesto è l’immoralità in permanenza, e la feccia di tutto quello che la stessa ha di più degradante e di più rovinoso. – Vedete voi codest’operaio, codesto padre di famiglia gomitolato sovra una tavola insozzata degli avanzi d’una protratta orgia, scambiando co’ suoi compagnoni di dissolutezza canti anarchici, o discorsi sconci ed osceni? Sapete voi mai ciò che costui cionca nel bicchiere che vacilla nelle sue mani tremanti per /l’ubriachezza? Egli tracanna le lacrime, il sangue, la vita della sua sposa e de’ suoi fanciulli. Statuita la media , la taverna gli costa poco meno di cento scudi per anno: tre franchi per la giornata perduta, cd altri tre di spesa, cagionano una tale perdita, la quale, rinnovata cinquanta volte per anno, rimonta facilmente alla triste somma suindicata. Ora, se cento scudi di più per anno in una famiglia di operai, ne costituiscono l’agiatezza; cento scudi di meno, ne cagionano la miseria. Se questo disordine è generale, esso diventa la miseria permanente, la miseria incurabile per la classe lavoratrice di tutta una città, di tutto un reame. – Eppur! è di necessità il confessarlo adontandosene, che cotesto disordine si ingrandì in proporzione diretta della profanazione della domenica, di cui è la conseguenza; e che questa essendo divenuta generale, ancor quello diventò tale, e divenendolo, ci ha dotati della miseria, ed ha ucciso la vita di famiglia.— Uno sguardo solo sopra cotesto spaventevole progresso, più o meno rapido secondo le provincie, ma incontrastabile dovunque. Conosceva io una delle nostre città, la quale nel 1789 coniava una popolazione di 14,000 abitanti. Trovavansi tre alberghi, e due caffè, ne’ quali il popolo non entrava mai, e diciotto o venti osterie. Per contraccambio donavansi quasi in tutte le domeniche, e quasi in tutte le case modeste cene di famiglia, di cui tutti approfittavano: padre, madre, amici, fanciulli insieme piacevolmente mangiavano, bevevano, ciaramellavano, ed in dolce armonia lasciavansi.Di presente, questa stessa città per una popolazione di 16,000 anime possiede otto alberghi, ventisei caffè frequentatissimi dal popolo, e duecento ottantatrè osterie; in tutto trecento ventun venditori di vino e di liquori. Non fa di mestieri l’aggiungere che al partir dalla domenica dopo mezzodì, insino al lunedì sera, ed anche al martedì mattina, la più parte di codeste bettole sempre rigurgitano. – Calcolando, dietro le cifre ufficiali, oltre alla perdita della giornata, la spesa dei liquidi e dei commestibili, voi arrivate, mettendo tutto al minimum, ad un’imposizione annuale di più di 30,000 franchi, prelevati sovra questa condotta. – Ciò oltrepassa più del doppio quello che la città elargisce in elemosine. Ma però, non si danno più pranzi di famiglia, né si fanno più unioni, od altre feste domestiche, non più società; invece di tutto questo, vi regna la miseria sotto tutti i nomi, e sotto tutte le forme. Ecco qual vantaggio diretto produce la profanazione della domenica e la frequentazione delle taverne, che n’è l’inevitabile conseguenza. – Notiamo frattanto il beneficio indiretto. Tale condotta delle classi operaie, conseguenza della profanazione della domenica, non consiste solamente nelle dissolutezze delle bische, giacché conduce ad altre, che non voglio nominare, e che sono una novella scaturigine di spese, lo dirò solamente, perché tutto il mondo lo vede, che quella conduce al lusso esagerato nella toeletta, nelle suppellettili, ne1 cibi: quella conduce a’ piaceri degli spettacoli, e della danza. Ora, tutte siffatte cose sarebbero evitate, almeno in parie, e con un pochettino di più di timor di Dio e di fedeltà alla religione, conseguentemente con la santificazione della domenica, senza cui, come dimostrai, la religione è impossibile. – Per istare eziandio al di sotto della realtà, queste diverse spese cagionate per la condotta s’elevano ciascuna annata, per lo meno, a trenta franchi per famiglia. – Ora la città, di cui ragiono, annovera all’intorno 1,500 famiglie operaie. Ecco impertanto una novella imposizione di 45.000 franchi, che, aggiunta a 50,000 ci dona una contribuzione annuale di 95.000 franchi. Che questa somma smoderata riceva un impiego normale, cioè, che l’operaio divenga religioso ed onesto, ed in luogo della miseria profonda, ed incurabile, si godrà d’un’agiatezza, e d’un benessere generale; tal è il fallace compito dell’infelice città, di cui parlo, la quale non è necessario che l’annunci io, distinguendosi tristemente fra tutte per la profanazione della domenica.
VII.
Ecco quello della Francia intera. Secondo il censo generale fallo da qualche mese appena, si numerano in Francia 332,000 osterie, dove si spendono annualmente 105 milioni. Aggiungendovi le altre spese di lusso e di piacere, che noi abbiamo rimarcato come la conseguenza ordinaria della profanazione della domenica, e calcolate a 30 franchi per famiglia, voi avete, per quattro milioni di famiglie lavoratrici, una novella somma di 120 milioni, ciò che dona, per la Francia intera, la cifra enormissima di 225 milioni. Ma io temo che il novero delle famiglie suddette, sia della città, che della campagna, le quali profanano la domenica, e delle quali i genitori ed i figliuoli frequentano i ridotti, siano assai più considerabile. – Nel 1841, la somma degli operai nelle fabbriche, nelle manifatture e nei laboratori delle diverse professioni era di 6,000,000; quella degli agricoltori e braccianti della campagna di 421,978,278. Io non pretendo punto attribuire alla dissolutezza sola tulle le spese fatte nelle taverne; ma, riducendo alla metà quelle che sono le imputabili, comprendete voi ancora qual ammontare eccessivo di troppo paga la mala condotta. E poi, che è addivenuto, nella Francia intera, della vita di famiglia, dell’educazione della figliolanza, e dello spirito di società nella riunione dominicale de’parenti e degli amici attorno ad una mensa moderatamente imbandita? Ogni cosa disparve colla santificazione della domenica. – Spiegate voi, pertanto, perché le numerose elemosine che si versano ciascun anno nel grembo delle popolazioni, non migliorano la loro sorte; perché questo fiume d’oro stillante come tante gocce d’acqua nella botte delle Danaidi; perché, nonostante tante molteplici opere di carità spirituale e corporale. L’immoralità diventa di giorno in giorno più generale e più profonda; perché la mendicità, codesta cangrena corroditrice delle società moderne, invece d’essere arrestata nel suo invadente cammino, minaccia, sotto il nome di comunismo, di divorar ben tostamente i popoli profanatori della domenica; perché, al postutto, in Parigi, dove cotesto disordine tocca all’estremo, i due quinti della popolazione muoiono all’ospedale? Ehi mio Dio! La spiegazione non è difficile a trovarsi: i sudori dell’artigiano, ed una parte delle elemosine del ricco si scialacquano alla taverna, e ciò è la profanazione della domenica che moltiplica, ed arricchisce la bettola; e codesta diventa la strada dell’ospedale, quando pure non si trasformi in quella della galera. – E come mai potrebbe altrimenti succedere? – Il lavorante che travaglia nella domenica, si trova solo nel lunedì. La sua donna sta occupata sia al di fuori, sia al di dentro delle faccende famigliari; i suoi figliuoli sono al tirocinio od alla scuola: che volete voi che ne addivenga? Egli s’annoia della sua solitudine, e vola naturalmente alla bettola per cercare la società e i godimenti ch’egli non trova al focolare domestico. – Al contrario, se lo stesso si riposasse nella domenica, il pericolo della solitudine per lui non esisterebbe. Libero dalle esteriori occupazioni, la sua moglie e i suoi fanciulli n’attirerebbero l’attenzione. Il loro esempio, le loro sollecitudini, il timore solo di restare isolato, sufficienti sarebbero alla lunga per risolverlo a mettersi fra’ piedi con esso loro la via della chiesa, e renderlo, ciò che non sarà giammai profanando la domenica, un buon padre, un buono sposo, un operaio onesto, laborioso, economo. – E dunque dirittamente stabilito che la menzogna la più mostruosa che siasi giammai commessa, dopo quella di satanasso nel paradiso terrestre, consiste nel buccinare che il lavoro della domenica è una sorgente del benessere per i particolari e per i popoli. Cotesto n’è, ne fu e ne sarà sempre mai la rovina. Gradite, ecc.