Giuseppe SIRI (S.S. Gregorio XVII): “MIO PADRE”

Dal redattore del sito www. shepherdandsailor.com, Ms. Nellie Villegas riceviamo il libro, mai ufficialmente pubblicato, di S.S. Gregorio XVII, Giuseppe Siri. Si tratta di un’opera biografica, o meglio autobiografica, scritta nel ricordo affettuoso del padre, figura di altri tempi, per amici e parenti che avevano avuto modo di conoscerlo e di apprezzarne le qualità. La sua lettura serve a farci comprendere la personalità profondamente spirituale di questo uomo umilissimo, pieno dello Spirito di Dio, che con la condotta di una vita cristiana esemplare, vissuta in famiglia e tra gente comune, ha saputo gettare, senza forse nemmeno sospettarlo, le fondamenta spirituali nell’anima del futuro Santo Padre Gregorio XVII, il Papa della “Chiesa eclissata”. La sua lettura è fonte di pace interiore, di considerazioni spirituali nella conoscenza di un uomo, apparentemente insignificante, che ha vissuto nel timore di Dio, che come sentenzia il Re-Profeta, è l’origine della Sapienza divina [Ps. CX, 10], sapienza che non ha bisogno di titoli o onorificenze accademiche: lo stesso “timore di Dio” che sempre doveva animare l’apostolato e tutto l’operato del figlio Giuseppe, scelto da Nostro Signore Gesù Cristo come suo Vicario in terra nel momento forse più terribile e buio della vita della Chiesa di ogni tempo, nel tempo di Giuda, dell’Apostasia, dei tradimenti sfacciati, dell’apparente trionfo del vicario dell’anticristo. Conoscere perciò Niccolò Siri è capire meglio la grandezza spirituale del figlio, immagine vivente di Cristo nel Getsemani. La lettura umile di questo scritto, offre un grande beneficio all’anima dell’umile seguace di Cristo. [Dal sito citato è pure possibile scaricare il libro in formato PDF: [http://www.shepherdandsailor.com/419891893]. ]

GIUSEPPE Card. SIRI

Mio Padre

padre Siri

PROFILO

A cura di Nellie Villegas

Lontano nel tempo, dopo che Lui morì, considerando nell’insieme la sua vita, ho scoperto la vera dimensione spirituale di mio padre. Prima vedevo, registravo, ma mi sfuggiva lo sguardo di insieme. – Scoprendolo, ho capito che il suo profilo doveva essere delineato, non solo per il conforto di quanti gli hanno voluto bene, ma perché la sua figura può insegnare qualcosa. Un uomo umile, che rimane coerente a se stesso per oltre novantadue anni, colla sua virtù rivela le infinite possibilità nascoste di una vita in Dio, senza alcun intento terrestre, nessuna risonanza, nessun vanto terreno.

I.

LE ORIGINI

Il 16 luglio 1887 alla età di soli sessantatre anni moriva mio nonno, Giuseppe. Quel giorno accadde un fatto semplice e commovente che segnò una vita. Il vecchio era stato perseguitato dalle disgrazie. Era stato sposato e dalla prima donna aveva avuto tre figli. Subito dopo la morte di questa donna e la vedovanza, si era risposato con Rosa Siri, mia nonna. Questa gli donò altri quattro figli, ultimo nato il 21 giugno 1874, mio padre. Dopo soli trentotto giorni dalla nascita di mio padre la nonna Rosa moriva e si apriva un’altra penosa vedovanza. Le malattie, le spese, avevano distrutto quasi tutto il patrimonio paterno. Era rimasta solo la casa dei vecchi col terreno attorno. Fino a questo momento la famiglia del nonno era vissuta a Vara Superiore di Martina Olba. C’era da secoli: le prime tracce si ritrovano nei primi registri della nuova parrocchia di Martina, nel 1621. Ammalato lui stesso, il nonno cercò scampo più vicino al mare e così, passando il monte, la famiglia si trapiantò in Gameragna, una frazione di Celle Ligure. La morte del nonno avvenne qui. – Ed eccoci al fatto interessante. Il nonno morente chiamò tutti i sette figli attorno al letto e disse le ultime parole: “Vi raccomando di pregare, di pregare sempre.” Mio padre aveva allora solo tredici anni. Quelle parole furono la consegna che mio padre impresse e che rannoda e spiega tutta la sua vita. Troppe volte lo sentii ripetere quelle parole di suo padre morente. Le ripeté anche a me. – Davanti alla casa paterna in Vara, il nonno, lo stesso giorno della nascita di mio padre, aveva piantato un melo. Ho sempre tenuto d’occhio quel melo altissimo e che morì press’a poco quando morì mio padre. Anche il melo aveva passato la novantina. – L’orfano più piccolo, mio padre, si trovò intorno i fratelli. Gli volevano bene; aveva tredici anni. Capofamiglia era Bernardo che toccava allora i trentadue anni. Questo mio zio assolse mirabilmente il compito di portare avanti la notevole famiglia fino a che tutti ebbero presa la loro strada. – Era una figura unica. La onestà, il senso cristiano in tutto, la osservanza, l’esempio integerrimo, la chioma argentea (quando io lo conobbi) ne hanno fatto il patriarca dell’Olba. Del patriarca aveva gli accenti, il discorso a proposizioni scultoree epigrammatiche, il tono della voce. La sua straordinaria memoria gli permetteva di ricordare i confini di tutti i terreni della valle, al punto che il suo verdetto nei conflitti di proprietà era riguardato da tutti il verdetto di un giudice. La sua parola era ascoltata da tutti. Le disgrazie sopportate con perfetta rassegnazione gli aggiunsero una venerabilità. Perse il primogenito nella prima guerra mondiale, ebbe la moglie – l’angelica zia Geronima – per decenni ammalata, una figlia per lunghi anni ammalata e che precedette i genitori nella tomba. Questo contesto nulla turbò in quella casa — era quella del nonno, dove era nato mio padre – ed io, ragazzo, d’estate vi andavo quasi tutti i giorni per la soavità e la pace che vi si godeva. Morì a settantacinque anni, ma non era stato il primo ad andarsene. La più anziana delle sorelle di mio padre, Geronima, era andata sposa a Savona: morì presto; io ne sentivo parlare come di una santa. Altro fratello era Antonio: morì poco più che quarantenne per uno di quei mali che oggi si curano sempre; ma allora la valle dell’Olba non aveva né medici né medicine. Annunziata – la zia Nunzia – si sposò e ben presto la sua famiglia, la più vicina e la più cara alla mia, si fissò a Sestri. Fu veramente la donna forte; ebbe da combattere tutta la vita, il marito suo dovette essere molte volte e per lunghissimi periodi ricoverato ed ella affrontò la situazione in modo da tirarsi avanti una famiglia di sei figli (uno morì nella prima guerra; un altro, mio coetaneo morì per difetto cardiaco a 17 anni). Ricordo che quando un ciclone le scoperchiò il tetto della casa, essa ebbe il coraggio e l’abilità di rifarselo. Questa donna meriterebbe una biografia a parte. Giovanni Battista (Baciccia) fu un cristiano completo e un saggio. I parroci della valle mi dicevano che era il miglior uomo della valle. Parlava poco, ma i suoi detti erano setenze; anche lui era chiamato ad arbitrare e comporre liti, serio, paziente, incredibilmente buono. Una parte delle mie campagne all’Olba da bambino le ho passate in casa sua. Anche lui restò vedovo quando la moglie gli donava il quarto figlio. Si risposò molti anni più tardi con una donna semplice e angelica – la zia Angiolina – l’ultima di tutti a morire, prima di mio padre. La sorella mitissima, vecchia solo di due anni più di lui, Maria, fu per sempre la più vicina e la più simile a mio padre. Anche questa zia fu dolorosamente colpita dalla sventura. Gli morì giovanissimo il marito, lasciandola con cinque figli dei quali una morì in fasce. Tirò avanti, fu accolta nella casa dello zio Baciccia e curò i figli suoi e quelli del fratello rimasti senza madre. Tutti la chiamavano “mamma” e quando andavo lassù la chiamavo “mamma” anch’io. Mio padre era il più piccolo. Questo contorno familiare permette di capire mio padre. – Fino al termine della vita non fu mai chiassoso, ridanciano: la serietà gli era abituale ed il suo volto, il suo sguardo dolce celavano una piccola ombra di malinconia: non aveva conosciuto sua madre! Ho notato la stessa ombra in genere su quelli che non hanno conosciuto la mamma. Lui evitava di parlare di sua madre; era certamente un modo per difendere la intima pena che aveva portato con sé tutta la vita. Da ragazzo conobbi bene due sorelle di mia nonna. Di una, Maria, i vecchi mi dicevano che assomigliava moltissimo alla sorella defunta. La ricordo: quasi ottantenne dirigeva in modo del tutto disinvolto, autoritario l’allevamento che aveva al di là dei Canaloni dell’Olba. Andavo ogni tanto a trovarla e questo le faceva un gran piacere. La sorella, Antonia, che morì ultranovantenne e stava al di qua dell’Olba in una località detta Canai, era tipo completamente diverso. Riservata, quasi scompariva, col suo Rosario in mano. Capisco che il non potere parlare della mamma sua, deve essere stato una ferita inguaribile per tutta la vita di mio padre. – L’orfano di tredici anni aveva imparato a leggere e scrivere da un buon prete di Gameragna; pensò anche di farsi o religioso o sacerdote. Ma le condizioni della famiglia non erano favorevoli e l’ideale, appena intravisto, svanì. Per la vita, mio padre aveva solo il Rosario in mano, anche lui. Tre anni restò a Gameragna, poi capì che era tempo ormai di intraprendere la sua via e guadagnarsi il suo pane. A sedici anni trovò un posto da garzone nella azienda ortolana di Domenico Servetto a Voltri. Allora ebbe per madre la Vergine delle Grazie. Le Grazie di Voltri restarono il suo centro ideale per quel motivo: vi tornò sempre finché visse. E finché visse Domenico Servetto, facendo la salita del Santuario si fermava a salutare, sempre affettuosamente accolto, il suo vecchio padrone. Più d’una volta portò anche me. Quando molti anni più tardi toccò a me di consacrare il vetusto Santuario, fu felice. Altro punto di riferimento era il Santuario dell’Acquasanta. Credo fosse una tradizione di famiglia passare il monte e scendere a piedi all’Acquasanta; egli la conservò sino alla fine. Quando, a dieci anni di età, il stavo per entrare in Seminario volle portarmi all’Acquasanta; forse per mettermi nelle mani della Madonna. Là comperò l’acquasantino che doveva far parte del mio corredo. Io ho sentito tante volte nella mia vita la presenza della Santissima Vergine: credo di doverlo a mio padre. Del resto quando io nascituro ero in pericolo di vita, Egli, me lo disse molti anni dopo, mi aveva offerto alla Madonna.

II.

LA GIOVINEZZA

   Fu una giovinezza laboriosa, riservata, controllata. Non conobbe nessuno dei passatempi, buoni o cattivi che fossero. Il mistero di questa giovinezza conscia e già perfettamente matura, scappò di bocca a mio padre già vecchio quando discorrendo col suo confessore ebbe a dirgli che aveva passata la sua, intatta. Si trattava della stola battesimale illesa. – Il naturale riserbo di quest’uomo, assolutamente schivo a parlare di sé o a farsi qualunque genere di elogi o a raccattarne dagli altri, copre certamente molte cose perché una giovinezza di un uomo, intelligente, dalla memoria ferrea, non la si può pensare come un sonno indisturbato. Bisogna però concluderne che questo giovane ebbe una vita spirituale singolarmente intensa e non comune. I riflessi di quella giovinezza li traggo dal parlare che egli fece con noi delle vicende dell’ambiente esterno nel quale visse, nonché dai ricordi di mia madre. – Dopo alcuni anni di servizio negli orti coltivati da Domenico Servetto, passò alle dipendenze di Casa Viacava. L’Onorevole Deputato di questo nome passava parte del suo tempo nelle sue due ville in Voltri. Fu questa l’occasione per cui conobbe mio padre e lo assunse. A Voltri la famiglia Viacava passava il caldo dell’estate nella villa dei Colletti in alto, poco discosto dalla strada mulattiera che da Prà sale per discendere poi al Santuario dell’Acquasanta. In autunno la famiglia discendeva alla villa più in basso, sullo stesso pendìo di fronte a Carnoli, nella località detta Serrea, quella ove fu poi la casa degli Orfani dei Marinai. L’inverno la famiglia stava a Genova in un appartamento, allora lussuoso, sito al numero 3 di Distacco Piazza Marsala. Le occupazioni di mio padre erano di domestico e nello stesso tempo di uomo di fiducia; quando il figlio dell’onorevole in uno sgraziato incidente perdette l’equilibrio mentale e poteva in taluni momenti diventare pericoloso, era affidato alla amorevole custodia di mio Padre: si trattava del Signor Andrea. C’era la moglie dell’onorevole, Serafina, la quale, prima lavandaia, fu voluta per la sua bellezza dall’uomo allora il più ricco di Voltri. Era donna di notevole intelligenza e saggezza, ma non perdette mai le tracce della sua limitatissima educazione. Il figlio Andrea aveva sposato Maria Avogadro. Questa signora sarebbe stata la mia cara madrina, dona equilibrata, diplomatica, di una autorità reale, ma bonaria. La famiglia Viacava era tutta qui. – In un tale quadro con tali complicati rapporti facilmente intuibili, mio padre visse fino al matrimonio. La cosa che oggi mi stupisce è che io ho sentito tante volte ricordare con una punta di affettuosa nostalgia questo ambiente coi personaggi secondari che rotavano intorno al piccolo potentato: non ho mai sentito una sola parola di malevolo apprezzamento, un pettegolezzo acido. Per tanti anni mi è sembrato, ascoltando mio padre, che non esistesse a questo mondo il parlare male degli altri. Più tardi mi convinsi che esisteva e solo allora ho imparato a conoscere la virtù di mio padre. Quando a riandare quei tempi, specialmente nella vivacità colorita, al tutto romagnola di mia madre, c’era pericolo che i ricordi di un tempo prendessero una strada meno delicata, papà aveva un’arte impareggiabile per deviare il discorso. La sua virtù non si esibiva mai. Eppure i ricordi di quel tempo esibivano tipi ameni, forse discutibili, ricchi delle contraddizioni piccole e salaci di un mondo popolaresco per quanto inserito nell’alta borghesia. – In casa Viacava papà conobbe mia madre. Debbo presentare questa donna singolare. Si chiamava Giulia Bellavista, alta, distinta, disinvolta e bella. La intelligenza di questa giovane era affascinante. A soli 17 anni aveva dovuto partire dal suo paese, Gatteo in provincia di Forlì, per guadagnarsi il pane. Gli affari di mio nonno erano andati male e bisognava sfoltire la numerosa famiglia. Mio nonno materno Giuseppe, morto poi tranquillamente come la nonna Mariuccia a 89 anni, era un bel tipo. Nobile e generoso, amava il canto, correva a Bologna per sentire l’opera, faceva spacconate, come quella di vestirsi da damerino e accendersi sulla piazza del paese il sigaro, bruciando davanti a tutti un biglietto (allora!) da venticinque lire! Quest’uomo, che proprio per le sue non disoneste fantasie si era giocata una prosperità, non si accasciò mai, mai cessò di scherzare, di aiutare gli altri. Aveva una sorta di semiseria superiorità, alle dolorose vicende di questo mondo, alle quali non attribuì mai troppa importanza. Un indipendente dal cuore buono e che avrebbe portato fieramente e nobilmente la divisa di un giullare o di un cavaliere del Medioevo. Così poté campare fino a 89 anni. Era una tradizione di casa: suo padre (mio bisnonno materno), quando fu per morire chiamò il sacerdote, ricevette tutti i Sacramenti, poi volle ancora fare una cantatina e cantò – credo una romanza d’allora – “morir senza un centesimo coi creditori accanto…”. Dopo di ché, pienamente soddisfatto, si addormentò nella pace di Dio. Tutto questo ambiente, luminoso, cavalleresco, intelligente, con mia madre sarebbe poi entrato in casa mia. – Dopo lunghi anni in cui ebbero modo di studiarsi a vicenda, i due si fidanzarono e si sposarono; fu il 25 febbraio 1905, alle ore sei del mattino nella Basilica dell’Immacolata, all’altare del Santo Rosario. Celebrò il Matrimonio il Canonico Gaspare Odino, lo stesso che poi avrebbe battezzato me e mia sorella. – Accadde 43 anni dopo, la sera del 5 marzo 1948. La mamma si era spenta serenamente alle 21,10. Nessuno pianse, uscimmo tutti dalla camera, anche papà. Ma lui arrivato alla porta si voltò a riguardare la campagna della sua vita ed uscì in queste parole “Come sono contento di non averle mancato di rispetto in nessun momento”. Illuminava un lungo cammino. Col matrimonio a 32 anni finiva una giovinezza che si era retta e mantenuta illibata per un segreto lavorìo divino ed umano. Non si arriva ad un equilibrio perfetto se non per averlo sempre curato. Noi, nella abitudine ordinaria, solo molto tardi l’abbiamo, nel pio ricordo, rilevato.

III.

NEL MATRIMONIO

Gli sposi, dall’appartamento di Distacco Piazza Marsala 3 scesero alla portineria del numero 4, che assunsero. Alla portineria attendeva mia madre, mio padre lavorava: era specializzato nella manutenzione degli appartamenti signorili in cui lui faceva tutto, dalle pulizie alle lucidature, alle sistemazioni. Questa impostazione economica permise di vivere sempre, nella modestia, ma anche in una relativa prosperità. – Mio padre lavorava sodo; aveva una larga e distinta clientela e fino a quasi sessant’anni non lavorava solo nelle ore diurne, ma in quelle mattutine e, quasi sempre, in quelle dopo cena. La giornata di questo lavoratore ricercato, stimato e amato da tutti cominciava alle 5 del mattino e finiva verso le dieci, ed anche oltre. Alle cinque cominciava così: faceva in modo di andare alla Messa delle 5,30 alla Immacolata. Si comunicava tutti i giorni. Prima di uscire di casa, quando ebbi appena gli anni sufficienti, svegliava me, perché potessi trovarmi in Basilica alle 6 e servire la Messa al Prevosto, Mons. Marcello Grondona. Di questo mio incomparabile Parroco, avrò modo di parlare altra volta. Poi: il lavoro per lui, per me la scuola. – Non riesco a spiegarmi come abbia fatto quest’uomo, che arrivò fresco alla soglia dei 93 anni, a resistere in tanto lavoro. Mai un lamento sulla durezza e continuità del lavoro. Quand’era a casa, salvo i giorni festivi che rispettava scrupolosamente, lavorava sempre. Siccome era anche un cuoco speciale, alla domenica dispensava mia madre dai lavori domestici, perché si riposasse e faceva lui cucina. Molte volte alla sera lo accompagnavo io dopo cena per le sue appendici lavorative. Nell’andata e nel ritorno (passavamo sempre tutta via Luccoli) parlavamo. Il suo parlare, mai prolisso, mai pettegolo, sempre buono e saggio nelle osservazioni sulle cose più elementari, era la grande scuola di educazione per me. – Quando aveva un po’ di tempo andava a qualche sacra funzione. Era caratteristico: la domenica si leggeva la Settimana Religiosa dalla prima all’ultima parola (per lunghi anni la lesse a mezza voce in modo che si potesse intendere anche noi), imparava a memoria l’ultima pagina, quella del calendario delle sacre funzioni in tutta Genova e in tal modo sapeva come impiegare tutti i ritagli di tempo nella settimana, oltreché nei giorni di festa. A due anni cominciò a portarmi con sè e così accadde che io, prima di andare a scuola conoscessi tutte le principali e non principali Chiese di Genova, tutti i predicatori, allora in uso, tutti gli addobbi, tutti i parati. Per quella esperienza molti anni dopo, nella mia prima visita pastorale in Città, fui in grado di chiedere che cosa ne era stato di quei candelieri, di quelle pezze da addobbo, di quei parati, di quell’ostensorio. Ero divertitissimo di vedere la faccia meravigliata dei Parroci. Poi spiegavo la cosa e tutto diventava naturale. Ma fu così che in taluni posti poterono ricuperare parati preziosi, nascosti e dimenticati durante la guerra. Nessuno pensi che in tutto questo ci fosse della costrizione: ero io che volevo andare, perché stare con mio padre mi dava il senso della protezione assoluta, perché da lui emanava, irradiava, qualcosa che, senza svelarsi avvinceva e poi perché tutte quelle cose di Chiesa mi attraevano indicibilmente. Fu così che mi trovai prete, come se ciò fosse per me l’unica cosa possibile e desiderabile al mondo. E’ passato ben più di mezzo secolo e non ho da cambiare giudizio. Tutto fu così semplice, naturale ed onesto. Non so perché, ma in tutta la mia vita mai presi gusto a nessun divertimento, che fosse diverso dal camminare e dall’inerpicarsi e pertanto non ebbi mai difficoltà e merito di lasciare qualsiasi sorta di divertimenti, anche se talvolta giocavo, con poca passione, coi coetanei che mia madre mi permetteva. Rivedo quelle passeggiate serotine, appeso alla mano di mio padre. Ricordo benissimo i Vespri Pontificali del giorno dell’Immacolata, celebrati da Mons. Pulciano: avevo due anni e mezzo e mi godetti la scena e lo sfarzo al punto che ancor oggi sono in grado di ricordare i più piccoli particolari di quella cerimonia. Mi colpiva l’ondeggiare del pastorale dell’Arcivescovo che andava e veniva. Io ero a cavalluccio delle spalle di mio zio Romeo, che ci aveva accompagnati. Finita la funzione spingemmo tanto da arrivare in sacristia a vedere l’Arcivescovo che si toglieva il camice. Quella figura per me non si è mossa mai più dalla mia mente. Con papà rividi, credo a quattro anni, l’Arcivescovo sulla scalinata di San Lorenzo; credo fosse per la Processione delle Ceneri di San Giovanni Battista. Lo rividi morto sul cataletto nel Salone dell’episcopio; mio padre mi portò lui a vederlo, dicendo che se fosse stato per un altro, non avrebbe condotto un bimbo di cinque anni a vedere un morto, ma si trattava dell’Arcivescovo . . . Rividi intatte e perfette quelle venerate spoglie 55 anni dopo, quando nel marzo del 1966, le tolsi dal Chiappeto e le riportai in San Lorenzo. La valutazione delle cose ecclesiastiche, la gioia della Liturgia, il massimo concetto della autorità della Chiesa, il modo di vedere tutte queste cose dall’angolo esatto ed amorevole sono il frutto dei pii pellegrinaggi fatti con mio padre. Quando nel 1910 fu inaugurata la nuova Chiesa del Sacro Cuore in Carignano, avevo quattro anni, ero presente e ricordo tutti i particolari della cerimonia. Mi ci aveva portato papà. Ora capisco che l’atmosfera creata da quell’uomo saggio e lungimirante mi ha risparmiato il peggio di taluni problemi e mi ha semplificata la vita. – Per lui c’era evidentemente un punto vuoto, nel quale secondo lui “non operava”; era il tempo “di andare e venire”. Suppliva così; teneva in mano la corona del Rosario e lo diceva in continuazione. – Questa è stata la vita di mio padre lavoratore. – Non ricordo che sia mai entrato in un bar (entrava solo nella gelateria di via Orefici, per comperarmi a titolo di premio un gelato, cosa che non era però frequente, perché lui non voleva farmi prendere vizi), mai allora andò al cinema, al teatro … Se conobbe un cinematografo dovette aspettare a conoscerlo in qualche sala parrocchiale, già vecchio. Fu, credo, nel cinema di San Fruttuoso dopo che i miei genitori andarono ad abitare nel loro appartamento di Via Giovanni Torti, 26. – Fu sempre come l’ho descritto, senza un lamento, senza una recriminazione, sereno sempre, dolce. A lui bastavano il Signore e tutti noi. Non finiva però qui. – Ogni tanto scompariva per assistere o curare qualche ammalato, per vegliarlo di notte, così il quadro è completo. Moltissimi anni dopo seppi da un egregio professionista, già Presidente Diocesano della Gioventù di Azione Cattolica che dopo l’estenuante lavoro per molto tempo andava nel chiostro delle Vigne a piegare le copie di “Azione Giovanile” per la spedizione. Era quello che poteva fare, ma a noi non disse nulla. Di questa vita niente è caduto in terra! – A questo punto debbo parlare di mia madre. Non ho conosciuto matrimonio più completo e da ragazzo ero perfettamente convinto che la nostra fosse la famiglia più felice. Io ero nato nel 1906 dopo poco più di un anno di matrimonio. Mia sorella nacque cinque anni dopo nel marzo 1911. Questa unità perfetta fino alla morte, si fondava sulla grazia di Dio, sulla virtù e sulla intelligenza. – Mia madre era un tipo unico. Vivacissima, ardita, di una intelligenza che colpiva e che le permetteva – a lei ricca solo della istruzione elementare – di tenere decorosamente la conversazione con chiunque. Aveva il senso della dignità e ne aveva un singolare prestigio. Retta, generosissima, aitante, era l’umorismo in persona. Riempiva lo ambiente; senza paure e senza complessi, di tutte le cose vedeva sempre anche il lato comico e lo sapeva sfruttare. Aveva la tempra da generale e spesso il piglio e l’accento. – Un giorno un ladro, io potevo avere cinque o sei anni, le rubò un cappotto steso a prendere aria. Ebbe il fegato di rincorrere il ladro, si associò per via una guardia municipale trovata a caso, tra tutti e due acciuffarono il reo e lo portarono in Palazzo Ducale, dove allora aveva sede la Questura. Ecco la conclusione: quando chiesero a mia madre se intendeva sporgere denuncia, essa guardò a lungo il malcapitato ladro. Gli disse: “avevi fame, vero, poveretto?” Gli spuntarono due lacrimoni, perché era vero; ella aprì il borsellino e diede al ladro uno scudo d’argento (si pensi al valore di allora) dicendo: “prendi e va a mangiare; ma non rubare più”. Volta agli ufficiali disse: “Non faccio alcuna denuncia. Non vedete che ha fame?”. I due, mia madre col cappotto recuperato sul braccio e il ladro uscirono insieme. – Mia madre, quando poteva, cantava sempre ed aveva una voce bellissima. Lei scioglieva tutte le questioni, per sé e per gli altri, aveva il tono e il piglio della gran signora e imperava con estrema naturalezza. Nel quartiere – e si trattava di una piazza ed alcune vie – lei era la donna più celebre e quando succedeva qualcosa, per mettere in pace dei litiganti, per malati improvvisi, soccorsi d’urgenza, liti in famiglia, la cercavano continuamente. Poi a raccontare l’accaduto era uno spasso, perché in casa a noi ripeteva la scena colle stesse parole, imitando tutti i gesti e tutte le voci. Naturalmente senza ombra di dileggio o di disprezzo. La sua personalità era talmente forte nell’ambiente, che una parte dei bottegai non mi chiamavano col mio nome, ma semplicemente Giulietto, perché davanti a tutti io ero solo un riflesso di mia madre. Senza mai diventar volgare nel linguaggio, sapeva farsi rispettare. Era il carattere opposto a quello di mio padre. Si sarebbe avuta l’impressione che a comandare in casa fosse lei. – Mio padre era felice che si credesse così da tutti, non ebbe mai una parola per rimproverare la mamma, amava riconoscere umilmente che sua moglie era più intelligente di lui. Guardava, ascoltava tutto con quella sua faccia seria o atteggiata a un leggero sorriso dolcissimo e tutto era a posto. Egli accettava di essere pienamente integrato dalla moglie. Oggi valuto quella umiltà paziente e saggia e non posso spiegarmela che con un grado non comune di virtù. – Però non è a credere che lui scomparisse. Tutt’altro: mia madre la luminosità, il brio, l’apparenza del comando li scaricava su di lui. In più mio padre, sebbene partisse più lento e con minore manifestazioni pittoresche di sua moglie, aveva un vantaggio su di lei: una incredibile pazienza e una singolare costanza. Dolcissimamente finiva coll’avere ragione lui, dove sapeva di doverla avere e i due filavano benissimo. Anche perché quando non ne valeva la pena, papà saggiamente non ingaggiava la tenzone e lasciava che le cose si dipanassero da sé. Non era stupida remissività; era rara saggezza. – Mia madre era munifica, papà si preoccupava dell’andamento di casa e del domani serenamente. Ma le cose erano poi sempre d’accordo. – Voglio richiamare alcuni punti di questa singolare ed esemplare convivenza dei due coniugi. Si trattava della nostra educazione. Era terreno sul quale potevano sorgere contrasti, che non sorsero invece mai. – Mia madre aveva con me una maniera forte. Fece benissimo e credo che se non l’avesse usata sarei diventato un delinquente. Di manrovesci ne ho presi a non finire, tutti i ramoscelli diritti del nostro piccolo giardino finivano regolarmente sulle mie gambe; quando di trappette non ce n’erano più, prendeva il battipanni. Ero vivacissimo e bisognava pure che imparassi per tempo a sapermi contenere. Oggi ci sono altre teorie. Io so che quella di mia madre andò benissimo per me. Un giorno – avevo sette anni e facevo già la terza elementare, — fui pigro ad alzarmi e tutto venne spostato. Mia madre capì che sarei arrivato tardi a scuola (la Descalzi di Via Vincenzo Ricci). Venne ad accompagnarmi lei per darmi una lezione, sapendo che la porta sarebbe stata sbarrata. Quando fummo davanti a tale porta mi prese per il colletto, mi sollevò, mi fece toccare la porta poi mi sculacciò per la strada davanti a tutti. Io morivo di vergogna per la mia dignità offesa. Mi intimò di marciare davanti a lei; ogni tanto si fermava e mi dava, davanti a tutti naturalmente, un paio di schiaffi. Così fino a casa. Se ancor oggi io ho il pallino della puntualità lo devo a mia madre. I discorsi me li faceva mio padre, le busse me le dava mia madre. Non ci fu mai un contrasto: si erano divisi la parte. Ed in mia madre era saggezza. Infatti con mia sorella, minuta, timida allora ed emotiva, ebbe sempre un sistema diverso. Mia sorella non la toccò mai in tutta la vita, la esercitò invece pazientemente in tutto quello che sarebbe valso a fugare il complesso della timidezza e ci riuscì. – Così sull’argomento i due andarono sempre d’accordo; nessuno intralciò l’altro e si completavano a vicenda. Mio padre vedeva lontano e lasciava fare tutto quello che intuiva utile ai suoi figli. Non fece mai prediche; mi intratteneva solo in quel saggio conversare, dosato, da amico perché sapessi giudicare rettamente delle cose e perché non avessi da inciampare malamente – già seminarista – negli scogli della adolescenza; ma fu discretissimo. E poi c’era il suo esempio. – Ricordo un episodio che fu per me fondamentale. Un giorno mi diede i soldi per prendere il tram, andata e ritorno, credo per fare una commissione. La feci e ritornai. Mi ordinò di ripartire; stava per darmi i soldi occorrenti alla corsa. Io dissi: “Papà, ho ancora il biglietto di ritorno buono, perché per la calca il bigliettaio non è arrivato a forarmelo”. Mi guardò: “Dammi quel biglietto; vedi, non ha importanza che non te lo abbia forato; tu hai goduto della corsa pagata da questo biglietto. Non puoi più servirtene”. E lo ridusse in pezzi piccolissimi. – Ritengo di dovere riportare integralmente il profilo che fa mia sorella. “. . . Sopportava con pazienza tutte le piccole contrarietà della vita, commentando le situazioni con un sorriso a fior di labbra e con quel suo caratteristico muovere lento del capo; non giudicava mai le apparenze, non criticava mai l’operato altrui. Se talvolta lo sollecitavo a farlo, mi guardava diritto negli occhi e mi ammoniva: non dire mai niente di nessuno, se non puoi dirne bene! Quando alla sera rientrava a tarda ora dopo una giornata de estenuante fatica (oh! quel cadenzato passo, che la stanchezza rendeva lento e strisciante sulle selci!), io gli correvo incontro e ponevo la mia nella sua grande mano, che tutta l’avvolgeva. Egli vi imprimeva una leggera pressione – tacita intesa tra noi. Allora mi sentivo serena, tranquilla. Era stanca, ma serenamente mi faceva dire le mie preghiere, mi teneva compagnia finché il sonno non mi vinceva al monotono suono delle semplici filastrocche che a lui avevano cantato i fratelli maggiori quando era piccolo e – orfano della mamma – chiedeva ad essi tenerezza ed affetto. Per tutta la vita portò il segno di quella carenza affettiva: raramente l’ho sentito ridere a gola spiegata. Più tardi ho ripensato sovente a tutto questo ed ho capito che egli con l’esempio mi insegnava a non far pesare sugli altri le diuturne, piccole, estenuanti difficoltà della vita”. – Mia sorella riassume così il profilo, nella vita familiare, che poté godere fino al momento del suo matrimonio, mentre io ero in Seminario: “La sua vita si può compendiare in tre parole: Religione, lavoro, pazienza”. “La Religione la manifestava colle azioni della giornata: al mattino con la Santa Messa e la Santa Comunione, al pomeriggio con la recita del Rosario e a sera con la frequenza alle funzioni nelle principali Chiese”. – “La Signora Maria Varallo, madre di Suor Ginevra, Superiora Generale dell’Istituto Ravasco, amava raccontare in proposito, che più di una volta si era trovata con mio padre prima delle 5,30 alla porta della Basilica dell’Immacolata ad attendere che il sagrestano aprisse le porte. – Continua mia sorella: “Pochi e pacati erano i consigli espressi in semplici parole; essi però tradivano un imperativo categorico su precise norme di vita che nulla concedevano all’equivoco e alla evasione… Tutte le azioni della giornata denunciavano chiaramente l’abbandono alla Divina Volontà. In lui tale virtù era consapevole, perché derivata dalla sicurezza che “tutto era a fin di bene”, perché la volontà di Dio “non poteva portare il male”. Non tralasciava nessuna fatica, anche la più umile e modesta, incurante di un falso amor proprio; che fa sembrare disonorante un povero lavoro. Era attento, metodico, preciso ed ordinato nella sua modestia schiva di elogi… La pazienza, unitamente alla dolcezza del suo carattere, arricchite da una congenita saggezza, lo facevano sovente confidente, quasi confessore ed arbitro in situazioni difficili. Col suo semplice modo di esprimersi, quasi scusandosi del suo modesto parlare, riusciva stranamente con poche parole e chiarire le idee, a suggerire soluzioni”. – Un altro punto che poteva diventare una questione era la educazione religiosa: mio padre mi portava sempre con sé nelle chiese di Genova. Non sentii mai che mia madre sollevasse la più piccola obiezione. Alle feste era lei a portarmi a Messa, fino a che, divenuto chierichetto, andai in parrocchia quasi sempre da solo. – La carità fu la più grande lezione imparata a casa mia. Mia madre ne aveva per tutti. Se occorreva se lo levava, il cibo, dalla bocca. Lo spettacolo che vidi per tanto tempo in casa mia fu il seguente. I miei conoscevano molta gente. Allora, non vigendo un sistema di protezione e previdenza sociale come nel nostro tempo, erano frequenti i casi di persone che arrivate ad una certa età e perdendo il loro impiego, senza figli, venissero a trovarsi in vera e grave miseria. Ne ricordo con tenerezza un certo numero. Quando qualcuno di questi aveva fame – ed erano persone per bene – arrivavano da noi poco prima di mezzogiorno. Mia madre capiva subito, con una delicatezza suprema, dopo averli salutati, aggiungeva un posto a tavola e automaticamente si aveva un commensale in più. Io e mia sorella ci meravigliavamo quando non c’era nessuno. Papà vedeva, taceva, approvava. Fu la più grande educazione alla carità che io abbia avuto in tutta la vita. I due erano diversi, ma non ebbero mai a fare una parola sull’aiuto da dare al prossimo. Mia madre si occupava molto di parenti suoi, venuti a Genova. Fece loro tutto il bene ed era con loro molto severa quando occorreva. Quando morì mia madre si fece viva a poco a poco una quantità di gente che aveva aiutato, indirizzato, addirittura salvato. Noi ignoravamo quasi tutto. Quando morì mio padre accadde lo stesso. – I due non potevano essere tra loro più differenti, eppure non potevano essere maggiormente uniti. Nel 1934 lasciarono la portineria di Distacco piazza Marsala e si ritirarono in un appartamentino dello stesso stabile. Nel 1937 traslocarono – mio padre era stato nel frattempo pensionato – in via S. Ugo 8. Fu solamente a questo punto che, dopo una vita di strenuo lavoro, mio padre accettò di andare qualche volta in campagna. – I miei genitori andarono un anno a Rosano in Val Borbera, due anni a Vara. Poi fu la guerra accanita. Dopo, quando era con me in Episcopio, accettò solo negli ultimi anni della vita. Nel 1964 venne con noi a Trivero: aveva 90 anni. L’anno appresso venne pure con noi a Peveragno. Negli anni antecedenti restava in episcopio in compagnia del nostro fedele autista Ugo ed era felice, perché faceva lui la cucina, aggiustava tutto, faceva riparare quello che lui scovava e noi non avevamo visto. Ma, soprattutto aveva vicine le sue Chiese per la adorazione al Santissimo Sacramento.

IV.

LE GUERRE

Nel 1894 papà compì il servizio di leva. Allora era di due anni. Fu alpino e venne assegnato alla artiglieria di montagna. Trascorse quasi tutto il tempo nella provincia di Cuneo. Conservò sempre un ricordo sereno e quasi entusiasta di quel tempo; riandava compagni, superiori, situazioni e, a sentirlo lui, mai una noia, mai gente fastidiosa, mai alterchi, mai rimembranze relative alle facili miserie morali della vita militare. – Ora capisco che quella esperienza giungeva a noi filtrata dalla sua bontà e dal suo perfetto contegno morale. Non conobbe bruttura alcuna e questo negli ultimi anni lo disse ad un confessore, conversando, con sensi di piena riconoscenza a Dio. Per lui fu esperienza limpida. Ricordava tutto: nomi dei paesi, dei compagni, episodi. Quando a 91 anni venne in campagna con noi a Peveragno, volle rivedere tutti i luoghi della sua vita militare, Roccavione, Robilant, Vernante, Demonte, Vinadio, Cuneo. Era lieto come un bimbo (lo poteva essere!), portava il suo cappello da alpino, che il Sindaco di Peveragno gli aveva donato. – Venne richiamato per pochi mesi nel 1898 al tempo della considdetta rivoluzione di Milano, sotto il governo Pelloux. – La guerra di Libia nel 1911 non lo toccò. Quell’anno ci fu, disastroso, il colera. Papà restò solo a casa a lavorare e a badare a tutto. Mandò la mamma, mia sorella e me, nella casa della zia Annunziata sulle alture di Sestri. La casa era isolata: ricordo che non si faceva altro che far bollire roba per evitare il contagio. Papà, per non portarci il contagio, non venne mai lassù, a quanto ricordo. – Si arrivò alla prima guerra mondiale. Quando la guerra travolse anche l’Italia, nel 1915 papà aveva 41 anni. Quando le condizioni della guerra imposero il richiamo anche dell’ultima classe, mio padre riprese la divisa grigio-verde. Fu nel Gennaio 1917. Io ero entrato in Seminario al Chiappeto il 16 Ottobre precedente. Per prima cosa lo misero a fare il guardiano in porto. Fu un lavoro duro e pericoloso. Mia madre fu eroica: pensò a tutti, a me che ero in Seminario, a mia sorella che aveva sei anni, a mio padre che stava in porto. Come quella donna coraggiosa e indomita si facesse a passare le linee per portare a mio padre qualcosa di caldo da mangiare, non l’ho mai capito, ma conosco l’ingegno e le incredibili risorse di mia madre. Nell’estate il colonnello Dogliotti chiese mio padre come piantone del suo ufficio sito in piazza del Carmine. Il Colonnello era molto buono ed umano; aveva l’arte di evitare le severità inutili: mio padre poteva venire, qualche poco, ogni giorno a casa. Io andavo da lui spesso. Non lo vidi mai alterato, agitato, rammaricato. Aveva la Chiesa del Carmine a due passi e la frequentava continuamente, appena poteva. Con lui tutto, nella sua mite serenità diventava normale, anche se la guerra era dura. Finì. – Nel 1940 la nostra Patria si trovò una seconda volta in guerra. Mia sorella era sposata da sette anni. I miei genitori abitavano nella loro casa di via Giovanni Torti. Il 22 ottobre 1942 Genova che, ad eccezione del bombardamento navale del 9 febbraio 1941, non era mai stata gravemente disturbata, si trovò improvvisamente sotto i bombardamenti a tappeto. I miei genitori, quando potevano, si rifugiavano in una galleria, ma non volevano allontanarsi. Tentai un giorno di portarli a Campomorone. Non vi stettero neppure quarantotto ore. Una mattina in cui io andavo dal Seminario a vedere che ne era della nostra casa, trovai le finestre spalancate e capii che erano ritornati. Pensai allora di accettare l’offerta gentile fattaci con tanta spontaneità dai Signori Adamini e l’11 novembre, con un viaggio che parve una odissea, li condussi nella loro casa di Montalto Pavese. Erano sulla collina, erano fuori dei probabili insulti bellici; non erano difficili i rifornimenti. In seguito dalla casa dei Signori Adamini passarono alla canonica, dove avevano affittate alcune stanze libere. Li indussi a tornare prima della fine della guerra sulla fine d’inverno 1945 e li sistemai a Fontanegli, posto sicuro e vicinissimo, perché capivo bene che quando la situazione fosse precipitata da quelle parti sarebbero stati vicini attacchi frontali o – più probabilmente – ritirate rovinose. Comunque non ci sarebbe stato per qualche tempo il contatto con Genova. Nel frattempo dal 7 maggio 1944 io ero Vescovo Ausiliare di Genova. – Ma prima che l’esilio si concludesse, accadde qualcosa, mia madre si era rotto un piede ed accorsi; non ero ancora legato al mio ufficio di Ausiliare. – Il 7 luglio 1944 il Cardinale Boetto mi mandò alla Guardia l’ordine di fuggire e nascondermi: era decisa la mia sorte; il meno che mi sarebbe toccato era l’internamento in campo di concentramento in Germania. Con un viaggio pieno di peripezie riparai nei monti liguri presso il mio antico compagno di scuola don Reggiardo. Ebbi la avvertenza di dire a nessuno che mi nascondevo, di spargere invece la voce che stavo male di nervi e mi ritiravo per un periodo di assoluto riposo in campagna. A Carsi Ligure, dove mi rifugiai, mi guardai dal dire a chicchessia che ero fuggito. Tappai la bocca a due miei alunni che stavano lassù sfollati e che capirono subito perché era necessario il silenzio assoluto. Infatti se io avessi detto qualcosa a chicchessia, sarebbe stato riferito a Radio Londra, questa lo avrebbe fatto sapere a tutto il mondo ed io non avrei potuto più scendere a Genova a fare il mio dovere accanto al Cardinale Boetto [A Genova, il comandante tedesco aveva dato l’ordine di bombardare il porto prima della ritirata, per far poi distruggere la città. Grazie ai continui sforzi ed ai suoi rapporti con il comandante Cattolico, Siri riuscì a convincerlo a non bombardare la città. In realtà furono le forze americane che, avanzando per liberare Genova, bombardarono la città. –n.d.editore-]. Secondo i miei calcoli gli eventi bellici prendevano una piega che avrebbe tolto a tedeschi e italiani la voglia di occuparsi di me. Allora sarei ritornato. Stetti a Carsi venti giorni e nessuno mi riconobbe, poi di notte mi trasferii con un viaggio assai avventuroso al Santuario della Guardia dove rimasi a lungo. – Furono due mesi e mezzo di assenza. Ai miei genitori scrivevo impostando in località differenti. Qualcosa, non so come, seppero e la loro angustia fu grande. Per otto mesi non li vidi: infatti per recarmi a Montalto Pavese mi sarebbero occorsi tre giorni ed io non potevo abbandonare il mio posto per questo grave ed agitatissimo periodo. Fu soltanto nel Gennaio del 1945 che il mio caro e sempre compianto amico Malcovati, coraggiosamente mi portò a Montalto Pavese per rivedere i miei. Di là partimmo a girar la Lombardia tra neve, ghiaccio ed attacchi aerei a cercare da mangiare per la città di Genova. – A fine Febbraio 1945 era chiaro, ormai, che la guerra avrebbe durato poco. Pensai di portare nei dintorni immediati di Genova i miei Genitori. Infatti nella pianura padana e nelle colline adiacenti i fatti bellici avrebbero potuto travolgere, se non fosse intervenuta la vittoria degli Alleati in Francia, anche la collina Pavese. Per questo portai via i miei Genitori e li trasferii a Fontanegli in alcuni ambienti presi in affitto. Là attesero – e fu breve l’attesa – la fine della guerra. – Tutte le vicissitudini mio padre le prese come cose del tutto ordinarie: “così permetteva il Signore e basta!” Le vicissitudini significavano disagi anche notevoli. Ma la serenità era più forte: la preghiera e le opere buone stavano anche nel disagio. Era tutto per lui.

V.

IL GIUSTO

Il giusto non è un attore. La sua giustizia sta dentro. Mio padre parlò per la gran parte della sua vita assai poco di se stesso: gli era congeniale sentirsi all’ultimo gradino davanti a Dio. Per questo motivo noi abbiamo sempre per tanti anni saputo assai poco della vita interiore. Ci erano chiare le sue opere: mai lo abbiamo udito dir male di qualcuno, mai riferire pettegolezzi, mai azzardare giudizi duri e spregiudicati. Tutto questo ci portava a concludere sulla sua straordinaria capacità di controllarsi e vedere equilibratamente le cose. Quando qualcuno nella conversazione tendeva a condannare altri, lui era, sempre con discrezione, l’avvocato difensore: voleva si vedesse il bene che c’era e così stornava la attenzione dal male. Vedevamo la sua serenità abituale e fu per noi talmente abituale che non pensavamo al poderoso supporto che una serenità richiede. – Fu negli ultimi due decenni della sua vita che cominciò a parlare di sé, non con noi ma, per averne consiglio, con alcuni rispettabili Religiosi che egli frequentava e che lo visitavano. Così abbiamo conosciuto il più della sua vita interiore. La preghiera, quella orale la vedevamo, la sua assiduità alle opere di pietà era chiara. Soprattutto la perfetta assenza di ogni interesse mondano. Ho già avuto occasione di dire che egli non frequentò alcun divertimento, mai, che “mai” mostrò interesse o desiderio a passatempi mondani, talvolta amava la conversazione con vecchi amici, coi nostri parenti e intorno a questi era curioso di sapere tutto. Non era la curiosità leggera, era una forma di affetto. Quello con cui si apriva meno ero io. La riverenza portata sempre al figlio Sacerdote e poi Vescovo lo faceva chiudere in un pudico silenzio. A ragionarci su, in taluni momenti, il suo comportamento doveva rivelarci una solidità interiore. Quando fui fatto Vescovo, né si commosse, né si alterò; a me disse solo “avrai da fare” e tutto finì lì. Quando venne la notizia della mia elevazione al Cardinalato, gliela comunicai io, avendolo incontrato nel salotto dove tutti ci radunavamo in qualche momento della giornata. Non si scompose, solo mi fece una leggera carezza dicendo: “Povero figlio, adesso avrai da partire di più”. Detto questo, se ne ritornò in camera, poi venne a pranzo e non si parlò più di nulla. Era per lui un giorno come un altro. Siccome aveva allora già 79 anni e si era di Gennaio io ritenni più prudente non si esponesse al freddo ed ai bruschi cambiamenti di temperatura degli ambienti romani. [La parola “ambienti” potrebbe pure assumere altri significati, ad esempio: “circoli e ambienti politici”, probabilmente indicando pure gli sconvolgimenti in corso in Vaticano. L’anno sarebbe il 1953 – n.d. ed.]. Dissi che se ne stesse a Genova tranquillo. Quando ritornai diede una semplice occhiata ai miei abiti rossi e tutto finì lì. – Ma con altri, a poco a poco parlò. E questi, lui morto, misero in iscritto quanto avevano saputo, ciò facendo di loro iniziativa. E fu svelato il mistero di una vita tanto coerente, rettilinea, semplicissima, umile, probabilmente perfetta. – La unione con Dio era durata, nell’animo di questo orfano, tutta la vita. Tale unione era la ragione della sua inalterabile pazienza, della incredibile dedizione al lavoro, senza soste, senza ferie mai, senza requie, senza lamenti. – In questa unione mantenne sempre l’anima in grazia di Dio. Novantenne gli scappò di dire che né da ragazzo, né da giovane, né mai, si era macchiata l’anima di peccato mortale: era entrato nella età dei patriarchi colla stola battesimale. – Aveva la preoccupazione della perfezione nelle più piccole cose. Un giorno gli parve di non aver lavorato tanto da meritare il salario; prolungò di qualche ora il suo lavoro e così fu soddisfatto. – Questa precisione interiore di assoluta aderenza alla Legge di Dio riluceva dall’esterno: per tutta la vita ebbe una proprietà che ha impressionato tutti. Ne dovrò riparlare.

Il saggio svelava il giusto.

Non era di molte parole e raramente nella conversazione si animava. Ogni parola era per lui una questione di coscienza ed usciva dalla sua bocca dopo essere stata accuratamente ponderata. I fatti in lui assumevano una dimensione interiore, che durava lungamente, ma che gli permetteva talvolta al momento di dare la indicazione succinta, saggia, esauriente. – A nove anni io avevo già ottenuta la maturità (così si chiamava allora) elementare e perciò diventavo capace di adire alle scuole medie. Una sera dissi a mio padre – e non doveva essere una cosa nuova per lui che da sempre mi stava discretamente osservando – che mi sarei fatto prete e volevo entrare in Seminario. Mi disse semplicemente: “Hai nove anni, capisci quello che vuoi? E’ una cosa grave essere Sacerdote. Pensaci bene”. Risposi: “Sì, papà” e il discorso finì lì. In casa si era parlato di mandarmi alle tecniche in via Vallechiara dove insegnava scienze il buon canonico Morelli dell’Immacolata. Poi si convinsero che ero troppo piccolo per mandarmi con quei ragazzi, tutti più grandi, più adulti di me e spesso maleducati e maneschi. Così sentii dire. Si finì col mandarmi a fare in qualità di “uditore” la quinta elementare nella mia cara scuola “Descalzi”, dove incontrai il primo ed unico maestro dal quale sentii parlare di DIO! Era il signor Marcer, un veneto esemplare, col quale rimasi in comunicazione fino al termine della sua vita. Ricordo il vecchio ottuagenario che talvolta passava da me in Arcivescovado e che io riaccompagnavo a casa colla nostra macchina. – Passò l’anno. Al principio dell’estate io feci a mio padre questo semplice discorso: “Papà, ci ho pensato e sono ben deciso: voglio entrare in Seminario”. Mi disse: “Ci hai pensato davvero? Ebbene allora va”. E la partita fu chiusa. Mia madre non fece obiezioni. Ricordo quando mio padre mi portò dal Prevosto per dirgli della mia decisione. Fummo ricevuti nella grande sala della canonica dell’Immacolata. Ricordo esattamente il posto in cui ci sedemmo: fu cosa presto intesa. Del resto all’Immacolata, che era la mia seconda casa e dove io fungevo da capo dei chierichetti, capivano tutti che non potevo aver altra strada davanti a me. – La saggezza che lo rendeva uomo di consiglio per tutti, invocato e rispettato era la irradiazione di tutta la vita interiore. Non che questa fosse sempre facile e tranquilla: ebbe momenti di dubbio, ebbe periodi dolorosi di scrupoli e questo me lo disse lui quando mi parlava della sapienza e decisione con cui il suo confessore d’allora, Mons. Marcello Grondona – il mio grande parroco – glieli aveva curati. In età avanzata con qualche sacerdote parlò di periodi di tentazioni e persecuzioni morali fattegli da altri. Egli non declinò mai minimamente, e lo disse, perché aveva in mano sempre la sua grande arma: la preghiera. – Il controllo suo sulle parole quando riguardavano il prossimo era assoluto e non ammetteva infrazioni di sorta. Quando in casa dal di fuori arrivava qualche pettegolezzo, con un gesto che gli era abituale – una piccola sventolata di mano – accompagnata da un piccolo sorriso, disperdeva il discorso e tutto restava lì. Quanto sia stato un giusto lo vedremo nei capitoli che seguono e in un tempo in cui, morta la nostra mamma, non fummo solo io e mia sorella ad essere i testimoni della sua ordinatissima, ferma, serena e mite vita spirituale.

VI.

L’APOSTOLATO

Pensava sempre all’anima e alla salute eterna di quanti avvicinava. Noi abbiamo visto solo qualcosa di quello che ha fatto. Fu lui ad occuparsi di persone amiche perché ricevessero gli ultimi Sacramenti prima di morire. Li preparava lui. Come si facesse a persuadere certa gente io non lo so, perché io non assistevo mai alla scena, ma lui ci riusciva. – Era specialista per l’apostolato della Messa Domenicale; quanta gente ha portato a Messa quest’uomo che, per farla sentire agli altri, sentiva più Messe la festa! Ricordo che per parecchi anni ebbe la costanza di accompagnare un cieco. Si trattava di un vero miscredente, ma fu tale la pazienza con cui lo accompagnava a passeggio, furono tali i discorsi, che il pover’uomo accettò di cominciare a fare il cristiano e dovette a mio padre una fine serena, completamente illuminata dalla grazia di Dio. Fu solo per questo caso che mio padre una volta mi accennò alla gratitudine dimostratagli dal paziente prima di morire. – Il servire caritatevolmente gli altri in tutto, con l’arte di nascondere a noi, la sua preoccupazione per la loro salvezza irradiò da mio padre in modo che non posso chiamare ordinario.

Nascondeva.

In tutti gli anni in cui io stetti in Seminario, seminarista, professore, Vescovo e cioè dal 1916 al 1948 quando egli venne ad abitare con me dopo la ricostruzione del palazzo arcivescovile, io non potei molto osservare mio padre: vivevo fuori di casa. – Un giorno con don Mino andò a visitare l’Ospedale Gaslini ed ecco la scena rivelatrice che accadde. Fu condotto al secondo piano del reparto poliomielitici di lunga degenza, privi solitamente di visite familiari e per questo desiderosi di conversare con qualcuno. Papà si sedette in mezzo alla corsia: immediatamente una dozzina di bambini gli fu intorno ed egli li trattò con tanta dolcezza ed amabilità che gli si strinsero sempre più addosso; uno si rifugiò tra le sue braccia. Chiese loro notizie del loro papà e della loro mamma, si animò, rispose a tutte le infantili domande che i bimbi gli ponevano e seppe avviare tutta quella conversazione sulle verità del Catechismo. – Quelli che erano presenti dissero di avere ascoltata una meravigliosa lezione di Catechismo. I bambini andavano a gara nel dimostrargli che sapevano questo e quello della Religione, si entusiasmarono talmente che l’incontro rischiava di non finire più e dovette intervenire il Vicario dell’ospedale per interromperla, ché si era fatto ormai tardi. Si allontanò promettendo che sarebbe tornato. Chi era presente non si capacitava –e me lo scrisse – della forza di attrattiva e di comunicazione che, con tanta semplicità aveva il buon vecchio. Questa osservazione fu fatta molte volte da testimoni seri. E non sapevano che quel vecchio non era neppure andato a scuola ed aveva imparato a leggere e a scrivere da un vecchio sacerdote di Gameragna! – Io ho visto troppo poco di mio Padre, ma da quel che ho visto posso dedurne che il Catechismo doveva averlo insegnato a qualcuno tutta la vita. – Fece parte della Associazione Uomini di Azione Cattolica, perché questo gli sembrava un dovere indiscutibile: la Chiesa voleva così e non c’era niente da dire, bisognava fare così. – Alla Azione Cattolica mi ci portò lui. Ho ancora presente una sera del lontano ottobre 1914. Mi portò al Circolo parrocchiale della nostra parrocchia, fece la iscrizione, mi lasciò là e se ne andò. Ho conservato per molti decenni quel libretto di iscrizione dove erano segnate tutte le quote versate. In esse le mie quote si fermavano al mio ingresso in Seminario. Quella sera non c’era bisogno mi presentasse all’Assistente Canonico Enrico Ravano; mi conosceva perché da tempo ero chierichetto in parrocchia. – Ma dove egli era al suo posto più intimamente era il Terz’Ordine Francescano. Faceva parte della Congregazione del Terz’Ordine presso i Cappuccini del Padre Santo. Non mancò mai ed era esemplare il suo contegno. Quando fui in età di capire qualcosa di un Terz’Ordine, portò anche me e mi ascrisse. Tutte le domeniche ascoltava le pie esortazioni che taluni Confratelli più letterati facevano. A casa ripeteva tutto quello che avevano detto. Il compianto onorevole Antonio Boggiano Pico, che faceva parte della stessa congregazione del Terz’Ordine, finché visse mi parlò sempre della edificazione avuta da mio Padre. Mio Padre mi diceva della edificazione avuta da Lui. Lo stesso accadeva con l’Avv. Giuseppe Sciaccaluga. Noi si seppe niente, perché la regola di quest’uomo, forse la più eroica, era di nascondere tutto il bene che operava, ma credo di non essere stato il solo a venir portato al Terz’Ordine da mio Padre. Per San Francesco aveva una ammirazione ed una devozione particolarissima. – Ma c’è un altro aspetto del suo apostolato: quella di tacito e convinto sostenitore di quanto operava mia madre. Questa donna instancabile e generosa trovava modo di occuparsi di tutti nell’anima e nel corpo. Aveva un stile suo, completamente diverso da quello di mio padre. Ma tutto questo mette in risalto la sua silenziosa virtù. Sempre approvazione, consenso, incoraggiamento, riservandosi magari le parti più umili e meno appariscenti. – Non era contrario per noi ragazzi a qualche dosato passatempo. Io avevo licenza di frequentare il Cinema di Santa Marta ogni domenica. Era una appendice dei “Catechismi di Perseveranza”, magnifica opera fondata dal buon Canonico dell’Immacolata Mons. G. B. Pedersini. Ci potevo andare perché era provatamente serio quel cinema e perché finiva dieci minuti prima delle 16, tempo in cui cominciava il Vespro in Parrocchia. Guai se avessi mancato e, di fatto, non mancai mai perché scomparivo subito, sgambettavo per piazza Corvetto e via Assarotti ed alle 16 ero sempre in coro con i Canonici. Vorrei dire che da quel coro io non sono mai uscito in tutta la vita. Sono spiritualmente rimasto là. Mentre non era con me in chiesa, lui era certamente ad assistere qualcuno. – La conversazione, qualunque conversazione, appena poteva la indirizzava a cose più serie, più alte, più religiose. Non era pedante in questo, ma con quel suo fare mite, mai irruento, tranquillo, intercalato di silenzi eloquenti, ci riusciva. Ascoltava volentieri e sapeva ascoltare, dimostrando interesse anche quando quello che si diceva non poteva arrecargli alcun divertimento o sollievo. Anche tacendo quel suo bel volto atteggiato ad un sorriso appena abbozzato era per se stesso un animatore di quando si era insieme. La sua presenza, discreta, serena, tranquilla, non pesava mai. – A un certo momento quando l’età non gli permetteva di fare quello che faceva prima, il suo apostolato prese una altra direzione: col Rosario sempre in mano, colle frequenti e talvolta interminabili visite al Santissimo Sacramento, aiutava il lavoro apostolico di suo figlio. Il quale, su questa terra, non saprà mai quanto venga a lui e quanto vada a suo padre.

VII.

NEL PALAZZO ARCIVESCOVILE

Quando il 16 maggio 1946 cessò il segreto sulla mia nomina ad Arcivescovo di Genova, approfittando del fatto che solo in tarda serata giornali e radio ne avrebbero data notizia, uscii, per andare a pregare la Vergine nella mia Basilica dell’Immacolata. Per strada incontrai don Cicali, che mi accompagnò per un tratto. Poi presi il tram e me ne andai a San Fruttuoso per dare io la notizia ai miei Genitori. Poche parole, non si meravigliarono molto, non persero la serenità e si decise che quando fosse stato ricostruito in parte il palazzo arcivescovile, sarebbero venuti ad abitare con me. – Ci furono due anni di attesa. In questi due anni, la mamma morì e non ebbi la gioia di accoglierla ed assisterla in casa mia. Dopo la morte della mamma, papà restò ancora per nove mesi nella nostra casa di Via Giovanni Torti. La sera del 3 dicembre 1948 ci ritrovammo insieme nel palazzo arcivescovile. Da allora ho potuto seguire mio padre tutti i giorni. – Eravamo a corto di mobili, perché i pochi della casa paterna e quelli ancor più pochi delle mie due camere in Seminario non bastavano certo ad addobbare un palazzo. Ebbi il principio, con mio padre pienamente consenziente, di non fare alcuna spesa e di tirare avanti. Quando c’erano ancora tante vittime della guerra e tanti sfollati, non potevo certamente spendere danaro per me. L’avessi avuto! Un caro e vecchio amico venne un giorno a trovarmi e passando con me in una sala dell’episcopio dove non c’era neppure una sedia, mi chiese se non pensavo di arredarla. Gli risposi che finché ci fossero stati poveri a Genova, io, Vescovo, non potevo comperarmi dei mobili. L’amico – era il Comm. Luigi Frugonel – non disse niente, ma il giorno dopo, togliendoli dalla sua ricchissima collezione, mi mandò i mobili splendidi per addobbare quella sala. – La nostra vita in Arcivescovado cominciò così all’insegna della più autentica povertà. Con papà c’era don Mino, il mio compianto e indimenticabile segretario. A poco a poco la carità dei buoni diede all’arcivescovado una sistemazione decorosa. – Avevo portato la vita ordinaria e di famiglia all’ultimo piano, dove il servizio restava facilitato e dove avevo ridotto i solai ad abitazione. Ci siamo ancora oggi. Al piano nobile si scendeva e si scende solo per le udienze e le cerimonie. Gli ambienti grandi non mi sono mai piaciuti. Papà – allora andava verso i settantacinque anni – occupava la camera che oggi è del segretario. Quando l’età più greve imponeva di non lasciarlo solo nelle nostre frequenti assenze (erano intanto venute le suore di Santa Serafina a prendersi cura di noi e dell’arcivescovado) traslocò sul confine dell’appartamento delle Suore, dove aveva anche, con immediato accesso, un piccolo e fresco terrazzo. – Mi riesce veramente difficile dire che cosa abbia rappresentato per tutti noi la presenza di questo vecchio straordinario. – Mai imbronciato, mai duro, si illuminava chiunque incontrasse. Andava in punta di piedi, silenziosamente. Non voleva dare fastidio a nessuno. Nei primi anni insistetti perché andasse qualche volta in cucina a dare – se ne intendeva – qualche buon consiglio a chi cucinava. Lui non volle mai fare questo. Stentai a capirlo: era la sua delicatezza che intendeva, senza intromissioni, lasciare a ciascuno la libertà del suo dovere. Quando finalmente capii di che cosa si trattava, non feci più insistenze. – Nei primi sette od otto anni dovemmo spesso cambiare il servizio di casa e di macchina. La sua serenità e la sua umiltà si imposero a tutti. In quei primi anni accadde qualche guaio e non erano infrequenti i disservizi. Non ci accorgemmo mai di niente: papà vedeva, provvedeva lui di persona, diceva niente a nessuno e tutto era pacifico. Oltre la virtù aveva l’intelligenza di capire che in quelle circostanze non poteva accadere diverso e trovava saggiamente utile non fare questioni. – Vedeva tutto e nel convegno di famiglia dopo cena, tranquillamente, se era del caso, attirava la nostra attenzione. Scompariva sempre silenzioso, se lo si trovava era un sorriso mitissimo e discreto, poi non lo si vedeva più. – Era di un ordine ammirevole. Fino all’ultimo volle avere lui cura della sua stanza, la quale risplendeva per un nitore, una accuratezza straordinaria. Fino all’ultimo fu di una proprietà assoluta, anche nei minimi particolari. Negli ultimi anni soffrì, ad onta del complesso sano e forte, di una certa artrosi alle dita delle mani. Questo gli rendeva più difficile fare sbrigativamente qualunque lavoro. Continuò a fare e non si lamentò. Solo sapevamo che per essere in ordine alla Santa Messa delle 6,30 si alzava alle 5,30 e anche prima. – In tal modo la sua era una presenza che ingombrava nessuno, ma era la luce di tutti. – Non è difficile capire che la presenza del padre poteva costituire un certo imbarazzo per l’Arcivescovo. Il problema lo risolse lui. Se fosse stato un diplomatico consumato non avrebbe potuto far meglio. Metteva il naso in nulla e, salvo il rarissimo caso di qualche nostro parente, mai fece il “ponte” fra altri e me. Entrava, usciva, silenzioso, modesto e dignitoso; mai attaccò discorso con qualcuno, pur salutando tutti e pur rispondendo garbatamente a chi gli faceva i soliti convenevoli. Aveva chiarissimo, e lo fece sempre capire, il dovere di salvaguardare col suo contegno la libertà di azione e la dignità di suo figlio. Per questo era inappuntabile nel vestito e nel tratto. La sua dignità era tale nella mitezza, che nessuno mai osò servirsi di lui. Era il vecchio signore che si diportava come se in Arcivescovado fosse stato l’ospite di qualche ora. La conversazione con lui era sempre quella di un saggio luminosamente guidato da Dio. Restava con noi a tavola anche quando c’erano ospiti di riguardo, parlava poco, teneva il suo posto. Negli ultimi anni, se avevamo ospiti di gran riguardo, per essere più tranquillo, consumava il pasto in camera.

Tutto luce e mai ingombro.

La sua giornata era tutta divisa, quando aveva messe a posto le cose sue, tra le pie letture e la preghiera. Fin quasi agli ultimi anni usciva due volte il giorno. Era per andare a fare l’adorazione a Santa Marta. L’uscita del pomeriggio aveva l’appendice di un incontro coi suoi due coetanei e grandi amici, il Comm. Pizzorno (dell’Olba anche lui) e il Signor Gaggero. Talvolta c’era qualche sosta con qualche amico sulle panchine di piazza Corvetto. Negli ultimi anni, quando era quasi novantenne non volevamo andasse solo per un tragitto così lungo e con tanti difficili attraversamenti, era conscio che gli sarebbe potuto accadere qualcosa fuori e per questo portava sempre sopra di sé un piccolo portafoglio nel quale era la preghiera di chiamargli subito un sacerdote, se si fosse trovato in pericolo di morte, i dati per rintracciare noi e le indicazioni opportune. La sua precisione arrivava fin là. Le passeggiate si ridussero così al Gesù, dove passava lungo tempo in preghiera e dove credo molti ricordano ancor oggi la sua inconfondibile figura. Quando nel 1964, a causa del mio grave esaurimento si cominciò a passare alcuni mesi nella modesta casa Arcivescovile del Righi, venne con noi e la Cappella di lassù fu il suo luogo di abituale ritrovo. – La nostra casa, il cui silenzio Lui violava mai, eccettuati i tempi dei pasti e dei brevi conversari postprandiali, era piena di Lui. Direi che io avevo la sensazione fisica di quando era in casa e di quando era fuori di casa. – L’Arcivescovado, logicamente, confinava colla Curia, pertanto i contatti e gli incontri erano necessari. Mai una parola, mai un gesto, mai un apprezzamento su questo vegliardo compìto che passava educatamente, salutava, sorrideva anche se se ne andava per i fatti suoi. A poco a poco, anche silenziosamente egli apparve il padre di tutti. – Se in casa nostra non abbiamo mai sentito un diverbio, mai una sequenza di inutili lamentele, mai un cozzare sgarbato tra caratteri diversi, lo dobbiamo a questa silenziosa e operante presenza. – Io ho sempre avuto l’abitudine, se uscivo per funzioni o per altro, di presentarmi sulla porta della sua camera. Lo stesso facevo quando si ritornava. Lui era contento di questo, ma non ne fece mai una pretesa, tale da dar luogo a sfoghi se talvolta, per qualche motivo – magari la fretta o il ritardo – facevano [Per la prima volta abbiamo il rinvio a un “loro”, a quelli cioè che controllavano le azioni di Siri. –n.d.ed.-] accelerare il cerimoniale d’uscita: era sempre ugualmente tranquillo. Eppure vedeva tutto [Il padre vede tutto, capisce che Siri è un prigioniero dei suoi “custodi” e che deve fare come gli viene detto.–n.d.ed.].- Ancor oggi non riesco a capacitarmi di questo fatto. Se qualcosa accadeva, lui lo “sentiva”; se c’era qualche piccolo disguido in casa, parlando poi alla sera ci si accorgeva che gli era perfettamente noto. Naturalmente senza recriminazioni e lamenti. Noi ci siamo abituati alla perfezione e ci accorgiamo di questo solo oggi che non c’è più. La sua perfetta umiltà lo rendeva grande, ma in modo che non ce ne accorgessimo. In Arcivescovado riceveva quasi nessuno: qualche parente, ma di rado. Quello che, finché visse, fu il nipote prediletto – e ben lo meritava – che veniva spesso anche tutti i giorni, fu Agostino figlio della Zia Annunziata. Debbo ricordare qui questo caro cugino, così equilibrato e compito, affezionato a mio padre, la cui vita di lavoro e le cui circostanze di vita furono spesso tormentose. Si rassomigliava molto moralmente allo zio. Ebbe una malattia lunghissima, che fu un tormento contenuto e silenzioso per mio Padre. Quando gli annunciai la morte di questo caro nipote, disse nulla, scomparve e si rifugiò nella preghiera. – Al di là di questa vita silenziosa, rasserenante per tutti, si intravvedeva (non ci poteva essere altra spiegazione) la sua unione con Dio. Mio padre, più che vederlo, lo sentivamo. – Godeva di una piccola pensione, che gli dava una certa indipendenza economica. Ma questa e i cespiti della nostra casa di Via Giovanni Torti, sparivano silenziosamente nelle vie della carità. Egli non parlava mai dal bene che faceva. La sua figura ormai non solo era una luce dentro la casa, ma ne era un onore, rispettato e sentito.

VIII.

LA SUA ORAZIONE

Quest’uomo, che per la parte maggiore della sua vita non lo si vide fermo, impegnato sempre in un anche estenuante lavoro, non ebbe il lavoro come occupazione principale. La vera occupazione fu la preghiera.- Ma il più di questa vita profonda e reale egli accuratamente nascose. Bisogna penetrarvi a poco a poco. E’ il “modo” proprio della sua fede ad indicare la realtà interiore di una presenza divina. Scrive un teste, che ebbe forse le migliori confidenze di mio Padre: “Rimanevo ammirato del suo conversare così profondamente cristiano, della sua Fede sentita e vissuta; ma ciò che mi colpiva di più era l’equilibrio e il buon senso, la valutazione sicura ed obiettiva che sapeva dare a tutti i fatti della sua vita, piccoli e grandi. – Mi pareva che per lui la vita umana e cristiana fossero sempre state così armoniosamente connestate da non aver mai motivo di conflitto tra i doveri della Fede e gli impegni della vita comune. La sua Fede lo illuminava nei singoli problemi della vita umana, che lui risolveva con semplicità nella luce delle fondamentali verità cristiane”. – L’esterno, l’atteggiamento, anche quando era impegnato in cose comuni rivelava sempre una luce accesa dentro. – “Nella sua vita non c’era frattura o dissociazione tra l’uomo e il cristiano; aveva raggiunto una tale unità interiore, per la quale non faticava mai a trovare il giusto punto di equilibrio. Ordine e armonia esterni, sempre ammantati dalla tranquilla intelligente mitezza, celavano una continua liturgia interiore”. – Disse un giorno: “Il Signore con la Sua grazia, la Madonna con la sua protezione mi hanno sempre salvato da tutti i pericoli dell’anima e di questo debbo ringraziare Dio!”. Visse in mezzo a movimenti sociali spesso accesi ed anche esasperati. Egli amava parlare dei tempi della sua gioventù e pertanto nel non molto parlare suo quel clima affiorava. Rifiutò sempre di aderire a movimenti che non rispettassero pienamente la Religione: egli aveva fatta la sua scelta. Già anziano entrò nella Associazione Uomini di Azione Cattolica. – Ho già raccontato del Santo Rosario che, per non perdere tempo, recitava in strada andando al lavoro o venendone. La sua grande devozione era la SS. Eucaristia. Le Visite al Santissimo Sacramento, anche quando non poteva andare a trattenersi lungamente in adorazione davanti al Signore in Santa Marta o al Gesù, erano frequenti e lunghissime. Credo che per lui ormai vecchio questo fosse il più grande impiego del tempo se la carità non lo chiamava altrove. Una della più grandi e vere consolazioni date a mio Padre fu l’aver ottenuta la Esposizione quotidiana del Santissimo in Santa Marta. Sentiva tutte le Messe che poteva, e quando c’era penuria di inservienti, le serviva. La sua Comunione quotidiana durò gran parte della sua vita. Quando negli ultimi anni, gli impedivamo di alzarsi presto per ascoltare la Messa del Segretario alle 6,30, la sua preoccupazione era che ci fosse poi qualcuno a dargli la Comunione. Era tale il dolore che provava se questo incontro gli era negato, che quando dovevamo partire tutti per impegni ed in casa nessuno celebrava, ci raccomandavamo a qualche suo amico sacerdote perché gli usasse la carità di venire ad amministrargli la Santa Comunione. – Ne rivelava continuamente il bisogno interiore, con una insistenza che mi ha meravigliato più di una volta. Non la chiedeva la Comunione, supplicava. – Uno dei Religiosi che venivano a dargli la Comunione, noi assenti, scrive: “Accadeva nella casa del Righi. Si preparava a lungo a questo atto sommo di devozione. Riceveva la Comunione sempre in ginocchio in atto di profonda umiltà ed abbandono in Dio. Appena ricevuta la Comunione lo pregavo di sedersi e ciò faceva in spirito di ubbidienza, ma con un po’ di rincrescimento, perché la abitudine di tutta la sua vita era stata quella di restare inginocchiato davanti al Santissimo Sacramento. Prolungava il ringraziamento di oltre mezz’ora; anzi, se non era chiamato continuava a starsene in Cappella. Qualche volta raggiungevo l’abitazione Arcivescovile anche il pomeriggio e lo trovavo sempre – si era al Righi – o in cappella o in piedi in un punto del muro del bosco dal quale era visibile nel Cimitero di Staglieno il punto della Galleria di S. Antonino dove era sepolta la sua consorte. – Quando lo raggiungevo in Arcivescovado, nel Centro, lo trovavo sempre in Cappella. Solo negli ultimi anni si sedeva a sinistra dell’altare, dove rimaneva in profonda meditazione lunghe ore. Anche in ultimo quando il camminare non gli era troppo agevole, ogni volta che poteva era in Cappella (bisogna notare che in Arcivescovado, essendo la Cappella al piano nobile ed abitando noi tutti nel piano di tetto, doveva scendere e salire molti gradini). Ricordo un giorno in cui le Suore dell’Arcivescovado lo cercavano da ogni parte; lui era davanti al Santissimo Sacramento… Egli aveva abitualmente un comportamento dignitoso e signorile, nonostante l’umiltà della sua condizione, ma quando si recava in Cappella questo atteggiamento assumeva una nota speciale (era evidente alla porta): era sempre vestito di tutto punto come se andasse a festa: non si sarebbe mai permesso di recarsi in Cappella senza la proprietà che la Divina Presenza esigeva e che la sua Fede gli imponeva”. Allora aveva un atteggiamento esterno di grande umiltà, esprimeva un abbandono interiore, la preghiera appariva vivissima sulle sue labbra (salvo quello che diremo appresso), ed inspiegabilmente assumeva un comportamento di maestà nella positura del corpo. Sapeva di essere davanti al Signore, Creatore e Redentore. Spesso colpiva la letizia che assumeva il suo volto in quei momenti. – Nelle conversazioni spirituali che aveva coi religiosi che si succedettero nell’ufficio di Direttore era assetato di conoscere i profondi effetti che la Eucaristia produce nell’anima e nel corpo. Uno di questi conclude: “ …era un’anima Eucaristica”. – C’è qualcosa di più profondo, che noi potevamo cogliere confusamente dall’esterno, ma che hanno ben conosciuto i suoi Direttori. A questo punto non posso far altro che cedere loro la parola. – “Il suo cuore era generalmente unito a Dio. Si occupava per lo più di verità divine. La sua preghiera non era soltanto un colloquio con Dio, ma era soprattutto una ricerca amorosa e filiale di Dio. La ricerca diventò qualche volta fonte di profonda sofferenza… La espressione più consueta della sua preghiera era la meditazione. La sua mente era portata a pensare a Gesù Cristo e ad uniformare alla vita di Cristo, la sua vita”. – Scrive un Religioso, che gli fu vicinissimo negli ultimi anni: “Nelle mie conversazioni ho potuto constatare come le sue meditazioni fossero intonate a tutta la semplicità evangelica. Un giorno gli chiesi: “Ma cosa fa quando è in Chiesa e tiene lo sguardo fisso al Tabernacolo, oppure socchiude gli occhi?”. Mi rispose: “Guardo il Signore, lo Adoro e penso a Lui”. Voleva anche aiutarsi con libri di lettura spirituale, che gli servivano soprattutto nei periodi di aridità; ma poi, poco a poco, lasciò ogni lettura, perché gli era diventata un peso. Per lui era molto più facile, nell’intimo della sua cameretta, nelle lunghe ore di insonnia notturna, chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalla contemplazione amorosa del suo Signore. Spesso però la sua mente era afflitta da tribolazioni contro la Fede e da tentazioni colle quali Satana voleva turbare la orazione di questa santa anima. Allora ricorreva alla preghiera vocale: il suo Rosario e il suo libro di preghiere sono egualmente consumati, perché all’uno e all’altro portava una fedeltà ammirevole”. – Un giorno chiese ad un amico come potesse recitare bene il “Pater”. Questi gli portò il commento sul “Pater” di San Francesco d’Assisi e da quel giorno la sua preghiera e la sua meditazione diventarono più profonde, più filiali, più semplici. – Il Rosario non lo lasciò mai e, anche negli ultimi tempi, costituiva il suo “Breviario quotidiano” – come diceva Lui – perché lo metteva in contatto con la Santissima Vergine. Se fece in tutta la vita qualche uscita, fu per visitare piamente Santuari Mariani. Prediligeva le “Grazie” di Voltri perché diceva di avervi ricevuto grazie segnalatissime, particolarmente una, della quale però non siamo riusciti a cogliergli i particolari. Era fedelissimo, come Terziario Francescano, alla recita dei 12 Pater e delle 12 Ave; era una grave pena per lui quando alla sera talvolta non riusciva a ricordarsi di averli recitati. – Un confidente si permise qualche volta di chiedergli come avvenivano i colloqui con Dio nelle lunghe ore che passava in Cappella, soprattutto in quella del Righi. Lui non si rendeva conto delle altezze spirituali che raggiungeva in questa lunga orazione e diceva: “Io adoro il Signore, Lo ringrazio e Gli chiedo grazie per i vivi e per i morti”. Pregava moltissimo per i Defunti, specialmente dopo la morte della mamma. Quando parlando gliene veniva il destro, portava il discorso sulla preghiera e sulla preghiera per i Morti. Quanta gente quest’uomo ha portato in Chiesa insegnando la preghiera di adorazione e lo spirito di riparazione! – Uno che lo conobbe a lungo scrive: “Ebbe un periodo di circa due anni in cui la sua anima ebbe una fortissima aridità spirituale: lo perseguitava il pensiero che le sue preghiere e le sue opere gli servissero a nulla e che Dio non gli volesse più bene. In questo periodo ebbe sofferenze grandissime, però continuò sempre la sua preghiera vocale e mentale. Questo stato di sofferenze interiori, che lui accettò con umile sottomissione, vinse affidandosi alla parola del Sacerdote. Servì a purificarlo ulteriormente e a renderlo maggiormente degno di una profonda unione con Dio. Il confidente dell’anima sua attesta che arrivò alla grazia della contemplazione! – Lo stesso racconta: “Negli ultimi mesi della sua vita, quando a stento si recava in Chiesa (e ad andarvi fu indomito), un pomeriggio andai a trovarlo. Aprii lentamente la porta della Cappella e lo vidi assorto con lo sguardo fisso ad una immagine della Madonna sopra l’altare. Lui non si accorse che io ero entrato nella piccola Cappella (quella del Righi) ed io rimasi ad osservare quel vecchio in quell’atto di orazione amorosa. Era immobile come una statua, col capo leggermente sollevato e gli occhi fissi in alto. Dopo qualche minuto gli posi una mano sulla spalla, ma lui non si mosse. Mi trattenni qualche minuto e poi lo scossi: parve svegliarsi da un sonno profondo. Gli dissi che ero lì da un po’ di tempo, ma che non volevo disturbarlo nella sua preghiera. Mi disse amorevolmente e con tanta umiltà: “Ero distratto”. Però io rimasi pieno di stupore e ritengo che in quei momenti egli si accostasse ad uno stato di estasi. In questo modo io lo sorpresi più volte”. – Da quanto ho potuto capire e da quanto altri mi hanno riferito, io ho tenuto un posto grandissimo nelle sue preghiere. Dava tutti i meriti della mia educazione a mia madre e aveva certamente capito quanto io debba a quella donna singolarissima e ferma; ma lui mi accompagnò sempre, dalla nascita, da quando lasciai capire le mie intenzioni, da quando entrai in Seminario, da quando fui sacerdote e da quando ebbi responsabilità nella Chiesa. – Lo spirito di preghiera era in mio padre il forgiatore di tutto. Si rifletteva nel suo modo di concepire il lavoro, tanto lo circondava di preghiera. Per lui il lavoro era un dovere sacro, una penitenza amabile, un mezzo di vita per sé e per la famiglia, un esercizio di virtù personale e di carità fraterna. Era un mezzo di liberazione, una fonte di letizia e di serenità, sempre chiesto ed accolto come un dono di Dio. – La preghiera era la ragione del suo distacco dalle cose. Questo distacco era edificante; non disprezzava i beni della terra, ma ogni cosa considerava come mezzo per salire a Dio. Per sé – e questo lo constatai bene nei 19 anni in cui visse con me in episcopio – cercò mai nulla, rifiutò tutto, per la sua camera non volle si cambiassero i mobili della vecchia casa, che aveva condiviso con mia madre. Restò nella modestia più assoluta. Volle la proprietà degli abiti, perché – diceva – “non doveva far fare brutta figura all’Arcivescovado”. – Questo distacco, in una vita per la maggior parte né facile, né comoda, gli mantenne sempre la virtù della speranza. Era continuo il suo ricorso alla Provvidenza. La menzione di Questa pareva una giaculatoria, anche quand’ero bambino e ricordo che molte volte mia sorella chiamava lui col nomignolo “provvidenza”. Tutto questo noi raccogliamo dai discorsi tenuti quando vivevamo insieme in Arcivescovado. – A proposito di “speranza”, così scrive un suo Direttore Spirituale degli ultimi tempi. “Un giorno mi disse che da giovane aveva ascoltato discorsi, fatti da persone anche serie, nei quali si discuteva se fosse possibile evitare il peccato mortale. Gli sembrarono strani questi discorsi su labbra di persone cristiane e sagge. Ricordò allora l’ “Atto di speranza” che aveva imparato da bambino ed in quello trovò immediatamente la risposta ai dubbi suscitati dagli incauti discorsi d’altri”. – Diceva: “Io ho sempre confidato nella bontà di Dio e con le preghiere ho avuto tutto ciò che Dio ha promesso. Egli ha fatto a me più grazie di quante ne abbia mai chieste e più grandi di quanto io abbia mai sperato”. – L’orazione lo aveva reso logico in modo singolare: non abbiamo mai notato una dissociazione tra quello che credeva e quello che faceva, tra quello che cercava di inoculare agli altri e quello che praticava lui. Abbiamo ora la strana sensazione che tutto quello che per l’intera vita ci è fin dalla nostra infanzia apparso ordinario, era invece perfezione. La sua preghiera semplice aveva – non so se creata – ma certo mantenuta, la sua semplicità di cuore, al punto di dare l’impressione che tutto gli fosse moralmente ovvio e facile. – Non era così: era stata preceduta dalla abnegazione e dal sacrificio col quale aveva mantenuto lo spirito di preghiera. Era come una luce che a poco a poco aveva disciolte le cose, eliminate le asperità, offerto costante il calore della sua luminosità. Eppure era prontissimo – già l’ho detto – nel vedere tutto, nel cogliere immediatamente e senza sforzo la sostanza di tutto, nel mettersi in posizione prudente nello sciorinare le sue risposte persino diplomatiche, ma sempre vere, sincere e chiare. Quella luce, che promanava dalla sua persona per il dono della orazione creava intorno a lui una atmosfera di soddisfazione, di ordine, di pace. Abbiamo anche questo capito quando ci è mancato! Tutti hanno sentito e detto – quanti lo hanno avvicinato negli ultimi anni – che questo vecchio pareva un autentico aristocratico dello spirito. Era solo la luminosità nella quale viveva. Era naturale che il confessore non trovasse mai (di questo abbiamo la attestazione negli ultimi anni) in lui neppure il peccato veniale o il più piccolo difetto. – Godeva quando noi raccontavamo, nei brevi incontri dopo i pasti, ma aveva un singolare contenimento della naturale curiosità: raramente chiedeva particolari e quando era l’ora, preciso come un orologio, si congedava, dava la buona sera e si ritirava in camera sua. Nei diciotto anni, che insieme passammo in Arcivescovado, mai chiese una informazione relativa al governo ecclesiastico. Non era indifferenza, perché gli piaceva sapere; la sua curiosità gli diede modo di esercitare una virtù in modo non comune. – Fino agli ultimi anni non si allontanò mai d’estate dall’episcopio, se non per qualche giorno, recandosi solo nella casa di mio cognato e mai sorella al paese dei nostri vecchi, Vara Superiore. Era contento di restarsene lì con la sola compagnia del nostro autista; allora rientrava in cucina, faceva la revisione di tutta la casa, faceva aggiustare, pulire, riordinare. Al ritorno trovavamo tutto messo a nuovo. Solo a novant’anni venne con noi a Trivero, nel periodo in cui io non mi ero ancora rimesso da un grave esaurimento. L’anno appresso venne con tutti noi a Peveragno: fu l’ultima campagna. – In casa camminava come se sfiorasse le cose, sempre silenzioso e raccolto; non lo si sentiva mai parlare forte; era il rifugio di tutti per quella dolcezza che mai lo abbandonava. Però vedeva tutto, fino all’ultimo non abbiamo potuto notare un attutimento della sua intelligenza, della sua straordinaria memoria, della sua intuizione. Negli ultimi anni l’artrosi alle dita delle mani lo obbligava ad una manipolazione lenta. Non sappiamo se fosse dolorosa, perché non l’abbiamo mai sentito lamentarsi. Per il resto fresco fino all’ultimo. L’umore mai cambiò, sapeva di essere vicino alla fine, ma godeva del diritto di una speranza che aveva coltivata tutta la vita.

IX.

LA FINE

Sul declinare di primavera del 1964, decisi di andare al Righi nella villa arcivescovile, come eravamo soliti ormai da tre anni. Quella modesta residenza, sufficientemente ristorata, era stata per anni adibita a sfollati della guerra, in difficoltà ad avere una abitazione. Avevo detto a me stesso che mai me ne sarei servito, ma col tempo quando il grave smog di Piazza Matteotti e soprattutto di via San Lorenzo cominciò ad avere maligna influenza su tutti gli ordinari abitatori del Palazzo Arcivescovile, compresi che dovevo pur tutelare la salute di quanti stavano con me e decisi di portare per alcuni mesi all’anno la residenza al Righi. Quell’anno papà non si dimostrò entusiasta di salire lassù; mi fece, contro il suo solito, qualche difficoltà. Capii più tardi che egli prevedeva la sua morte e che, stando al Righi, una tale evenienza poteva essere più gravosa per noi e per il medico. Tuttavia venne sereno e tranquillo: in fin dei conti al Righi, la Cappella era più a portata di mano e le sue soste in quella avrebbero occupato una parte della giornata. Quando talvolta usciva a fare quattro passi nel piccolo parco della villa raggiungeva l’angolo in fondo dove si poteva facilmente salire su un piccolo ballatoio di pietra che accompagnava il muro stesso, assai elevato sul livello stradale esterno. Da quel punto si vedeva tutto il Cimitero di Staglieno e, sulla sinistra, si poteva individuare il tetto della galleria di S. Antonino, dove nella seconda cella era la tomba della manna e dove era, accanto a Lei, il posto preparato per lui. Restava là a pregare. Nel Cimitero stavano le ossa di tanti conoscenti e anche di parenti nostri: lui non dimenticava mai nessuno. Si aveva la impressione che là egli fosse nella più bella compagnia. Quella vista gli era familiare e dolce. Se non era in casa lo si trovava là. Vi stette anche il giorno in cui alla sera anticipò la sua andata a letto per non rialzarsi più. La chiamata del Signore era vicina e la risposta era perfettamente tranquilla. – Fu la sera del 15 giugno a cena. Mangiò pochissimo. Prima della fine si alzò, si scusò di anticipare il rientro in camera perché si sentiva stanco. Sul momento non ci si fece caso. – Più tardi, nella tarda sera gli riscontrammo un attacco di febbre. Era mercoledì. Venne il Prof. Meneghini, suo medico al quale era affezionatissimo: la cosa non pareva allarmante. Scrive il suo medico, Prof. Meneghini: “Comparve una febbriciattola: lo visitai e costernato mi accorsi di una polmonite. Certo lui lo lesse sul mio viso o, forse perché io feci il possibile per nasconderlo, lo comprese il suo cuore, mentre io ne ascoltavo il battito sofferente. Quella volta e nei giorni che seguirono non mi chiese più nulla di sé: era pronto. Ed io per la prima volta non dissi più (con lui) la mia piccola bugia, sommersa dalla grande verità di quella ora di dolore”. – Egli in realtà aspettava fiducioso che la Santa Vergine lo aiutasse “perché – così disse a mia sorella – era stato un buon soldato e certamente Essa lo avrebbe preso per mano nel grave passo”. Seduto sul letto aveva per tutti il suo amabile sorriso; faceva impressione quella sua grande capigliatura folta, di argento brunito e quella sua grande pace. Parlava tranquillamente, anche del più e del meno quando c’era qualcuno di noi, non omettendo di ribadire le più minute disposizioni per la sua salma, la sua sepoltura accanto alla mamma, i suffragi. La morte si accostò in punta di piedi e con tutti i riguardi. – Il mattino del giovedì, me ne andai tranquillo al solito lavoro in palazzo Arcivescovile. Si delineava la polmonite, tuttavia – e non so perché – non eravamo preoccupati; papà non era affatto abbattuto, discorreva e questo ci pareva ancora un buon salvacondotto per la salute. – La verità ci apparve cruda il venerdì 17. Quella mattina attendevo come al solito alle udienze in Arcivescovado, quando venni avvertito che papà aveva avuto un collasso. Temetti questa parola come una pia bugia per dirmi che papà aveva finito di vivere. Volai immediatamente al Righi e vi trovai già sollecito il Prof. Meneghini: papà si stava riprendendo. – Ritenni prudente amministrare subito l’Unzione degli Infermi e chiesi senza ambagi a papà se potevo procedere. Senza alcuna emozione, tranquillo e grato disse: “Sì, sì”. La ricevette con uno straordinario raccoglimento e rispondendo a tutte le orazioni. La sua serenità quasi gioiosa si rifletteva su di noi. Poi stette meglio e si ricominciò o sperare. – In una alternativa di timori e di attese fiduciose passarono i giorni dal sabato 18 al mercoledi 22. Quel giorno Papà mandò a prendere la sua cappa di Confratello della Confraternita dell’Immacolata. Da molti anni l’aveva acquistata ed aveva sempre detto che voleva essere sepolto rivestito di quella sacra divisa. Quel mercoledì disse chiaro che era bene tenerla pronta al Righi, perché ormai l’avrebbe dovuta indossare.

Egli sapeva.

La sua preghiera, quando non c’era qualcuno a intrattenerlo, era serena e continua: ogni mattina continuava a ricevere, con una pietà commovente, la Santa Comunione. Tutti noi, la casa, eravamo immersi nella Sua serenità e nella sua pace. Volle confessarsi ancora e stette a lungo col suo confessore. Questi due giorni che precedettero la fine assunsero una dignità solenne. Ricevette tutti, a uno a uno, anche i mariti delle nipoti: a tutti diede gli ultimi avvisi e i ricordi con lungimirante saggezza, con tono sicuro, penetrante, scultoreo come se parlasse dall’eternità. Parlò anche a me e mi raccomandò di pregare e di avere coraggio. Ebbi l’impressione che si ricollegasse ad un discorso fattomi tre anni prima. [Siccome il padre del Papa in Esilio era un uomo pacato e di poche parole, si può azzardare l’ipotesi che il discorso sia stato fatto da un altro e delegato del figlio al padre. Il fatto che il padre non parla più per il rispetto che egli ha per l’autorità di figlio, non lascia dubbi sul fatto che la “conversazione” di tre anni prima, nel 1961, era circa il governo della Chiesa. l’editore.]. – Non disse altro, perché in me vide sempre suo figlio, ma vedeva soprattutto il suo Vescovo. La riverenza che seppe unire all’affetto nei lunghi anni del mio episcopato, mi appare oggi in una luce di Fede singolarissima. Il 23 eravamo sereni: niente ci faceva prevedere la fine imminente. Dalla finestra aperta sentì le campane della Metropolitana, che annunciavano la solennità di San Giovanni Battista. Disse: “E’ l’ultima volta che sento queste campane”. Ci ritirammo tranquilli dopo il saluto serale. Ad una certa ora restò solo colla Suora infermiera; la notte passò senza sussulti, senza affanno finché si assopì. – Alle sei e venti del mattino, don Giacomo Barabino, mio segretario (Un giovane Giacomo Barabino è stato il primo dei “carcerieri” passati per “segretari” al fine di monitorare costantemente questo cardinale di così grande statura, Papa Gregorio XVII. Nel corso degli anni, la stampa ha mostrato le foto di un Barabino dagli ampi sorrisi, sottobraccio ad uno stordito [– drogato?] – Siri, con i laici circostanti guardare con sorpresa e preoccupazione i loro volti. A Siri è stato solo permesso di “consacrare” Barabino “vescovo”, nel 1974, e si dice che lo abbia fatto per tenerlo lontano. – [n.d.ed.-]) passò a vederlo per chiedere se era pronto a ricevere come al solito la Santa Comunione. Lo trovò pienamente in sé, lucido e sereno, seduto sul letto e pronto a ricevere il Signore. Mentre don Giacomo faceva i preparativi, chinò il capo e senza alcun movimento si spense in lui la ormai debole fiamma della vita. Era andato lui incontro al Signore. Mancavano pochi minuti alle 6,30. – La suora si insospettì: pareva che dormisse, avvertì don Barabino il quale si preparava a portargli la Santa Comunione; don Barabino avvertì me, che immediatamente accorsi. Era quasi seduto colla schiena appoggiata ai cuscini, colla testa reclinata in avanti. – Radunai tutta la famiglia arcivescovile per l’ultimo compito: quando era morta la Mamma ed io avevo intonato poco prima il canto della Salve Regina e poi la recita del Credo, papà mi aveva toccato il gomito: “Fate così anche quando morirò io”. Eseguii fedelmente. – Lui era ormai con Dio, aveva incontrato la Vergine Santissima e credo, dopo quasi un secolo aveva incontrato sua madre, che in terra non aveva conosciuto. Finalmente! – Era la solennità di San Giovanni Battista. Telefonai che quel giorno non ero in grado di tenere il Pontificale e andai a celebrare per l’anima di mio padre, per la comune umiltà colla quale si lascia la terra, ma con la possente fiducia che quella Santa Messa sarebbe servita ad altri. – Componemmo la salma nel vano che dalla Sagrestia immette nella Cappella del Righi. Quando lo vidi sul letto funebre, era sereno, ringiovanito, come se fosse tornato indietro di mezzo secolo. – I funerali si fecero in Metropolitana, presenti Arcivescovi e Vescovi, le Autorità con a capo il Ministro dell’Interno, il Clero. Celebrai io e Dio mi diede la forza di arrivare in fondo. – Dopo cominciò un’altra commemorazione, ad uno ad uno si fecero vivi i testimoni della sua carità e della sua dedizione, svelando quello che di lui vivo, non avevamo mai saputo. Riposa nella stessa tomba della mamma ed egli ripetutamente, anche gli ultimi giorni, aveva raccomandato che la sua bara non fosse messa semplicemente parallela a quella della mamma, ma parallela nel senso opposto, come per potersi vedere in faccia. Sorvegliai io stesso che fosse collocato così. Accanto a me c’era Mons. Alberto Castelli, Arcivescovo di Rusio e segretario della CEI. Ora anche lui, anima santa, è con Dio.1

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1 E’uno strano modo di terminare il libro su suo padre, parlando di un altro uomo. Il Papa “in Esilio”, conclude così questo libro su suo padre in un modo inaspettato, parlando di un suo amico che ora è morto, del 1971. Ricordando che Giuseppe Cardinale Siri è stato il cardinale più giovane del Conclave del 1958, possiamo concludere che sta facendoci sapere che entro il 1971 tutti i suoi sostenitori Prelati, che sapevano che Lui era il Papa attuale, sono morti, e Lui è solo ad affrontare il compito di chi porta la Chiesa in Esilio. – Mons. Alberto Castelli morì il 7 marzo 1971. Egli fu arcivescovo titolare di Rusio, un comune francese situato del dipartimento dell’Alta Corsica nella regione della Corsica. –[-n.d.ed.]

Nota dell’Editore

Quando ho ricevuto questo libro nel 2005, mi sono resa subito conto che avevo in mano un gioiello che, sebbene originariamente pubblicato solo per amici e parenti, sarebbe stato un mezzo di edificazione per tutta l’umanità. Niccolò Siri visse consapevole di essere un aiuto per tutti, lui che dipendeva da Dio in modo assoluto. Vedete che la sua vita è un cammino di santità. Egli è stato naturalmente molto vicino a suo figlio, Giuseppe Siri, ed ha aiutato questo figlio in alcuni dei momenti più difficili che ha dovuto affrontare come Papa “occultato”, S.S. Gregorio XVII (dal 26 ottobre 1958 al 2 maggio 1989). – Nel contemplare la vita del padre, veniamo a conoscere la formazione e il carattere del figlio. Le lezioni di Niccolò a suo figlio erano chiare da capire. Il padre era soprattutto un uomo di preghiera che aveva messo tutta la sua fiducia nella Divina Provvidenza, e questa lezione l’aveva insegnata anche a suo figlio. – Non ci sono note nel testo originale, poiché esso venne scritto per chi conosceva Niccolò Siri intimamente. Le note sono mie, riportate come informazioni per il lettore nel tentativo di aiutare a chiarire e/o ampliare la possibilità di comprendere meglio il significato di certe espressioni. Come “Papa Occultato”, Siri era sotto un vincolo costante, e anche questo libro sarebbe stato approvato solo dopo una attenta rilettura prima di essere stampato.

Offro questo lavoro al Cuore Addolorato e Immacolato di Maria per il trionfo del Suo Cuore nel mio cuore e nei cuori di tutti gli uomini dall’inizio dei tempi e fino al loro compimento. Deo gratias!

Nellie Villegas

27 luglio 2016

Doni dello Spirito Santo: Il dono di CONSIGLIO

Il dono di Consiglio.

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[J.-J. Gaume: “Il trattato dello Spirito Santo”; vol. II, Cap. XXXI]

 

Superiore in energia ed in estensione alla virtù di fortezza, il dono o lo spirito di questa ha due oggetti: l’azione e il patimento. Esso è posto in mezzo a sette doni, come un re in mezzo ai suoi ufficiali per proteggerli e dirigerli. Mercé la sua influenza, l’uomo diviene capace di condurre a buon fine la grande intrapresa per la quale egli è sulla terra, la conquista del cielo. – Dinanzi a lui indietreggiano le tre potenze legate insieme ad arrestare il suo cammino: il demonio, la carne e il mondo. Con un coraggio incrollabile ei sopporta le fatiche dell’eterno combattimento, e dà al cielo ed alla terra il più bello spettacolo che essi possano contemplare. – Questo dono di fortezza, come necessario all’uomo, alla società, all’umanità tutta quanta per fare e per soffrire nobilmente grandi cose, non lo é però meno per preservarli dalla schiavitù dello spirito contrario, l’accidia. Questo spirito che degrada l’uomo, che lo rende disprezzabile e che l’impoverisce, offre un triste contrasto con lo spirito di fortezza, quale si è manifestato in tutti i secoli e che si manifesta ancora in tutti i Paesi cattolici. – Ma per operare e per soffrire conforme al fine della vita, non basta aver la forza dell’azione e del patimento, questa forza deve essere regolata. « Si corre male, dice sant’Agostino, se non si sa dove correre: “Non bene curritur si quo currendum est nesciatur”. » Essa lo è mediante il dono di consiglio. Ciò vedremo nello studio delle nostre tre questioni: Che cosa è il dono di consiglio, quali ne sono gli effetti e quale la necessità. – Che cosa è il dono di consiglio? Il consiglio è un dono dello Spirito Santo che ci fa discernere con certezza i migliori mezzi di giungere al cielo. [“Consilium est donum quo Spiritus Sanctus dirigit nos in omnibus quae ordinantur in fìnem vitae aetemae, sive flint de necessitate salutis, sive non”. S. Anton. IV p., tit. XII, c. I, fol, 189]. – Questo nome è mirabile. Il consiglio è l’avviso che ci è dato da qualcuno. Che nobile dono! In moltissime circostanze l’uomo è incapace di decidersi da sé medesimo. – Per metter fine alle sue incertezze che fa egli? Chiede consiglio. Nulla di più savio di questa condotta. – “O figliuolo mio, dice Tobia, chiedi sempre consiglio al savio”.[IV, 19]. Da un buon consiglio può dipendere la fortuna, l’onore, la vita stessa. Quanti disinganni, quanti rimorsi, quante lacrime e’ può risparmiare [Sap., IX, 14]. – Ora nell’affare, il solo importante, il solo che porti a conseguenze eterne, l’affare della salute, lo Spirito Santo medesimo vuol ben essere nostro consigliere: Ei lo diviene mediante il dono di cui trattiamo. – Questo dono differisce dalla virtù di prudenza e dal dono di scienza. Esso differisce dalla prudenza, in principio, in estensione, in certezza. In principio: la ragione è il principio della prudenza naturale: col dono di consiglio, lo stesso Spirito Santo diventa la nostra guida. – In estensione: la virtù di prudenza, quale si sia, naturale o soprannaturale, non può né abbracciare, né prevedere tutti i mezzi i più propri per giungere all’intento desiderato, e malgrado tutta la sua applicazione è, come dice la Scrittura, sempre corta per qualunque parte. II dono di consiglio al contrario si estende a tutto ciò che ci è necessario di conoscere per deciderci saviamente in un dato caso. – In certezza: nessuno ignora i calcoli e gli ondeggiamenti che precedono una determinazione importante, le esitazioni che l’accompagnano e le incertezze stesse che la seguono. Nulla di tutto ciò nel dono di consiglio. È lo stesso Spirito Santo che ci comunica la sua luce e determina la nostra scelta. [“Unde donum consilii respondet prudentiae, sicut ipsam adjuvans et perfìciens”. S. Thom., 2a, 2ae, q. 52, art. 2, cor. — “Indiget homo in inquisitione consilii dirigi et elevari a Deo qui omnia comprehendit. Et hoc fìt per donum consilii”. Anton., IV p., tit. XII, c. I, fol. 189]. – Circa la differenza tra il dono di consiglio ed il dono di scienza, ecco in che consiste. Comunicandoci la conoscenza certa della verità, il dono di scienza ci rende capaci di discernere senza fatica il vero dal falso, il bene dal male. Il dono di consiglio va più oltre. Esso ci fa distinguere e scegliere tra il vero e il più vero, tra il buono e il migliore: vale a dire che ci addita i mezzi più adatti al nostro fine supremo, riguardo alle circostanze di tempi, di luoghi e di persone. – L’aver considerato il dono di consiglio in sé medesimo non basta: per ben conoscerlo, bisogna vederlo nei suoi effetti. –  Quali sono gli effetti del dono di consiglio? Gli indicheremo, dicendo che il dono di consiglio ci fa scegliere i mezzi migliori di arrivare al nostro ultimo fine. Ciò vuol dire che questo dono divino ci preserva dagli infortuni, sovente disperati, ai quali farebbe capo una scelta imprudente. Ciò vuol dire altresì che egli ci aiuta a fare le nostre opere, come Dio medesimo fa le sue, con numero, peso e misura. Vuol dire infine, che come membro del gran corpo del Verbo incarnato, ci pone ciascuno al nostro luogo e ci fa agire in modo da procurare senza grande urto, l’armonia dell’insieme, magnifica armonia, potente unità che è il fine di tutti i doni e di tutte le operazioni dello Spirito Santo. Il dono di consiglio è di una pratica continua. Come il cieco ha bisogno di una guida in tutti i suoi passi, cosi l’uomo qualunque si sia, fanciullo, giovine o vecchio, ricco o povero, re o suddito, prete o secolare, ha bisogno d’essere diretto in ciascuno dei suoi atti; e lo è in realtà. – Quel che è vero dell’individuo, è altresì vero della famiglia, vero della società, vero della stessa umanità. – Guai dunque a colui il quale nel governo della sua vita, o della vita altrui disprezza lo Spirito di consiglio. Guaio maggiore a colui che lo cerca laddove non é. Ora esso è dove è lo Spirito Santo; non è che là, e vi è a seconda della misura delle comunicazioni dello Spirito Santo. – Quindi deriva che i santi, cioè dire gli uomini del buon consiglio per eccellenza, sono per il mondo veri tesori. – « Se il genere umano, scrive Donoso Cortes, non fosse irremissibilmente condannato a vedere le cose a rovescio, sceglierebbe per consiglieri fra tutti gli uomini i teologi; tra i teologi, i mistici; e tra i mistici quelli che hanno condotto la vita la più ritirata dal mondo e dalle faccende. Tra le persone che io conosco, e ne conosco molte, le sole nelle quali abbia riconosciuto un buon senso imperturbabile, una vera sagacia, un’attitudine meravigliosa per dare delle pratiche e dotte soluzioni ai più difficili problemi, e per trovar sempre una scappatoia o un’uscita agli affari più ardui, sono quelle che hanno menato una vita contemplativa e ritirata. Al contrario, io non ho ancora incontrato né spero incontrare mai, uno di quegli uomini che chiamansi d’affari, disprezzanti le contemplazioni spirituali, e soprattutto le contemplazioni divine, che sia capace di intendere qualche cosa in nessuna faccenda.» [Saggio, ecc., p. 200]. – Se ciascuno di noi ignora i benefizi personali dello Spirito di consiglio, il mondo non deve ignorare che gli va debitore del suo più bello, del suo più utile capo d’opera; e qual è? Gli ordini religiosi. Sentiamo i principi della teologia, raccontare la storia di questa meravigliosa creazione; e per farne omaggio allo Spirito di consiglio, rammentiamoci ch’essa fu sconosciuta da tutta l’antichità, che incomincia con l’infusione dello Spirito Santo nel Cenacolo, e che sparisce da tutti i luoghi dai quali si ritira. – «Essendo Dio la perfezione, l’essere a Lui unito nel modo il più intimo, insegnano san Tommaso e sant’Antonino, è la gloria e la felicità dell’uomo, perché tale è il suo fine. Ma a motivo delle preoccupazioni e degli ostacoli inevitabili della vita ordinaria, questa unione è impossibile. – Ecco perché ai precetti, la legge divina aggiunge dei consigli. Essi hanno per scopo di sbrogliare l’uomo, nei limiti del possibile, di tutte le sollecitudini della vita presente. – « Ciò non pertanto, questo spogliarsi, non è talmente necessario che senza ciò, l’uomo non possa pervenire al suo fine. La virtù e la santità non sono incompatibili con l’uso ragionevole dei beni terreni. Perciò gli avvertimenti della legge divina si chiamano non precetti, ma consigli, nel senso che essi persuadono l’uomo a disprezzare il meno per il più, il buono per il migliore. Ora nello stato attuale le sollecitudini dell’uomo hanno un triplice oggetto: la nostra persona, ciò che deve fare, dove deve abitare; le persone che ci sono unite con legami più intimi, come la sposa ed i figli; i beni esteriori ed i mezzi di acquistarli o di conservarli. – « A fine di rompere di un sol colpo questi tre ostacoli all’intima unione con Dio, il Verbo incarnato dà tre consigli che lo Spirito Santo fa gustare e prendere per regole di condotta. La povertà volontaria tronca tutte le sollecitudini riguardo ai beni terreni. La verginità e la castità volontaria, sciolgono l’animata qualunque sollecitudine, rispetto ai beni corporali. L’obbedienza volontaria, libera da ogni sollecitudine, rispetto alla condotta della vita e dei beni dello spirito, risultanti dalla indipendenza della volontà. » [S. Anton., IV p., tit. XII, c. II]. – Gli alunni della cresima, alumni chrismatis, che hanno il coraggio di questo eroico, proscioglimento, possono cantare col profeta: La nostra anima è stata sciolta qual passera dal lacciuolo del cacciatore; il laccio è stato spezzato e noi siamo stati liberati. [Ps, 123]. – Nulla oramai impedisce loro di fare di. Dio il centro di tutte le loro affezioni, e di gravare verso di lui con tutte le potenze del loro essere. Rispetto al mondo intero, essi adempiono nell’ordine morale la grande legge che presiede al mondo planetario, dove noi vediamo tutti gli astri, spinti da una forza irresistibile, gravitare verso il sole. Che dire di più? Amare come essi amano è scacciare, rompere, calpestare tutti gli ostacoli che possono ritardare la rapidità del loro movimento verso Dio, o falsarne la direzione. Qui ancora, essi adempiono nell’ordine morale, la legge che presiede al mondo terrestre, dove noi vediamo i torrenti ed i fiumi atterrare sul loro passaggio tutto ciò che si oppone al loro corso impetuoso verso l’Oceano. – Calcoliamo adesso se è possibile, tutto ciò che l’umanità deve agli ordini religiosi, di servigi e di benefizi, tanto nell’ordine temporale che nell’ ordine morale, e sapremo in parte, ciò che il mondo deve al solo dono di consiglio. Diciamo in parte: imperocché se noi conosciamo i beni di cui ci ricolma lo Spirito di consiglio, ignoriamo ancora i mali dai quali ci preserva. La risposta alla questione seguente terminerà d’istruirci. – 3° Qual’è la necessità del dono di consiglio? Perché egli non ha in sé la verità, l’uomo ha bisogno di essere istruito; e perciò è per forza un essere diretto. Ora, come lo stesso mondo, l’uomo è posto tra due opposte direzioni; l’una che viene dallo Spirito di luce, l’altra dallo Spirito di tenebre. Chiunque egli sia e quel che faccia, bisogna che obbedisca o all’ima o all’altra: l’alternativa non si sfugge. Se lo Spirito di consiglio si ritira dall’uomo o dal mondo, il suo posto resta vuoto: esso è immediatamente preso dallo Spirito contrario, che è lo spirito d’avarizia. [“Spiritus consilii fugat spiritum avaritiae, quae nec consilia nec mandata Dei sinit implere, qui jubet vel consulit pauperibus indigentibus subveniri, sed ipsi sibi congregat lutum”. S. Anton., IV p., tit. X, c. I.] – Che l’avarizia sia direttamente opposta al dono di consiglio, niente è più facile a provare. Illuminando il nostro intelletto, il dono di consiglio ci fa scegliere i mezzi migliori di raggiungere il nostro ultimo fine. Il primo è liberarsi dalle sollecitudini della vita col distacco dai beni creati. Il secondo è lo spoglio volontario di tutti questi beni. – Che cosa è l’avarizia? È l’amore disordinato delle ricchezze. Oscurare l’intelletto e falsare la volontà è l’inevitabile effetto dell’avarizia. Appena è entrato lo Spirito di avarizia in un uomo, subito lo affascina. Dinanzi ai suoi occhi, i beni terreni formano uno specchio ingannatore, fuori del quale ei non vede nulla che sia degno dei suoi pensieri. Questo specchio lo perseguita e si consuma nell’afferrarlo; e tutto assorto nella sua insensata persecuzione, dimentica i veri beni. Invece di sgombrare la sua strada, la ingombra di mille ostacoli. Invece d’avere la libertà dei suoi passi e dei suoi pensieri, ei si aggroviglia in lacci inestricabili e si perde in tante sollecitudini senza fine, fonte di dolori e di iniquità, fino a che la morte non venga a dirgli: O tessitore di reti di ragno, prenditore di mosche, costruttore di castelli di carta, bisogna partire per l’eternità, e partire con le mani vuote.[Sap., iv, 12. — I Ad Tim.j VI, 9, 10. “Telas araneae texuerunt”]. – Si, Con le mani vuote di buone opere, e troppo spesso piene di peccati. L’avarizia è una madre feconda che genera delle figlie non meno delinquenti della loro madre. Eccone qui alcune; la “durezza di cuore”, “cordis duritia”: nessuno è più insensibile dell’avaro. Né le pubbliche calamità, né gli stracci del povero, né i gemiti dell’infermo, né le lacrime della vedova e dell’orfano, sono capaci di fargli sciogliere i cordoni della sua borsa. La sua anima è colpita dalla secca e dura impronta del metallo ch’egli adora. La “furberia, falsitas”; non menzogne, non inganni di cui l’avaro si faccia scrupolo, sia per vendere, ossia per comprare. Di tutte le virtù la buona fede è quella che egli meno conosce. – La “frode”, “fraus”; dalle parole egli passa agli atti. Frodare nei pesi e nelle misure, frodare intorno alla natura e alla qualità degli oggetti, sono per 1’avaro moneta corrente. La “violenza”, “violentia”; bisogna dare questo nome alle concussioni pubbliche, ai furti strepitosi, ai compromessi scandalosi, ai contratti usurari, alle manovre indegne, con le quali s’inganna la credulità, si abusa della debolezza, si traffica la coscienza e si arricchisce a scapito dell’onore e della giustizia. – Il “tradimento”, “perfìdia”; l’avaro non ha che un amico, cioè il suo oro. In un significato bene differente di Melchisedech, egli può confessare che non ha né padre, né madre, né fratelli, né sorelle, e che è senza genealogia sulla terra. Litigare coi suoi parenti ed i suoi amici, suscitar loro dei processi, fomentare delle divisioni e degli odi, scendere a tutte le bassezze, vivere d’egoismo, di denigrazioni e di gelosie, non costa niente all’avaro, purché si tratti di una perdita e di un guadagno. – Che lo spirito d’ avarizia si estenda sulla società; e tutte le stimmate giustamente impresse all’avaro individuo, si applicano all’avaro collettivo. Per tutta verità, bisognerà dire di questa società, di questa nazione, di questo mondo che non vi ha nulla di più scellerato; che il timore di Dio, la giustizia e la lealtà ne sono bandite; che è un vasto bazar dove tutto si vende, perché tutto si compra, la libertà, l’onore e la coscienza: una aggregazione di filibustieri e di pirati che a meno di una conversione miracolosa, finirà di non più contare che due categorie d’individui: gli ingannati e i furfanti. – Frattanto due caratteri distingueranno questa società posseduta dal demone dell’avarizia. Latente o manifesta, la guerra di coloro che non hanno, contro quelli che hanno, durerà sempre; continue rivoluzioni condurranno catastrofi senza fine, giusto castigo di un mondo che ha cambiato il suo Dio in vitello d’oro. La pazzia succederà alla ragione, il tempo sarà preferito all’eternità, il meno al più. – « Qual sapienza, qual buon senso, che elevazione di intelligenza, domanda la Scrittura, può restare a colui che si è legato al suo aratro, che pone la sua gloria nelle sue macchine, nel pungitoio con cui eccita i bovi; che non parla che di concimi, d’agricoltura, lavori materiali; di cui tutte le conversazioni si raggirano intorno ai nati dei tori; il cui cuore e immerso nei solchi, e il pensiero nel grasso delle vitelle? » [“Avaro nihil est scelestius; nihil est iniquius quam amare pecuniam…. hic enim et animam suam venalem habet”. Eccl, X 9, 10. Eph., V, 5. Eccl, XXVII, 1]. — “Qua sapientia replebitur qui tenet aratrum, et qui gloriatur in jaculo; stimulo boves agitat, et conversatili in operibus eorum, et enarratio ejus in filiis taurorum? Cor suum dabit ad versandos sulcos et vigilia in sagina vaccarum”. Eccl. XXXVIII, 25-27]. – Salvare il mondo da un tale degradamento non è un immenso benefìcio? Da chi si può aspettarlo? Dai legislatori, dai filosofi, dagli uomini qualunque si sieno? Nient’affatto: ma dallo Spirito di Consiglio, e da Lui solo; e il mondo l’oblia!

 

J.-J. Gaume: A che serve il Papa?

J.-J. Gaume: A che serve il Papa?

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[J.-J. GAUME: “A quoi sert le Pape?”; X ed. – Paris 1861]

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I.

A che serve il Papa?

No, non si tratta di un incubo. Dopo milleottocento anni di Cristianesimo, in pieno secolo diciannovesimo, secolo, si dice, del progresso e dei lumi, nelle assemblee legislative,  nei saloni, nei ritrovi, nei negozi, nell’intimità del focolare domestico, come nelle campagne e nelle città, milioni di creature battezzate sono giunte a chiedersi, con una baldanza desolante: a che serve il Papa, e soprattutto il Papa-Re? Formulata in modo più o meno simile, cosa significa, ci chiediamo a nostra volta, una tale domanda? Questo significa che la nozione del Papato, come lo stesso Figlio di Dio ha stabilito, si altera in modo esecrabile, e questo significa che il principio fondamentale della Chiesa, passa dallo stato di dogma allo stato di “problema”. Questo significa che il potere conservatore delle società civilizzate, cada nell’ostilità, o quanto meno nell’indifferenza divenuta contagiosa anche per i cristiani. Quanto a ciò che si chiama il mondo, la caduta del trono di San Pietro lo scuote non più della sospensione di un pagamento, meno di un calo in borsa, lo intimorisce meno che un battito di mani, meno di un ballo di fine anno. In mezzo a questo deragliamento generale, una parola sul Papa-Pontefice, e sul Papa-Re. E perché questa parola? Per impedire la catastrofe! Nell’ora attuale la vecchia Europa può paragonarsi ad una nave in rotta, passata attraverso un uragano e prossima alle cascate del Niagara. Perché dunque questa parola? Per due ragioni che non mancano di gravità. La prima al fine di riassumere brevemente tutto ciò che è stato detto della questione pontificia, in modo da fornire alle anime rette, nei giorni di pericolo, un’arma facile e sicura contro i sofismi rivoluzionari. La seconda col fine di proiettare un ultimo raggio di luce sull’abisso senza fondo nel quale sta per sprofondare l’Europa senza il Papa.

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II.

A che serve il Papa?

Bisognerebbe piuttosto chiedere a cosa “non” serva il Papa! A cosa serve la testa sulle spalle dell’uomo? … ebbene ciò che la testa è all’uomo, questo è il Papa alla Chiesa. Senza testa, non c’è corpo, così senza Papa, non c’è Chiesa; senza Chiesa, niente Cristianesimo. – Vediamo: tutti voi, letterati ed illetterati, uomini e donne, che discutete la questione romana con più leggerezza, e forse meno scienza, di quanto non fareste per una questione di teatro o di moda; che, nella vostra impazienza di vederla finita, trovate che il Papa sia lento nel cedere: comprendete la portata del vostro linguaggio? Voi non temete di chiamare il Papato una vecchia istituzione della quale il mondo può oramai disinteressarsi, e “fanatici” quelli che la difendono. Senza gran pena voi fate la vostra parte nella caduta del trono pontificale. Ai vostri occhi essa non sarà che un disturbo accidentale negli equilibri europei, una scossa incapace di compromettere i vostri interessi, tutto al più una semplice avaria, riparabile con poco danno. Ma avete ben riflettuto? Leggete la storia. Senza il Papa, avrete il mondo come era prima del Papa: sotto l’una o l’altra forma, la schiavitù di base, Nerone come re, satana come dio. Liberi di negarlo, ma i fatti sono i fatti! Non c’è né luce, né civilizzazione, né letteratura né giornalismo, né pretese qualsiasi: tra l’uomo ed il paganesimo con le sue onte ed i suoi crimini, la storia non ha mai conosciuto e non conosce che un’unica barriera: il Papa. Con lui sparisce ciò che solo impedisce i crimini e le onte del paganesimo: la Chiesa ed il Cristianesimo. Guardate il mappamondo. Senza il Papa voi avreste il mondo come ancora è in Cina, nel Tibet, in Oceania: degradazione morale, ignoranza, antropofagia, superstizioni cruente. In una questione non ci sono che due termini, vano è cercarne un terzo. Tra il Cristianesimo ed il satanismo, non c’è alcuno spazio. L’uomo è nato per adorare: chi non adora il Dio Altissimo, adora il dio infimo. Chiunque non adori il Dio Spirito, adora il dio materia, il dio metallo, il dio carne, il dio ventre, come dice San Paolo “ … quorum Deus venter”. Interrogate i vostri ricordi. Senza il Papa, voi avreste il mondo come era divenuto in Francia all’epoca del ’93: Robespierre alla Convenzione, Fouquier-Tinville al palazzo di giustizia; Simon con i suoi strumenti sulla piazza della rivoluzione; Carrier a Nantes; Venere a Notre-Dame; la Bastiglia dappertutto. Malgrado tutte le certificazioni di probità, di onore e di filantropia che si amano proclamare nel nostro tempo, non si può esser certi di nulla, eccetto una cosa: senza Papa, non c’è Cristianesimo. E senza Cristianesimo, tutto ciò che si è visto al di fuori del Cristianesimo, può essere rivisto. “Non c’è alcun crimine, ha detto un grande genio [S. Agostino], commesso da un uomo o da un popolo, che non possa essere commesso da un altro uomo o da un altro popolo, se questo non è aiutato da Dio, che ha fatto gli uomini ed i popoli. “Per impedire il ritorno di tali avvenimenti!”: ecco innanzitutto a cosa serve il Papa.

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III.

A che serve il Papa?

A che serve il sole in natura? Orbene! Ciò che il sole è alla natura, il Papa lo è al mondo civilizzato. Qui una negazione accentuata esce dalle vostre labbra. Con la mano mostrate l’Inghilterra, la Russia, gli Stati-Uniti (oggi disuniti), gli altri popoli separati dalla Chiesa: e voi trionfate. Povero trionfo! La vostra obiezione, più che un non senso è un errore grossolano. La verità è che le nazioni eretiche o scismatiche, senza alcuna eccezione, vivono del Papa, non vivono che del Papa. Se tastate il loro polso, troverete che le pulsazioni normali sono quelle cattoliche. Che cos’è secondo voi che costituisce la loro esistenza come nazioni cristiane? Senza dubbio l’elemento cristiano. E a chi sono debitrici dell’elemento cristiano? Al Papa, non vi dispiaccia, e al Papa solo. Da una parte è il Papa che ha loro inviato i primi apostoli del cristianesimo. Dall’altra parte, se tutte queste nazioni conservano delle cose cristiane, anche la Bibbia, lo devono alla Chiesa, e di conseguenza al Papa, senza il quale la Chiesa non esisterebbe e non sarebbe mai esistita. Ne segue quindi che nessun protestante, nessuno scismatico, possa fare un atto qualsiasi di vita cristiana, un atto di fede nella Scrittura, senza farne uno alla necessità ed all’infallibilità del Papa. Ogni uomo che dice: “io credo alla Bibbia, ma non credo al Papa”, non sa cosa dice. Egli mente a se stesso e vive d conseguenza. Il giorno in cui rivivrà, sarà o ateo o cattolico. Nel frattempo egli non vive, vegeta. Così il protestante può negare la personalità del Papa, ma di buono o cattivo grado è forzato ad ammettere il principio del Papa. C’è di meglio. Questa necessità del Papa, per restare cristiano, è talmente implacabile, che nessuno è così papista del protestante. Il Cattolico non riconosce che un solo Papa, vescovo di Roma da diciotto secoli. Il protestante non si contenta di così poco. Egli ha tanti papi quanti ministri, re o regine ha; nelle affermazioni religiose, egli ha se stesso nel corso della giornata. Egli ha sempre un Papa con sé, egli è Papa a se stesso! – Se la quantità è a vantaggio del protestante, la qualità è a favore del cattolico. Il Papa cattolico non cambia mai. L’essenza del papa protestante è quella di cambiare sempre. Essi non sono mai d’accordo tra di loro, neanche con se stessi. Ne volete la prova? Osservate le miriadi di sette nelle quali è sbriciolato il dogma cristiano, … al punto tale che tutto ciò che resta oggi delle credenze comuni, tra i protestanti, dice un loro ministro, potrebbe scriversi sull’unghia del pollice! – Per sua natura, questo principio di divisione tende alla divisione infinita. Chi impedisce di giungervi? È ancora il Papa … e perché? Perché il Papa è un’affermazione, e fintanto che esiste un’affermazione, la negazione non può essere completa. Abbiatelo per certo. Senza l’azione indiretta del vero Papa sui paesi protestanti, vale a dire senza l’influenza permanente dell’affermazione cattolica nel mondo battezzato, da lungo tempo le ultime vestigia della verità cristiana, e con essi gli ultimi elementi della civilizzazione, sarebbero spariti dalle nazioni eterodosse. È dunque vero: ciò che il sole è per la natura, il Papa lo è per il mondo cristiano. Come solamente il sole, anche quando scende al di sotto dell’orizzonte, conserva per molto tempo ancora la luce al mondo fisico, così il Papa solo, Vicario immortale di Colui che illumina ogni uomo che viene sulla terra, conserva il Cristianesimo in tutte le sue componenti, cattoliche o non, del mondo civilizzato. Non vi sembra nulla questo?

SanPio-X

IV.

A che serve il Papa?

A che serve la chiave di volta in un edificio? … Ebbene, il Papa è la chiave di volta dell’edificio sociale, il quale non può sussistere senza dignità, senza libertà, senza sicurezza, senza proprietà. – Conservando il Cristianesimo, il Papa conserva la dignità umana. “Saper resistere fino al sangue piuttosto che piegarsi davanti all’orrore dell’ingiustizia”: ecco ciò che costituisce la dignità dell’uomo. Questa dignità, alle quali le società devono i loro appoggi, e l’umanità le sue glorie, riposa essenzialmente sul Papa. Come? Perché il sacrificio stesso della vita alla verità e alla giustizia, implica la conoscenza certa, la convinzione invincibile della verità e della giustizia. – Una tale “certezza” esige due condizioni, l’infallibilità e la libertà della parola, organo della verità e della giustizia. Ora, senza il Papa indipendente, non può esistere nessuna libertà di parola, la libertà che occorre, manifesta e riconosciuta, per dirigere la fede! – Al suo posto cosa avremmo? Oggi l’incertezza del vero e l’incertezza del diritto. Domani, una di queste grandi strappi che si chiama scisma. Con lo scisma un lugubre corteo di divisioni, di odio, di prevaricazioni, di perturbazioni religiose e sociali, la rovina della fede e la corruzione dei costumi. Avremo per preti: funzionari avidi, popes ignoranti, come in Russia; clergymen maritati, come in Inghilterra; per Chiesa: una donna di servizio, condannata agli uffici più degradanti, e che ingoia, senza dir parola, tutti i rifiuti del disprezzo, e tutte le onte della servitù. – Cosa avrete ancora? Il fatto al posto del diritto. L’infallibilità usurpata in luogo dell’infallibilità legittima. I re saranno Papi. Invece del Simbolo cattolico, avrete dei “credo” fabbricati dall’uomo, firmati Elisabetta o Nicola. Davanti a stracci di carta, usciti dallo studio di un despota o dal salottino di una cortigiana, dovrete prosternarvi. Sotto pena di morte, dovrete baciarli con il Vangelo, e baciandoli, abdicare ad ogni dignità morale. Così avvilita in ciò che ha di più nobile, cosa diviene l’umanità? Un pagano lo ha detto: un bovino esposto sul campo in una fiera, e sempre pronto ad essere aggiudicato al migliore offerente: Urbam venalem et mature perituram si emptorem invenerit. – Che diviene la società? Quella che è dappertutto senza il Papa: un ampio bazar dove tutto si vende, perché tutto si compra, libertà, onore, coscienza. Cosa divengono gli uomini più fieri? Ciò che furono nella Roma dei Cesari: valletti tuttofare, avvocati tuttodire, eccetto la verità, prestanti qualunque giuramento, cortigiani sinceri ugualmente verso Vitellio e verso Otone, un senato augusto deliberante con grave serietà sulla salsa di rombo che deve nutrire il loro maestro. – Conservare la dignità umana: ecco, ancor più, a cosa serve il Papa!

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V.

A che serve il Papa?

Il Papa serve a conservare la libertà. Il bene di cui l’uomo oggi si mostra più geloso (e meno fiero), è la libertà. I doveri di tutti sono le mura di cinta della libertà di ciascuno. Senza Papa, non c’è Chiesa. E senza Chiesa, chi insegnerà i doveri dei re verso i popoli, i doveri dei popoli verso i re, dei padri verso i figli, dei ricchi verso i poveri; dei forti verso i deboli, e reciprocamente? Nessuno! Chi, con la stessa autorità li riprenderà quando li avranno elusi, dicendo, fosse pure all’imperatore: “questo non ti è permesso”, “non licet”? Nessuno. – con il Papa cadono tutte le barriere protettrici della libertà. Al suo posto cosa avremo? Ciò che l’umanità senza il Papa ha avuto sempre e dappertutto: licenziosità e despotismo. – Scritti con il fango impastato di sangue, queste due parole significano in ogni lingua e in tutti i paesi: arbitrio, insolenza, ingiustizia, oppressione, lacrime, miserie. – Esse significano Tiberio, Eliogabalo, Diocleziano, Ivan, Enrico VIII, Couthon, Marat, e tutta quella dinastia di “tigri” coronate o non coronate, che hanno fatto dire a ragione: “Per nulla al mondo vorrei avere a che fare con un principe ateo. Se avessi voglia di farmi pestare in un mortaio, io sarei ben sicuro di essere frantumato”. Rendere impossibile la dinastia dei tiranni: ecco ancora a che serve la dinastia dei Papi.

-Pio-XI-Basílica-del-LLedó

VI.

A che serve il Papa?

A cosa serve l’armata ai confini del regno? A che serve il parafulmine sull’edificio? La diga davanti al torrente? Le mura di cinta intorno alla città? – Armata, parafulmine, diga, bastione, il Papa è tutto questo! – Imperatori e re, sappiatelo bene, il Papa protegge le vostre frontiere e le vostre corone. – Popoli, grandi e piccoli, il Papa garantisce la vostra nazionalità, la vostra autonomia. – Nobili e ricchi, il Papa protegge i vostri castelli e le vostre torri. – Banchieri, negozianti, operai, il Papa protegge le vostre casseforti, i vostri magazzini, le vostre casse di risparmio. – Lavoratori ed abitanti delle campagne, il Papa salvaguarda le vostre eredità e i vostri poderi. È il Papa ed il Papa solo che salvaguarda tutto questo. Voi lo comprenderete. A vostro avviso, chi protegge il mondo dal furto, dall’ingiustizia: … il comunismo? La forza? No. La forza è uno strumento cieco. Essa difende o attacca, conserva o spoglia, secondo la volontà di colui che la impiega. Chi dunque … il diritto? Da dove viene il diritto? Dalla stessa sorgente della verità. Perché? Perché il diritto non è che la verità applicata alla proprietà. Qual è la fonte della verità? È l’uomo? Impossibile. Chi dunque? Voi l’avete nominato: è Dio! – Poiché il diritto ha la sua origine e di conseguenza la sua regola in Dio, ne segue che il diritto pubblico, il diritto internazionale, il diritto di proprietà, come ogni altro diritto, è di natura divina. Ora, senza il Papa, il diritto divino non ha né organo divino, né garanzia divina. Esso viene rimpiazzato dal diritto umano, dal “nuovo diritto”. – Che cos’è il diritto umano? È il diritto dell’uomo, divenuto egli stesso il suo Dio, che prende come regola i suoi atti, non la legge eterna della giustizia, ma i suoi capricci ed i suoi interessi. È il diritto della forza, il diritto della convenienza, il diritto della cupidigia: “Fortitudo nostra lex justitiae” . È il diritto di Davide che fa perire Uria, per prendergli Bethsabea; il diritto di Nerone che fa tagliare la testa ai proprietari in Africa, per aggiungere questa provincia ai suoi possedimenti, il diritto dei sovrani del nord che si impadroniscono, nell’ultimo secolo, della povera Polonia spartendosela a pezzi. Il suo codice è breve: fatti in là che mi devo mettere io, altrimenti … – In queste condizioni, la forza altrui, la convenienza dell’altro, la bramosia del rivale, sono una minaccia perpetua ai vostri beni ed alla vostra sicurezza. Si vuole un Papa, perché si vogliono tutte queste cose. Tenetelo come tredicesimo articolo del simbolo. – Avete dubbi? Interrogate i francesi che hanno vissuto gli anni settanta e gli italiani che vivono ora. – In tutti i tempi ed in tutti i luoghi, i lupi della foresta richiedono il pastore, perché mirano alle pecore. Malgrado i loro dinieghi ipocriti, i lupi della rivoluzione, del socialismo, del comunismo, del nuovo diritto, non fanno eccezione. Il loro accanimento contro il Papato dovrebbe aprirvi gli occhi, e farvi capire che il Papa serve a qualcosa, anche nei vostri interessi temporali. – In verità, quando si vedono i popoli ed i re dell’Europa attaccare il Papato, ci si figura una schiera di forsennati che stanno per demolire l’edificio ove sono riparati, e che cadendo li schiaccerà sotto le sue rovine.

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VII.

A che serve il Papa-Re?

Io sento mille voci che gridano: “Anche noi vogliamo il Papa, bisogna che ci sia il Papa. Ma c’è il Papa-Re, ed il Papa-Pontefice. Se non vogliamo il primo, vogliamo però il secondo. È per esaltare il Pontefice che abbassiamo il Re. Se aboliamo il temporale è solo per amore dello spirituale. Il vero mezzo per arricchire il Pontefice di amore e venerazione, è spogliare il Re della sua corona e dei suoi beni. Lasciateci fare e vedrete. – Ma cosa vedremo? … che già vediamo? Ciò che vedremo lo sa Dio. Ciò che noi vediamo è la caparbietà dei vostri sforzi, per rendere il Papa-Pontefice incapace o impotente. Ma prima di dimostrarlo, esaminiamo perché il Papa-Re vi dispiace così tanto: “Ah, voi dite, perché i suoi Stati sono mal governati. Pio IX sordo ad ogni consiglio, si ostina a restare immobile in mezzo al progresso universale. I suoi soggetti ci fanno pietà”. Siete ben sicuri delle vostre affermazioni? Parlate sinceramente? Sareste pronti a lasciarvi tagliare, non la testa, o la mano, ma la prima falange del mignolo? L’Inghilterra, la Francia o il Piemonte oggi, sono per voi il tipo della civilizzazione e del progresso? A questi paesi beati comparate gli Stati del Papa, e voi gridate gemendo: “che differenza”! Qui abusi innumerevoli; là giustizia, e regolarità dappertutto. “Negli Stati del Papa, la legislazione e incomparabilmente più imperfetta”. Menzogna! – “l’autorità meno paterna” Menzogna! – La giustizia più mal resa”. Menzogna! “la miseria più profonda”. Menzogna! – Le finanze peggio amministrate”. Menzogna! “La libertà [da non confondere con la licenziosità] meno grande”. Menzogna! “L’istruzione meno avanzata”. Menzogna! “La proprietà meno rispettata”. Menzogna! “Le imposte più pesanti”. Menzogna! “La vita più cara”. Menzogna! – Tutte queste menzogne ed altre ancora sono constatate in due opere, irrefutabili come la storia. La prima parla in cifre ed con cifre ufficiali: si chiama Roma e Londra. La seconda è dell’ambasciatore stesso di Francia a Roma, M. de Rayneval, che, senza dubbio, non era pagato per fare l’apologia degli Stati del Papa. In un rapporto diplomatico, che voi non leggerete mai, questo testimone così competente e che parla da cotale altezza, dice tra le altre, due cose: “ Io non smetto di interrogare le persone che vengono a denunciare gli abusi del governo papale. Questa parola è parola di Vangelo. Ma in cosa consistono questi abusi? È quanto io non ho potuto ancora scoprire. Tutte le misure adottate dall’amministrazione pontificia portano il segno della saggezza, della ragione, del progresso. Non c’è un solo dettaglio di natura che interessi il benessere, sia morale, sia fisico delle popolazioni, che sia sfuggito all’attenzione del governo o che non sia stato trattato in modo favorevole. In verità, quando certe persone dicono che il governo pontificio forma un’amministrazione che non può avere come scopo il bene del popolo, il governo potrebbe rispondere: “studiate i nostri atti e condannateci, se osate”. Ecco pertanto come voi siete ingannati o ingannatori. E certi cattolici hanno l’imprudenza di fare eco a tante calunnie! Essi ignorano forse che oggi la menzogna, inventata dagli uni e sdoganata dagli altri, è più che un’arma? È una potenza. Essa tenta, come abbiamo promesso di mostrare, di rendere il Papa incapace ed impotente.

XIR212502 Pope Sixtus V (1520-90) (oil on canvas) by Italian School, (16th century) oil on canvas Chateau de Versailles, France Lauros / Giraudon Italian, out of copyright

VIII.

Impossibile.! … voi chiedete a che serve il Papa-Re? Nessuno lo sa meglio di voi. Se non servisse a niente, voi non lo attacchereste. La prova evidente che egli serve a tutto, è che voi l’attaccate dappertutto. La vostra distinzione tra il Papa-Pontefice e il Papa-Re non è che una illusione. Il Papa è la continuazione del Figlio di DIO, Pontefice e Re. Nella sua Persona, l’unione della Regalità e del Pontificato è necessaria, per rappresentare davanti alle generazioni che passano, il Re e il Pontefice che non passa. Venuti dalla stessa origine, queste due prerogative tendono allo stesso scopo. Il Re serve al Pontefice, come il corpo serve all’anima. Radicalmente privato del potere temporale, il Papa è un’anima senza corpo. Stabilito per comandare a degli esseri sia materiali che spirituali, come potrà il Papa, anima senza corpo, mettersi in relazione con questi soggetti? Apostoli del puro spirituale, spiegateci il problema: altrimenti voi convenite di non sapere ciò che dite, e che il primo effetto delle vostre utopie sarà il relegare il Papa e la Chiesa nel mondo angelico, vale a dire, secondo il vostro pensiero, nell’impero della Luna. – Impotente! Voi parlate del vostro rispetto per il Papa-Pontefice, divenuto semplice vescovo di Roma. Il Papa-Pontafice è Re, è la più alta maestà sulla terra: perché egli è la Personificazione vivente della regalità eterna ed eternamente indipendente, del Figlio di Dio sul mondo. Il Papa, Pontefice e Re è il Papa marciante come il primo tra i monarchi; il Papa che gode, ad un grado inaccessibile ad ogni altro, del prestigio e della sovranità. Questo prestigio è doppiamente indispensabile sia per imprimere, vicino e lontano, il rispetto ai principi e agli uomini fino all’estremità della terra, sia per conservare, brillante come il sole, il sigillo dell’indipendenza, necessaria alla parola pontificale. – Tale è l’augusto carattere con il quale si presenta il Papa-Re. Ed è impotente ad ottenere il vostro rispetto e la vostra obbedienza?! Cosa dico? Voi osate propinargli l’ingiuria e il disprezzo! … voi mi direte, “l’errore della sua regalità”. Ah , se egli non fosse Re! … di quale rispetto lo circonderemmo!” Fedelmente tradotto, questo linguaggio significa: “Quando il Papa sarà disceso dalle altezze alle quali lo ha elevato il consiglio di Dio e il rispetto dell’universo … ; quando in luogo di essere il primo dei sovrani, non sarà più un Re ma un soggetto … ; Quando non avrà più organi ufficiali per intimare i suoi ordini ai principi ed ai popoli, né rappresentanti accreditati per difendere gli interessi della Religione nel mondo intero … ; quando la sua parola solitaria, senza protezione legale, potrà ogni giorno essere snaturata, troncata, tradotta in controsenso da una stampa ostile … ; quando infine, non si parlerà più del Papa e a chiunque sarà permesso di oltraggiarlo impunemente … : è allora che tutti cadranno alle sue ginocchia, rispettosi come i primi cristiani, obbedienti come novizi” !? – Non resta che una cosa da ottenere: che vi si creda!

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IX.

“Noi l’otterremo”, voi aggiungete; perché noi siamo Cattolici nel fondo delle viscere; ed anche, senza errare, più cattolici del Papa! Se noi chiediamo la soppressione del temporale, è per liberare lo spirituale, rendere il Papa più libero e ricondurre la Chiesa alla sua primitiva perfezione. Gesù-Cristo è nato in una grotta: Egli non ha posseduto nulla; Egli ha dichiarato che il suo reame non è di questo mondo. San Pietro non ha avuto se non la sua barca ed il suo bastone. I primi Papi furono poveri come lui. In luogo dei palazzi, essi abitavano nelle catacombe. Cosa è più bello?” Tutto questo è vero, ma è anche vero secondo le classiche teorie sull’origine delle società, che ci fu un tempo in cui i re vivevano di ghiande come loro soggetti; in cui essi non avevano per palazzi se non capanne, per equipaggio i loro piedi nudi, e come mantello reale se non la loro pelle. Cosa di più perfetto? Cominciate dunque a far rivivere, nel secolo diciannovesimo, questo felice stato di “santa natura”; poi vedremo di ricondurre la Chiesa a quelli che voi chiamate i bei giorni della sua persecuzione primitiva. – Proseguendo nella comparazione che vi piace fare tra il presente ed il passato, voi giungete alla conclusione della legittimità, all’utilità finanche della spoliazione del Papa. Siate allora consequenziali ed aggiungete alle litanie: “San Mazzini, san Garibaldi, san Vittorio Emanuele grandi benefattori della Chiesa, pregate per essa e per noi”. – Ma andiamo al fondo delle cose, o voi credete ai vostri ragionamenti, o non ci credete. Se non ci credete, allora perché li fate? Se ci credete, non solo non siete Cattolici, ma nemmeno cristiani. Voi dite che il temporale non è né necessario, né utile alla Chiesa; che è addirittura contrario alla sua perfezione ed un ostacolo alla vostra salvezza. La Chiesa afferma il contrario. Essa dunque si inganna manifestamente. Se la Chiesa si inganna, è il Figlio di Dio stesso che si inganna, Lui che ha promesso di essere tutti i giorni della durata dei secoli con la sua Chiesa che insegna ed agisce. Noi diciamo “la Chiesa”, notatelo bene; perché noi vi diffidiamo dal citare un solo Papa che sia stato del vostro stesso avviso, o un suo Vescovo veramente Cattolico che non pensi come il Papa. – Chi siete allora voi per insorgere contro tale autorità e volete distruggere il Papato così come Dio ed i secoli lo hanno costituito? Chi siete voi per accusare la Chiesa, o per non aver compreso le parole o gli esempi del suo Fondatore, o per averli indegnamente disprezzati? Chi siete voi per dire al Vicario di Gesù-Cristo: noi sappiamo meglio di voi quel che conviene alla Religione, e ciò che non le conviene? Quale spirito vi anima quando osate dichiarare il Padre del mondo cristiano testardo, ingrato, incapace di governare i suoi popoli? Da dove venite voi? Chi vi manda? Riformatori, quali miracoli accreditano la vostra missione? Dov’è il vostro mandato? Da chi è firmato? Giù la maschera, almeno una volta: mostrate il vostro volto!

Pio VII

X.

Perché vogliamo un Papa-Re?

Voi esitate, ma se la vostra bocca resta muta, i vostri atti parlano e cosa dicono? Essi dicono che malgrado le vostre migliori rassicurazioni di rispetto per il Papa-Pontefice e dell’amore dello spirituale, voi non volete il Papa-Pontefice più del Papa-Re. Essi dicono anche che voi non volete il temporale se non perché da lungo tempo fate buon mercato dello spirituale. Chi dunque oggi attacca il potere temporale di San Pietro se non coloro che con i loro scritti e con i loro atti, testimoniano grandemente il loro disprezzo per il potere spirituale.? Quello che volete, ve lo diciamo noi ora: voi volete sbarazzarvi di questo vegliardo che vi disturba. Voi vorreste annientare il Papato che voi sapete non dover mai patteggiare con le vostre dottrine. Non essendovi dato questo, voi volete incatenarlo ed indebolirlo. Quando sotto il pretesto dell’unità di Italia, avete rinchiuso il Papa in Vaticano e stabilito intorno alla sua dimora una linea di circonvallazione piemontese … ; quando nessuna corrispondenza venuta dai quattro angoli del mondo cattolico potrà pervenire al Santo Padre senza passare per il controllo degli agenti piemontesi, … quando nessuna risposta potrà essere data senza passare per lo stesso controllo … ; quando infine, per dir la parola, il Vicario di Cristo sarà il locatario di Vittorio Emanuele, con Mazzini maggiordomo e Garibaldi portinaio, il giro sarà compiuto. – Voi avrete reso il governo della Chiesa impossibile a Pio IX, come lo fu già a Pio VII, prigioniero in Savona. In questo stato, lo ammettiamo, si vedranno i soldati di Pilato, flettere il ginocchio davanti al Vicario di Gesù-Cristo e dirGli schernendolo: Salve re delle coscienze: “Ave rex judaeorum”. – Ecco cosa volete! Questo gioco sacrilego per quanto tempo vi basterà? Chi può rispondere? Tre cose soltanto sono certe: Il Calvario non è lontano dal Pretorio; San Pietro fu crocifisso in Vaticano; e qualche anno dopo il deicidio, Tito si accampava intorno a Gerusalemme di cui non restò pietra su pietra. Quanto a voi Cattolici, voi potete, con lo sguardo fermo ed il cuore alto, guardare al futuro. I necrofori dormiranno nelle tombe che avranno scavato per voi. Nell’attesa, a tutti i sofismi contentatevi di rispondere: “io sono figlio della Chiesa, e come in tutti i secoli cattolici, io credo ciò che crede il Santo Padre; io approvo quello che egli approva; io condanno ciò che egli condanna, né più né meno. Su questo cuscino dei martiri e dei santi, io dormo in pace! “In pace in idipsum dormiam et requiescam”. Lo si vede, nessuno al mondo tiene così ampio spazio come il Papa, ed il Papa-Re. Se egli sparisce, la sua assenza lascia un vuoto che non sarà mai colmato! Capo della Chiesa, sole del mondo, chiave di volta della società, organo di ogni dovere, protettore di tutti i diritti: se egli cade, tutto crolla con lui, e sprofonda in un abisso senza fondo. Tale è la risposta a questa domanda: A che serve il Papa, ed il Papa-Re?

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XI.

Perché il Papa serve a tutto?

Il Papa serve a tutto, egli è tutto ciò che noi abbiamo già detto, non perché è un uomo, ma perché è il Papa. L’uomo è una cambiale. Di per se stesso la cambiale non è nulla, niente più di un pezzo di carta. Così è l’uomo. Ma la cambiale vale ciò che rappresenta, così come l’uomo che si chiama: Papa. Cosa vale il Papa? Ciò che egli rappresenta. E che cosa rappresenta? Dio stesso. Depositario scelto da Dio e depositario unico, in lui si concentra tutto ciò che nell’ordine morale, Dio è per il mondo civilizzato. Per il mondo civilizzato Dio è tutto: Religione, società, famiglia, diritto, giustizia, dignità, libertà, sicurezza. Il Papa è tutto questo. – Vicario di Dio, tutti questi tesori escono dal Papa come il calore e la luce vengono dal focolare incandescente, come il sangue esce dal cuore e porta la vita a tutte le parti dell’organismo. Dal Papa queste forze elementari sono messe in azione, mantenute in armonia, applicate in misura conveniente, secondo i climi, i tempi e le persone. Ciò che tutti gli esseri devono dire del Creatore, i principi civilizzatori delle nazioni cristiane possono dire parlando del Papa: è in lui che abbiamo la vita, il movimento e l’essere: “In ipso enim vivimus, et movetur, et sumus”. Eliminate il Papa, e la divina cambiale di banca è distrutta. Il valore che rappresenta non esiste più. Le transazioni necessarie tra il potere ed il dovere, si faranno allora con la carta-moneta dei cambiamenti politici, degli espedienti effimeri, assegni senza garanzia, avranno corso con i proiettili dei cannoni rigati o con il selciato delle barricate. È dunque manifesto che attaccando Pio IX, non è l’uomo che si attacca, ma il Papa, e attaccando il Papa, si attacca Dio stesso, così com’è dato all’umanità cristiana costituita per essere elevata fino a Lui. Caduto il Papa, occorre ridirlo, l’idea sovrana di Dio redentore, di Dio civilizzatore, ricade nello stato di lettera morta, per perdersi ben presto nella polvere del dubbio e finire nel niente della negazione universale, con tutte le sue conseguenze. Con queste verità fondamentali si misura l’enormità dell’attentato che si commette oggi.

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XII.

Perché il Papa è così bistrattato?

Stando così le cose, sembra che sotto il cielo dell’Europa, non si dovrebbe incontrare né un solo uomo, né una sola donna che non tenga al Papa, e al Papa-Re, così come ognuno tenga e debba tenere al Cristianesimo, alla civilizzazione, alla sua dignità personale, alla sua libertà, alla sua fortuna, alla sua sicurezza. – Altro è la realtà. Il Vicario del Figlio di Dio, come d’altra parte il Figlio di Dio stesso, è oggi tradito dagli uni, abbandonato dalle altre: “relicto eo, omnes fugerunt”. Si è fatto il vuoto intorno a lui, ed egli percorre la sua via dolorosa in mezzo all’indifferenza delle nazioni. – Di questa indifferenza mostruosa, presagio sinistro di innominabili catastrofi, qual è la causa? Non si ama ciò che non si vuol conoscere. Ora, chi è meno conosciuto del Papa, anche tra i Cattolici? Essi sanno del Papa che Egli è il capo della Chiesa, che istituisce i Vescovi e canonizza i Santi. – Ma il posto che il Papa occupa nel mondo; l’obbedienza filiale che gli devono i re ed i popoli; l’influenza indispensabile della sua azione, sia nell’ordine temporale che nell’ordine spirituale; i benefici immensi di cui l’umanità gli è debitrice; l’indipendenza necessaria della sua Sede; di tutto questo cosa sanno le generazioni moderne? Niente! – Di chi è la colpa? A rischio di stancare certe orecchie sorde, noi non tralasciamo di affermare la verità. Noi ci indirizziamo a tutti coloro che hanno fatto i loro studi classici , e la società ad immagine dei loro studi, e noi domandiamo loro se abbiano mai avuto tra le mani un solo libro greco, latino, francese, storico, scientifico o di altro genere, che risponda seriamente, con tutta verità a questa domanda fondamentale: “a che serve il Papa?” – Ognuno di noi non può dire in tutta sincerità: “noi conosciamo a memoria i ruoli diversi di tutti gli dei del paganesimo; le lotte dei patrizi e dei plebei; le decisioni più o meno importanti del senato e dell’areopago; i fatti, gesta e detti di Alessandro, di Cesare, di Socrate e di Cicerone. – Ma la necessità sociale del Papa; le lotte eroiche dei Papi in favore della libertà dei popoli, … ma i benefici dei Papi, … ma le vittorie dei Papi sulla forza bruta e sulla barbarie, … ma la grande saggezza dei Papi nel governo del mondo: chi ce ne ha mai parlato? – “Tutta la nostra istruzione classica, storica, letteraria, giuridica, politica, talvolta pure teologica, è indifferente o ostile al Papato. È non è stupefacente che in presenza dei suoi nemici, noi restiamo indifferenti, muti, disarmati? Noi siamo quello che ci hanno fatto. Se noi siamo colpevoli, più colpevoli sono coloro che ci hanno reso ciò che noi siamo.”

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.XIII.

Solenni avvertimenti

In mezzo a queste lamentevoli disposizioni, la cui responsabilità pesa con più forza su coloro che meno lo credono, che fa il Santo Padre? Umiliato, coperto di oltraggi, minacciato nella sua libertà, forse anche nella sua vita, egli si rivolge a tutti e ad ognuno, ai re come ai popoli; e sotto forma di supremo addio, dice loro queste parola di Geremia, scritta veramente per la circostanza: “Ecco che io sono tra le vostre mani: fate di me quel che vi piacerà. Ma sappiatelo bene: se voi mi oltraggiate, se attentate alla mia libertà o alla mia vita, voi chiamate tutti i fulmini del cielo sulle vostre persone, sui vostri reami, e sui loro abitanti: perché io sono veramente il luogotenente di Dio. L’organo della sua volontà il depositario dei suoi diritti”. [“Ego autem ecce in manibus vestris sum: facite mihi quod bonum et rectum est in oculis vestris. Verumtamen scitote et cognoscite quod, si occideritis me, sanguinem innocentem tradetis contra vosmetipsos, et contra civitatem istam, et habitatores ejus: in veritate enim misit me Dominus ad vos, ut loquerer in auribus vestris omnia verba haec.” Ger. XXVI, 14-15] – Lo crederanno essi? Forse! Quello che è certo è che “il mondo passerà, ma le parole di verità eterna non passeranno. Così come i loro precursori, i nemici attuali del Papato saranno frantumati come vasi di terracotta: e quando la rivoluzione avrà gettato al vento le loro polveri, il Papa, unico superstite di tutti i poteri, continuerà a proclamare, tra le rovine delle cose umane, il cantico della sua immortalità regale: “Et portae inferi non praevalebunt”!

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Questa libricino fu scritto da mons. Gaume all’epoca di Pio IX. Egli aveva avuto, ed aveva, dei veri grandissimi Papi, e rettamente interpretava e difendeva il ruolo del Santo Padre. Chissà, oggi che il soglio di Pietro è occupato dagli agenti della sinagoga deicida usurpante, vicari di entità indecifrabili, forse di Belial? … che hanno posto l’abominio della desolazione sugli altari di Gesù-Cristo, cosa scriverebbe mai? Ai posteri l’ardua e “banale” sentenza … direbbe nonno Basilio! Invochiamo il buon Dio affinché ponga presto fine, con il soffio della sua bocca, a questi tempi di apostasia, e rimetta al suo posto l’Autorità degna di Lui, come descritta dal Mgr. Gaume! Dio ci conceda!

IL PERDONO DI ASSISI

Nozione del perdono di Assisi.

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… Che dai primi vespri della vigilia al tramonto del sole del dì 2 di agosto di ogni anno si può lucrare in qualunque chiesa dell’ordine francescano e in ogni altra che ne goda il privilegio.

A poco più di un miglio da Assisi, città di Romagna presso Perugia, fin dall’anno 342, fu da quattro pii eremiti innalzata una piccola cappella in onore di Maria. Data nel sesto secolo ai Padri Benedettini, fa ampliata ed abbellita, non che dotata di una piccola porzione di terreno, donde le venne il nome di Porziuncola a cui, per le apparizioni degli Angeli in progresso di tempo avvenute, fu sostituito quello di: Santa Maria degli Angioli.

Francesco detto serafico, che diede tanto lustro ad Assisi in cui ebbe i natali, frequentò da fanciullo codesta piccola chiesa: e vedendola derelitta e cadente, la domandò e la ottenne dal benedettino Abate P. Tebaldo, e si occupò con molta premura a t’istaurarla: e fabbricatasi in sua vicinanza una piccola abitazione, la preferì a qualunque altro luogo per farvi la propria dimora: tanto più che, dopo avervi abitati per due anni senza la compagnia di alcuno, sentendo un giorno al Vangelo della Messa, la raccomandazione di Cristo ai proprii discepoli di non portare nei loro viaggi né denaro, né bisaccia, né abiti, né scarpe, né bastone, prese queste parole per norma della sua vita, e per prima regola del nuovo ordine dei Minori, che instituì poco dopo, onde promuovere con più efficacia la gloria di Dio e la santificazione delle anime. – Fu in questo suo domicilio che nell’anno 1221, una notte gli apparve un Angelo, e lo avvisò di recarsi subito al vicino Oratorio, dacché ivi lo attendevano Gesù Cristo e la Vergine con un numeroso corteggio di Angioli. A questo annuncio, tripudiarne di gioia, andò Francesco nella nuova cappella; e appena vi scese, che vide, come gli era stato predetto, in mezzo a un gran corteggio di Angeli, Gesù Cristo insieme alla Vergine, che amorosamente lo incoraggiava a domandargli quella grazia che egli credesse più opportuna, non solo pei Frati del suo Ordine, ma ancora per tutti quelli che visitassero quella Chiesa. Il serafico Patriarca, più premuroso del bene spirituale che di quello temporale, domandò che chiunque andasse a visitare quella piccola chiesa, potesse avere un’Indulgenza Plenaria di tutti quanti i propri peccati, quando presso approvato confessore ne avesse fatto sincera confessione. Gesù Cristo mostrò il più vivo gradimento per tal domanda, e gli impose d’andar dal Papa, per raccontargli l’avuta visione, e pregarlo d’accordargli con decreto questa Plenaria indulgenza. Stupì a tal domanda il Pontefice Onorio III, che allor si trovava in Perugia, a cui appunto per questo poté facilmente parlare il Santo, ma pur vi aderì, per quanto a principio gli paresse poco conveniente la concessione di un’Indulgenza non mai accordata prima di lui, cioè un’Indulgenza Plenaria, libera, universale, perpetua come era quella che domandava Francesco. Volendo però dargli in proposito l’opportuno diploma, Francesco lo ricusò dicendo che Iddio medesimo avrebbe pensato ad autenticargli questo favore, dacché chi aveva cominciato l’opera si sarebbe dato premura di renderla intera e compita. Ed ecco come venne a verificarsi quanto si predisse dal Santo. – Siccome per la sopradetta indulgenza non era stabilito alcun giorno particolare, così san Francesco pregò il Signore di fargli conoscere in proposito la sua volontà. Nè rimase egli deluso nella sua aspettazione. Al principio dell’ anno 1223, mentre trattenevasi in orazione nella detta cappella, si trovò agitato da bruttissima tentazione. Per trionfare compiutamente egli si spogliò de’ suoi abiti, e si ravvolse in un vicino cespuglio di pungentissime spine. Piacque tanto al Signore questo eroismo che il compensò con tre prodigi. Il primo fu quello di coprire il serafico Patriarca d i nuovo abito bianco; il secondo che tra le spine spuntarono improvvisamente le più belle rose, ad onta del rigore della stagione, dacché era il mese di gennaio; il terzo che alcuni Angeli, i quali lo ricrearono col loro canto, lo avvisarono di tornare alla chiesa ivi lo attendeva Gesù Cristo colla sua ss. Madre. Andatovi Francesco all’istante, e adorato il divin Redentore, che vi trovò fatto visibile ai suoi occhi mentre il pregava a fargli conoscere il giorno più opportuno per l’Indulgenza, ebbe in risposta che dessa doveva cominciare al dopo pranzo del giorno in cui S. Pietro fu liberato dal carcere (1 Agosto) e durare fino alla sera del giorno susseguente. Sparita la visione, andò Francesco dal Papa per raccontargli l’accaduto. E siccome la sua visione era autenticata dalla presentazione delle rose, che solo per miracolo si potevano trovare in quella stagione, così Onorio III, non solo gli accordò la Bolla implorata, ma ordinò che i sette vescovi delle città più vicine, cioè d’Assisi, di Perugia, di Todi, di Spoleto, di Foligno, di Nocera e di Gubbio io vi si recassero il primo giorno di agosto per farne la solenne pubblicazione, il che avvenne fra un concorso sterminato di popolo, a cui s. Francesco medesimo fece conoscere con apposito discorso la preziosità della grazia ottenuta. – Una così solenne Indulgenza, che fin dal principio fu dichiarata perpetua, era ristretta alla sola chiesa della Madonna degli Angioli che ben tosto venne cambiata in un magnifico tempio. Ma dal Papa Gregorio XV con Bolla 4 luglio 1622, fu estesa a tutte le chiese dell’Ordine Francescano. Innocenzo XI poi il 12 gennaio 1678 la dichiarò applicabile ai defunti; e Innocenzo XII il 21 agosto 1699, la dichiarò perpetuamente in vigore anche nell’Anno Santo in cui cessano tutte le altre. – questa Indulgenza che comincia dopo mezzodì del giorno 1 agosto, e dura fino al tramonto del giorno 2 ha una particolarità tutta sua, ed è, che in detto tempo si può acquistarla tante volte, quante volte si ripete la visita di qualsivoglia chiesa appartenente al Francescano istituto. – Questo privilegio affatto nuovo, oltre ad avere l’incontrastabile appoggio delle Bolle Pontificie e dello dichiarazioni della Congregazione del Concilio del 7 luglio 1700, e 4 dicembre 1722, fu dichiarato per vero, legittimo, quindi sussistente in perpetuo, dalla santa Congreg. delle Indulgenze il 22 febbraio 1847. – Unitevi adunque ancor voi a quei fedeli sinceramente divoti che si fanno una gloria di approfittare d’un dono così prezioso, qual è la Indulgenza plenaria acquistabile “Toties Quoties”, cioè quante volte si rinnova la visita di una delle chiese in cui ha luogo, come nella gran chiesa della Porziuncola, il così detto Perdono d’Assisi, il quale fu solennemente riconosciuto dallo stesso Benedetto XIV nel lib. 13, cap. 18 della sua celeberrima opera sul Sinodo Diocesano. Datevi quindi premura di fare speciale ricorso alla SS. Vergine, per la cui intercessione fu da Gesù Cristo accordato il tesoro inestimabile di sì preziosa indulgenza, al quale scopo troverete utilissime le seguenti Orazioni:

I. Per quella benignità tutta particolare con cui per mezzo degli Àngioli resi più volte visibili nella ristorata Chiesa della Porziuncola, mostraste di gradir la premura del vostro fedelissimo servo S. Francesco d’Assisi, perché colle elemosine da lui raccolte, la tolse al totale decadimento a cui si trovava vicina, e la vestì di nuovo decoro, ottenete a noi pure, o gran Vergine, di meritarci sempre più amorevole il vostro patrocinio col cooperare costantemente alla vostra maggiore glorificazione. Ave

II. Per quel favore specialissimo che voi impartiste al vostro fedelissimo servo san Francesco d’Assisi quando con voce miracolosa lo avvisaste di recarsi alla chiesa della Porziuneola per godervi la vista di voi e del vostro divin Figliuolo visibilmente comparsi tra mezzo agli Angioli in quella chiesa; e vedendolo poi prostrato ai vostri piedi, lo assicuraste del vostro appoggio per ottenervi qualunque grazia egli fosse per dimandare al vostro divino Unigenito, ottenete a noi tutti, o gran Vergine, di vivere, a somiglianza di quel gran Patriarca una vita di continua mortificazione e di continua preghiera, onde essere certi del compimento delle nostre speranze in qualunque cosa facciamo a voi ricorso. Ave…

III. Per quell’ammirabil prontezza con cui interponeste presso il vostro divin Figliuolo la vostra mediazione a favore del vostro fedelissimo servo San Francesco d’Assisi, quando vi domandò che fosse accordata Plenaria Indulgenza a tutti coloro che visitassero la chiesa della Porziuncola nel giorno anniversario della vostra apparizione, e poi moveste il pontefice Onorio III a garantire a tutto il mondo la verità dell’avvenuto prodigio, e a confermare colla sua autorità la da voi ottenuta Indulgenza, ottenete a noi tutti, o gran Vergine, di far sempre, a somiglianza di S. Francesco, nostra particolare premura l’assicuramento del perdono dei nostri falli, e di esser sempre solleciti d’acquistar lo spiritual tesoro delle ssante Indulgenze, con cui scontando ogni pena alle nostre colpe dovuta, ci rendiamo sempre più certo l’immediato possesso della gloria, sempiterna del cielo dopo i brevi travagli di questa misera terra. Ave, Gloria…

Oremus

Concede, misericors Deus, fragilitati nostrae presidium, ut qui sanctae Dei Genitricis memoriam agimus, intercessionis ejus auxilio, a nostris iniquitatibus resurgamus. Per eundem Dominum, etc.

 

1 AGOSTO: SAN PIETRO IN VINCOLI

San PIETRO IN VINCOLI – 1 AGOSTO.

catene S. Pietro

L’anno 42 di Cristo, Erode Agrippa, dopo aver fatto decapitare S. Giacomo il Maggiore, dietro l’approvazione del popolo, fece pure imprigionare S. Pietro con intento di darglielo nelle mani la prossima festa di Pasqua. Venuti a conoscenza del fatto, i cristiani di Gerusalemme ne furono assai desolati e radunatisi nella casa di Maria, madre di Giovanni Marco, cominciarono a far fervida orazione al Signore per la di lui liberazione. Era già la notte che precedeva la festa ed essi ancora vi perseveravano in digiuni e preghiere. Nel tempo stesso ecco che un Angelo del Signore appare nella prigione ove stava legato Pietro, lo tocca al lato destro e gli dice: “Presto, levati”: ed all’istante le catene gli cadono dalle mani e dai piedi, cosicché si vede libero. E l’Angelo gli dice ancora: “Cingiti e legati i sandali; indossa il mantello e seguimi”. Pietro stupito a tal prodigio segue il celeste Nunzio in un barlume di luce senza pur sapersi dar ragione dell’avvenuto. I due, passati la porta della prigione, uscirono da quella che metteva in città e trovatisi all’imbocco della prima via la celeste guida disparve. – Pietro allora, svegliatosi come da un sogno, rientrò in se stesso e conobbe qual era il miracolo, onde lodando Dio esclamò: « Or veramente riconosco che il Signore ha mandato il suo Angelo e mi ha liberato dalle mani di Erode e dall’attesa del popolo dei Giudei ». Le quali parole piene di gaudio e di riconoscenza ci dimostrano l’ardente cuore di quel Pietro che uscito dall’atrio di Anna, pianse amaramente il rinnegamento del Maestro. – Quindi continuando la strada giunse in breve alla casa di Maria, ove si pregava incessantemente per la sua liberazione. – Bussò la porta ed al rumore accorse una fanciulla di nome Rode, la quale, avendo udito la voce di Pietro, per la gioia, senza neppure aprire, ritornò ad annunziare agli altri la venuta del loro pastore. Quelli esitarono al lieto annunzio, ma poi essendo andati ad aprire constatarono la felice realtà dei loro desideri e dei loro voti. E Pietro entrato in casa, raccontò quanto il Signore aveva operato per liberarlo, ordinando di annunziarlo anche agli altri fratelli. – Le miracolose catene colle quali fu legato S. Pietro, venute poi in possesso dei cristiani, rimasero per molto tempo a Gerusalemme, in grande venerazione di tutti; ma nel 439 Eudossia moglie di Teodosio, ne mandò una a sua figlia in Roma, che fu donata al Papa. L’altra pure non molto tempo dopo fu unita a questa per divina volontà e si dice che appena furono toccate assieme per miracolo si congiunsero da non mai più separarsi. – Non sono a dirsi i prodigi e le guarigioni che esse operarono ed operano tuttora: i fedeli le venerano come le reliquie dei Santi, e tutti coloro che si recano a Roma non tralasciano certamente di visitarle e pregare innanzi ad esse.

FRUTTO. — La Chiesa quest’oggi ci invita a pregare il Signore, affinché ci liberi dal vincolo dei nostri peccati, ma non dimenticheremo certo di pregare anche per il Sommo Pontefice, il Papa (quello “vero”), domandando a Dio la sua conservazione e la liberazione dai suoi nemici.

PREGHIERA. — O Signore, che hai sciolto dalle catene il beato apostolo Pietro e ne l’hai tratto illeso, ti preghiamo di sciogliere i vincoli dei nostri peccati, e siaci propizio nell’escludere da noi ogni sorta di male. Cosi sia. [da;: “I Santi”; Alba-Roma, 1933]

Catene che liberano.

Facendo un Dio dell’uomo che l’aveva asservita, Roma consacrò il mese di agosto alla memoria di Cesare Augusto. Quando Cristo l’ebbe liberata, essa pose come monumento della libertà riconquistata in capo allo stesso mese la festa delle catene che Pietro Vicario di Cristo aveva portate per infrangere le sue. – O Divina Sapienza, che regni su questo mese, tu non potevi inaugurare in modo più autentico il tuo impero. Forza e dolcezza insieme sono l’attributo delle tue opere (Sap. VIII, 1), e appunto nella debolezza dei tuoi eletti tu vinci i potenti (I Cor. i, 18-31). Tu stessa per darci la vita, avevi accettato la morte; per riscattare la terra a lui affidata, Simone figlio di Giovanni è diventato prigioniero. Dapprima Erode e più tardi Nerone, hanno fatto conoscere quale fosse il prezzo della promessa ch’egli ricevette, un giorno, di legare e di sciogliere sulla terra come in cielo (Mt. 16, 19): doveva in cambio portare l’amore del Pastore supremo fino a lasciarsi al pari di Lui (Gv. XVIII, 12) caricare di catene per il gregge e condurre dove egli non voleva (ibid. XXI, 15-18). Catene gloriose, che non farete mai tremare nemmeno i successori di Pietro, voi sarete di fronte agli Erodi, ai Neroni e ai Cesari di tutti i tempi la garanzia della libertà delle anime. Di quale venerazione dunque vi onora il popolo cristiano!

Le catene degli Apostoli Pietro e Paolo.

Gli anelli che avevano stretto il braccio del Dottore delle genti, furono anch’essi raccolti dopo il suo martirio. Da Antiochia, san Giovanni Crisostomo, che desiderava andare a Roma per venerarli, esclamava: « Che vi è di più magnifico di quelle catene? Prigioniero per Cristo è un nome più bello che apostolo, evangelista o dottore. – Essere legati per Cristo è meglio che abitare i cieli: sedere sui dodici troni (Mt. XIX, 28) è un onore meno sublime. Chi ama mi comprende, ma chi mai penetrò queste cose come il santissimo coro degli Apostoli? – Per parte mia, se mi si desse da scegliere fra quei ferri e tutto il cielo, non esiterei; poiché in essi sta la felicità. Io vorrei ora trovarmi nei luoghi dove si dice che sono ancora custodite le catene di quegli uomini meravigliosi. Se mi fosse dato di essere libero dalle cure di questa chiesa, di avere un po’ di salute, non indugerei a intraprendere questo viaggio per vedere solo la catena di Paolo. Se mi si dicesse: Che cosa preferisci essere: l’Angelo che liberò Pietro o Pietro incatenato? io preferirei essere Pietro, a motivo delle sue catene » (Vili Omelia sull’Epistola agli Efesini). – Pur sempre venerata nell’augusta basilica che custodisce la sua tomba, la catena di Paolo non è divenuta tuttavia come quelle di Pietro oggetto d’una festa speciale nella Chiesa. Questa distinzione era dovuta alla preminenza di colui che fu il solo a ricevere le Chiavi del Regno dei cieli e che è il solo a continuare attraverso i suoi successori a legare e a sciogliere sovranamente. La raccolta delle lettere di san Gregorio Magno testimonia come, nel secolo vi fosse universalmente diffuso il culto delle sante catene, alcune particelle delle quali, racchiuse in chiavi d’argento o d’oro, formavano il più ricco dono che i Sommi Pontefici avessero l’usanza di offrire alle chiese illustri e ai principi che essi volevano onorare. Costantinopoli, in un’epoca piuttosto incerta, fu anch’essa dotata di qualche porzione di quei preziosi legami; ne fissò la festa al 16 gennaio, esaltando in quella circostanza nell’Apostolo Pietro il detentore della prima Sede, il fondamento della fede, la base incrollabile dei dogmi (Menei).

La gloriosa prigionia.

« Metti i tuoi piedi nei ceppi della Sapienza, e il tuo collo nelle sue catene – diceva profeticamente lo Spirito durante l’antica alleanza; – non avere in uggia i suoi legami: perché alla fine troverai in lei il riposo, ed essa diventerà il tuo diletto, e i suoi ceppi saranno tua valida protezione e base di virtù, la sua catena una veste di gloria, e i suoi legami la salvezza » (Eccli. VI, 25-32). E la Sapienza incarnata, applicandoti essa stessa l’oracolo, o Principe degli Apostoli, annunciava che in testimonianza del tuo amore sarebbe venuto il giorno in cui avresti realmente conosciuto la costrizione e le catene (Gv. XXI, 18). La prova, o Pietro, fu convincente per quella Sapienza eterna che proporziona le sue esigenze alla misura del proprio amore (Eccli. IV, 17-22). Ma anche tu l’hai trovata fedele: nei giorni della terribile battaglia in cui volle mostrare la sua potenza nella tua debolezza, essa non ti abbandonò nei ceppi (Sap. X, 12-14); appunto sulle sue braccia tu dormivi di un sonno così tranquillo nella prigione di Erode (Atti XII, 6); discesa con te nella ossa di Nerone (Sap. X, 13) ti tenne fedele compagnia fino all’ora in cui, soggiogando all’oppresso gli stessi persecutori, pose nelle tue mani lo scettro e sulla tua fronte la triplice corona.

Preghiera per la liberazione.

Dal trono su cui siedi con l’Uomo-Dio nei cieli (Apoc. III, 21), come l’hai seguito quaggiù nella prova e nell’angoscia (Lc. XXII, 28), sciogli le nostre catene che purtroppo non hanno nulla che le avvicini alla gloria delle tue: spezza i ferri del peccato che ci riportano sempre a Satana, gli attacchi di tutte le passioni che ci impediscono di trovare il nostro sbocco in Dio. Il mondo, più che mai schiavo nell’ingorgo delle sue false libertà che gli fanno dimenticare l’unica vera libertà, ha più bisogno di riscatto che non al tempo dei Cesari pagani: tu che solo puoi esserlo, sii una volta ancora il suo liberatore. Che soprattutto Roma, caduta più in basso perché è stata precipitata da un’altezza maggiore, provi nuovamente la virtù di emancipazione che risiede nelle tue catene; esse sono diventate per i suoi fedeli un segno di unione nelle ultime prove (i); fa’ che si realizzino le parole dette un tempo dai suoi poeti, che « stretta da quelle catene essa sarebbe stata sempre libera ». [Dom Guéranger: “l’anno liturgico”, vol.II]

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In questo giorno e in tutti i successivi mettiamoci, da veri Cattolici, in preghiera costante per ottenere, con digiuni, penitenze ed invocazioni, come già gli Apostoli con S. Pietro, la liberazione del santo Vicario di Cristo in esilio, come profetizzato dalla SS. Vergine Maria a La Salette e a Fatima: “… Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’anticristo” – “… la Chiesa sarà eclissata” [La Salette]; “… satana effettivamente riuscirà ad introdursi fino alla sommità della Chiesa” [Fatima]. Al Signore è possibile tutto, anche scalzare, e quanto meno se lo aspetta, il “giullare” della sinagoga satanica dei deicidi, il rappresentante dei M.A.M. (Marrani, Apostati, Modernisti), usurpante il Trono e la Sede Apostolica. La SS. Vergine ha promesso e non mente: “Ed il mio Cuore Immacolato trionferà”!