LA TRADIZIONE

Tradizione.

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[Ab. E. Barbier: “I tesori di Cornelio Alapide”; S. E. I., Torino, 1930, 3° ed., vol. III]

Nel mondo cristiano vi è una vera fede, cioè una fede divina, fondata su la parola di Dio contenuta nei due Testamenti. Ma vi è ancora, dice il Padre Campion (Méthode pour discemer, etc.), una parola di Dio non scritta a cui si dà nome di tradizioni divine ed apostoliche, o semplicemente di Tradizione. – In qualunque maniera Dio si spieghi, egli ha sempre la medesima autorità. – Prima di Mose non vi era parola di Dio scritta. Per oltre duemila anni, i veri fedeli non si conservarono nella vera religione se non per mezzo delle tradizioni. Gli Apostoli medesimi predicarono il Vangelo prima che si scrivesse. Perciò S. Paolo diceva ai Tessalonicesi: «Fratelli miei, osservate le tradizioni che avete appreso, sia dai nostri discorsi, sia dalle nostre lettere » (Il Thess. II, 14). Quello che predicava a viva voce, non aveva minor forza né minore autorità di quello che insegnava per iscritto; e non si può negare che molte cose sono state rivelate, le quali non si trovano nella Scrittura, e che tuttavia noi dobbiamo credere, per esempio, che i quattro Vangeli, che le quattordici Epistole di S. Paolo, che le tre di S. Giovanni con la sua Apocalisse, sono stati inspirati dallo Spirito Santo. I cattolici ed i protestanti sono d’accordo su questo punto. Ora se i protestanti credono ciò di fede divina, bisogna che Dio abbia rivelato che tutti questi libri sono divini. – Ciò posto, mi dicano i protestanti, dove si trova questa rivelazione? È certo che non s’incontra nella Sacra Scrittura, non occorrendo luogo in tutta la Bibbia, nel quale si faccia l’enumerazione dei libri canonici. Ma se questo catalogo di libri santi non si trova nella Bibbia, come per certo non vi si trova, è assolutamente necessario ammettere una parola di Dio non scritta, che è la tradizione, poiché questa rivelazione sulla quale poggia la fede, mediante la quale crediamo che la Bibbia è un libro divino e che è parola di Dio, è una festa divinae, per sentimento dei protestanti il fondamento di tutti gli altri punti di fede. – E questa la ragione per cui la Chiesa Cattolica, apostolica, romana, ha sempre riconosciuto e ammesso una parola di Dio non scritta. Già da’ suoi tempi S. Giovanni Crisostomo faceva rilevare come dal testo di S. Paolo nella sua seconda epistola ai Tessalonicesi, chiaramente ne conseguisse che gli Apostoli insegnarono molte cose che non si trovano nella Scrittura, e a cui noi siamo obbligati a prestare la medesima fede che a quelle scritte. [“Hinc patet quod non omnia per epistolam tradita sunt; et multa alia etiam sine litteris; eadem fide tam ista quam illa digna sunt” (Orat. IV)]. – Secondo Origene, la dottrina delle tradizioni per la quale noi sappiamo non esservi che quattro Vangeli, e dietro la quale crediamo gli altri libri canonici, ha per suoi assertori, testimoni e banditori tutti i santi Padri e i Dottori. – Notissima a tutti è quella protesta di S. Agostino: « Non crederei al Vangelo, se non mi vi piegasse l’autorità della Chiesa cattolica ». [“Ego vero Evangelio non crederem, nisi Ecclesiae catholicae me moveret auctoritas” (Epist. CLVII)]. – Il medesimo Dottore dice in un altro luogo: « Gli illustri Pontefici di Dio mantennero esattamente quello che trovarono nella Chiesa; fedelmente insegnarono quello che essi appresero; consegnarono religiosamente ai figli ciò che ricevettero dai padri ». [“Illustres antistites Dei quod invenerunt in Ecclesia tenuerunt; quod didicerunt, docuerunt; quod a patribus acceperunt, hoc filiis tradiderunt”. (Enchirid.)]. – Quindi quella massima del Lirinese: « Bisogna curare diligentemente che nella Chiesa cattolica si tenga quello che sempre e in ogni luogo e da tutti fu creduto ». [“In ipsa catholica Ecclesia magnopere curandum est ut id teneamus quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est”. (VINCENT. LIRIN.) ]. – Infatti già osservava S. Gerolamo: Non è la Scrittura, ma la tradizione che insegna alla Chiesa che bisogna battezzare i bambini e non ribattezzare gli eretici che ritornano alla Chiesa; che invece del sabbato si deve celebrare la Domenica. La Quaresima è d’istituzione apostolica (Epist. LIV, ad Marc.). I protestanti credono al pari dei cattolici, contro Nestorio, che in Gesù Cristo vi è una sola persona, che è la Persona divina, e non due, come stoltamente pretendeva quell’eresiarca: credono al pari di noi, che in Gesù-Cristo vi sono due nature, la divina e l’umana, e non una sola, come sosteneva Eutiche. Ora questi due capitali articoli di fede non si trovano già chiaramente espressi nel Vangelo: noi li ammettiamo dietro le decisioni dei Concili i quali li avevano appresi dalla tradizione apostolica, cioè dalla parola di Dio trasmessa agli Apostoli, e da questi alla Chiesa. – Del resto, non solamente nel citato passaggio dell’epistola ai Tessalonicesi, ma in altri luoghi ancora S. Paolo comanda espressamente di osservar le tradizioni. Nella medesima epistola, per esempio, al capo III scrive loro: « Noi vi ordiniamo, o fratelli, nel nome di Gesù Cristo, che vi separiate da quelli dei nostri fratelli, i quali vivono in modo sregolato e non secondo la tradizione che hanno ricevuto da noi ». — Denuntiamus autem vobis, fratres, in nomine Domini nostri Iesu Cristi, ut subtrahatis vos ab omni fratre ambulante in ordinate, et non secundum traditionem quam acceperunt a nobis”. ( II Thess. III, 6). Al discepolo Timoteo diceva: «In quanto a te, tu conosci la mia dottrina, la mia vita, il mio scopo, la mia fede, ecc. Rimani dunque saldo in ciò che hai imparato e che ti fu confidato, ben sapendo da chi l’hai appreso » — Tua utem assecutus es meam doctrinam, institutionem, propositum, fidem, etc. — Tu vero permane in iis quae didicisti, et eredita sunt tibi, sciens a quo didiceris (II Tim. III, 10-14). S. Paolo non fa parola di dottrina datagli per iscritto, ma di dottrina insegnatagli, confidatagli, cioè data a viva voce e per tradizione. « Conformati, gli ripete un’altra volta, alle sane parole che da me hai udito, nella fede e nell’amore in Gesù Cristo… – E quello che da me hai inteso in presenza di molti testimoni, raccomandalo a persone fedeli le quali saranno poi idonee esse medesime ad istruire gli altri » — “Formam habe sanorum verborum quae a me audisti, in fide et dilectione in Christo Iesu” (Ibid. I, 13): — “Et quae audisti a me per multos testes, haec commenda fidelibus hominibus, qui idonei erunt et alios docere “(Ibid. II, 2). – Noi vediamo che l’Apostolo mette a paro le verità che ha insegnato ne’ suoi discorsi, con quelle che ha tracciato ne’ suoi scritti; e quelle e queste formano il deposito che confidava a Timoteo, ordinandogli di trasmetterlo a quelli che fossero capaci d’insegnare. Da tutto ciò, che è incontestabile, tiriamo due conseguenze. – La prima è che, se i protestanti rigettano le tradizioni della Chiesa, devono rigettare anche il nuovo Testamento, che queste tradizioni ammette quali pure sorgenti; che anzi rifiutino tutta quanta la Bibbia, perché è venuta fino a noi, attraverso i secoli, non per altra via, se non per quella della tradizione. La religione sia scritta sia orale, non è forse sempre la medesima Religione? E se la religione per tradizione può correre pericolo di venire alterata, non può esserlo ugualmente la religione per iscritto? Quand’anche non esistesse sillaba di Scrittura, la vera religione non cesserebbe perciò di sussistere e di perpetuarsi, come si è mantenuta per il corso di due mila anni, da Adamo fino a Mose; e la Religione cristiana anch’essa sul principio si è in questo modo mantenuta e diffusa in tutta la sua purezza per alcuni anni; poiché il nuovo Testamento non era ancora scritto, e l’antico non era ancora stato diffuso dovunque si trovavano dei fedeli. – La seconda conseguenza è che Dio ha dovuto necessariamente stabilire un giudice della sua parola, sia scritta sia non scritta, per terminare le difficoltà che protrebbero insorgere e intorno al numero dei libri sacri, e riguardo alla fedeltà delle traduzioni, e riguardo al senso dei testi, e riguardo alla tradizione; e che questo giudice dev’essere vivente, parlante, perpetuo, infallibile, inspirato e diretto dallo Spirito Santo, per rendere certa la nostra fede – La ragione e l’autorità, la storia e la tradizione proclamano ad una voce che questo giudice vivente, perpetuo, infallibile, inappellabile è la Chiesa docente, perché di Lei fu detto da Colui che non può né mentire né venir meno: « Le forze dell’inferno non basteranno a superarla » — “Portae inferi non praevalebunt adversus eam” (MATTH:. XVI, 18). Ora, siccome il capo, la bocca, l’organo di questo corpo che si chiama Chiesa, è una parte di Lei così sovreminente, sostanziale e necessaria che, per sentenza dei santi Padri, con Lei s’immedesima, e dove si trova esso, si trova tutta e sola la vera Chiesa: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia(S. Ambros.), perciò il buon senso del popolo fedele e la sana dottrina dei luminari del Cristianesimo furono sempre unanimi nell’attribuire al Romano Pontefice, qual successore del B. Apostolo Pietro e quindi capo e fondamento della Chiesa, la medesima prerogativa d’infallibilità di cui questa va adorna; sostenuto in questo sentimento dalla parola del Redentore il quale non contento d’aver indirettamente accennato a questo sublime privilegio di Pietro chiamandolo e costituendolo fondamento sul quale avrebbe fondato la sua Chiesa: — “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam” (MATTH., XVI, 18), apertamente glielo attribuì allorquando l’assicurò ch’Egli aveva pregato per lui individualmente e personalmente affinché la sua fede non venisse mai meno e che in virtù di questa sua preghiera, la fede di lui si sarebbe mantenuta in ogni tempo così ferma, così pura, così viva da essere in grado di rassodare, appurare, vivificare quella di tutto il corpo: — “Ego rogavi pro te, Petre, ut non deficiat fides tua; et tu aliquando conversus confirma fratres tuos” (Luc., XXII, 32). – Quello però che fino al presente era stato un sentimento, non dico comune, ma universale nella Chiesa di Gesù Cristo, perché da pochi Giansenisti e in tempi recenti fu messo in dubbio, adulterato, travisato, venne finalmente professato in chiari termini, dichiarato e promulgato qual domma cattolico, cui il contraddire è eresia, dal santo Concilio Ecumenico Vaticano 1° radunato in Roma dal Papa Pio IX il giorno 8 Dicembre 1869. Infatti sul fine del Capo IV della la Costituzione dogmatica — De Ecclesia Christi — votato nella IV Sessione pubblica tenutasi il 18 luglio 1870 e numerosa di 535 Padri, così si legge: — “Traditioni a fidei christianae exordio pereeptae fideliter inhaerendo… docemus et divinitus revelatum dogma esse definimus: Romanum Pontificem, cum ex Cathedra loquitur, idest eum omnium Christianorum Pastoris et Doctoris munere fungens, pro suprema sua Apostolica auctoritate doctrinam de fide vel moribus ab universa Ecclesia tenendam definit, per assistentiam divinam, ipsi in B. Petro promissam, ea infallibilitate pollere, qua divinus Redemptor Ecclesiam suam in definienda doctrina de fide vel moribus instructam esse voluit; ideoque eiusmodi Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiae, irreformabiles esse. Si quis autem huic Nostrae definizioni contradicere… praesumpserit anathema sit”. — Dunque il sacro Concilio, attenendosi alla tradizione venuta a noi fino dai primi secoli della Chiesa, insegna e definisce essere dogma divinamente rivelato, che il Romano Pontefice, allorquando dichiara di parlare in qualità di Pastore e di Dottore di tutti i Cristiani, e in virtù della suprema sua autorità apostolica definisce qualche dottrina appartenente alla fede e ai costumi, e la propone da credersi da tutta la Chiesa, gode, in virtù dell’assistenza divina promessagli nella persona di Pietro, della medesima infallibilità di cui dotò la sua Chiesa il Redentore divino; di modo che le sue cosiffatte definizioni sono irreformabili di per se stesse, senza che vi sia bisogno del convalidamento d’alcun concilio, o dell’accettazione della Chiesa.

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“Ubi Petrus, ibi Ecclesia”

Al proposito riportiamo una breve ma importante citazione da “Mystici corporis Christi“, lettera enciclica di Pio XII del 1943, ove viene ancora una volta ribadito il concetto: “… Si trovano quindi in un pericoloso errore quelli che ritengono di poter aderire a Cristo, Capo della Chiesa, pur non aderendo fedelmente al suo Vicario in terra. Sottratto infatti questo visibile Capo e spezzati i visibili vincoli dell’unità, essi oscurano e deformano talmente il Corpo mistico del Redentore, da non potersi più né vedere né rinvenire il porto della salute eterna”

Stiamo attenti a capire quindi dov’è Pietro, affinché non ci capiti di ritrovarci fuori dalla Chiesa Cattolica, di marciare cioè sotto lo stendardo di satana, pensando di militare nella truppa di CRISTO! Che DIO ci liberi! -n.d.r.-

 

A S. FILOMENA VERGINE E MARTIRE

11 Agosto: S. FILOMENA VERGINE E MARTIRE

s. Filomena

Morta nel secolo III. Scoperta nelle Catacombe di S. Priscilla, a Roma,venne traslata, il 25 Magg. 1802 a Mugnano presso Napoli [oggi in prov. di Avellino] – Santa Filomena è una Santa Vergine e Martire, molto onorata dalla Chiesa Cattolica, in particolare dal momento in cui le sue ossa vennero traslate da Roma a Mugnano del Cardinale per gli eventi miracolosi verificatisi per sua intercessione. Il culto della Santa è stata volutamente occultato e cancellato da tutti i calendari della setta del “novus ordo” perché, ovviamente, una giovane martire, una fanciulla che sconfigge il “farfariello” ed immola la sua vita per Gesù-Cristo, disprezzando le vane seduzioni del mondo, è invisa allo spirito del male ed ai suoi immondi lecchini, e dà fastidio a tutti i servi del “nemico” infiltrati nella Chiesa Cattolica, vindici dell’eroica resistenza della martire, e di tanta rovinosa sconfitta di satana! Riportiamo una novena con l’inno dell’epoca Cattolica, utili per invocare l’intercessione della Santa in tutte le situazioni di pericolo materiale e spirituale. Chi vuole, ne può verificare l’efficacia e la potenza!

I. O gloriosa S. Filomena, che foste messa a gran cimento di tentazioni, quando colle lusinghe, colle promesse e colle minacce si fecero tutti gli sforzi per indurvi ad abbandonare la Religione di Gesù Cristo, ma con invitta fermezza sapeste mantenervi costante contro ogni seduzione, ed opponendo da vergine prudente alle lusinghe la temperanza, alle promesse la giustizia, alle minacce la fortezza, tutte deludeste le podestà delle tenebre, ottenete a noi tutti la grazia a piangere quelle colpe che pur troppo abbiamo più volte commesse col cedere alle tentazioni, e la forza di resistere d’ora in avanti a tutte le seduzioni del mondo, della carne e del Demonio. Gloria.

II. O gloriosa S. Filomena, che per rendere una testimonianza solenne alla fede di Gesù Cristo, quantunque foste tenera per gli anni, debole per il sesso, delicata nella persona, pure con eroica fortezza tolleraste di essere sepolta nell’orror delle carceri, e straziata con ogni più barbara maniera da carnefici disumani, ottenete a noi tutti la grazia che si accenda il cuor nostro di un santo amore celeste, cosicché, se non possiamo imitarvi nel vostro glorioso martino, sappiamo almeno soffrire con inalterabile pazienza le afflizioni e i disastri che pur troppo s’incontrano nel corso di questa misera vita. Gloria.

III. O gloriosa S. Filomena, che per mantenervi fedele al vostro sposo Gesù, non ricusaste di sottomettervi a quell’estremo supplizio con cui fu coronato il penoso vostro martirio, volaste quindi a cielo a ricevere il premio d’aver menato i vostri giorni nell’innocenza, e di avere spiegato una sì genera costanza ne’ più duri cimenti, sino a volere piuttosto perdere la vostra vita che il vostro Dio, ottenete a noi tutti la grazia di combattere coraggiosamente ancor noi per Gesù Cristo, contrariando sempre ogni rea tendenza, e compiendo sempre con esattezza tutti i doveri del nostro stato, affinché con una vita tutta santa, santa pure ci meritiamo la morte. Gloria.

IV. O gloriosa S. Filomena, che coll’inaspettato ritrovamento del vostro corpo, rimasto già per quindici secoli nascosto e sconosciuto nelle catacombe di Roma, cogli strepitosi miracoli per mezzo vostro operati, siete eletta dal cielo a mantener sempre viva fra noi la fede, in ogni maniera combattuta dai più crudeli nemici, ottenete a noi tutti la grazia di non porgere mai orecchio all’empietà dei miscredenti, e di serbarci devoti all’unica vera Chiesa di Gesù Cristo, fuor della quale non vi è salute, affinché in quella fede che voi confessaste col sangue viviamo sempre costanti e costanti moriamo. Gloria.

V. O gloriosa S. Filomena, che, oltre i prodigiosissimi avvenimenti, coi quali fu decorata la traslazione delle vostre ossa preziose, siete anche stata fatta dalla divina Provvidenza dispensatrice di favori innumerabili, per risvegliare così la cristiana speranza delle genti, e ispirar la più viva fiducia nella protezione dei Santi, ottenete a noi tutti la grazia di interamente spogliarci d’ogni affetto alle cose del mondo, e riposare sempre tranquilli nelle immancabili promesse di chi solo può farci felici colla sua grazia nel tempo, e colla sua gloria nell’eternità. Gloria.

VI. O gloriosa S. Filomena, che foste tanto onorata, e lo siete pur tuttavia dai buoni popoli di Mugnano, i quali coi più vivi trasporti di religioso affetto ricevettero le vostre sacre reliquie, e le custodiscono qual prezioso tesoro, e che a ricompensa di lor divozione li ricolmaste di mille benefici, ottenete a noi tutti la grazia di conservare con ogni cura il prezioso tesoro dell’amicizia con Dio, se per nostra buona sorte la possediamo, e di ricuperarla sollecitamente se l’abbiamo perduta, onde poi liberati una volta dalla colpa, non torniamo mai più a commetterla, la odiamo come si odia un nemico capitale, e così ci facciamo sempre più degni dei celesti favori. Gloria.

VII. O gloriosa S. Filomena, che, per aver con invitta costanza esposto a tormenti crudelissimi il vostro purissimo corpo per amore del vostro sposo Gesù, meritaste che venisse da Lui esaltato ad onore solenne, e che fossero segnalate coi più stupendi prodigi le reliquie sì del vostro corpo come del vostro sangue, talché si reputa fortunato chi giunge a possederne una minima porzione, ottenete a noi tutti la grazia di non darci mai in braccio ai piaceri del mondo, e la forza di odiar santamente questa carne che ci circonda e ne trascina ad ogni disordine, cosicché tutta la nostra premura sia di salvar l’anima, che è la parte migliore di noi, che deve vivere immortale.Gloria.

VIII. O gloriosa S. Filomena, che sapeste calpestare le speranze e i beni che vi offriva la terra, e che non solo di questi beni, ma anche della stessa vita nel primo fiore degli anni faceste volentieri un generoso sacrificio a Dio, il Quale, ricompensando poi con tenerezza il vostro amore per Lui, volle porre per dir così, nelle vostre mani un tesoro di grazie da spargersi sopra la terra, ottenete a noi tutti la grazia di non anteporre mai più d’ora innanzi i fallaci beni mondo ai veri ed eterni del cielo, di persuaderci una volta esser Dio solo il vero e sommo bene che può saziare le nostre brame, e farci per sempre felici. Gloria.

IX. O gloriosa S. Filomena, che per aver rinunziato generosamente alla vana gloria del mondo e per aver scelto le persecuzioni, il dolore, il vituperio, l’infamia, piuttosto che mancare alla fedeltà da voi giurata al divino sposo, siete ora da Lui così largamente remunerata da farvi prostrare davanti tutti i popoli della terra, i quali da ogni parte vi erigono altari, invocano il vostro nome, e continuamente gareggiano nell’onorarvi, ottenete a noi tutti la grazia di rinunziare totalmente alla superbia, per far acquisto della santa umiltà, che è il fondamento di ogni virtù e la vera via della gloria, cosicché, d’ora in avanti, nulla fidando in noi medesimi, cerchiamo in Dio ogni nostro decoro, in Dio riponiamo ogni nostra fiducia, e vili riputandoci e da nulla, ci rendiamo degni di tutte quelle grazie che per mezzo vostro Gli domandiamo. [… si chieda la grazia]. Gloria.

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INNO A S. FILOMENA

A noi volgiti pietosa,

o di Cristo intatta Sposa,

Verginella ognor straniera

alla colpa più leggiera.

Tu che i dogmi predicando,

Desti a tutti i vizi il bando,

disprezzasti ognor da forte

i terrori della morte!

Dalla reggia dei divini

Fa’ che scenda a noi meschini

viva e pura quella luce

che del vero il giorno adduce.

Quel coraggio ond’agli strali

E ai flagelli più mortali

presentasti il petto e il dorso.

Nell’April del vital corso.

Quel vigor che spunta i teli

De’ nemici più crudeli,

Quel vigor che fa gli eroi,

Filomena, impetra a noi.

Del virgineo tuo pudore

Per te splenda il nostro core,

E giuriam perpetua guerra

Ai piaceri della terra.

Sia per te che in ogni loco

Si diffonda il divin foco,

Quell’ardor che sgombra i cuori,

Dalla scoria degli errori,

Dello stuolo a te devoto,

Filomena, adempi il voto,

E lo tragga dopo morte

De’ beati all’alma Corte.

GIACULATORIA.

Filomena, che decoro,

sei del sesso e della Fede,

volgi un guardo a chi ti chiede

il possente tuo favor.

Sia per te che della terra

Calpestiam le gemme e l’oro,

E al divino tuo tesoro

Si consacri il nostro core.

[da: Manuale di Filotea, del sac. G. Riva, Milano 1888 -imprim.-]

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festa mugnano

   La soppressione della festa, decretata dagli eretici modernisti novatori, per unanime decisione dei fedeli di Mugnano e di tutti i devoti sparsi nel mondo cattolico, non è stata mai messa in atto, ed ancora oggi, nel ridente paese campano, si festeggia con devozione e gratitudine a Dio questa santa Martire umile e portentosa. … e schiatti il “farfariello”!

 

La strana sindrome di nonno Basilio 32

 

nonno

Caro direttore, come ricorderà, la scorsa volta le ho portato a conoscenza il contenuto di una lettera che lo zio Pierre mi aveva inviato tempo fa, lettera che ci aveva lasciato tutti senza fiato ( … non solo per la broncopatia ostruttiva ….), e della quale prometteva un seguito. Così, ancora una volta incuriosito, ho approfittato di una commissione esterna della cara moglie, che non gradisce … certi miei esercizi ginnici (mi raccomando direttore, se dovesse incontrarla non le dica mai assolutamente nulla, ne va della mia … incolumità familiare!), per ascendere in soffitta a trovare il continuo della lettera della volta scorsa. Arrivato con un po’ di fiatone, prendo lo scatolo della lettere e guardando la data del timbro postale, prendo la lettera che presumo sia il seguito della precedente … vediamo: “Caro Basilio ho preferito scriverti in due momenti diversi per non sconvolgerti troppo, perché penso che per te, cattolico integerrimo, debba essere una sofferenza inaudita venire a conoscenza di certe “evoluzioni dottrinali” spiattellate senza ritegno, nel disprezzo totale dell’intelligenza e della sensibilità dei fedeli, da questo “guru” moderno del quale ti accennavo in precedenza. (Direttore, ma lei mica ha capito chi fosse?! … boh?). In particolare mi riferisco al “CULTO DELL’UOMO”, principio massonico sovrano che, in contrasto con tutti gli insegnamenti dei Santi Padri Predecessori lungo il corso dei secoli, è una abdicazione, un servilismo davanti all’ateismo, in vista di ottenere le sue buone grazie! Invece di condannare l’orgoglio dell’uomo, che si esalta da solo e che non vuole alcuna dipendenza da Dio, ci si arrampica davanti a lui, lo si blandisce, gli si vuol piacere, affermando persino che si ha un culto dell’uomo che è superiore a quello degli umanisti atei, … inverosimile, ma penso che qui abbia giocato anche la sodomia palese del soggetto! Ognuno può costatare il suo vero “delirio umanista”!.. Infatti, dirà ancora: “Tutte queste ricchezze dottrinali (cioè quelle del conciliabolo vat’inganno, già anatemizzato da Pio II in “Execrabilis” … e ribaltone dottrinale in piena regola!?!) non mirano che a una cosa: SERVIRE L’UOMO!” (questo il 7 dicembre 1965, vigilia dell’Immacolata Concezione della Vergine … che sfacciataggine … che affronto al Figlio divino!!). In un’altra occasione, il 13 luglio 1969, questo campione della “Nouvelle Thèologie rinnovata e peggiorata” e del marxismo cabbalistico, ha detto ancora più chiaramente, ammesso che qualcuno non avesse capito ancora: “L’uomo ci si rivela gigante. Ci si rivela divino .. [la gnosi fa capolino …], ci si rivela divino non in sé, ma nel suo principio e nel suo destino. Onore all’uomo, onore alla sua dignità, al suo spirito, alla sua vita”! (Direttore, ma questo zio era diventato proprio matto, se un Papa veramente avesse detto questo, ai miei tempi sarebbe stato … beh non lo scrivo per rispetto verso le mie dita e le sue orecchie …). Questo personaggio, uno zombi da cabbala, “esperto in umanità” … evidentemente lussuriosa – come lui stesso si autodefinì nel Suo Discorso all’ONU, covo massonico per eccellenza, del 4 ottobre 1965, dopo essersi soffermato nella “sala della meditazione”, spazio ecumenico-luciferino del Palazzo di Vetro! -cita anche le “Beatitudini” evangeliche metaforizzandole così: “La missione del Cristianesimo è una missione di amicizia tra i popoli della terra; è una missione di comprensione, d’incoraggiamento, di promozione, d’elevazione, e, diciamolo ancora una volta, una missione di salute”. Ecco come vedeva la “missione” del Cristianesimo; una “missione”, però, che non è quella del Vangelo, né quella della follia della Croce! Una “missione d’amicizia” e di comprensione, [… ucci ucci, sento odor di massonucci, mi sembra un discorso da “illuminato”], allora? No! Tra i veri discepoli di Gesù e quelli che non lo vogliono essere, c’è un inevitabile conflitto! “Io non sono venuto per portare la pace, ma la spada”! (Mt. X, 34). Lo ha detto Lui stesso: Gesù, “segno di contraddizione”! (Lc. II, 34)… “Una missione di promozione, d’elevazione …”, ha ripetuto ancora spesso il “guru” con l’efod addosso (… e chi sa capisce …!), mentre Gesù aveva detto: “I primi saranno gli ultimi” (Mt. XX, 16) e Lui stesso si era abbassato fino a nascere in una stalla, a morire su una Croce, ad annientarsi nell’Ostia consacrata!.. Ora, che un Principe della Chiesa di Cristo non abbia “altra intenzione” che di lavorare per una causa, solo “umana”, è una confessione scioccante! Ci dice infatti che non è più “guardiano della Fede”, ma solo un “esperto umanista”, o è allora nell’eresia, o è un grande utopista (ma comunque apostata e una bocca mossa … dal serpentone dell’Eden)!.. Che la sua fede sia più nell’uomo che in Dio, significa che ha scambiato il Cristianesimo per un semplice “umanesimo”, come, del resto, l’aveva già reso palese nella Sua Enciclica “Ecclesiam Suam”, accozzaglia ecumenica, là dove scrive che: “La Chiesa si fa dialogo” (non più evangelizzatrice, quindi, per convertire a Cristo, unica Via, Verità e Vita”!); e questo “dialogo” “dovrà caratterizzare il Nostro compito apostolico” (Cfr. “Ecclesiam Suam”, n° 60). Perciò, il Suo “umanesimo religioso e cristiano” [due cose in assurdo contrasto], non consiste nel predicare il Vangelo – il solo che può portare alla pace e alla felicità tra gli uomini! – ma nel lavorare alla coesistenza pacifica tra bene e male, tra vero e falso, “… in uno sviluppo integrale dell’uomo … “al quale Noi abbiamo osato invitarlo, in nome di un umanismo pieno, nella nostra enciclica “Populorum Progressio” (Messaggio per il 25° anniversario dell’ONU 4 ottobre 1970)”. La vera pace, secondo in nostro personaggio “magnus”, deve essere fondata … sul dogma fondamentale della fraternità umana …”! Tu capisci, che questo è un inganno satanico, questo mette in ombra il ruolo principale ed essenziale di Dio che ci ha detto: “Senza di Me, non potete fare nulla!” (Jo. XV, 5), e guardando nell’ottica dell’eternità: “Ricordati, uomo, che sei polvere e che in polvere ritornerai!” (Gen. III, 19). E ancora: “Che serve all’uomo guadagnare anche tutto il mondo, se poi perde l’anima?” (Mt. XVI, 26). Parole che certamente non vengono tenute presenti, deliberatamente occultate! … come queste altre: «Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza…». (I Lettera di S. Giovanni apostolo: XII, 17). Abbiamo poi un altro cavallo di battaglia della “lingua biforcuta”: LA SUA “APERTURA AL MONDO”. Infatti questo provvido stratega dell’umanesimo proprio del lupo travestito da agnello, “che parla come un drago” non vede più come “nemico” lo spirito di questo “mondo” moderno, lo spirito del male, lo spirito del nemico dichiarato di Dio e dell’uomo: lo ha affermato egli stesso: “La religione di Dio che s’è incontrato con la religione dell’uomo che si è fatto dio” (Discorso di chiusura del concilio, 7 dicembre 1965) … (ma questo è inaudito … devo pensare che i cani muti infingardi, siano diventati pure sordi… no non è possibile!! Direttore mi perdoni, ma questa è una cosa talmente assurda che sarà certamente un refuso di scrittura dello zio Pierre!! Gli si sarà inceppata la biro, non riesco a pensare ad altro, … devo però verificare, non si può mai sapere … di questi tempi … metterò in moto mia nipote Caterina!). Caro Basilio, pensa che addirittura nella Costituzione [sarebbe meglio usare il termine: “Prostituzione” “Gaudium et Spes”, come conseguenza di queste idee anticattoliche, appare una chiesa, [a questo punto con la “c” minuscola], come in estasi davanti al mondo moderno … vi si legge infatti: “La Chiesa riconosce tutto ciò che è buono nel dinamismo sociale d’oggi, particolarmente il movimento verso l’unità, il progresso d’una sana socializzazione … L’uomo moderno è in marcia verso uno sviluppo più completo della sua personalità, verso una affermazione cosciente dei suoi diritti …” (…). È il solito inganno del biscione … Basilio, non ti voglio sconvolgere oltre, ma anche tu devi sapere, magari dopo prenderai un digestivo, un antiemetico, un’Aspirina …). E che dire della sua sfacciata “APERTURA AL MODERNIISMO”, alle conventicole muratorie (che, nell’arco di 245 anni, erano state anatematizzate dalla Gerarchia ecclesiastica circa 590 volte!,) alla Democrazia Universale [oramai demoniocrazia], al Comunismo, e come parlare della sua “Tolleranza” e “Complicità” con gli oppressori dei Cristiani praticamente nel mondo intero. Pensa che ha riabilitato – senza alcun altro argomento che quello della Sua non-autorità! – sia il de Lubac, che Teilhard de Chardin, noti eresiarchi, subdole canaglie della fanta-teologia, benché le loro opere fossero state colpite da “Monitum” del Sant’Uffizio! E con la medesima “fermezza metodica e tenace”, di stampo luciferino, sta piegando, scoraggiando e colpendo chiunque resista alle sue manovre da ruspa demolitrice, mettendo le leve dei comandi in mano ai “novatori apostati”, ed ai suoi “amichetti” di vizietto, assicurando loro il futuro, con una serie di “riforme più o meno balorde” (compresa la riforma delle norme per l’elezione del Sommo Pontefice e soprattutto la formula eretica della “non-consacrazione” dei vescovi!). Comunque, è un fatto che, appena arrivato al potere, ha mostrato subito il suo vero volto, vanificando ogni salda tradizione:– annullando il giuramento anti-modernista; – abrogando la “Professione di Fede” del Concilio di Trento, prescritta da Pio IV; – abrogando l’Indice dei libri; – smantellando il Sant’Ufficio, baluardo anti modernista; – non condannando il “Catechismo olandese”, perché Lui stesso predicava di continuo la “libertà di pensiero”; – lasciando denigrare S. Pio X, mediante la “Radio Vaticana” e l’“Osservatore Romano” (4 e 6 settembre 1977), quale Pontefice anti-modernista; – promovendo un ecumenismo in chiave modernista, eretica e utopistica; – rimettendo sulla cattedra dell’Istituto Biblico i professori che erano stati espulsi dopo una condanna del Sant’Uffizio; eliminando gli ordini minori, distruggendo la Liturgia cattolica– mettendosi dalla parte dei peggiori pseudo-teologi, quali Rahner, Chenu, Congar, Schillebeeckx, Küng, e via dicendo … E così facendo, ha potuto rimettere tutto in “dubbio”, tutto in “ripensamento”, in “ricerca”, in “diagnosi”, in “dialogo” ribaltante. (S. Paolo disse di “proporre” la Verità, non di dialogarla! E Cristo impose il “docete”, imperativo, e non il “dialogate”, dialogo in cui Eva ed Adamo rimasero vittime dell’inganno … appunto!); lasciando così libero corso ai teologi modernisti di attaccare ogni ramo dei dogmi, delle “verità” di Fede! E questo perché la sua costruzione di una “nuova chiesa” esclude ogni discussione dogmatica; e perché quel Suo “modernismo umanista” esige la base di un umanesimo nel tentativo di conciliare i due inconciliabili: “la vera Chiesa di Cristo e il regno di satana” (Cfr. Leone XIII in “Humanum Genus”, 1884) , una “RUSPA”! No, Basilio, ora sono io che non ce la faccio più ad andare avanti, non ti voglio raccontare di come, da perfetto rosacroce, abbia calpestato e deposto la tiara, no … pensa che da stamattina ho preso già 10 cachè ed un numero imprecisato di tisane calmanti la cefalea. Ma tutto questo, vedrai con dolore, te lo ripeto con assoluta certezza, non impedirà ai “novatori” apostati, suoi mentori, ed “amichetti” di vizietto, di portarlo agli onori degli altari (ammesso che ce ne saranno ancora di … ma a quel punto saranno quelli della sinagoga di satana usurpante), magari non subito … aspetteranno che tante magagne svaniscano nel tempo e nei ricordi delle nuove generazioni …. e che ai posti di comando si insedino altri “Illuminati”, magari bavaresi, patriarchi pontefici di massimo libello delle sette occulte, … e dopo di lui vedrai che poi toccherà a S. Giovanni Calvino, e … udite, udite, per completare l’opera, nientemeno che: a S. Martin Lutero …”. Caro direttore, sono senza parole … “sono turbato e senza parole” Obmutui, et non aperui os meum, come recita il Salmo XXXVIII, 10. Questo trauma provocato dallo scritto dello zio Pierre, però paradossalmente risveglia la mia memoria! Mi vengono in mente le parole di San Pio X che già il 4 ottobre del 1903 scriveva: “Tanta … è l’audacia e l’ira con cui si perseguita dappertutto la religione, si combattono i dogmi della Fede e si adopera sfrontatamente a estirpare, ad annientare ogni rapporto dell’uomo con la divinità! In quella vece, ciò che appunto, secondo il dire del medesimo Apostolo (S. Paolo), è il carattere proprio dell’Anticristo, l’uomo stesso, con infinità temerarietà, si è posto in luogo di Dio, sollevandosi sopratutto contro ciò che chiamasi Iddio, per modo che, quantunque non possa spegnere in se stesso ogni notizia di Dio, pure, manomessa la maestà di Lui, ha fatto dell’universo quasi un tempio a sé medesimo per esservi adorato. Dal che consegue che, instaurare tutte le cose in Cristo e ricondurre gli uomini alla soggezione a Dio, è uno stesso e identico scopo. Perché, però, tutto questo si ottenga conforme al desiderio, fa d’uopo che, con ogni mezzo e fatica, facciamo sparire radicalmente l’enorme e detestabile scelleratezza, tutta proprietà del nostro tempo, la sostituzione, cioè, dell’uomo a Dio”! (E Supremi Apostolatus). Certo che S. Pio X era uno che aveva saputo precorrere e cogliere perfettamente i segni del suo tempo, ma i suoi sforzi, e quelli dei suoi omonimi successori, non erano serviti ad evitare quello che Leone XIII aveva pronosticato con zelo profetico nella sua preghiera a S. Michele, preghiera che i novatori hanno provveduto, mi dicono, ad occultare prontamente! Vergogna! Tradimento! … Ma chi sarà mai stato questo infame impostore? Direttore mi aiuti, non ne ho la più pallida idea! … chieda a qualche suo lettore … Adesso però ho bisogno di una dose massiccia di bicarbonato, di qualcosa che attutisca i miei crampi all’addome … La devo lasciare subito, direttore, ho il voltastomaco, mi vien da vomitare, mi perdoni, la saluto, speriamo che Genoveffa, mia moglie, non se ne accorga …!

Doni dello Spirito Santo: Il dono di SAPIENZA

Il dono di SAPIENZA.

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[J.-J. Gaume: “Il trattato dello Spirito Santo”; vol. II, CAPITOLO XXXIII].

L’uomo aiutato dal dono di scienza, risalendo dagli effetti alla causa, discerne con certezza il vero dal falso. Col dono di consiglio, distinguendo tra il buono ed il meglio, sceglie i mezzi più propri per giungere al suo fine. Mercé del dono d’intelletto ei penetra più addentro. – Leggendo la causa nei fatti, vede chiaramente la bontà della sua scelta, vale a dire, l’evidenza delle verità che debbono condurlo alla salute, di guisa che nulla è capace di oscurarle ai suoi occhi nè di staccarne il suo cuore. – Il primo effetto di questa penetrazione che pone per cosi dire l’uomo a faccia a faccia col mondo superiore, è uno svolgimento meraviglioso della vita intellettuale. Il secondo è una rara elevatezza di pensieri, una grande magnanimità di sentimenti, una sublime indifferenza per la vita del corpo. Ripieno di questo dono divino, l’uomo sente tutta la verità di questa parola: Il regno di Dio non è, né cibo, né bevanda;. “Regnum Dei non est esca et potus”. Obbligato ad assoggettarsi alle necessità della vita animale, può dire come l’Arcangelo: « Pare che io mangi e beva con voi, ma faccio uso di un cibo invisibile e di una bevanda che non può essere vista dagli uomini. » [Tob., XII, 49]. – Così il dono d’intelligenza spiritualizza l’intelletto, quanto può essere spiritualizzato: come lo spirito contrario lo materializza, quanto può essere materializzato. – Per finire di perfezionare l’uomo, che cosa resta allo Spirito Santo? Spiritualizzare il suo spirito e il suo cuore, quanto possono essere spiritualizzati. Come compie lo Spirito Santo quest’ultimo atto della nostra deificazione? Comunicandoci il dono di sapienza. Questo dono forma il più alto grado della scala misteriosa, che il Verbo incarnato ha sceso per abbassarsi fino a noi, e che l’uomo deve risalire per innalzarsi fino al livello del suo divino fratello, divenire un altro sé medesimo e verificare nella sua persona la parola del Padre celeste: “Questi è il mio figlio diletto nel quale ho riposto tutte le mie compiacenze”. La risposta ai nostri tre quesiti farà conoscere questo dono, il quale corona tutti gli altri. Che cosa è il dono di sapienza? quali ne sono gli effetti? quale ne è la necessità? 1° Che cosa è il dono di sapienza? La sapienza è un dono dello Spirito Santo che ci comunica nel più eminente grado la conoscenza e l’amore delle cose divine. [“Donum sapientiæ est habitus infusus, quo quis in gratuitis cognitionibus subito -et prompte secundum quamdam connaturalitatem, per causam altissimam habet rectum et certum judicium de iis quae sunt Mei”. Vig., c. XIII, p. 411. — Vel: “sapientia est habitus divinitus infusus quo rnens redditur facile mobilis a Spiritu sancto, ad contemplandum divina et ad judicandum tum de illis, tum de humanis secundum rationes divinas”. Apud S. Th., 2a, 2æ, q. 44, art. 1, nota. — “Sumitur nomen sapientiae secundum quod saporem quemdam importat”. S. Th., ibid., art. 2, ad 1. — “Sapiens dictus a sapore, quia sicut gustus est aptus ad discretionem saporis ciborum, sic sapiens dicitur ad dignoscentiam rerum et causarum circa divina et agenda.” S. Isìd., De etymolog.]. – Tutti i doni dello Spirito Santo hanno per iscopo di contribuire ciascuno a suo modo, alla deificazione dell’uomo. Tre s’indirizzano principalmente alla volontà: il timore, la pietà, la fortezza. Quattro hanno per oggetto principale l’intelletto: la scienza, il consiglio, l’intelletto, la sapienza. Ora quest’ultimo è il più nobile di tutti. Come il fine riassume i mezzi sviluppandoli, cosi il dono di sapienza contiene e perfeziona tutti gli altri doni. Cosicché si può dire, che la sapienza è il timore di Dio perfezionato, la pietà perfezionata, la scienza perfezionata, la fortezza perfezionata, il consiglio perfezionato, l’intelletto perfezionato. – Per sapere in qual modo il dono di sapienza perfeziona tutti gli altri, basta considerarlo. Conoscenza e amore della verità, al grado il più elevato che l’uomo può raggiungere: ecco ciò che è. Ora vi sono più modi di conoscere la verità. – Conoscerla nelle cause seconde, nelle loro creature, nelle opere esteriori di Dio, tali come l’incarnazione del Verbo, la creazione e il governo del mondo, la giustificazione dell’uomo e altre simili. Questa conoscenza è il dominio del dono di scienza. [Il dono di scienza c’insegna a conoscere la verità mediante le cause seconde, mediante le creature, ed a regolare la nostra condotta su questa conoscenza. Il dono di sapienza ci fa vedere la verità nella causa delle cause, in Dio stesso, e ce la fa amare in Dio e nelle sue opere. Così il dono di scienza ha per oggetto principale gli effetti, e il dono di sapienza la causa. L’uno procede per via d’analisi, l’altro per via di sintesi. Vedi S. Th., 2a, 2æ, q.,9, art. 1, 2, corp. —Si vede che nel sistema della nostra deificazione nessun mezzo è stato dimenticato, e che lo Spirito Santo s’indirizza a tutte le attitudini]. – Conoscerla nei suoi motivi di credibilità, sino al punto d’essere talmente convinto che nulla possa indebolire la nostra adesione: quest’è il fine del dono d’intelletto. Conoscerla nelle applicazioni che bisogna farne con gli atti particolari: quest’è il benefizio del dono di consiglio. Finalmente vi è un modo ancor più perfetto di conoscere la verità, cioè di vederla nella causa prima, nella causa delle cause, in Dio, e di vederla con un immenso amore. Da quest’altezza si giudica con certezza di tutte le cause seconde e dei loro effetti: si mettono i suoi pensieri e le sue azioni in armonia non più con tale o tale verità isolata, con tale o tal causa seconda, con tale o tale effetto particolare, ma con la causa prima. – Allora, in una certa misura, l’uomo partecipa ai privilegi degli Angeli della prima gerarchia, che vedono in Dio medesimo la ragione delle cose. Egli possiede la magnifica sintesi della verità, e può giudicare di tutto il concetto divino, tanto nell’ordine naturale, quanto eziandio nell’ordine soprannaturale, poiché può giudicare di Dio medesimo. [“Spiritualis autem judicat omnia”. I Cor., II, 15. — “Spiritus enim omnia scrutatur etiam profunda Dei”. Ibid., 10. — “Ad sapientem pertinet considerare causam altissimam, per quam certissime de aliis judicatur, et secundum quam omnia ordinare potest”. S. Th., 2a, 2æ, q. 46, art. 1, corp., et q. 8, art. 6, corp.; S. Anton., IV p., tit. X, c. III]. – Così noi cediamo quanto il dono di sapienza è superiore ai doni di scienza, di consiglio, d’intelligenza, e come gli perfeziona. Egli perfeziona altrettanto i doni di timore, di pietà e di forza. Grazie al dono di sapienza i loro atti acquistano una energia, una costanza, una estensione, una soavità, una perfezione in rapporto coi lumi e le effusioni d’amore, che derivano da questo dono superiore a tutti gli altri. Laonde il cuore dell’uomo si trova innalzato al livello della sua intelligenza. – Quanto alla differenza che esiste tra il dono di sapienza e la fede, tra la virtù di sapienza e la sapienza gratuita, è facile a conoscersi. La fede aderisce alla verità, quale gli è proposta, né va più oltre. La virtù di sapienza è una abitudine acquisita studiando, o infusa dalla grazia; ma sia naturale o soprannaturale, questa virtù non ha né l’altezza, né l’estensione, né la certezza, né la soavità, né la spontaneità del dono di sapienza. [“Sapientia quæ est donum est excellentior quam sapientia quæ est virtus intellectualis, utpote magis de propinquo Deum attingens per quamdam Spiritus unionem ad ipsum. Et inde habet quod non solum dirigat in contemplatione, quod facit sapientia virtus intellectualis; sed etiam in actione circa humana. Quanto enim virtus est altior, tanto ad plura se estendi”. S. Anton., ubi snpra]. – Questo dono che piglia per punto di partenza la verità conosciuta mediante la fede, certificata dal dono di scienza, penetrata dalla virtù di sapienza, ne illumina tutte le parti, ne trae le conseguenze, sia per ordinar bene i nostri pensieri, sia per dirigere le nostre azioni, e conformare alla ragione divina la nostra vita intellettuale e morale. Parecchie differenze distinguono altresì il dono di sapienza, dalla sapienza nominata dall’apostolo, allorché dice: “A uno è dato dallo Spirito Santo il linguaggio della sapienza”. [I Cor., XII, 8]. – Prima di tutto, questo può essere comune ai buoni ed ai cattivi. Il suo privilegio è di conoscere le virtù divine, non pèr acquisto ma per infusione, e abbastanza perfettamente per ammaestrare gli altri e confutare i contradittori. Quella non si trova che nei buoni, ai quali essa comunica non solo la luce, ma il gusto delle cose divine. Finché essi sono in stato di grazia, essa abita nel fanciullo come nell’uomo fatto. Nel secondo essa è in atto, nel primo in potenza, a cagione della debolezza dell’età. Sebbene a gradi differenti, tutti la posseggono in quanto ché é necessaria alla salute. [S. Anton., ubi supra]. Quali sono gli effetti del dono di sapienza? Inondare lo spirito di una luce superiore a qualunque altra luce, riempire il cuore di un gusto indicibile per Iddio e per tutte le cose divine: tali sono, come l’abbiamo indicato, i due effetti principali del dono di sapienza. – Vediamo quel che accade all’uomo favorito da questo dono prezioso. Succede a quest’uomo come a un cieco, il quale riceve la vista all’età di trenta o quarant’anni. Tutto il tempo che egli è stato cieco, quest’uomo che cosa pensava egli del mondo? Egli credeva all’esistenza del sole, della luna e delle stelle; credeva che esistessero degli alberi, dei frutti e dei fiori; che vi è ogni sorta di pesci nell’acqua, uccelli nell’aria e sulla terra ogni specie d’animali. Egli credeva tutto questo, perché gli era stato detto; ma tutto ciò non risvegliava in lui nessuna conoscenza precisa, né eccitava in lui né amore né gioia, perché non aveva visto nulla. Or ecco che quest’uomo ottiene ad un tratto la vista. Egli vede come il sole estende dappertutto i suoi raggi; vede come le montagne sono coperte d’alberi e di frutti; vede come i prati sono smaltati di fiori, più belli gli uni degli altri. Colpito da queste bellezze che vede per la prima volta, ei rimane stupefatto. – Abbandonate adesso questo cieco per volgervi verso l’anima umana. Essa possiede la luce della fede, essa crede che Dio é infinito, ch’Egli é la fonte inesauribile di tutte le perfezioni; ma siccome questa luce è troppo oscura, essa non eccita in sé, né molto amore per Iddio, né molta allegrezza. Ma se lo Spirito Santo comunica a quest’anima la luce del dono di sapienza, oh qual mutamento subitaneo si opera in lei! Le perfezioni divine si mostrano ai suoi sguardi in tutto il loro splendore. Ella è come fuori di sé e come sommersa in quell’oceano della divinità. [Pergmayer, Meditaz., etc., p. 44]. – Abbiamo visto che il dono d’intelletto apre pure gli occhi dell’anima; ma tra l’illuminazione che produce, e quella di cui lo spirito di sapienza è la fonte, grande è la differenza. Il dono d’intelletto illumina le verità particolari, una dopo l’altra, ma non contemplandole nella causa prima, non le rannoda tra loro in modo da comporre una vasta sintesi. – Quest’è il privilegio del dono di sapienza. Nell’amorosa luce di cui è centro egli vede, abbraccia tutto l’insieme delle cose divine; le verità della fede, tutta la dottrina cristiana, la teologia, la scrittura, le regole della morale pubblica e privata, e tutto ciò che può contribuire alla santità della vita ed all’acquisto della salute. [Corn. . a Lap., in Jacob., c . III, 17]. – Il dono d’intelletto non è accompagnato, almeno sino allo stesso grado del dono di sapienza, dal gusto e dall’amore delle cose divine; nuova e grande differenza. – « Infatti, dice san Bonaventura, altro è sapere che il miele è dolce, altro il mangiarlo e gustarne realmente la dolcezza. » L’anima illuminata dal dono d’intelletto crede e sa che Dio é infinitamente dolce: però essa non gusta questa dolcezza. Se ella giunge a possedere il dono di sapienza, non solo sa che Dio è infinitamente dolce, ma gusta altresì questa ineffabile dolcezza: il suo cuore ne e ripieno. Da ciò deriva che ella trovi le sue delizie nel confabulare con Dio, nell’occuparsi di Dio, a procurare la sua gloria. Quindi, lo spirito d’orazione, lo spirito interiore, lo spirito di sacrifizio; l’unione amorosa dell’anima con Dio e la sua trasformazione in sé; il riposo di tutte le sue potenze, l’acquietamento delle sue passioni, l’amore della solitudine e del silenzio. Allora può dire come la sposa dei Cantici: “A me il diletto mio, ed io a lui; io sono sua proprietà, io sono il suo regno. Egli regna in me, mi governa. Egli è il padrone e il direttore della mia vita interiore ed esteriore. Non sono più io che vivo, ma lui che vive in me”. – La sapienza come luce e amore, spandendosi al di fuori, fa l’uomo tutto intero a sua immagine. Ora, secondo l’apostolo san Giacomo, la sapienza che viene dallo Spirito Santo è pudica, pacifica, modesta, facile a persuadere, amica dei buoni, piena di misericordia e di buone opere, essa non giudica punto né è punto dissimulata. [Epist., III, 17]. – Ecco adesso, nelle sue grandi linee, il ritratto del vero savio. È pudico. Con ciò bisogna intendere non solamente la purità del corpo, ma altresì la purità dell’anima e della dottrina. È un fatto che la vera castità coniugale, la vera verginità, la vera continenza, la vera purità di parola e di dottrina non si trova che nel Cristianesimo e nel savio cristiano. Basta per convincersene, di gettare uno sguardo sul paganesimo e sui sapienti pagani, sul maomettismo, sul protestantismo, sul razionalismo moderno e sui pretesi sapienti di queste scuole differenti. È pacifico. Le contese, le discussioni, le risse, le dispute gli sono antipatiche: nuovo tratto che lo distingue da tutti i falsi sapienti. La ragione è semplice. La vera sapienza è figlia dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo è la sorgente della pace e della concordia. La pace è la tranquillità dell’ordine. L’ordine è il frutto della sapienza. Il sapiènte è necessariamente umile. Per conseguenza l’umiltà è la madre della pace. – È modesto. Modestia di asserzioni e di pretensioni; modestia di parole e di modi; modestia di cibo, di vesti, di mobilia e di piaceri, sono i caratteri del vero sapiente. – Altra differenza tra lui e il falso sapiente. Chi non sa quanto furono presuntuosi, vani, offensivi, orgogliosi, suscettibili, sensuali i sapienti del paganesimo, i sapienti dell’eresia; quanto lo sono altresì i sapienti dell’incredulità moderna! Animali di gloria, come gli chiama san Girolamo, essi non hanno vissuto né vivono; non hanno scritto né scrivono altro che per occupare gli altri di sé, per farsi un nome o una posizione; e guai a chi gli tocca con la punta del dito! È facile a persuadersi: cioè dire a lasciarsi persuadere e a persuadere gli altri. Pieno il suo spirito di luce, riconosce senza fatica il vero, appena che gli è proposto; pieno d’amore per il vero, il cuor suo l’abbraccia con ardore. Piena d’amore e di verità la sua parola, non incontra, per parte delle anime rette, nessuna seria resistenza. Altrimenti avviene dei filosofi dell’errore e dei loro addetti! Alle prove più convincenti oppongono ostinatamente stupidi dinieghi. Solo gli errori più grossolani s’insinuano nella loro anima; e figli come del padre della menzogna, essi gli abbracciano come sorelle, e gli insegnano come tante verità. – É amico dei buoni. Tra il sapiente cristiano o il vero cristiano, che è tutt’uno, ed i veri Cristiani, i veri buoni di tutti i secoli e di tutti i paesi, havvi una affinità reale. – Affinità potente che, simile alla scintilla elettrica, agita ad un tratto tutte le anime cattoliche, e le pone all’unisono le une con le altre. Pensieri, gioie, dolori, timori, speranze, interessi, tutto diventa comune. Quindi l’immensa fratellanza del bene, che è il carattere forse il più inesplicabile della vera religione. « Tutti riconosceranno, diceva il Verbo incarnato, che voi siete miei discepoli, se vi amate l’un l’altro. » [Joan., XIII, 35]. – Nemici dei buoni e amici dei cattivi, ecco quel che sono stati e quel che ancor sono i falsi sapienti di tutti i tempi e di tutti i paesi. Non è forse quel che si vede oggi, forse più chiaramente che mai? Qualunque siasi il clima che abitano, o la maschera con cui si coprono, lo spirito maligno conosce quelli che sono suoi. Ei gli esalta, gli difende. Per essi risveglia le simpatie di tutti i loro fratelli in empietà, in rivoluzione, in anticristianesimo. – È pieno di misericordia e di buone opere. Di misericordia, perché possiede in persona lo Spirito di colui che ha detto: Beati i misericordiosi, perché sarà usata loro misericordia. Di buone opere, perché la sua anima è uno dei rami della vigna, della quale il Verbo incarnato è il ceppo immortale e sempre fecondo. Uno dei caratteri del falso sapiente, è l’egoismo, per conseguenza l’avidità e la durezza di cuore: “Viscera impiorum crudelia”; e la sterilità delle buone opere. Vedete qual fu nella Grecia e a Roma il regno dei filosofi; e quale è stata presso di noi la fine dell’ultimo secolo. Se voi lo provate, nominate gli atti spietati dai quali si sono astenuti: le buone opere ch’essi han fatte; le istituzioni utili che hanno fondate.- Egli non giudica. Quanto più l’uomo è illuminato e caritatevole, tanto meno è portato a giudicare, a criticare, a censurare il prossimo. Meglio di chiunque altro ei sa che il giudizio appartiene a Dio; che il Vangelo proibisce di giudicare gli altri, se non vuole essere giudicato lui medesimo, e che nulla è più esposto all’errore degli umani giudizi, basati il più delle volte sopra antipatie o simpatie, qualche volta anche sopra semplici apparenze. Avviene altrimenti del falso sapiente. – Non dubitando di nulla, perché non si dubita di nulla, schiavo dei suoi interessi e delle sue passioni, giudica arditamente, accusa, critica, condanna, presta agli altri delle intenzioni che non hanno avute, e fa dir loro ciò che non hanno detto. Che cosa fanno dalla mattina alla sera, parlando del sovrano Pontefice, del clero e dei Cattolici, gli scrittori pretesi filosofi dai quali siamo circondati? – Non è punto dissimulatore. Questo è uno dei bei caratteri del vero sapiente. Dire la verità, nient’altro che la verità: verità nelle relazioni di uomo ad uomo, o di popolo a popolo, verità nella storia e nella scienza; dirla senza reticenza e senza miscuglio d’errore, dirla con rispetto perché è la verità; con amore perché essa è il pane dell’uomo; applaudire a coloro che la dicono, perché essa è la luce del cieco, il rimedio degli infermi, la consolazione degli afflitti, la salute delle nazioni, e perché non è un bene personale. [“Spiritus sanctus disciplinae effugiet fìctum, et auferet se a cogitationibus quae sunt sine intellectu”. Sap., I, 5. — Quam(sapientiam) sine fìctione didici et sine invidia communico, et honestatem illins non abscondo. Ib id ., VII, 13]. – Quindi viene che l’anima del vero sapiente è diafana. – Questa trasparenza si riflette perfino nella limpidezza del suo occhio, e nell’apertezza del suo volto. Tutt’altra cosa è l’anima del falso sapiente; il suo occhio, la sua figura. Come figlio del grande menzognero, la menzogna è abituale sulle sue labbra e sotto la sua penna. Egli affetta la verità, la sincerità, la santità, ed insegna l’errore, l’ipocrisia, l’iniquità. È il lupo sotto la pelle d’agnello. Ma checché egli faccia, il lupo apparisce in quell’occhio appena semiaperto, in quello sguardo bieco e incerto, in quel sembiante, i cui tratti confusi e immobili, sembrano cospirare per gettare un velo impenetrabile sopra i sentimenti e sul pensiero. – Luce superiore ad ogni luce, amore superiore ad ogni amore, pace, serenità, trasformazione dell’uomo in Dio; ecco nei suoi effetti positivi, l’ammirabile dono di sapienza. – Studiarlo nei suoi effetti negativi è, da un nuovo punto di vista, mostrare quanto è necessario. – 3° Qual’ è la necessità del dono di sapienza? La necessità del dono di sapienza è sovrana, assoluta, universale. V’è egli bisogno di dirne la ragione? Libero di scegliersi un padrone, l’uomo non è però libero di non averne punti. Quando noi diciamo l’uomo, noi diciamo la famiglia, il popolo, il genere umano tutto quanto. – Vivere sotto l’impero dello spirito di sapienza, o sotto l’impero dello spirito contrario, l’alternativa è necessaria tutti i giorni, tutte l’ore e in tutte le posizioni. – Qual è lo spirito satanico, opposto allo spirito di sapienza? È lo spirito di lussuria. [“Spiritus sapientiæ obruit Spiritum luxuriae, quae fìgens se in cadaveribus foetidis ut ibi pascatur, ad arcani Ecclesiae nescit reverti ut columba, ubi sunt cibaria optima et suavissima”. S. Anton., IV p., tit. X, c. I, p. 153]. – L’uno innalza l’uomo sino a Dio; l’altro lo abbassa sino al bruto. – Per apprezzare come conviene questo duplice movimento di ascensione e di discesa, bisogna fare due osservazioni importanti; la prima, che vi sono tre sorta di sapienza, contrarie alla sapienza divina: la sapienza terrena, la sapienza animale, la sapienza diabolica.« Ogni essere attivo, dice san Tommaso, opera per un fine. Se non opera per il suo fine vero, opera per un fine indebito: questa necessità è universale. Se l’uomo pone il suo fine nei beni della terra: cioè oro, argento, case, campi, greggi; quest’è la sapienza terrena. Se lo pone nei beni corporali, come il bere, il mangiare, la libidine; é la sapienza animale. Se lo fissa nella sua propria eccellenza, nella stima di sé medesimo, presunzione, orgoglio, ambizione dei posti e degli onori, quest’è la sapienza diabolica, perché essa rende l’uomo imitatore del diavolo, chiamato il re degli orgogliosi. » [S . Th., 2a, 2æ, q. 45, art. 1, ad 1]. L’Angelo della scuola non è che il commentatore dell’apostolo san Giacomo, che chiama satanica questa triplice sapienza, o piuttosto questa triplice applicazione della stessa sapienza. [“Non est enim ista sapientia desursum descendens, sed terrena, animalis, diabolica”. Epist. III, 15]. – Ora questa sapienza satanica è delitto, disgrazia, follia. Essa è delitto; poiché molto volontariamente, molto scientemente in onta alla volontà di Dio, dei lumi della sua ragione, delle aspirazioni del suo cuore, l’uomo pone il suo fine ultimo nella creatura, e arrovescia cosi tutto il piano divino. – Essa è disgrazia: per la ragione che è delitto, e per le conseguenze temporali ed eterne che essa trae seco. Queste conseguenze sono le ingiustizie, le inquietudini, i disinganni, le disperazioni, i rimorsi, le divisioni intestine, le rivoluzioni sociali e le pene dell’inferno. Essa è follia; poiché spenge, nel fango delle creature, la doppia face dell’intelligenza e della fede. Il pazzo è colui che ha perduto il sentimento umano e il sentimento divino. Non avendo più il sentimento, il pazzo non sa più fare il discernimento delle cose. Chiama vero ciò che è falso, e falso ciò che è vero, buono ciò che è cattivo, e cattivo ciò che è buono, necessario ciò che è inutile, e inutile ciò che è necessario. Come schiavo di un’idea fissa, in quella egli pone la sua felicità, per essa dimentica tutto: notte e giorno fa la caccia a dei sogni, a dei fantasmi, a dei nulla; egli si esaurisce nell’inseguirli e nell’abbracciarli. Invano vorreste illuminarlo, non capisce; dei balocchi da bambini per lui sono tanti tesori. Se gli si minaccia di toglierglieli, va nelle furie, grida, batte, rompe, piange. Ecco il pazzo. [“Nomen stultitiæ, secundum Isidorum, videtur esse a stupore. Stupor autem interpretatur sensuum alienatio, eo quod sensus stupeant. Unde stultus dicitur, qui propter stuporem non movetur…. Stultitia importat hebetudinem et obtusionem cordis”. Vig., c. XII , p. 418]. – Ed ecco tratto tratto, l’uomo o il popolo, posseduto dallo spirito di sapienza satanica. Cattivo estimatore di se medesimo, de’ suoi destini, de’ suoi doveri e de’ suoi interessi, egli pone in basso ciò che deve essere in alto, in alto ciò che deve essere in basso, il principale in luogo dell’accessorio, l’accessorio in luogo del principale, il fugace in luogo dell’immutabile, il naturale in luogo del soprannaturale, il finito in luogo dell’infinito, il corpo avanti l’anima. Nessun’argomento umano è capace di disingannarlo, egli è pazzo e vuole esserlo. “Noluit intelligere, ut bene ageret”. – O medici non l’avvicinate troppo, impiegate meglio il vostro tempo, insistete con riserva per fargli accettare i vostri rimedi: ancora non siete sicuri che egli non risponda alle vostre caritatevoli cure con dei motteggi, con delle ingiurie e con delle ire, o pure come ha fatto sovente, come lo fa ancora, appioppandovi dei colpi e facendovi persino morire: guardatevi piuttosto. – Il genere umano era colpito da questa delittuosa e deplorevole pazzia, allorquando il Verbo incarnato discese dal cielo per guarirlo. Mediante i suoi profeti, mediante se medesimo e i suoi Apostoli, annunzia il fine della sua missione. O uomo, tu sei zimbello della tua sapienza. Questa sapienza è terrena, animale, diabolica; essa è follia, essa è morte. Io perderò la sapienza dei savi: colpirò di obbrobrio la prudenza dei prudenti.11 [“Sapientia tua decepit te”. Is., XLVII, 10. — “Sapientia autem hujus mundi stultitia est apud Deum”. I Cor., III, 19. — “Prudentia carnis mors est”. Rom ., VIII, 6. — “Scriptum est enim: perdam sapientiam sapientium, et prudentiam prudentium reprobabo”. I Cor., I, 19 et Is ., XXIX, 14]. – Alla notizia dell’arrivo del Sanatore divino, tutti gli alienati di cuore sono turbati, persino nelle profondità del loro capo, e’ si preparano a ricevere il loro Medico, come essi Lo hanno ricevuto insultandolo, perseguitandolo, crocifiggendoLo. [“Illuminans tu mirabiliter a montibus aetem is, turbati sunt omnes insipientes corde”. Ps. LXXV]. – La seconda osservazione è che la triplice sapienza, o meglio la triplice follia, della quale abbiamo parlato, riesce quasi sempre alla follia della carne. Per un pazzo orgoglioso e avaro, voi troverete cento pazzi lussuriosi. Questa caduta è nella natura delle cose. L’uomo è fatto per adorare; s’egli non adora l’altissimo Dio, bisogna che adori il dio bassissimo; s’egli non adora il Dio spirito, adorerà il dio carne. Indi deriva che se voi gli scrutate con diligenza, in fondo a tutti i culti pagani, a tutte le pratiche diaboliche, di ogni coscienza emancipata, voi troverete infallibilmente una macchia. Venere ne è l’ultima parola. Cominciato con la gola, il dispotismo della carne finisce con la lussuria. – Ora di tutte le follie quella della lussuria è la più vergognosa, la più furibonda, la più feconda in disastri e la più difficile a guarire. – Siccome lo Spirito Santo è inseparabile dai suoi doni, così satana è inseparabile dai suoi. Come il dono di sapienza suppone e corona tutti i doni dello Spirito Santo, cosi il dono di lussuria suppone e trascina dietro sé tutti i doni satanici. Non un impudico il quale non sia orgoglioso, avaro, goloso, geloso, violento, pigro: è un fatto accertato dall’esperienza delle anime e dagli insegnamenti della storia. – Stando agli ordini del loro capo, non vi è delitto che i terribili satelliti della lussuria non commettano per obbedire a lui. I duelli, gli assassinii, gli avvelenamenti, i ratti, le violenze, gli infanticidi, le gozzoviglie, le nere gelosie, la perfida maldicenza, la odiosa calunnia, i tradimenti, le bassezze, i furti, le divisioni, gli’ odi sono la loro opera. – Appena che la lussuria viene a regnare sopra un popolo, sopra un’epoca, aspettatevi delle iniquità senza numero e senza nome, dei depravamenti d’idee, di gusti e di abitudini senza esempio. Voi conterete miriadi di esistenze senza rimorsi, morti di impenitenti, pazzi, suicidi in proporzioni tali da non si dire. La vita stessa viziata quasi nella sua sorgente si manifesterà per la stentezza, e la razza imbastardirà. Ora, simile all’edilizio basato sopra un terreno paludoso e che sempre minaccia di sprofondare; ora, simile alla città presa d’assalto, dove l’eccidio e il saccheggio sono in permanenza, la società in preda dello spirito di lussuria,sarà continuamente sul pendio della sua rovina, o diventerà una sanguinosa arena, nella quale tutte le passioni scatenate si daranno dei combattimenti all’ultimo sangue. Cosi finiscono i popoli voluttuosi. – Tutti questi infortuni e tutti questi pericoli di guai non basteranno mai a farci sentire la necessità del dono che ce ne preserva? Invano il mondo attuale moltiplica le rivoluzioni per arrivare alla libertà. Una sola rivoluzione può liberarnelo; ed è la rivoluzione morale, che rompendo la tirannia della lussuria e dei suoi satelliti, lo riporrà sotto l’impero dello spirito di sapienza. Se no, no. –

Giunto all’ultimo dei sette doni, gettiamo uno sguardo retrospettivo sul nostro lavoro. Sin qui noi abbiamo studiato i doni dello Spirito Santo in sé medesimi. Per quanto sia interessante, un tale studio non basta. Per ben conoscere i doni dello Spirito Santo bisogna vederli all’opera. Allora solamente sarà possibile comprenderne la bellezza, la potente fecondità, la necessità, l’applicazione agli atti della, vita e la loro influenza sulla felicità del mondo. Tale è il nuovo orizzonte che va ad aprirsi dinanzi a noi.

PREGHIERA PER IL “VERO” SOMMO PONTEFICE

“Qui  mange le Pape, meurt!”

“È necessario per la salvezza che tutti i fedeli di Cristo siano soggetti al Romano Pontefice.” (Concilio Lateranense V)

tiara

PREGHIERA PER IL “VERO” SOMMO PONTEFICE

[da: Manuale di Filotea del sac. G. Riva, Milano 1888- imprim.]

“O Salvatore degli uomini, Autore e Consumatore della nostra fede, Primogenito di tutti gli eletti, Capo e Sposo della Chiesa, Voi che all’Apostolo Pietro e a tutti i suoi Successori avete promessa solennemente l’indefettibile vostra assistenza per guidare gli agnelli e le pecore del vostro ovile ai pascoli deliziosi della salute, e indirizzaste all’eterno Padre particolare preghiera perché non avesse mai a venir meno la loro fede, riguardate con occhio di parziale benignità l’attuale vostro Vicario, il nostro sommo Pontefice [Gregorio -n.d.r.-]. Vegliate sempre alla difesa de’ suoi diritti così spirituali come temporali, e umiliate e confondete tutti coloro che tentano in qualunque modo di oscurarne la gloria o menomarne il potere, sicché tutto il mondo lo riconosca e lo veneri per quel che è realmente, il sommo Vicario di Dio, il Padre dei credenti, il Pastor dei Pastori, il Monarca della Chiesa, il Custode della fede, il Giudice della morale, l’Oracolo infallibile della verità, il Fonte d’ogni giurisdizione, l’Arbitro dei celesti tesori, la Personificazione della Dottrina che sola guida a salute. Accordategli quella copia di grazie che si conviene alla sublimità del suo grado, affinché possa tutto insieme e santificare sé stesso, e reggere secondo le massime della vostra sovrana sapienza tutti i credenti nel vostro nome, con quella pienezza di libertà, con quella assolutezza di indipendenza, con quella interezza di regia territoriale sovranità che la vostra Provvidenza gli ha procurato da tanti secoli, e la vostra onnipotenza gli ha conservato, a dispetto di tutti gli assalti dei più prepotenti nemici, costretti tutti a confessare per propria tristissima esperienza che questa Pietra da Voi piantata è cosi incrollabile come la Chiesa di cui è fondamento e sostegno, e contro cui non potran mai prevalere tutte le podestà dell’inferno”. Pater. Ave. Gloria.

 siri

Questa preghiera è bene recitarla frequentemente onde sostenere l’opera del Santo Padre “impedito” ed in esilio, obbligo che accumuna tutti i veri cattolici, che ancora hanno a cuore la gloria di Gesù-Cristo e della sua Chiesa: Una, Santa, Cattolica, Apostolica. Si capisce subito che qui non si ci rivolge al vicario dell’anticristo usurpante, in particolare nelle espressioni concernenti il “vero” Santo Padre che sono “de fide”: “il Custode della fede, il Giudice della morale, l’Oracolo infallibile della verità, la Personificazione della dottrina”. Queste quattro parole ci manifestano immediatamente che chi si spaccia fraudolentemente per ciò che non è, offre al contrario, come frutto del suo luciferino operato, la manipolazione della fede, l’incapacità di giudizio morale anche nelle cose più banali, l’occultamento della verità divina e finanche naturale, la personificazione dello gnosticismo: teologia di satana. Cosa deve mostraci di più il buon Dio per farci comprendere in quale inganno mortale ci hanno spinto i “cani opulenti che dormono”, i marrani vendicatori infiltrati, gli apostati deicidi, le Fraternità Sacrileghe, gli scismatici sedevacantisti che, offendendo il Sacro Magistero della Chiesa, ritengono che Cristo stesso sia un bugiardo ingannatore, secondo i loro costumi. Che Dio ce ne liberi quanto prima, con il “soffio della sua bocca”! [Nota redazionale].

Lunga vita al Santo Padre ed alla Chiesa!

I 14 SANTI SOCCORRITORI

8 AGOSTO: I QUATTORDICI SANTI SOCCORRITORI

     I Santi Soccorritori o Ausiliatori sono un gruppo di quattordici Santi la cui devozione cumulativa si sviluppò a partire dal XIII secolo. A questi Santi era affidato un po’ “il campionario” delle paure e dei maggiori problemi di salute di quei secoli e ad essi papa Niccolò V dedicò uno specifica ricorrenza: il giorno 8 agosto, giorno in cui erano anche concesse specifiche indulgenze.   Questi i nomi e gli attributi dei Santi Ausiliatori:

I quattordici santi soccorritori o ausiliatori sono dei santi alla cui intercessione i cristiani ricorrevano generalmente per problemi di salute, sin dal Medioevo.

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Papa Niccolò V

Ecco l’elenco:

ACAZIO – protegge nella malattia e nell’agonia, emicrania.

BARBARA – fulmini, febbre, propizia una morte serena, evitando una morte improvvisa..

BIAGIO – Protegge dal mal di gola.

CRISTOFORO – Protegge dalla peste, dagli uragani e dagli incidenti di viaggio.

CIRIACO – Protegge dalla tentazione, oppressione e possessione del diavolo.

DIONIGI – Protegge dal mal di testa e dalla sifilide.

EGIDIO – Invocato contro la sterilità, panico, paure notturne, l’epilessia, la pazzia e le eruzioni cutanee.

ERASMO – Dolori addominali ed intestinali, aiutava le partorienti.

GIORGIO – Invocato contro la peste e la lebbra, malattie della pelle.

EUSTACHIO – Contro il fuoco, e per essere preservato dal fuoco eterno.

CATERINA d’Alessandria – Invocata per le malattie della lingua e linguaggio.

MARGHERITA di Antiochia – Protegge le partorienti.

PANTALEONE – Invocato nelle malattie di consunzione dell’uomo e dell’animale.

VITO – Invocato contro le malattie psichiche, letargia, corea, epilessia, idrofobia.

chiesa 

Basilika Vierzehnheiligen [Basilica dei 14 Santi Soccorritori]

 è una chiesa di stile tardo-barocco all’esterno e rococò all’interno, sita su una collina nel comune bavarese di Bad Staffelstein 

Il 17 settembre 1445 Gesù Bambino apparve una prima volta al pastorello Hermann Leicht di Langheim, figlio del locatario del podere di Frankental; l’apparizione si ripeté con la comparsa del Bambino circondato da candele accese e il 29 luglio 1446, nello stesso luogo, questa volta comparvero attorno al Bambino Gesù altri quattordici bimbi. Alla richiesta del pastorello che chiedeva chi fossero, essi risposero di essere i quattordici salvatori e chiesero che fosse loro dedicata sul luogo una cappella. Essi apparvero anche ad una giovane gravemente ammalata, portata appositamente colà, e che miracolosamente guarì. L’abate del vicino monastero cistercense di Langheim cedette alle insistenze popolari e fece erigere per le esigenze immediate degli imminenti pellegrinaggi una cappella in onore dei Quattordici Santi Salvatori.

SANT’ACAZIO ( o ACACIO) di Armenia

acazio

     Sant’Agazio, centurione e martire, che nel rito latino è commemorato l’8 maggio, morì intorno al 304. Era un centurione cappadoce dell’esercito romano di stanza in Tracia, fu accusato dal tribuno Firmo e dal Proconsole Bibiano di essere cristiano e, dopo aspre torture e tormenti, fu decapitato a Bisanzio sotto Diocleziano e Massimiano. L’imperatore Costantino il Grande costruì una Chiesa-Santuario in suo onore alla Karìa di Costantinopoli, dove divenne anche Patrono. Da almeno tredici secoli (iconoclastìa e introduzione del rito bizantino nella Diocesi di Squillace a seguito della soggezione della stessa al Patriarcato di Costantinopoli) è Patrono della Città e della Diocesi di Squillace (ora dell’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace). Il corpo del Santo Martire è custodito e venerato in una monumentale Cappella della Cattedrale di Squillace, mentre un braccio venne portato dal Vescovo di Squillace, Marcello Sirleto, nel 1584 a Guardavalle, suo paese natale, dove è stato anche eletto come Patrono.Sue Reliquie risultano anche a Cuenca ed Avila in Spagna, provenienti da Squillace. E’ venerato tra i Santi Ausiliatori in diverse parti dell’Europa centro-settentrionale. A Squillace si celebrano tuttora due Feste solennissime: una il 16 gennaio, detta della Traslazione o delle Ossa, che rievoca l’arrivo miracoloso al lido di Squillace delle Sante Reliquie, e l’altra il 7 maggio, giorno del Martirio del Santo a Bisanzio tramandato dai Menologi bizantini e mantenuto ininterrottamente a Squillace. In questo giorno, preceduto e seguito da un’antichissima Fiera, conviene nella Cattedrale di Squillace tutto il Clero della Diocesi che presta l’Obbedienza al Vescovo Diocesano e partecipa ai riti e alla processione solenne.

SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA,

(VERGINE E MARTIRE) – (Protettrice delle gestanti e delle Puerpere)

katharina

     Abbiamo poche notizie certe di Santa Caterina d’Alessandria, ma sappiamo che fu condannata all’amputazione dei seni, proprio come Sant’Agata.      Caterina visse ad Alessandria d’Egitto nel IV secolo, dove professò con coraggio la sua fede cristiana. Figlia del re di Cipro, secondo la leggenda, Caterina si fece conoscere per la sua profonda cultura e per le sue abilità oratorie,che i più dotti filosofi dell’epoca conoscevano molto bene. Caterina rifiutò con fermezza ogni offerta di favolosa ricchezza fatta dall’Imperatore Massimino Daia con l’intento di corteggiarla. Al rifiuto della fanciulla, l’Imperatore la fece rinchiudere in carcere e la condannò al supplizio della ruota. Ma avvenne un prodigio: i soldati che dovevano eseguire la tortura caddero tramortiti e tutti gridarono al miracolo. Allora l’imperatore ordinò l’amputazione dei seni e la decapitazione. Mentre Caterina si avvicinava al patibolo invocando il Signore, dal suo collo sgorgò latte anziché sangue. La leggenda narra che il suo corpo fu poi trasportato dagli angeli sul Monte Sinai, dove si trova il Monastero a lei dedicato.

SANT’EGIDIO ABATE

Egidio

     Nacque ad Atene, ma ben presto si trasferì in Provenza,dove visse come eremita nutrendosi, secondo una leggenda che si riallaccia alle saghe greche di caccia del latte di una cerva. Egidio fondò un monastero di cui egli fu primo abate: il Monastero di Saint-Gilles (l’equivalente francese di Egidio è Gilles), situato sulla via che conduceva a Santiago di Compostela e pertanto, sempre frequentato da molti pellegrini. Sant’Egidio è uno dei Quattordici santi soccorritori ai quali i cristiani ricorrevano per ogni sorta di difficoltà. La Legenda Aurea narra dei numerosi miracoli e delle guarigioni compiute dal Santo: guarigioni di diverse malattie e di morsi di serpente. Sant’Egidio è santo patrono degli epilettici, dei lebbrosi, degli appestati, dei disabili, delle donne che allattano e delle donne sterili e in realtà fu sempre considerato patrono di tantissime categorie di persone. In arte Sant’Egidio viene raffigurato come abate benedettino o come eremita,spesso con la cerva ai suoi piedi. Sant’Egidio morì presumibilmente nell’anno 720. – E’ patrono della Stiria e della Carinzia, in Austria e delle città di Graz, Norimberga, Tolosa ed Edimburgo.

 

SANTA MARGHERITA DI ANTIOCHIA

margareta

Margherita (Marina nella “passio” greca attribuita ad un certo Timoteo che è la fonte principale per la biografia) nasce nel 275 ad Antiochia di Pisidia, all’epoca una delle città più fiorenti dell’Asia Minore, (oggi vicino le rovine della città è situata la borgata turca di Yalovaè del distretto di Iconio); Paolo e Barnaba in uno dei loro viaggi vi si fermarono per predicare Gesù Messia e Figlio di Dio ottenendo molte conversioni. Il padre Edesimo o Edesio era sacerdote pagano, per questo ruolo la famiglia di Margherita spiccava per agiatezza e nella vita sociale e religiosa della città. Nessuna notizia si ha della madre. Margherita presumibilmente rimane orfana di madre dai primi giorni di vita, tanto che il padre la affida ad una balia che abita nella campagna vicina. La balia segretamente cristiana, educa Margherita a questa fede e quando ritenne che fosse matura la presentò per ricevere il battesimo. Tutto ciò avvenne, ovviamente, ad insaputa del padre. Siamo durante il periodo delle persecuzioni scatenate da Massimiano e Diocleziano, Margherita crescendo apprendeva la storia di eroismi dei fratelli di fede, irrobustiva il suo spirito ispirandosi al Vangelo, si sentiva decisa ad emulare il coraggio dimostrato dai cristiani davanti alla crudeltà delle persecuzioni e nelle sue preghiere chiedeva di essere degna di testimoniare la sua fedeltà a Cristo. – Il padre ignaro di tutto ciò decide di riprendere la figlia ormai quindicenne presso la sua casa di Antiochia. Margherita fu subito a disagio sia per il distacco dalla nutrice, che per lo stile di vita che teneva presso la casa paterna colma di agi. Una sera chiese al padre cosa rappresentassero quelle statuette e le lampade che erano in casa, il padre spiegò che quelli erano gli idoli che adorava ed invitò Margherita a bruciare incenso per loro. Ella ascoltava quasi indifferente quello che il padre le diceva, il padre credette che Margherita mancava di una educazione religiosa adeguata al proprio rango sociale, la affidò così ad un maestro di sua conoscenza che dirigeva una scuola dove si insegnava un po’ di tutto. Margherita non gradiva gli insegnamenti pagani e dopo poco tempo rivelò al padre di essere cristiana. Per tale motivo, il padre non esitò a mandarla via di casa, quindi Margherita ritornò dalla sua balia che l’accolse come reduce vittorioso di un’aspra battaglia. In campagna Margherita si rese utile pascolando il gregge e per le altre necessità che si presentavano; essa dedicava molto tempo alla preghiera, in particolare pregava per il padre e per i fratelli nella fede che venivano sempre più spesso perseguitati. Un giorno mentre conduceva le pecore al pascolo, Margherita, venne notata da Oliario, nuovo governatore della provincia; appena la vide rimase colpito dalla sua bellezza e ordinò che gli fosse condotta dinnanzi. Dopo un lungo colloquio il governatore non riuscì nell’intento di convincere Margherita a diventare sua sposa, essa si dichiarò subito cristiana e fu irremovibile nel professare la sua fede. Il governatore, dopo un lungo interrogatorio, alle risposte di Margherita, controbatte con la flagellazione e l’incarcerazione. Secondo la tradizione, in carcere a Margherita appare il demonio sotto forma di un terribile drago, che la inghiotte, ma lei armata da una croce che teneva tra le mani, squarcia il ventre del mostro sconfiggendolo. Da questo fantastico episodio, nacque nella devozione popolare quella virtù riconosciuta a Margherita, di ottenere, per la sua intercessione, un parto facile alle donne che la invocano prima dell’inizio delle doglie. Dopo un breve periodo di carcere, Margherita è sottoposta ad un nuovo martellante interrogatorio davanti a tutta la cittadinanza, anche in quest’occasione, essa non esita a proclamare a tutti la sua fede e l’aver dedicato a Cristo la sua verginità. Ancora una volta viene invitata ad adorare ed offrire incenso agli dei pagani, ma lei si rifiuta e menziona il brano del vangelo di Matteo dicendo “quando sarete dinnanzi a magistrati e ai presidi, non vi preoccupate come o che cosa dovete rispondere, perché lo Spirito del Padre vostro, che sta nei cieli, parlerà per voi”. Mentre tutti osservavano quanto stava succedendo, una forte scossa di terremoto fece sussultare la terra e apparve una colomba con una corona che andò a deporre sul capo di Margherita. Questo fatto prodigioso, le affermazioni di Margherita, il suo rifiuto delle pratiche pagane e le molte conversioni che avvennero, mandarono su tutte le furie il governatore che emise la sentenza di condanna per Margherita: “Venga decapitata fuori della città”.      Margherita fu decapitata il 20 luglio 290 all’età di quindici anni. Il corpo venne raccolto e portato in luogo sicuro dai fedeli dove fu fatto oggetto di grande venerazione. Secondo la tradizione un pellegrino di nome Agostino da Pavia, nel secolo decimo, riuscì a trafugare, dopo varie peripezie, il corpo di S. Margherita e trasportarlo in Italia, a Roma per proseguire verso Pavia. Durante il viaggio, si fermò a Montefiascone, dove fu accolto dai benedettini del monastero di Santo Pietro ai quali raccontò le vicende del suo viaggio. Dopo qualche giorno il pellegrino si ammalò e morì, raccomandando ai monaci di conservare e venerare la preziosa reliquia. Da qui cominciò a diffondersi il culto di S. Margherita per tutta l’Italia ed in altri paesi dell’Europa, molte città si pregiarono erigere chiese in suo onore.

SAN PANTALEONE DI NICOMEDIA

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     Pantaleone nacque in Bitinia a Nicomedia,l’odierna Izmit a circa 60 chilometri da Istanbul, nella seconda metà del III secolo. Fu educato dalla madre Eubula,una donna cristiana,ma dopo la prematura morte di lei venne affidato a Eufrosino,medico personale dell’imperatore Massimiano e potè cosi’ intraprendere gli studi di medicina, ottenendo la stima e l’ammirazione di tutti. Ma poi Pantaleone conobbe il monaco Ermolao e iniziò ad intrattenersi con lui su temi riguardanti l’etica cristiana e la morale. Egli convinse Pantaleone a seguire l’esempio di Cristo e diventare medico non soltanto del corpo, ma anche dell’anima. Iniziò cosi’ a curare gli ammalati nel nome di Cristo, pregando e esercitando la professione gratuitamente. Ciò suscitò, purtroppo, l’invidia di alcuni colleghi che lo denunciarono all’imperatore. – Si narra di veri miracoli compiuti da Pantaleone, come quando un bambino, morto per un morso di serpente, risuscitò oppure quando un cieco, grazie al suo intervento, riacquistò la vista. I miracoli portarono moltissime persone a convertirsi e suscitarono l’ira dell’imperatore,il quale accusò il medico di praticare la magia e lo condannò ad una morte atroce. Vennero effettuati molti tentativi di esecuzione della sentenza,ma Pantaleone ne usci’ sempre miracolosamente indenne:le fiamme del rogo si spensero;il piombo fuso si raffreddò;le belve gli fecero le feste…   Infine gli fu tagliata la testa,si presume nell’anno 305. San Pantaleone è patrono dei medici. Così come i Santi Cosma e Damiano è chiamato “anargiro”. Appartiene al gruppo dei quattordici soccorritori ai quali i cristiani ricorrevano in ogni sorta di difficoltà. Il santo ha sempre goduto di una particolare devozione in Italia,ma anche in Austria e in Germania. Alcune reliquie(parti del braccio) sono conservate a Venezia, nel tesoro della Basilica di San Marco. A Venezia vi è una chiesa a lui dedicata, la Chiesa di San Pantaleone (San Pantalon in dialetto veneziano),dove si può ammirare il famoso dipinto “San Pantaleone risana un fanciullo” del Veronese e altri due dipinti che raffigurano il santo: “San Pantaleone che risana un paralitico davanti all’imperatore Massimiano” e la “Decapitazione di San Pantaleone” di Jacopo Palma il Giovane. A Ravello, vicino ad Amalfi,è conservata una fiala di sangue del santo e ogni anno il 27 di luglio si assiste alla miracolosa liquefazione. In Germania San Pantaleone è patrono della città di Colonia.

SANT’ERASMO DI FORMIA

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     Sant’Erasmo,il cui nome è stato spesso alterato in Elmo o Telmo,è uno dei quattordici santi soccorritori ed è invocato nei casi di dolori addominali, coliche, problemi ginecologici e sappiamo che aiutava anche le partorienti. Stando ad alcune leggende,Erasmo sarebbe divenuto vescovo di Antiochia,in Siria,ai tempi di Diocleziano. Fu però costretto a fuggire e a rifugiarsi in Libano dove,sempre secondo la leggenda,sarebbe stato nutrito dai corvi. Ma una volta tornato ad Antiochia venne sottoposto ad atroci supplizi e gli furono estratti e attorcigliati gli intestini. Per questa ragione Sant’Erasmo divenne in seguito l’intercessore per ottenere la guarigione da tutte le malattie addominali.      Fu l’arcangelo Michele a salvarlo quando lo condusse in Campania,nella regione in cui il Santo avrebbe poi annunciato il Vangelo alle popolazioni. Mori’ a Formia nel 303 e le sue reliquie vennero poi traslate a Gaeta,divenuta nel frattempo sede episcopale. Le tracce del suo culto risalgono addirittura al VI secolo e la sua venerazione da Gaeta,città della quale divenne patrono,si diffuse in tutta Europa. In arte abbiamo molte raffigurazioni di Sant’Erasmo:in Finlandia,nella Chiesa di Taivassalo si può vedere un antico affresco;in Austria,a St.Florian in Uttendorf (Oberosterreich)si trova un’interessante statua lignea del Santo,opera attribuita a Martin Zurn. Anche in Danimarca,nel Duomo di Roskilde,presso Copenhagen, si trova un dipinto raffigurante Sant’Erasmo,che risale al XVI secolo. In Italia,nel Duomo di Gaeta è conservato un candelabro per il cero pasquale della fine del XIII secolo,che presenta un ciclo di 24 episodi,tutte scene del martirio. Nel mosaico della Cappella Palatina di Palermo,Sant’Erasmo è raffigurato invece come Vescovo. Ma,sicuramente più conosciuto è il bellissimo quadro di Nicolas Poussin del 1650,conservato nella Pinacoteca Vaticana.

SAN BIAGIO DI SEBASTE

biagio

       Originario dell’Armenia (Sebaste),Biagio visse tra la fine del terzo e l’inizio del quarto secolo. Le notizie a noi pervenute sono alquanto incerte, ma sappiamo che si dedicò allo studio della medicina e della professione medica,da lui esercitata con grande spirito di dedizione. Nella città di Sebaste Biagio fu determinato nell’alleviare il dolore fisico dei suoi numerosi pazienti, ma anche la sofferenza morale,grazie al suo senso di umanità e alla fede che lo ispirava. San Biagio è noto per un miracolo molto particolare: egli riuscì a salvare un fanciullo quasi soffocato da una lisca di pesce. Per questo motivo viene invocato come protettore di tutte le malattie della gola. Nel giorno della festività di San Biagio (3 febbraio) i sacerdoti officiano un rito singolare,in cui due candele benedette vengono poste in posizione incrociata dinanzi alla gola dei fedeli Biagio divenne anche vescovo,ma fu vittima delle terribili persecuzioni dell’imperatore Licinio,all’inizio del IV secolo. Venne atroce-mente torturato e morì martire,probabilmente nell’anno 316. In arte, le icone di Novgorod raffiguranti il Santo sono testimonianza del culto,presente anche in Oriente sin dal VI secolo. Nella città di Dubrovnik – l’antica Ragusa- di cui San Biagio è patrono,possiamo ammirare tre stupendi reliquiari antropomorfi, uno dei quali a forma di gamba, in filigrana d’argento, risalente al XVII secolo. Un altro bellissimo reliquiario barocco è conservato nel Monastero di Mattsee, vicino a Salisburgo, in Austria. Sempre nell’area tedesca,altre reliquie si trovano in Germania, a Mainz,Lubecca e Treviri.

SAN VITO

vitus

     Vito nacque in Sicilia, presumibilmente a Mazara del Vallo e,in quanto cristiano, dovette subire il martirio sotto Diocleziano. Questo è l’unico fatto certo della sua vita, tuttavia la Legenda Aurea ci fornisce alcuni importanti dettagli che ricorrono nell’iconografia. Il giovane cristiano Vito si sarebbe opposto al padre Hylas, rifiutandosi di adorare gli idoli pagani. Per questo motivo si sarebbe rifugiato in Lucania insieme al maestro Modesto e alla nutrice Crescenzia. Ma poi fu catturato e condotto a Roma per essere giudicato da Diocleziano. A Roma Vito compì molti miracoli e guarì anche uno dei figli dell’imperatore. Secondo la Legenda Aurea egli dovette ancora subire molti tormenti per poi finire in una pentola di olio bollente dalla quale fu salvato grazie all’intervento di un angelo. L’angelo, sempre al fianco di Vito, Crescenzia e Modesto, li condusse quindi presso un fiume,dove essi poco dopo resero l’anima a Dio. Le aquile avrebbero custodito i corpi dei martiri fino a quando non furono trovati da una nobildonna e sepolti intorno all’anno 287. San Vito è uno dei quattordici santi soccorritori ed è invocato nei casi di epilessia, isteria, crampi e anche nelle malattie degli occhi e delle orecchie. Il culto di San Vito è molto diffuso in Europa centrale poiché le reliquie del Santo sono custodite a Praga, nel Duomo di San Vito. La sua popolarità lo rese patrono di molte categorie,fra le quali i farmacisti. Nelle raffigurazioni compare quasi sempre l’attributo della pentola,in particolare nelle sculture. Un busto-reliquario sorretto da angeli, risalente al 1495 circa, si trova nel Duomo di Praga e un’interessante tavola,risalente al 1487 e destinata all’altar maggiore della Chiesa di San Vito a Norimberga,è ora conservata presso il Germanisches National museum della stessa città. – San Vito, era molto venerato nel Medioevo, la cui intercessione veniva considerata particolarmente efficace nelle malattie o specifiche necessità.  Il culto per s. Vito è attestato dalla fine del V secolo, ma le notizie sulla sua vita sono poche e scarsamente attendibili. Alcuni antichi testi lo dicono lucano, ma la ‘Passio’ leggendaria del VII secolo, lo dice siciliano; nato secondo la tradizione a Mazara del Vallo in una ricca famiglia, rimasto orfano della madre, fu affidato ad una nutrice Crescenzia e poi al pedagogo Modesto, che essendo cristiani lo convertirono alla loro fede. Aveva sui sette anni, quando cominciò a fare prodigi e quando nel 303 scoppiò in tutto l’impero romano, la persecuzione di Diocleziano contro i cristiani, Vito era già molto noto nella zona di Mazara. Il padre non riuscendo a farlo abiurare, si crede che fosse ormai un’adolescente, lo denunziò al preside Valeriano, che ordinò di arrestarlo. Il preside Valeriano con minacce e lusinghe, tentò di farlo abiurare, anche con l’aiuto degli accorati appelli del padre, ma senza riuscirci; il ragazzo aveva come sostegno, con il loro esempio di coraggio e fedeltà a Cristo, la nutrice Crescenzia e il maestro Modesto, anche loro arrestati. Visto l’inutilità dell’arresto, il preside lo rimandò a casa, allora il padre tentò di farlo sedurre da alcune donne compiacenti, ma Vito fu incorruttibile e quando Valeriano stava per farlo arrestare di nuovo, un angelo apparve a Modesto, ordinandogli di partire su una barca con il ragazzo e la nutrice. Durante il viaggio per mare, un’aquila portò loro acqua e cibo, finché sbarcarono alla foce del Sele sulle coste del Cilento, inoltrandosi poi in Lucania (antico nome della Basilicata, ripristinato anche dal 1932 al 1945). Vito continuò ad operare miracoli tanto da essere considerato un vero e proprio taumaturgo, testimoniando insieme ai due suoi accompagnatori, la sua fede con la parola e con i prodigi, finché non venne rintracciato dai soldati di Diocleziano, che lo condussero a Roma dall’imperatore, il quale saputo della fama di guaritore del ragazzo, l’aveva fatto cercare per mostrargli il figlio coetaneo di Vito, ammalato di epilessia, malattia che all’epoca era molto impressionante, tale da considerare l’ammalato un indemoniato. Vito guarì il ragazzo e come ricompensa Diocleziano ordinò di torturarlo, perché si rifiutò di sacrificare agli dei; qui si inserisce la parte leggendaria della ‘Passio’ che poi non è dissimile nella sostanza, da quelle di altri martiri del tempo. Venne immerso in un calderone di pece bollente, da cui ne uscì illeso; poi lo gettarono fra i leoni che invece di assalirlo, diventarono improvvisamente mansueti e gli leccarono i piedi. Continua la leggenda, che i torturatori non si arresero e appesero Vito, Modesto e Crescenzia ad un cavalletto, ma mentre le loro ossa venivano straziate, la terra cominciò a tremare e gli idoli caddero a terra; lo stesso Diocleziano fuggì spaventato. Comparvero degli angeli che li liberarono e trasportarono presso il fiume Sele allora in Lucania, oggi dopo le definizioni territoriali successive, scorre in Campania, dove essi ormai sfiniti dalle torture subite, morirono il 15 giugno 303; non si è riusciti a definire bene l’età di Vito quando morì, alcuni studiosi dicono 12 anni, altri 15 e altri 17. Purtroppo bisogna dire che il martirio in Lucania è l’unica notizia attendibile su s. Vito, mentre per tutto il resto si finisce nella leggenda. Il suo culto si diffuse in tutta la Cristianità, colpiva soprattutto la giovane età del martire e le sue doti taumaturgiche, è invocato contro l’epilessia e la corea, che è una malattia nervosa che dà movimenti incontrollabili, per questo è detta pure “ballo di san Vito”; poi è invocato contro il bisogno eccessivo di sonno e la catalessi, ma anche contro l’insonnia ed i morsi dei cani rabbiosi e l’ossessione demoniaca. Protegge i muti, i sordi e singolarmente anche i ballerini, per la somiglianza nella gestualità agli epilettici. Per il grande calderone in cui fu immerso, è anche patrono dei calderai, ramai e bottai. Secondo una versione tedesca della leggenda, nel 756 l’abate Fulrad di Saint-Denis, avrebbe fatto trasportare le reliquie di san Vito nel suo monastero di Parigi; poi nell’836 l’abate Ilduino le avrebbe donate al monastero di Korway nel Weser, che divenne un centro importante nel Medioevo, della devozione del giovane martire. Durante la guerra dei Trent’anni (1618-48), le reliquie scomparvero da Korwey e raggiunsero nella stessa epoca Praga in Boemia, dove la cattedrale costruita nel X secolo, era dedicata al santo; a lui è consacrata una splendida cappella. Bisogna dire che delle reliquie di san Vito, è piena l’Europa; circa 150 cittadine, vantano di possedere sue reliquie o frammenti, compreso Mazara del Vallo, che conserva un braccio, un osso della gamba e altri più piccoli. Nella città ritenuta suo luogo di nascita, san Vito è festeggiato ogni anno con una solenne e tipica processione, che si svolge fra la terza e la quarta domenica d’agosto. Il “fistinu” in onore del santo patrono, ricorda la traslazione delle suddette reliquie, avvenuta nel 1742 ad opera del vescovo Giuseppe Stella. La processione, indicata come la più mattiniera d’Italia, inizia alle quattro del mattino, con il trasporto della statua d’argento del santo, posta sul Carro trionfale, trainato a braccia dai pescatori, fino alla chiesetta di San Vito a Mare, accompagnato da una suggestiva fiaccolata e da fuochi d’artificio; da questo luogo si crede sia partito con la barca per sfuggire al padre e al preside Valeriano. Una seconda processione è quella celebre storica-ideale a quadri viventi, è una serie di carri, su cui sono rappresentate da fedeli con gli abiti dell’epoca, scene della sua vita e del suo martirio, chiude la processione il già citato carro trionfale. “U fistinu” si conclude nell’ultima domenica d’agosto, con un’ultima processione del carro trionfale diretto al porto-canale e da lì il simulacro di s. Vito, viene issato su uno dei pescherecci e seguito da un centinaio di altri pescherecci e barche, giunge fino all’altezza della Chiesetta di S. Vito al Mare, per ritornare infine al porto. A Roma esiste la chiesa dei santi Vito e Modesto, dove in un affresco oltre il giovanetto, compaiono anche Modesto con il mantello da maestro e Crescenzia in aspetto matronale con il velo. Nell’area germanica s. Vito è rappresentato come un ragazzo sporgente da un grosso paiolo, con il fuoco acceso sotto. Il santuario in cui è venerato nell’allora Lucania, oggi nel Comune di Eboli in Campania, denominato S. Vito al Sele, era detto “Alecterius Locus” cioè “luogo del gallo bianco”; nella vicina città di Capaccio, nella chiesa di S. Pietro, è custodita una reliquia del santo, mentre nella frazione Capaccio Scalo, è sorta un’altra chiesa parrocchiale dedicata anch’essa a S. Vito; la diocesi di questi Comuni in cui il culto di S. Vito è così forte, perché qui morì con i suoi compagni di martirio, si chiama tuttora Vallo della Lucania, pur essendo in provincia di Salerno. Il santo è anche patrono di Recanati e nella sola Italia, ben 11 Comuni portano il suo nome.

SAN CIRIACO di Roma

cyriacus

Sono conosciuti ben 27 santi con il nome Ciriaco, quasi tutti martiri e quasi tutti facenti parte di piccoli gruppi, che subirono il martirio insieme. Anche questo s. Ciriaco martire a Roma, fa parte di un gruppo di sei martiri, che bisogna per forza citare per aiutarci a distinguerlo da altri due Ciriaco, anch’essi martiri a Roma. I suoi compagni sono Largo, Memmia, Crescenziano, Giuliana, Smaragdo, tutti commemorati nello stesso giorno dell’8 agosto. Purtroppo proprio per il ripetersi del nome Ciriaco per vari martiri, si è determinata una certa confusione nell’identificarli; teniamo presente vari fattori, la lontananza del tempo, la mancanza di documenti contemporanei, i reperti archeologici trovati in vari punti e soprattutto le varie ‘Passio’ compilate in tempi successivi e diversi. Si riporta la leggendaria storia di Ciriaco e dei suoi compagni, così come la si ricava dalla ‘Passio Marcelli’; l’imperatore Massimiano (250-310) decide di edificare a Roma le terme in onore del co-imperatore Diocleziano e utilizza per i suoi lavori anche i cristiani già in prigione; questi sono aiutati dal ricco Tresone, tramite Ciriaco, Sisinnio, Smaragdo e Largo, i primi due erano stati ordinati diaconi dal papa Marcello († 309) e incaricati appunto di aiutare ed assistere i cristiani arrestati a seguito della persecuzione in atto, ma il gruppo venne scoperto e condannato con gli altri a lavorare alle terme. Rinfocolata la persecuzione, Sisinnio viene incarcerato e poi martirizzato insieme al vecchio Saturnino il 29 novembre; Ciriaco, Largo e Smaragdo rimasti in carcere, vengono visitati da altri cristiani e operano anche miracoli, come Ciriaco che esorcizza Artemia, figlia di Diocleziano, posseduta dal demonio e poi la battezza. Diocleziano (243-313) riconoscente lascia liberi i tre cristiani e dona loro anche una casa; la leggenda racconta ancora che i tre si recano in Persia, dove operano un analogo prodigio con Giovia, figlia del re Sapore († 272), poi ritornano a Roma, dove nella casa a loro donata istituiscono un fonte battesimale e in cui papa Marcello battezza i loro convertiti. Dopo l’abdicazione di Diocleziano nel 305, l’altro imperatore Massimiano fa arrestare i tre cristiani, insieme a Crescenziano, il quale sottoposto a supplizi, muore per primo il 24 novembre e seppellito nel cimitero di Priscilla. Mentre Ciriaco, Largo e Smaragdo, insieme ad altri cristiani tra i quali Memmia e Giuliana, di cui si conoscono i nomi, vengono condotti sulla via Salaria e lì decapitati il 16 marzo e sepolti sullo stesso posto. L’8 agosto successivo papa Marcello trasferisce i loro corpi al VII miglio della via Ostiense. La loro casa assegnata in un primo tempo al prefetto Carpasio, viene trasformata in un bagno pubblico e in seguito chiusa e abbandonata. Le date non coincidono, ma questo è frutto di quanto detto prima. Nel ‘Liber Pontificalis’ si riporta che papa Onorio (625-638) fece fabbricare una chiesa in onore del solo s. Ciriaco e così pure nelle biografie di papa Leone III e papa Benedetto III viene ricordata questa chiesa; i ruderi di questa antica basilica furono riscoperti nel 1915 sulla via Ostiense. Il culto per s. Ciriaco a Roma durante il Medioevo, ebbe notevole diffusione, come attestano le varie chiese erette in suo onore quasi tutte scomparse; nell’817 ad opera di papa Pasquale I le reliquie del santo furono trasferite dalla chiesa sulla via Ostiense, nella chiesa di Santa Prassede e successivamente nella chiesa di S. Ciriaco di Neuhausen presso Worms, e in questa zona della Sassonia il santo ha avuto un grande culto e tutta una tradizione iconografica

SAN GIORGIO di Lydda

georg

Per avere un’idea del diffusissimo culto che il santo cavaliere e martire Giorgio, godé in tutta la cristianità, si danno alcuni dati. Nella sola Italia vi sono ben 21 Comuni che portano il suo nome; Georgia è il nome di uno Stato americano degli U.S.A. e di una Repubblica caucasica; sei re di Gran Bretagna e Irlanda, due re di Grecia e altri dell’Est europeo, portarono il suo nome. – È patrono dell’Inghilterra, di intere Regioni spagnole, del Portogallo, della Lituania; di città come Genova, Campobasso, Ferrara, Reggio Calabria e di centinaia di altre città e paesi. Forse nessun santo sin dall’antichità ha riscosso tanta venerazione popolare, sia in Occidente che in Oriente; chiese dedicate a s. Giorgio esistevano a Gerusalemme, Gerico, Zorava, Beiruth, Egitto, Etiopia, Georgia da dove si riteneva fosse oriundo; a Magonza e Bamberga vi erano delle basiliche; a Roma vi è la chiesa di S. Giorgio al Velabro che custodisce la reliquia del cranio del martire palestinese; a Napoli vi è la basilica di S. Giorgio Maggiore; a Venezia c’è l’isola di S. Giorgio. Vari Ordini cavallereschi portano il suo nome e i suoi simboli, fra i più conosciuti: l’Ordine di S. Giorgio, detto “della Giarrettiera”; l’Ordine Teutonico, l’Ordine militare di Calatrava d’Aragona; il Sacro Ordine Costantiniano di S. Giorgio, ecc. È considerato il patrono dei cavalieri, degli armaioli, dei soldati, degli scouts, degli schermitori, della Cavalleria, degli arcieri, dei sellai; inoltre è invocato contro la peste, la lebbra e la sifilide, i serpenti velenosi, le malattie della testa, e particolarmente nei paesi alle pendici del Vesuvio, contro le eruzioni del vulcano. Il suo nome deriva dal greco ‘gheorgós’ cioè ‘agricoltore’ e lo troviamo già nelle ‘Georgiche’ di Virgilio e fu portato nei secoli da persone celebri in tutti i campi, oltre a re e principi, come Washington, Orwell, Sand, Hegel, Gagarin, De Chirico, Morandi, il Giorgione, Danton, Vasari, Byron, Simenon, Bernanos, Bizet, Haendel, ecc. In Italia è diffuso anche il femminile Giorgia, Giorgina; in Francia è Georges; in Inghilterra e Stati Uniti, George; Jörg e Jürgens in Germania; Jorge in Spagna e Portogallo; Gheorghe in Romania; Yorick in Danimarca; Yuri in Russia. La Chiesa Orientale lo chiama il “Megalomartire” (il grande martire). Detto tutto questo, si può capire come il suo culto così diffuso in tutti i secoli, abbia di fatto superato le perplessità sorte in seno alla Chiesa, che in mancanza di notizie certe e comprovate sulla sua vita, nel 1969 lo declassò nella liturgia ad una memoria facoltativa; i fedeli di ogni luogo dove è venerato, hanno continuato comunque a tributargli la loro devozione millenaria. – La sua figura è avvolta nel mistero, da secoli infatti gli studiosi cercano di stabilire chi veramente egli fosse, quando e dove sia vissuto; le poche notizie pervenute sono nella “Passio Georgii” che il ‘Decretum Gelasianum’ del 496, classifica tra le opere apocrife (supposte, non autentiche, contraffatte); inoltre in opere letterarie successive, come “De situ terrae sanctae” di Teodoro Perigeta del 530 ca., il quale attesta che a Lydda (Diospoli) in Palestina, oggi Lod presso Tel Aviv in Israele, vi era una basilica costantiniana, sorta sulla tomba di san Giorgio e compagni, martirizzati verosimilmente nel 303, durante la persecuzione di Diocleziano (detta basilica era già meta di pellegrini prima delle Crociate, fino a quando il sultano Saladino (1138-1193) la fece abbattere). La notizia viene confermata anche da Antonino da Piacenza (570 ca.) e da Adamnano (670 ca) e da un’epigrafe greca, rinvenuta ad Eraclea di Betania datata al 368, che parla della “casa o chiesa dei santi e trionfanti martiri Giorgio e compagni”. -I documenti successivi, che sono nuove elaborazioni della ‘passio’ leggendaria sopra citata, offrono notizie sul culto, ma sotto l’aspetto agiografico non fanno altro che complicare maggiormente la leggenda, che solo tardivamente si integra dell’episodio del drago e della fanciulla salvata da s. Giorgio. – La ‘passio’ dal greco, venne tradotta in latino, copto, armeno, etiopico, arabo, ad uso delle liturgie riservate ai santi; da essa apprendiamo come già detto senza certezze, che Giorgio era nato in Cappadocia ed era figlio di Geronzio persiano e Policronia cappadoce, che lo educarono cristianamente; da adulto divenne tribuno dell’armata dell’imperatore di Persia Daciano, ma per alcune recensioni si tratta dell’armata di Diocleziano (243-313) imperatore dei romani, il quale con l’editto del 303, prese a perseguitare i cristiani in tutto l’impero. Il tribuno Giorgio di Cappadocia allora distribuì i suoi beni ai poveri e dopo essere stato arrestato per aver strappato l’editto, confessò davanti al tribunale dei persecutori, la sua fede in Cristo; fu invitato ad abiurare e al suo rifiuto, come da prassi in quei tempi, fu sottoposto a spettacolari supplizi e poi buttato in carcere. Qui ha la visione del Signore che gli predice sette anni di tormenti, tre volte la morte e tre volte la resurrezione. E qui la fantasia dei suoi agiografi, spazia in episodi strabilianti, difficilmente credibili: vince il mago Atanasio che si converte e martirizzato; viene tagliato in due con una ruota piena di chiodi e spade; risuscita operando la conversione del ‘magister militum’ Anatolio con tutti i suoi soldati che vengono uccisi a fil di spada; entra in un tempio pagano e con un soffio abbatte gli idoli di pietra; converte l’imperatrice Alessandra che viene martirizzata; l’imperatore lo condanna alla decapitazione, ma Giorgio prima ottiene che l’imperatore ed i suoi settantadue dignitari vengono inceneriti; promette protezione a chi onorerà le sue reliquie ed infine si lascia decapitare. Il culto per il martire iniziò quasi subito, come dimostrano i resti archeologici della basilica eretta qualche anno dopo la morte (303?) sulla sua tomba nel luogo del martirio (Lydda); la leggenda del drago comparve molti secoli dopo nel Medioevo, quando il trovatore Wace (1170 ca.) e soprattutto Jacopo da Varagine († 1293) nella sua “Leggenda Aurea”, fissano la sua figura come cavaliere eroico, che tanto influenzerà l’ispirazione figurativa degli artisti successivi e la fantasia popolare. Essa narra che nella città di Silene in Libia, vi era un grande stagno, tale da nascondere un drago, il quale si avvicinava alla città, e uccideva con il fiato quante persone incontrava. I poveri abitanti gli offrivano per placarlo, due pecore al giorno e quando queste cominciarono a scarseggiare, offrirono una pecora e un giovane tirato a sorte. Un giorno fu estratta la giovane figlia del re, il quale terrorizzato offrì il suo patrimonio e metà del regno, ma il popolo si ribellò, avendo visto morire tanti suoi figli, dopo otto giorni di tentativi, il re alla fine dovette cedere e la giovane fanciulla piangente si avviò verso il grande stagno. Passò proprio in quel frangente il giovane cavaliere Giorgio, il quale saputo dell’imminente sacrificio, tranquillizzò la principessina, promettendole il suo intervento per salvarla e quando il drago uscì dalle acque, sprizzando fuoco e fumo pestifero dalle narici, Giorgio non si spaventò, salì a cavallo e affrontandolo lo trafisse con la sua lancia, ferendolo e facendolo cadere a terra. Poi disse alla fanciulla di non avere paura e di avvolgere la sua cintura al collo del drago; una volta fatto ciò, il drago prese a seguirla docilmente come un cagnolino, verso la città. Gli abitanti erano atterriti nel vedere il drago avvicinarsi, ma Giorgio li rassicurò dicendo: ”Non abbiate timore, Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago: Abbracciate la fede in Cristo, ricevete il battesimo e ucciderò il mostro”. Allora il re e la popolazione si convertirono e il prode cavaliere uccise il drago facendolo portare fuori dalla città, trascinato da quattro paia di buoi. La leggenda era sorta al tempo delle Crociate, influenzata da una falsa interpretazione di un’immagine dell’imperatore cristiano Costantino, trovata a Costantinopoli, dove il sovrano schiacciava col piede un drago, simbolo del “nemico del genere umano”. – La fantasia popolare e i miti greci di Perseo che uccide il mostro liberando la bella Andromeda, elevarono l’eroico martire della Cappadocia a simbolo di Cristo, che sconfigge il male (demonio) rappresentato dal drago. I crociati accelerarono questa trasformazione del martire in un santo guerriero, volendo simboleggiare l’uccisione del drago come la sconfitta dell’Islam; e con Riccardo Cuor di Leone (1157-1199) san Giorgio venne invocato come protettore da tutti i combattenti. – Con i Normanni il culto del santo orientale si radicò in modo straordinario in Inghilterra e qualche secolo dopo nel 1348, re Edoardo III istituì il celebre grido di battaglia “Saint George for England”, istituendo l’Ordine dei Cavalieri di San Giorgio o della Giarrettiera. In tutto il Medioevo la figura di s. Giorgio, il cui nome aveva tutt’altro significato, cioè ‘agricoltore’, divenne oggetto di una letteratura epica che gareggiava con i cicli bretone e carolingio. Nei Paesi slavi assunse la funzione addirittura ‘pagana’ di sconfiggere le tenebre dell’inverno, simboleggiate dal drago e quindi di favorire la crescita della vegetazione in primavera; una delle tante metamorfosi leggendarie di quest’umile martire, che volle testimoniare in piena libertà, la sua fede in Cristo, soffrendo e donando infine la sua giovane vita, come fecero in quei tempi di sofferenza e sangue, tanti altri martiri di ogni età, condizione sociale e in ogni angolo del vasto impero romano. San Giorgio è onorato anche dai musulmani, che gli diedero l’appellativo di ‘profeta’. Enrico Pepe sacerdote, nel suo volume ‘Martiri e Santi del Calendario Romano’, conclude al 23 aprile, giorno della celebrazione liturgica di s. Giorgio, con questa riflessione: “Forse la funzione storica di questi santi avvolti nella leggenda è di ricordare al mondo una sola idea, molto semplice ma fondamentale, il bene a lungo andare vince sempre il male e la persona saggia, nelle scelte fondamentali della vita, non si lascia mai ingannare dalle apparenze”.

San CRISTOFORO di Licia

christophorus

Il testo più antico dei suoi Atti, in edizione latina, risale oltre il sec. VIII. Esso contiene narrazioni intessute di episodi talmente fantastici, da spingere qualche critico a dubitare della reale esistenza di questo martire. Ma in un’iscrizione del 452, scoperta ad Haidar-Pacha in Nicomedia, .si parla di una basilica dedicata a Cristoforo nella Bitinia: ciò non comporta necessariamente che il santo sia originario di questa regione. Il Martirologio Geronimiano al 25 luglio pone la festa di Cristoforo in Licia, nella città di Samon: ma sul problema della localizzazione di questa Samon, i critici non sono pienamente concordi. Un’altra testimonianza è del 536: tra i firmatari del concilio di Costantinopoli ci fu un certo Fotino del monastero di S. Cristoforo non meglio identificato. S. Gregorio Magno, infine, parla di un monastero in onore di questo martire a Taormina in Sicilia. Si tratta, è vero, di testimonianze sommarie, ma per sé sufficienti a dimostrare l’esistenza storica del martire orientale, ucciso, secondo il Geronimiano, nel 250, durante la persecuzione di Decio. – Cristoforo fu uno dei santi più venerati nel Medioevo: chiese e monasteri si costruirono in suo onore sia in Oriente sia in Occidente; particolarmente, in Austria, in Dalmazia e in Spagna il suo culto fu diffusissimo. Nella Spagna, poi, si venerano molte sue reliquie. Cristoforo godeva speciale venerazione presso i pellegrini e proprio per questo sorsero in suo onore istituzioni e congregazioni aventi lo scopo di aiutare i viaggiatori che dovevano superare difficoltà naturali di vario genere. Questo intenso culto determinò il sorgere di una letteratura copiosa e straordinaria, caratterizzata da leggende e narrazioni favolose dove, indipendentemente dall’obbiettività storica, è degna di ammirazione la ricca fantasia dei compilatori. Si nota, tuttavia, come le leggende orientali differiscano, in parte, da quelle occidentali. Secondo i sinassari, Cristoforo era un guerriero appartenente a una rozza tribu di antropofagi; si chiamava Reprobo e nell’aspetto “dalla testa di cane” (come lo definiscono gli Atti) dimostrava vigoria e forza. Il particolare della cinocefalia ha indotto qualche critico moderno a vedere nelle leggende l’influsso di elementi della religione egiziana, presi specialmente dal mito del dio Anubis, o anche di Ermete ed Eracle. Narra ancora la leggenda che, entrato nell’esercito imperiale, Cristoforo si convertì al Cristianesimo e iniziò con successo fra i suoi commilitoni un’intensa propaganda. Denunziato, fu condotto davanti al giudice che lo sottopose a svariati supplizi. Due donne, Niceta e Aquilina, incaricate di corromperlo, furono da lui convertite e trasformate in apostole (nel Martirologio Romano sono menzionate come martiri al 24 luglio). Cristoforo prima fu battuto con verghe, in seguito colpito con frecce, poi gettato nel fuoco e, infine, decapitato. – Jacopo da Varagine (sec. XIII), con la sua Legenda Aurea, fu l’autore che in Occidente rese celebre Cristoforo; Secondo questo testo, egli era un giovane gigante che si era proposto di servire il signore più potente. Per questo fu successivamente al servizio di un re, di un imperatore, poi del demonio, dal quale apprese che Cristo era il più forte di tutti: di qui nacque il desiderio della conversione. Da un pio eremita fu istruito sui precetti della carità: volendo esercitarsi in tale virtù e prepararsi al battesimo, scelse un’abitazione nelle vicinanze di un fiume, con lo scopo di aiutare i viaggiatori a passare da una riva all’altra. Una notte fu svegliato da un grazioso fanciullo che lo pregò di traghettarlo; il santo se lo caricò sulle spalle, ma più s’inoltrava nell’acqua, più il peso del fanciullo aumentava e a stento, aiutandosi col grosso e lungo bastone, riuscì a guadagnare l’altra riva. Qui il bambino si rivelò come Cristo e gli profetizzò il martirio a breve scadenza. Dopo aver ricevuto il battesimo, Cristoforo si recò in Licia a predicare e qui subì il martirio. Come questa leggenda sia sorta è ancora oggi un problema insoluto. Si sono formulate alcune ipotesi: chi ritiene che il nome Cristoforo (= portatore di Cristo) abbia potuto suggerire la leggenda; chi suppone che l’iconografia (Cristoforo con Gesù sulle spalle) sia anteriore alla narrazione di Jacopo da Varagine, per cui la rappresentazione iconografica avrebbe ispirato il motivo leggendario. – La festa di Cristoforo in Occidente è celebrata il 25 luglio, in Oriente il 9 maggio. – Per quanto riguarda il folklore, è da notare come esso non sia diminuito nei tempi recenti, sebbene abbia subito, ovviamente, degli adattamenti. Se nel Medioevo Cristoforo era venerato come protettore dei viandanti e dei pellegrini prima di intraprendere itinerari difficili e pericolosi, oggi il santo è divenuto il protettore degli automobilisti, che lo invocano contro gli incidenti e le disgrazie stradali. Varie altre categorie si affidano alla sua tutela: i portalettere, gli atleti, i facchini, gli scaricatori e, in genere, coloro che esercitano un lavoro pesante ed esposto a vari rischi. La leggenda del bastone fiorito, dopo il trasporto di Gesù, ha contribuito a dichiararlo protettore dei fruttivendoli. Fu anche uno dei quattordici santi ausiliatori, di quei santi, cioè, invocati in occasione di gravi calamità naturali. Questa devozione sorse nel sec. XII e si sviluppò nel sec. XIV. Il patrocinio di Cristoforo era specialmente invocato contro la peste. La leggenda, inoltre, ispirò in Italia e in Francia poemetti e sacre rappresentazioni.

SANTA BARBARA

barbara

Esistono molte redazioni in greco e traduzioni latine della passio di Barbara; si tratta, però, di narrazioni leggendarie, il cui valore storico è molto scarso, anche perché vi si riscontrano non poche divergenze. In alcune passiones, infatti, il suo martirio è posto sotto l’impero di Massimino il Trace (235 – 38) o di Massimiano (286 – 305), in altre, invece, sotto quello di Massimino Daia (308 –13). Né maggiore concordanza esiste sul luogo di origine, poiché si parla di Antiochia, di Nicomedia e, infine, di una località denominata “Heliopolis”, distante 12 miglia da Euchaita, città della Paflagonia. Nelle traduzioni latine, la questione si complica maggiormente, perché per alcune di esse Barbara sarebbe vissuta nella Toscana, e, infatti, nel Martirologio di Adone si legge: “In Tuscia natale sanctae Barbarae virginis et martyris sub Maximiano imperatore”. Ci si trova, quindi, di fronte al caso di una martire il cui culto fino all’antichità fu assai diffuso, tanto in Oriente quanto in Occidente; invece, per quanto riguarda le notizie biografiche, si possiedono scarsissimi elementi: il nome, l’origine orientale, con ogni verisimiglianza l’Egitto, e il martirio. La leggenda, poi, ha arricchito con particolari fantastici, a volte anche irreali, la vita della martire: si tratta di particolari che hanno avuto un influsso sia sul culto come sull’iconografia. Il padre di Barbara, Dioscuro, fece costruire una torre per rinchiudervi la bellissima figlia richiesta in sposa da moltissimi pretendenti. Ella, però, non aveva intenzione di sposarsi, ma di consacrarsi a Dio. Prima di entrare nella torre, non essendo ancora battezzata e volendo ricevere il sacramento della rigenerazione, si recò in una piscina d’acqua vicino alla torre e vi si immerse tre volte dicendo: “Battezzasi Barbara nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Per ordine del padre, la torre avrebbe dovuto avere due finestre, ma Barbara ne volle tre in onore della S.ma Trinità. Il padre, pagano, venuto a conoscenza della professione cristiana della figlia, decise di ucciderla, ma ella, passando miracolosamente fra le pareti della torre, riuscì a fuggire. Nuovamente catturata, il padre la condusse davanti al magistrato, affinché fosse tormentata e uccisa crudelmente. Il prefetto Marciano cercò di convincere Barbara a recedere dal suo proposito; poi, visti inutili i tentativi, ordinò di tormentarla avvolgendole tutto il corpo in panni rozzi e ruvidi, tanto da farla sanguinare in ogni parte. Durante la notte, continua il racconto seguendo uno schema comune alle leggende agiografiche, Barbara ebbe una visione e fu completamente risanata. Il giorno seguente il prefetto la sottomise a nuove e più crudeli torture: sulle sue carni nuovamente dilaniate fece porre piastre di ferro rovente. Una certa Giuliana, presente al supplizio, avendo manifestato sentimenti cristiani, venne associata al martirio: le fiamme, accese ai loro fianchi per tormentarle, si spensero quasi subito. Barbara, portata ignuda per la città, ritornò miracolosamente vestita e sana, nonostante l’ordine di flagellazione. Finalmente, il prefetto la condannò al taglio della testa; fu il padre stesso che eseguì la sentenza. Subito dopo un fuoco discese dal cielo e bruciò completamente il crudele padre, di cui non rimasero nemmeno le ceneri. L’imperatore Giustino, nel sec. VI, avrebbe trasferito le reliquie della martire dall’Egitto a Costantinopoli; qualche secolo più tardi i veneziani le trasferirono nella loro città e di qui furono recate nella chiesa di S. Giovanni Evangelista a Torcello (1009). Il culto della martire fu assai diffuso in Italia, probabilmente importato durante il periodo dell’occupazione bizantina nel sec. VI, e si sviluppò poi durante le Crociate. Se ne trovano tracce in Toscana, in Umbria, nella Sabina. A Roma, poi, secondo la testimonianza di Giovanni Diacono (Vita, IV,89), s. Gregorio Magno, quando ancora era monaco, amava recarsi a pregare nell’oratorio di S. Barbara. Il testo, però, ha valore solo per il IX sec.; comunque, è certo che in questo secolo erano stati costruiti oratori in onore di B., dei quali fa testimonianza il Liber Pontificalis (ed. L. Duchesne, II, pp. 50, 116) nelle biografie di Stefano IV (816-17) e Leone IV (847-55). Barbara è particolarmente invocata contro la morte improvvisa (allusione a quella del padre, secondo la leggenda); in seguito la sua protezione fu estesa a tutte le persone che erano esposte nel loro lavoro al pericolo di morte istantanea, come gli artificieri, gli artiglieri, i carpentieri, i minatori; oggi è venerata anche come protettrice dei vigili del fuoco. Nelle navi da guerra il deposito delle munizioni è denominato “Santa Barbara”. – La festa di Barbara è celebrata il 4 dicembre.

SAN DIONIGI di Parigi

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Dionigi è citato in vari importanti documenti tutti datati intorno al V-VI secolo; come la ‘Vita di s. Genoveffa’ ove si dice che la santa verso il 475 costruì a Parigi la chiesa di s. Dionigi; lo storico-poeta Venanzio Fortunato, morto verso il 600, anch’egli annota nei suoi scritti la chiesa di s. Dionigi e un’altra esistente a Bordeaux; s. Gregorio di Tours (m. 594) nella sua ‘Historia Francorum’ racconta di Dionigi e il suo martirio. – Stranamente in questi antichi autori mancano notizie per i compagni di martirio e di apostolato di Dionigi vescovo, cioè Rustico prete ed Eleuterio diacono; i loro nomi compaiono per la prima volta nel secolo VI-VII nel ‘Martirologio Geronimiano’. – La prima ‘passio’ latina si ha nell’VIII secolo e posiziona al I secolo la venuta in Gallia di Dionigi e compagni, ma una seconda e terza ‘passio’ del IX sec. hanno creato un alone di leggenda intorno alla sua figura. Fu identificato con Dionigi l’Areopagita, convertito da s. Paolo e questa versione andò avanti per parecchio tempo, riportata peraltro in tanti documenti e codici; ma poi altri autorevoli testi e studi successivi hanno definitivamente divise le due figure, che si celebrano distintamente il 3 ottobre per l’Areopagita e il 9 ottobre per Dionigi di Parigi. – La versione più accreditata, lo indica come mandato da Roma insieme agli altri due compagni, ad evangelizzare nel III secolo, la Gallia, divenendo primo vescovo di Parigi che allora si chiamava Lutezia, organizzatore della prima comunità cristiana sulla Senna, e martire nel 270. – Resta il mistero del silenzio per tre secoli sulle figure di Eleuterio e Rustico, alcuni studiosi affermano che è usanza nel nominare una chiesa, di dire solo il nome del titolare principale; altri fanno l’ipotesi che Dionigi porta il nome del dio Dionisius che fra gli altri epiteti ha anche Eleutherius cioè Libero e inoltre esso era un dio che simboleggiava la natura, sempre percorrendo campi e foreste, quindi un nume rustico, da qui Rusticus. Con la confusione che ha distinto la storia dei nomi dei santi più antichi, si può supporre che non di compagni si tratti, ma di aggettivi, questo spiegherebbe il silenzio così lungo. Dionigi a causa delle leggende che l’hanno confuso con l’altro Dionigi l’Areopagita, si è portato con sé, tradizioni, culto e raffigurazioni, provenienti da quel periodo. – Così egli è raffigurato in tante chiese con statue, vetrate, bassorilievi, miniature, lezionari, pale d’altare, dipinti, in buona parte da solo, in vesti episcopali, spesso con la testa mozzata fra le mani; dopo l’VIII secolo è raffigurato anche insieme ad Eleuterio e Rustico. – L’iconografia è ricchissima, testimonianza della diffusione del culto a Parigi ed in tutta la Francia e poi nelle Colonie, essa rappresenta con dovizie di particolari, il processo davanti al governatore Sisinnio, il supplizio della graticola con le fiamme, la santa Comunione ricevuta da Gesù Cristo mentre era in carcere, soprattutto il martirio mediante decapitazione o rottura del cranio, avvenuta a Montmartre e con Dionigi che cammina da lì al luogo della sepoltura, con la testa portata da se stesso con le mani. – Il nome Dionigi e la variante francese Denis e Denise, è di ampia diffusione, mentre Dionisio e Dionisia è molto raro.

SANT’EUSTACHIO

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Il ricco, vittorioso generale Placido, benché pagano, era per sua natura una persona spinta a fare grandi beneficenze, come il centurione Cornelio. La leggenda racconta che un giorno (100-101) andando a caccia, inseguì un cervo di rara bellezza e grandezza e quando questi si fermò sopra una rupe e volgendosi all’inseguitore, aveva tra le corna una croce luminosa e sopra la figura di Cristo che gli dice: “Placido perché mi perseguiti? Io sono Gesù che tu onori senza sapere”. – Riavutosi dallo spavento, il generale di Traiano decise di farsi battezzare prendendo il nome di Eustachio o Eustazio e con lui anche la moglie e i due figli con i nomi di Teopista, Teopisto e Agapio. – Ritornato sul monte, riascoltò la misteriosa voce che gli preannunciava che avrebbe dovuto dar prova della sua pazienza. E qui iniziano i guai, la peste gli uccide i servi e le serve e poi i cavalli e il bestiame; i ladri gli rubano tutto. – Decide di emigrare in Egitto, durante il viaggio non potendo pagare il nolo, si vede togliere la moglie dal capitano della nave che se n’era invaghito. Ridisceso a terra prosegue il viaggio a piedi con i figli, che gli vengono rapiti uno da un leone e l’altro da un lupo, ma poi salvati dagli abitanti del luogo; i due ragazzi crescono nello stesso villaggio senza conoscersi. – Rimasto solo, Eustachio si stabilisce in un villaggio vicino chiamato Badisso, guadagnandosi il pane come guardiano, sta lì per 15 anni, finché avendo i barbari violati i confini dell’Impero, Traiano lo manda a cercare per riportarlo a Roma. Di nuovo comandante delle truppe, arruola soldati da ogni luogo; così fra le reclute finiscono anche i suoi due figli, robusti e ben educati, al punto che Eustachio sempre non riconoscendoli, li nomina sottufficiali, tenendoli presso di sé. – Vinta la guerra, le truppe sostano per un breve riposo in un piccolo villaggio, proprio quello in cui vive coltivando un orto, Teopista, che era rimasta sola dopo la morte del capitano della nave e abitando in una povera casupola; i due sottufficiali le chiedono ospitalità, e nel raccontarsi le loro vicissitudini, finiscono per riconoscersi come fratelli, anche Teopista li riconosce ma non lo dice, finché il giorno dopo presentatasi al generale, per essere aiutata a rientrare in patria, riconosce il marito, segue un riconoscimento fra tutti loro e così la famiglia si ricompone. – Intanto morto Traiano, gli era succeduto Adriano (117), il quale accoglie il vincitore dei barbari con feste e trionfi. Però il giorno dopo si doveva partecipare al rito di ringraziamento nel tempio di Apollo ed Eustachio si rifiuta essendo cristiano; l’imperatore per questo lo condanna al circo insieme ai suoi familiari (140); ma il leone per quanto aizzato non li tocca nemmeno e allora vengono introdotti vivi in un bue di bronzo arroventato, morendo subito, ma il calore non brucia loro nemmeno un capello. – I cristiani recuperano i corpi e gli danno sepoltura, in questo luogo dopo la pace di Costantino (325) fu eretto un oratorio, dove venivano celebrati il 1° novembre. – Questa leggenda ebbe una diffusione straordinaria nel Medioevo e ci è pervenuta in molte redazioni e versioni greche, latine, orientali e lingue volgari, quasi tutte le europee, diverse nei particolari ma concordanti nella sostanza. – Il culto per il martire Eustachio e familiari è antichissimo e innumerevoli sono le chiese, citazioni, racconti, documenti, ecc. in cui compare il suo nome, già agli inizi del secolo VIII. La sua festa inizialmente al 1° novembre fu spostata al 2 novembre, quando fu istituita la festa di Tutti i Santi e poi dopo l’inserimento della Commemorazione dei Defunti, fu spostata al 20 settembre, data che compare già negli evangeliari dalla metà del sec. VIII. -È protettore dei cacciatori e guardiacaccia e della città di Matera. Il nome deriva dal greco ‘Eystachios’ e significa “producente molte e buone spighe”. Si invoca per essere protetti dal fuoco, e soprattutto dal “fuoco eterno” dell’inferno.

Doni dello Spirito Santo: Il dono di INTELLETTO

Il dono di INTELLETTO.

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[J.-J. Gaume: “Il trattato dello Spirito Santo”; vol. II, Cap. XXXII]

In mezzo alle tenebre della notte, il bambino distingue tra mille la voce di suo padre. Appena che lo sente, corre dove quella voce lo chiama. Così è dell’anima diretta dal dono di consiglio. Tra i diversi partiti che si presentano, e i vari movimenti che la sollecitano, ella distingue senza fatica il partito che bisogna prendere, il movimento che bisogna seguire. Operando sulla volontà, non meno che sull’intelletto, il dono di consiglio imprime all’anima un forte impulso, che la rende vittoriosa dei movimenti della natura e docile a quelli della grazia. – Di qui pure una rettitudine, d’intenzione, una purità d’ affetto e una sapienza di condotta, che rendono la sua vita tutta divina. Di qui una generosità costante e talora eroica, da fare tutti i sacrifici per liberarsi degli ostacoli alla perfezione. Se noi restiamo nel mondo, è il distacco dalle creature e soprattutto dalle ricchezze; se l’impulso è più forte, è l’abbandono completo dei beni creati, per mezzo dei tre voti di religione, principio di gloria per la Chiesa e di benefici per la società. Nel secolo come nel chiostro, è la liberazione dallo spirito d’avarizia, causa incessante della perdita di una infinità d’anime. – Tali sono in compendio gli effetti del dono di consiglio. – Più nobile altresì è il dono d’intelletto o d’intelligenza. – Per conoscere nella loro natura e nella loro estensione le incomparabili ricchezze di questo nuovo elemento deificatore, studieremo, come per gli altri le tre seguenti questioni: che cosa è il dono d’intelletto; quali ne sono gli effetti, quale la necessità. –   1°. Cosa è il dono d’intelletto? L’intelletto è un dono dello Spirito Santo che ci fa comprendere e penetrare le verità soprannaturali. [Donum intellectus est habitus, qui dicitur lumen supernaturale, superadditum lumini naturali, datum homini ad intelligendum et penetrandum ea quae nobis supernaturaliter innotescunt”. Vig., c. XIII, p. 410]. – La parola “intelletto” o intelligenza implica una certa conoscenza intima; imperocché viene dal latino intelligere, che significa legger dentro, intus legere. La cognizione degli esseri che ci viene dai sensi mediante la vista, l’udito, il gusto e il tatto, si limita alle qualità esteriori; ma la conoscenza intellettuale penetra sino all’essenza delle cose. – Ora, vi sono molte cose che sono nascoste sotto veli, e che l’intelligenza sola può penetrare. Cosi sotto le forme esterne si nasconde la sostanza degli esseri; sotto le parole, il significato delle parole; sotto i confronti e le figure, la verità figurata; sotto gli effetti, le cause. – Quanto più la luce del nostro intelletto è forte, tanto più innanzi può penetrare. La luce naturale del nostro intelletto non ha che una forza limitata, incapace di penetrare al di là di certi limiti. Però l’uomo è creato per un fine soprannaturale; ei non può raggiungerlo, finché non lo conosce in un coi mezzi di pervenirvi. L’uomo ha dunque bisogno di una luce soprannaturale per penetrare ciò che oltrepassa la forza naturale del suo intendimento. Questa luce soprannaturale, comunicata all’uomo, mediante lo Spirito Santo, si appella dono d’intelletto. [“Et illud lumen supernaturale homini datura, vocatur donum intellectus”. S. Th., 2a, 2ae, q. 8, art. 1, cor., et ad 1]. – Si vede già in che differisce il dono d’intelligenza dall’intelligenza naturale, dalla fede e dal dono di scienza. L’intelligenza naturale è la facoltà di conoscere le verità fondamentali che possono essere conosciute dalla ragione. L’intelligenza soprannaturale, o il dono d’intelletto va più oltre; viene, non dalla natura ma dalla grazia; egli penetra non solamente le verità dell’ordine puramente umano, ma le verità dell’ordine soprannaturale. [“Intellectus virtus est habitus naturalis primorum principio rum cognoscitivus, quae per se naturaliter cognoscuntur. Intellectus donum est habitus primorum principiorum cognoscitivus non naturalis, sed gratuitus, aliter tamen quam fìdes”. S. Anton., IV p., tit. XI, p. 169]. – Esso differisce dalla fede, la cui dote si è di farci aderire fermamente alle verità dell’ordine soprannaturale, mentre il dono d’intelligenza ci fa penetrare e comprendere queste verità, per quanto ne può esser capace un uomo. «Benché il dono d’intelletto, dice sant’Antonino, corrisponda alla fede, e la supponga, non ne segue che possa, come la fede, essere nell’uomo senza la grazia santificante. La ragione è che la fede implica un semplice consenso alla verità, assenso che può esistere con un lume dello spirito, indipendente dalla grazia. Ma il dono d’intelletto porta seco una certa penetrazione della verità nei suoi rapporti col nostro fine ultimo, penetrazione che non può esistere senza la grazia santificante. Così, il peccatore che conserva la fede, può comprendere le verità da credersi, ma non le comprende pienamente, né può penetrarle. » [“Quamvis peccatores habentes fidem, intelligant ea quae propomuitur credenda non tamen piene intelligunt, neque penetrant”. Vìg., c. XIII, p. 411 ; et £. Anton., ubi supra]. – Quanto all’uomo in stato di grazia, può rimanere in una certa oscurità intorno alle verità non necessarie alla salute; ma sempre rispetto a quelle che sono necessarie, lo Spirito Santo gli dà l’intendimento sufficiente. Questo limite recato al dono d’intelletto, è sovente un benefizio della sapienza di Dio, il quale vuole cosi allontanare, o rendere impotenti le tentazioni d’orgoglio. [Vig., ubi supra].Differisce dal dono di scienza. Il dono di scienza è opposto all’ignoranza, dinanzi alla quale la verità è come se ella non fosse; e il dono d’intelligenza, alla rozzezza o all’ottusità dello spirito, il quale si arresta alla superficie, senza poter penetrare il fondo. L’oggetto principale del dono di scienza è di farci distinguere con sicurezza la verità dall’errore; ma il dono d’intelletto ci fa penetrare, sin nelle sue profondità, la verità che il dono di scienza ci mostra prosciolta da ogni legame. [“Ad hoc quod intellectus humanus perfecte assentiat ventati fìdei, duo requiruntur: quorum unum est quod sane capiat ea quae proponuntur, quod pertinet ad donum intellectus. Aliud est ut habeat certum et rectum judicium de eis…. et ad hoc necessarium est domina scientiae”. S. Th., 2a 2ae, q. 9, art. 1, cor.]. – Così mediante la fede, l’uomo ha la conoscenza della verità; mediante il dono di scienza, la certezza ragionata; col dono d’intelletto, la comprensione e una sorta d’intuizione iniziale.- 2° Quali sono gli effetti del dono d’intelletto? Come gli altri doni dello Spirito Santo, così il dono d’intelletto è speculativo e pratico. Con ciò bisogna intendere ch’egli considera le verità da credere, e i doveri da praticare. – « Il dono d’intelletto, insegna la teologia, non si applica solamente alle cose che sono primitivamente e principalmente 1’oggetto della fede, ma ancora a tutte quelle che vi si riferiscono. Ora, le buone opere hanno un’intima relazione con la fede, poiché la fede opera mediante la carità. – « Così, il dono d’intelletto si estende agli atti, in tanto che essi debbono essere conformi alle leggi eterne, di cui la sola ragione non può comprendere, come conviene, né il senso né l’estensione. Certo, la ragione naturale, dirige l’uomo negli atti umani; ma la regola degli atti umani non è solamente la ragione umana, è altresì la ragione eterna, che sorpassa ogni ragione creata. Dunque la conoscenza degli atti, in tanto che essi debbono essere regolati dalla ragione divina, sorpassa la ragione umana, e reclama imperiosamente il lume soprannaturale del dono d’intelletto. » [S. Th., 2a 2ae, q. 8, art. 3, cor.; et S. Anton., ubi supra]. – Onde è. che questo dono, opera sull’intelletto e sulla volontà. Sull’intelletto, e vogliamo noi sapere ciò che egli vi produce? Tre luci ci illuminano: la ragione, la fede, il dono d’intelletto. La ragione è una lampada sepolcrale che non riverbera che una luce dubbia, bastante appena a ferire l’oscurità della notte, e farvi intravedere gli oggetti più vicini. La fede è una fiaccola più luminosa che brilla nelle tenebre, ma i cui raggi non illuminano che imperfettamente un orizzonte limitato. …. [“Cui benefacitis attendentes quasi lucernae lucenti in caliginoso loco donec dies elucescat”. II Petr., I, 19]. – Il dono d’intelletto è il sole che dissipa tenebre e nubi, e illumina da lontano tutte le cose, sotto e sopra e intorno a sé. – V’è egli bisogno di far notare la differenza di queste tre luci? Se io entro in un appartamento con una lampada, distinguo, ma a fatica, gli oggetti che vi si trovano. Se vi entro con una fiaccola più luminosa, io vedo gli oggetti con meno fatica ma imperfettamente. Se vi entro di pieno meriggio, io vedo’ tutti questi oggetti perfettamente, in tutta la loro bellezza e senza sforzo.- Quali sono gli oggetti che il dono d’intelletto fa risplendere ai nostri occhi ? Essi non sono altro che la verità in tutti gli ordini e sotto tutti gli aspetti. Verità nell’ordine religioso. La Scrittura la contiene, ma coperta di veli, che il dono d’intelletto ha solo il potere di sollevare o di rendere trasparenti. Cosi avanti l’ascensione del loro Maestro, gli Apostoli avevano la ragione e la fede, e pure essi non comprendevano le Scritture. Il primo benefizio di Nostro Signore, dopo la sua Resurrezione, è di aprir loro lo spirito, a fine di dar luogo al dono d’intelletto, che doveva venire il giorno della Pentecoste, comunicar loro la cognizione chiara, e come la vista della verità, nascosta nei divini oracoli. “Nondum enim sciébant Scripturas”. Joan., XX, 9. — “Tane aperuit illis sensum ut intelligerent Scripturas”. Luc., XXIV, 45. — “Quum autem venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem”. Joan.,   XVI, 13]. – Lo Spirito d’intelletto è disceso nell’anima tenebrosa dei pescatori di Galilea, e sono divenuti tanti geni di prim’ordine, soli risplendenti, ì cui raggi illuminano l’intero mondo. Vedi con quale mirabile facilità Pietro, uscito appena dal Cenacolo, legge agli ebrei le Scritture, e mostra loro dapertutto il Verbo, redentore d’Israele e dei gentili, nominato nelle promesse, nascosto sotto le figure, annunziato nelle profezie, preparato da tutti gli avvenimenti. – Dinanzi a lui si dispiega il quadro magnifico dei misteri del regno di Dio, di cui gli stessi Angeli non avevano sino allora che una cognizione imperfetta: e questo quadro fulgido di luce e di bellezze, si offre all’ammirazione dei suoi uditori. Questi alla loro volta, illuminati dal dono d’intelletto, comprendono ciò che non avevano mai compreso, vedono ciò che non avevano visto mai; e con l’entusiasmo dell’amore abbracciano la verità, come dopo una lunga assenza, il figlio abbraccia una diletta madre, dalla quale niente può più separarlo. [Vedi Rupert, ubi supra : De dono intellectus. — “Qui piscatorem Spiritu suo docuit sapere et dicere: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum”. S. Aug. De civ. Dei, lib. X, e. XXIX]. – Quel che ebbe luogo per gli Apostoli, avviene riguardo al cristiano. Egli può avere la fede;.ma se, per il peccato mortale, esso ha perduto il dono d’intelletto, la Scrittura sacra, con tutti i suoi tesori di verità, con tutte le sue bellezze, e tutti i suoi lumi, è per esso un libro chiuso. Egli legge la lettera che uccide, ma lo spirito che vivifica gli sfugge. Qualche raggio sparso colpisce la sua vista, ma il focolare non lo scorge. La lettura stessa di questo libro, sceso dal cielo, lo stanca e lo annoia. Cosi è del pari degli altri vasi, nei quali riposa la verità. Questi preziosi vasi sòno l’insegnamento della Chiesa, le opere di teologia e di filosofia cristiana, come i sermoni, il mondo fisico e gli avvenimenti della storia. – Ora, senza il dono d’intelletto tutti questi serbatoi di verità sono appena dischiusi, e le verità che racchiudono, malissimo conosciute, ancor meno comprese, pochissimo ammirate e meno altresì amate. [“Et erat Verbum istud absconditum ab eis”. Luc,. XVIII, 34]. – Se sopravviene lo Spirito d’intelletto, tutto s’illumina. L’Antico e il Nuovo Testamento si schiudono persino nelle loro profondità; e lasciano contemplare ì misteri del Verbo che era nella Legge, com’è nel Vangelo, l’Alfa e l’Omega di tutte le cose. Il Simbolo cattolico, il Decalogo ed i Sacramenti appariscono come il corpo di dottrina la più nobile, il meglio legato e il più perfetto che l’uomo abbia mai conosciuto. – La teologia risplende come la regina delle scienze, degna degli studi e delle preferenze di qualunque spirito serio. Sui suoi passi cammina la sua maggior figlia, la filosofia cristiana; i cui insegnamenti non sono meno necessari ai re, per il governo dei popoli, che agli stessi sudditi per il governo della loro vita. I sermoni, i catechismi, le istruzioni religiose, qualunque sia la forma che rivestono, non sono più vani suoni che colpiscono le orecchie del corpo, senza pervenire alle orecchie del cuore. Dentro all’anima è lo spirito d’intelletto che gli traduce a ciascuno, gli fa comprendere, gustare, ritenere e praticare secondo la parola dell’Apostolo: Tutti saranno istruiti da Dio: “Erunt omnes docibiles Dei”. – Come scrutatore dei più profondi misteri del mondo soprannaturale, il meno che lo spirito d’intelletto scruti e sveli sono i segreti del mondo fisico. Per colui che lo possiede, l’universo materiale ridiventa ciò che deve essere, ciò che é in realtà, un velo diafano gettato sul mondo spirituale, un raggio dell’invisibile, uno specchio in cui si riflettono la potenza, la sapienza, la bontà, l’eternità, la divinità del Creatore; un libro scritto di dentro e di fuori, che insegna a tutti i benefici di Dio e i doveri dell’uomo. – Quanto agli avvenimenti della storia, eccetto le creature materiali, non hanno essi punta oscurità per lo spirito d’intelligenza. Con uno sguardo che abbraccia la durata delle età, egli vede tutto il periodo anteriore al Messia, con la esaltazione e la caduta dei suoi grandi imperi, con le sue guerre, le sue battaglie, le sue rivoluzioni incessanti, i suoi moti cosi vari e profondi, riassumentisi in una sola parola: Tutto per far nascere il Cristo a Bethlem. – Non meno luminoso è il periodo posteriore alla venuta del Desiderato delle genti. Per quanto abbracci avvenimenti, prosperità e rovesci, esso si traduce con questa sola parola: Tutto per stabilire, conservare e propagare il regno del Re immortale dei secoli. E il fine di questo regno non è altro che la deificazione dell’uomo sulla terra e la sua glorificazione nell’eternità. Il dono d’intelletto non opera solamente sull’intelletto, ma anche sulla volontà. Ora i movimenti della volontà sono in ragione diretta tanti lumi dello spirito. – Quanto più lo spirito vede chiaramente una cosa, tanto più il cuore ne è tocco, cioè dire, disposto ad amarla o a temerla. Per l’anima che possiede il dono d’intelletto, la religione, come fatto divino, non ha più tenebre. I fondamenti dell’edificio sono messi a nudo. Senza comprenderne la natura, essa vede il luogo e la necessità dei misteri; vede i fatti e la ragione dei fatti, l’armonia dei mezzi col fine, e il maestoso insieme che ne risulta. La fede gli diventa cosi facile, che non ha quasi più merito a credere; tanto chiara che essa non intende, perché non si vegga da tutti ciò che essa vede; tanto ferma che niente può farla scuotere. Che il demonio armato d’inganni, il sofista armato di menzogne, il mondano armato di scandali, pretendono strapparle una negazione, oppure un dubbio: quest’anima si ride dei loro attacchi. È il cedro del Libano che resta incrollabile in mezzo alle tempeste, è il martire che sul rogo canta il suo Credo; è la verginella che dal fondo della solitudine manda al mondo questi sublimi accenti: « Quando tutti gli uomini-cangiassero di religione, e riunissero i loro sforzi per farmi titubare nella mia fede, non guadagnerebbero nulla. Mi parrebbe di vincerli tutti con la forza della fede: essa è cosi profondamente radicata nel mio cuore che lo stesso inferno con tutte le sue legioni non sarebbe capace a scuoterla. » – Si capisce che generosità di cuore dee produrre una conoscenza cosi rilevante e cosi sicura delle cose divine. « Mercé il dono d’intelletto, esclamava Davide, io amo i comandamenti del mio Dio a petto all’oro e al topazio. » [Ps. CXVIII]. – Di qui nasce il fervore in servigio di Dio, la resistenza vittoriosa alle tentazioni, il disprezzo del mondo e de’ suoi falsi beni: la pazienza nel dolore, la rassegnazione nella povertà, il sacrificio di sé per gli altri, il distacco della vita, e la costante aspirazione verso la futura realtà. Cotali disposizioni, tradotte in atti pubblici, diventano per le famiglie, per le città e per le campagne, per tutta quanta la città, una fonte di virtù che nobilitano l’umanità, di benefici che la consolano, e di sacrifici che la preservano dai castighi tante volte meritati a cagione delle iniquità del maggior numero. – 3° Qual è la necessità del dono d’intelletto? La risposta a questo quesito era in quel che già si è detto. Il dono d’intelletto produce effetti positivi ed effetti negativi. Come l’abbiamo già visto, gli effetti positivi sono di illuminare lo spirito e nobilitare il cuore. Ora niente è più necessario di questa duplice azione dello spirito d’intelligenza. Voi avete la fede, e credete che Dio è dappertutto, che vi vede, che vi sente e che vi giudicherà. – Avete la fede, e credete che la grande vittima sacrificata sul patibolo del Calvario è il vostro Dio e il vostro modello. Avete, la fede, e sapete d’avere un’anima da salvare, non ne avete che una, e nessun altro che voi può salvarla: e che se la perdete, sarete eternamente la più infelice delle creature. Voi avete la fede, e credete che un solo peccato mortale condanni a tormenti senza fine. Voi avete la fede, e credete che la religione creduta e praticata, non secondo i vostri capricci, ma come Dio la vuole e come la Chiesa l’insegna, è l’unico mezzo di evitare l’inferno e di meritare il cielo. – Voi credete fermamente tutte queste verità. Donde deriva frattanto che facciano cosi poca impressione sopra di voi? Perché non capite: e voi non capite perché il dono d’intelletto vi manca. Dio, co’ suoi diritti, il battesimo con i suoi impegni, la vita col suo fine, l’eternità co’ suoi spaventi ed i suoi splendori, vi appariscono come tante ombre lontane e fuggitive. Di tutte queste grandi realtà non avete che una conoscenza vaga, confusa, secca e sterile. Avete occhi e non vedete; orecchie e non udite; una volontà e non volete. Frutto del dono d’intelletto il senso cristiano, questo sesto senso dell’uomo battezzato vi manca. [“Nos autem sensum Christi habemus”. I Cor., II, 16]. – Esso manca alla maggior parte degli uomini d’oggidì e ad un troppo grande numero di donne. Manca alle famiglie, manca alla società, manca ai governanti ed ai governati, manca al mondo attuale. O Mondo di pretesi lumi e di preteso progresso! non ti resta se non che un ultimo voto da formare, ed, è che lo spirito d’intelletto ti sia dato di nuovo, e ti mostri a nudo l’abisso inevitabile, verso il quale ti conduce a grandi passi lo spirito di tenebre, tornato ad essere, in punizione del tuo orgoglio, la tua guida e il tuo maestro. [“Gens absque oonsilio est et sine prudentia : utinam saperent et intelligerent, ac novissima providerent”. Deut., XXXII, 28, 29]. – Difatti, rispetto a questo dono, come rispetto agli altri, l’uomo trovasi posto in una alternativa dalla quale non può sfuggire. Vivere sotto l’influenza dello spirito d’intelletto, o sotto l’influenza dello spirito opposto: non vi è via di mezzo. La partenza dell’uno è immediatamente seguita dall’arrivo dell’altro. Qual’è questo spirito contrario al dono d’intelletto? Sant’Antonino risponde: che è lo spirito di gola. [“Spiritus intellectus removet spiritum gulae quae mentem offuscat ut nihil spiritale valeat intelligere, fumositatibus repleto cerebro”. VI p., tit. X, p. 153]. -Come giustificare l’affermazione del grande dottore? Mostrando ciò che è la gola in sé medesima e nei suoi effetti. – La gola è l’amore sregolato del bere e del mangiare. È il sensualismo che usurpa il luogo dello spiritualismo. È la carne vittoriosa nella sua lotta contro lo spirito. – Col mangiare, l’uomo si pone nella maniera più intima in comunicazione con le creature materiali, creature inferiori a lui e tutte ripiene di maligne influenze del demonio. Essendo sotto qualsivoglia titolo sregolato, il mangiare, fa prevalere la vita dei sensi sulla vita dello spirito, il corpo sull’anima. Se lo sregolamento si muta in abitudine, concatena ai cibi il pensiero, la vista, il gusto, l’odorato, e getta l’uomo in ginocchio dinanzi al dio ventre.- Il primo effetto di un tal disordine è l’indebolimento dell’intelligenza, hebetudo. L’anima e il corpo sono tra di loro come i due piatti di una bilancia, quando uno sale, e l’altro scende. Per l’eccesso del bere e del mangiare, l’organismo si sviluppa, e lo spirito s’indebolisce, si aggrava e diviene pesante, pigro, inabile allo studio ed alle funzioni puramente intèllettuali: questo risultato è forzato. Dimmi chi pratichi, io ti dirò chi sei. L’uomo in contatto intimo, abituale e colpevole con la materia, con l’animalità, diventa materia, diventa bestia, animalis homo. Di qui quel vecchio dettato: « Colui che mangia una volta al dì è un Dio; uomo quegli che mangia due volte, e bestia chi mangia tre volte.»  [“Qui semel est, Deus est; homo qui bis; bestia, qui ter.”]. – L’esperienza conferma il dettato: quanto più si mangia, tanto meno si pensa. Quanto più si mangia delicatamente, tanto meno si pensa sensatamente: «La buona faccia, dice la Scrittura, è incompatibile con la sapienza. » [“Sapientia non habitabit in terra suaviter viventium”. Job., XXXVIII, 18]. – E altrove: « Io ho risoluto.di astenermi dal vino, all’oggetto di applicare la mia mente alla sapienza. » [“Cogitavi in corde meo abstrahere a vino caraem meam, ut animum meum transferrem ad sapientiam“. Eccl.,II. 3]. – Nessun genio fu mai goloso. I più illuminati degli uomini, i santi sono stati tanti modelli di sobrietà. Mercé il loro trionfo sulla materia, essi si erano spiritualizzati sino al punto da vedere la verità, per cosi dire, faccia a faccia e senza velo. – Avviene diversamente a chi è schiavo della gola. Le verità più importanti sono per lui come se le non fossero: ei non capisce niente, e non è guari più commosso che da una favola o da una chimera. San Paolo verificava il fatto, or sono 1800 anni. «L’uomo animale, dice, non comprende nulla di ciò che riguarda il dominio dello spirito di Dio. » [“Animalis autem homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei”. I Cor., II, 14]. Ora, ciò che è del dominio dello Spirito Santo, è, né più, né meno, il magnifico complesso di verità, di leggi, d’armonie, di bellezze delle quali l’universo è il raggio. – « Lo specchio appannato e sudicio, aggiunge un Padre, non riflette distintamente l’immagine degli oggetti. – Cosi l’intelletto, oscurato dai fumi delle vivande e ebetito dalla sovrabbondanza degli alimenti, non scorge più la verità. »  [“Speculum sordibus obsitum non exprimit distincte objectam formam, et intellectus saturitate obtusus ae hebetatus non suscipit Dei cognitionem”. S. Nilus, Tract, de octo spiritib. malit., c. II]. – San Crisostomo tiene lo stesso linguaggio; «Nulla di più pernicioso della gola, né di più ignominioso: essa rende lo spirito ottuso e grossolano, l’anima carnale; acceca l’intelletto, né gli permette di vedere più nulla. » [“Nihil gula perniciosius, nihil ignominius; haec obtusum et crassum ingenium, haec carnalem animam reddit; haec excaecat intellectum, nec sinit ut quidquam percipiat. Homil, XLIV in Joan.]. – Intorno a questo punto, come intorno a tutti gli altri, la Chiesa è dunque l’organo infallibile di una legge fondamentale, quando nel prefazio della Quaresima essa ricorda al mondo intero quelle verità così poco intese a’ giorni nostri. « Il digiuno reprime le viziose inclinazioni del corpo, eleva lo spirito, dà il vigore e la virtù, e conduce alla vittoria: “Vitia comprìmis, mentem elevas, vìrtutem largiris et praemia. » – Il secondo effetto dello spirito di gola, è la folle gioia, “inepta laetitia”. La carne divenuta per l’eccesso degli alimenti padrona dello spirito, manifesta il suo insolente trionfo. Risa immoderate, facezie ridicole, proposizioni spessissimo oscene, gesti inconvenienti o puerili, canti, grida, balli, piaceri rumorosi, feste teatrali, sono l’inevitabile espressione. « Il popolo, dice la Scrittura, si pone a sedere per bere e per mangiare, e si alza per giocare. » [“Sedit populus manducare et bibere, et surrexerunt ludere”. Exod. XXXII, 6]. – E altrove : « Godiamo del miglior Vino e dei profumi, incoroniamoci di rose; che nulla sfugga ai nostri diletti. » – “Vino pretioso et unguentis nos impleamus…. coronemus nos rosis, nullum pratum sit, quod non pertranseat lux uria nostra”. Sap., XI, 7, 8; Is.., XXII, 13 et LVI, 12]. – Altrove ancora: « Il vino getta l’anima nella spensieratezza e nella allegria. » [“Vinum omnem mentem convertit in securitatem. et jucunditatem”. III Esdr., III, apud S. Th. 2a, 2ae, q. 148, art. 6, corp.]. – Questo fatto, tanto spesso ripetuto nei sacri libri non è sfuggito all’ osservazione di san Gregorio. « Quasi sempre, dice, la buona cera è accompagnata dalla voluttà. Allorché il corpo si diletta nel godimento del cibo, il cuore si spande in folli gioie.  [“Pene omnes epulas comitatur voluptas; nam cum corpus in refectionis delectationem resolvitur, cor ad inane gaudium relaxatur”. Moral., lib. I, c. IV]. – Ogni popolo spensierato, è un popolo di ballerini: tale é l’assioma formulato dalla filosofia e confermato dall’esperienza. In tutte le epoche si veggono i piaceri della tavola precedere le manifestazioni della gioia sensuale, e quelle manifestazioni di sangue ed oscene, sono sempre in ragione diretta della causa che le produce. – Ora, che vuol dire tutto questo, se non l’indebolimento visibile dello spirito d’intelletto? Lo schiavo della gola non comprende più la natura, nè la condizione fondamentale della vita terrena. La vita è una prova, o come dice il concilio di Trento, una penitenza perpetua: “Vita Christiana quae est perpetua paenitentia”. Il goloso, finché può, ne fa un godimento perpetuo. Egli dimentica, disconosce, ha in orrore la parola del giudice supremo: “Se voi non fate penitenza, perirete tutti, niuno eccettuato”. [Luc . XIII, 3]. – Compromettere la sua salute, calpestando le leggi del digiuno e dell’astinenza, gli costa meno che il bere un bicchier d’acqua. È il profano Esaù che vende il suo diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie, e se ne va, curandosi poco di ciò che ha fatto : “Abiit parvi pendens”. – Il terzo effetto della gola é l’immodestia, immunditia. – Immodestia di parole, immodestia di gesti, immodestia di sguardi, immodestia di pensieri, immodestia di azioni: questi tristi effetti dell’eccesso del bere e del mangiare sono troppo incontrastabili, perché vi sia bisogno di stabilirne la genealogia. – Ricordiamo soltanto alcuni degli assiomi della universale sapienza: “Chi nutrisce con delicatezza la sua carne sopporterà vergognose ribellioni”. — Lo schiavo grasso e corpacciuto disobbedisce. — Non vi è cosa più lussuriosa del vino. — Nel vino risiede la lussuria. — La gola è madre della lussuria, e il carnefice della castità. — Essere goloso, e pretendere di esser casto, è volere spengere un incendio con l’olio. — La gola è lo spengitoio dell’intelligenza. — Il goloso è un idolatra; egli adora il dio ventre. — Il tempio del dio ventre è la cucina: l’altare, la tavola: i sacerdoti i cuochi: le vittime, i piatti: l’incenso, l’odore delle vivande: questo tempio è la scuola dell’impurità. — La moltitudine dei piatti e delle bottiglie attrae la moltitudine degli spiriti immondi: il più cattivo di tutti, é il demonio del ventre. — La salute fisica e morale dei popoli, si calcola dal numero dei cuochi. [Vedi i testi nella nostra opera : Il segno della croce nel XIX secolo, lettera 19].Giunto a un certo grado, lo spirito di gola conduce il suo schiavo all’ubriachezza ed alla crapula, alla trascuratezza degli affari, alla perdita della fortuna, alla miseria ed alla rovina della salute. Mantenendo nell’uomo la subordinazione naturale del corpo rispetto all’anima, lo spirito d’intelletto diviene la salute dell’uno e dell’altro. [“Per sapientiam sanati sunt quicumquem placuerunt tibi, Domine, a principio”. Sap., IX, 9. — “Sanitas est anima et corpori sobrius potus”. Eccl, XXXI, 37, etc., etc.]. – Per la contraria ragione, lo spirito di gola che rompe l’equilibrio, produce infallibilmente la malattia. – Per l’anima, la malattia è l’indebolimento della ragione e dell’intelletto, per il corpo, è il patimento seguito da morte. Ascoltiamo tremando i diversi oracoli. “La gola uccide più uomini che la spada”. [Eccl., XXXI, 23 et XXXVII, 34]. – Cosi Nabuccodonosor, Faraone, Alessandro, Cesare, Tamerlano e tutti i carnefici coronati, che cuoprirono il mondo di cadaveri, hanno fatto perire meno uomini della gola. Ciò che è vero degli individui, è vero altresì dei popoli. – Quando lo Spirito d’ingordigia, vale a dire, di gusti, di delicatezze, d’eccessi negli alimenti, del lusso della tavola, o come si parla oggi, dell’amore del confortabile, s’impadronisce di un’epoca, voi vedrete estendersi nelle stesse proporzioni, l’indebolimento dell’intelligenza, l’abbrutimento dell’umanità e l’intisichimento della razza. A quest’epoca che si vanterà dei suoi lumi, non parlate né del mondo soprannaturale, né delle sue leggi, né de’ suoi agenti, né de’suoi rapporti incessanti col mondo inferiore, essa non comprenderà: “Animalis homo non percipit”. – Le rimane appena intelligenza per apprezzare, come l’animale, ciò che vede co’ suoi occhi e tocca con le sue mani; per dirigere una operazione mercantile, concepire una speculazione di borsa, costruire delle macchine, fabbricare dei tessuti e giudicare delle qualità di un prodotto. I suoi lumi non vanno al di là. – L’attività umana, l’industria e la civiltà si riferiranno al culto dei sensi. Per praticarlo in tutto il suo splendore, egli si stabilirà mille professioni più materiali e più matèrialiste le une delle altre. – La stessa politica procederà in questa via. Invece di essere l’arte di moralizzare i popoli, sarà l’arte di materializzarli. – Allorché i continui assalti scuotono tutti i dommi, fondamenti delle società e dei troni, ella se ne inquieterà poco. Ma se perviene a metter l’uomo in istato di ben mangiare, di bere bene, di ben digerire e di ben dormire, essa crederà aver adempiuto ogni giustizia, e proclamerà che tutto è per il meglio nel migliore dei mondi. – Politica da educatori di bestie! chi è colui che capisca più, che l’uomo non vive solamente di pane, e che un popolo non si rigenera ingrassandolo? Politica da ciechi! che conduce il mondo ad una ripetizione di Ninive con Sardanapalo, di Babilonia con Baldassarre, di Roma con Eliogabalo. Ma allora, dall’uomo divenuto carne si ritrarrà lo spirito di Dio; e come gli imperi che abbiamo nominati, cosi il mondo perirà soffocato nella cloaca dei suoi costumi. – Tendiamo forse noi a questo? Quello che noi possiamo affermare, poiché colpisce gli occhi di tutti, è il disprezzo generale del sacerdote rappresentante dell’ordine morale: è il discredito delle scienze che non hanno per oggetto diretto l’aumento del benessere; è la difficoltà sempre crescente di far entrare in capo ai fanciulli le verità elementari della religione; è nelle generazioni formate, l’indebolimento visibile del sentimento cristiano, e la stupida indifferenza per tutto ciò che s’innalza al di sopra del livello degli interessi materiali; è rammento rapido delle taverne e dei luoghi ove si mangia. [Dall’ultimo censimento fatto in Francia costoro avevano raggiunto la cifra mostruosa di 500,000, in seguito non hanno diminuito, ma tutt’al contrario]. Che cosa provano, con mille altri, questi fenomeni fin qui sconosciuti? Quello che provano, è il dilagamento del sensualismo. Ciò che provano è che noi camminiamo a gran passi verso quella indescrivibile epoca della decadenza romana, dove la vita si compendiava in due parole: pane e piaceri, panem et circenses. Quel che provano infine, è che una infinità d’uomini sono caduti dalle altezze dello spiritualismo cristiano per vivere unicamente di sensi, con i sensi e per i sensi. Ora, non bisogna dimenticarlo: gli uomini parassiti o avidi di godimenti diventano ingovernabili. Lo schiavo ingrassato si ribella; [“Incrassatus…. recalcitravit : incrassatus, impinguatus, dilatatus, dereliquit Deum”. Deuter., XXXII, 15.]; s’ei giunge a svincolarsi dalle sue catene, le spezza sul capo di quelli che chiama suoi tiranni. Allora i delitti succedono ai delitti, le catastrofi alle catastrofi, i dolori ai dolori. Preservarci da simili calamità è il benefìzio viepiù necessario del dono d’intelletto. È egli facile misurarne l’estensione?

 

Omelia della Domenica XII dopo Pentecoste

Omelia della Domenica XII dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Luca X, 23-33]

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-Carità-

Di quella carità, ch’è il compimento della legge di quella carità necessaria per la vita eterna, il nostro divin Redentore ci presenta una viva immagine nell’odierno Vangelo. Udite: “Un cert’uomo faceva suo viaggio da Gerusalemme a Gerico, quando all’improvviso vien assalito da masnadieri che di tutto lo spogliano, e ignudo, ferito ed insanguinato lo lasciano semivivo sulla pubblica strada. Poco dopo il crudele assassinio arriva in quel luogo un sacerdote Ebreo, e sul misero impiagato lascia cadere un’occhiata indifferente, e prosegue il suo cammino. Passa indi un levita, e anch’egli appena lo degna di un freddo sguardo, e tira avanti. Sopraggiunge finalmente un Samaritano, e veduto il dolente spettacolo, tocco in cuore da tenero senso di compassione, smonta di sella, si adopera intorno al misero languente, lava con vino le sue ferite, le medica con olio, le fascia con bende, l’adatta sul suo giumento, lo segue alla staffa, e lo conduce al più vicino albergo. Qui giunto, lo pone a letto, l’assiste nel resto del giorno, lo veglia la notte, e obbligato dopo a partire pe’ suoi affari, chiama l’albergatore, gli raccomanda l’infermo, gli mette in mano due monete di argento dicendogli, provvedetelo di tutto il bisognevole, e se alcuna spesa sarà occorsa di più, al mio ritorno vi renderò soddisfatto.” Ecco un tratto di esimia carità operante, che non risparmia né fatica, né dispendio. È tale la carità de’ moderni Cristiani? Se ben si considera, una gran parte di Cristiani ha una carità, che non è carità. A distinguere la vera dalla falsa carità, ci dà S. Paolo in mano la pietra del paragone in quelle sue parole: “Charitas non quaerit quae sua sunt” (Ad Cor. I; XIII, 5). La carità non cerca il proprio interesse, e se lo cerca, non è più carità. Vediamo come vada intesa la dottrina del santo Apostolo, e di qual sorta sia la nostra carità. – Varie sono le specie di amore, con cui gli uomini si amano vicendevolmente. Amore di amicizia, amore di riconoscenza, amor di genio, amor di concupiscenza. Tutti questi amori non sono carità, perciocché hanno tutti per oggetto e per fondamento il proprio gusto, la propria soddisfazione, il proprio interesse. Oltre a ciò sono amori che non sono durevoli, amori che mancano al mancar del pascolo che gli alimenta. Per l’opposto la carità non cerca sé stessa, e non è soggetta a venir meno; “Charitas numquam excidit”. Io riscontro questi diversi amori in quei metalli, che componevano la statua veduta in sogno da Nabucco. Aveva questa il capo d’oro, il petto d’argento, il ventre di bronzo, le gambe di ferro, i piedi di terra; quando un picciolo sasso, staccatosi dal vicino monte, rotolando venne a dar ne’ piedi del gran simulacro; ed ecco sull’istante atterrata la statua, e quel che è più sorprendente, tutt’i metalli ridotti in minutissima polvere. Oro è l’amor di amicizia, argento l’amor di gratitudine, bronzo e ferro l’amor di genio, di naturale inclinazione o di altra bassa lega, terra finalmente e fango l’amor di concupiscenza; ma ad incenerir questi amori basta un sassolino, una parola, un motto mal inteso, un gesto mal interpretato, un sospetto, un dubbio, un geloso pensiero: dunque nessuno di questi amori appartiene alla carità, perché la carità ha per carattere di non venir mai meno: “Charitas numquam excidit”. – Di questa falsa carità abbiamo un esempio nel re Saul. Si vide appena comparire innanzi il pastorello Davide biondo nel crine, leggiadro nel volto e robusto nel corpo, tanto che piacque agli occhi suoi. Crebbe il suo genio per lui in sentir la sua abilità in suonar l’arpa: crebbe il suo amore in udire che era pronto a cimentarsi in singolar tenzone col temuto Golia. Bellezza, abilità, coraggio legano il cuor del regnante ad amarlo: il suo amore fa che lo dissuada dal periglioso cimento, non consente che un inesperto garzone vada contro un gigante agguerrito, che fa spavento alle falangi di tutto Israele: e all’ascoltare che con mano inerme aveva strozzato alla foresta gli orsi ed i leoni, sempre più si aumenta il suo amore; ordina che sia vestito delle stesse sue reali armature: anzi egli di sua mano gli adatta l’elmo alla fronte, al petto l’usbergo. Che dite di tanta degnazione, di tanta benevolenza? Sospendete di grazia il vostro giudizio e la vostra risposta. Ritorna Davide vincitor glorioso dalla valle di Teberinto, l’accolgono con canti e musicali strumenti le donzelle ebree, “e re Saul, vanno esclamando, ha ucciso mille Filistei, Davide ne ha atterrati diecimila in un sol colpo”. Ohimè! Questa lode ferisce l’animo di Saul, produce un tarlo di gelosia, un verme d’invidia, per cui non lo guarda più di buon occhio. Questo è ancor poco, gli nega in sposa la promessa sua figlia: più, cerca che resti ucciso dall’armi de’ Filistei; più ancora, tenta per ben due volte trafiggerlo con una lancia, e non riuscendogli il colpo lo perseguita apertamente come suo singolare nemico sulle più alte montagne. Ecco ove andò e terminare un amor geniale, sensibile, interessato. – Eh! che la carità è un fuoco che non arde dell’altrui legna, un fuoco che non ha mistura di fumo, la carità è un fuoco tutto semplice, tutto puro che mai non ispegne le sue fiamme quand’anche le molte acque delle umane vicissitudini tentino estinguerlo: “Charitas numquam excidit”. – Questa carità è un amore, al dir de’ Teologi, che può chiamarsi amor teologale, perché l’amor del prossimo non si distingue dall’amor di Dio. Questi due amori sono due fiamme, ma d’uno stesso fuoco: sono come le due pupille degli occhi nostri, che collo stesso moto si portano, si fissano ad un sol oggetto. Da ciò ne segue che amando noi il nostro prossimo per amore di Dio, amiamo Iddio nel prossimo, e il prossimo in Dio. Pura allora sarà la nostra carità per l’oggetto che è Dio, durevole pel fondamento che è lo stesso Dio; e siccome in ogni tempo, in ogni occasione siamo tenuti ad amare Iddio; così in ogni qualunque occorrenza dobbiamo amare il prossimo in Dio, e per Dio, come immagine del medesimo Dio. – A far ciò meglio comprendere ai men colti, interrogo così: “L’immagine del santo Crocifisso è ella degna di venerazione?” Non vi è dubbio. “E qual ‘è più degno di adorazione: un Crocifisso fuso in oro o in argento, scolpito in legno o in avorio, impresso sulla seta o sulla carta?” Tanto, voi rispondete, la sua immagine in oro, come quella sulla semplice carta; poiché non è la preziosità del metallo o la viltà della materia, che dà norma al nostro culto, ma il prototipo, ma la Persona che rappresenta, cioè l’Uomo Dio, Cristo Gesù nostro Redentore. Ottimamente. “Ora io ripiglio, il nostro prossimo è non una morta, ma una viva immagine di Dio, sia dunque quest’immagine d’oro per il merito, sia d’argento per l’eccellenza, sia di legno per la bassezza, sia di carta per la leggerezza, è sempre immagine di Dio, e sempre degna di amore e di rispetto. Sia dunque il nostro prossimo per noi benevolo o maligno, sia per noi utile o nocivo, piacevole o disgustoso, favorevole o contrario, amico o nemico, egli è sempre immagine di Dio, e come tale in ogni tempo, in ogni avvenimento meritevole del nostro amore”. – Amava Mosè il suo popolo, di cui era legislatore e condottiero: lo aveva a forza di portenti liberato dalla schiavitù in Egitto, pasciuto e dissetato nel deserto; e pure questo popolo beneficato, oltre il mormorare sovente della sua guida, giunse per fino un dì a dar di mano alle pietre per lapidarlo: e Mosè a tratti d’ingratitudine così mostruosa non cessava di corrispondere con un amore a tutte prove costante. Iddio, Iddio medesimo era così mal soddisfatto di quella gente di dura cervice, e di cuore perverso, che voleva abbandonarla al suo furore. Che farà Mosè in vista di un Dio che prende le sue parti, che vuol castigare esemplarmente i suoi oltraggiatori? Che farà Mose? Lo chiedete a me? Chiedetelo al suo cuore acceso d’inestinguibile carità. Proteso innanzi l’Altissimo Lo prega a calmar la sua collera, a rimettere la spada della sua giustizia, a perdonare a’ suoi offensori; e trovando in Dio resistenza, mirate a che partito ei appiglia la sua carità: come un che per soverchio amore delira, si abbandona ad una strana enfatica espressione, e “Signore, dice, se non volete perdonare al mio popolo, ingrato è vero e prevaricatore, scancellate il nome mio dal libro della vita”. Di questi sentimenti non è capace se non un cuore infiammato di arditissima carità, come dopo Mosè leggeremo dell’Apostolo Paolo, che per la salvezza de’ suoi fratelli desiderava, se fosse stato spediente: “Anathema esse a Christo” (Rom. IX, 3). – A questo modello, Cristiani uditori, è lavorata e somigliante la nostra carità? Ohimè! Io temo, e non vorrei avere ragione di temerlo, io temo che la carità d’una gran parte de fedeli sia simile a quell’amore che comunemente si ha per un albero. Di grazia non vi offendete del paragone. Si ama un albero, o perché ci fa goder l’ombra delle sue fronde, o perché ci ricrea colla vaghezza de’suoi fiori, o perché ci pasce colla dolcezza de’ suoi frutti. Ma se poi l’albero stesso inaridisce, quei che più l’amavano sono i primi ad armarsi di scure, a tagliarlo a pezzi, a gettarlo ai fuoco. Quel padre di famiglia era prima un albero, che accoglieva all’ombra delle sue fronde e figli e congiunti e amici e vicini; ora o per vecchiezza o per lunga infermità, o per occorse disavventure, ritrovasi come un albero secco, a cui tutti fan legna. Quella moglie finché, come la donna forte, coi suoi lavori, industrie, diligenze fu di sollievo e di vantaggio alla casa, era amata come una pianta fruttifera. Ora che da qualche tempo è confinata in un letto, si riguarda come un aggravio alla famiglia, come una pianta inaridita, a cui e marito e figli e domestici fan sentire i tagli delle loro lingue e de’ mali loro trattamenti. Quella serva, finché robusta come una quercia, sostenne per lungo tempo le fatiche di casa e di campagna, era da’ padroni ben vista e meglio trattata; ora che à consumata la sua gioventù e la sua vita, divenuta pianta vecchia ed inutile, si abbandona alle fiamme, si caccia fuori di casa, si ha cuore di vederla mendicare per città, e finir poi allo spedale. – È forse questa la carità, di cui ci ha dato comando ed esempio il nostro Redentore? A rivederci al suo tribunale! Quivi Egli ci domanderà conto rigorosissimo di questo precetto: “questo precetto, dirà Egli, Io l’ho chiamato mio singolarmente per farvi conoscere quanto mi preme che sia adempiuto: “Hoc est praeceptum meum, ut diligatis invicem” (Jon. XIII, 12)”. Questo precetto Io l’ho chiamato nuovo, perché è l’apice della nuova legge e dell’evangelica perfezione; come l’avete voi osservato? Doveva osservarsi da voi a norma di quella carità di cui vi ho dato l’esempio: “Ut diligatis invicem sicut dilexi vos”. “Io per amarvi non ho cercato in voi né merito, né bontà; vi ho anzi amati in attuale nimistà con Me, e col mio Padre, vi ho amati immondi per l’originale peccato, impiagati per tante colpe attuali, vi ho amati sconoscenti, ingrati, offensori, nemici, e l’amor mio non è stato un affetto sterile ed ozioso, ma mi ha portato fino a dare per voi la vita, e tutto il sangue delle mie vene. Maggior carità niun può avere, che dar la vita per i suoi amici; or che sarà l’averla data per i suoi attuali nemici? Tale fu la mia carità, è questo l’esempio, la regola, la misura della vostra verso dei vostri fratelli”. Regge la vostra carità a questo confronto? Indegni! Amaste i vostri prossimi, ma in essi avete amato il vostro gusto, il vostro vantaggio, laonde in quelli amaste turpemente voi stessi. È stato simile il vostro amore a quel che aveste pel vostro cane che amaste, perché vi faceva carezze, perché vi seguiva alla caccia, perché vi custodiva la casa. Cessato il piacere e l’interesse, il vostro amore si è cangiato in indifferenza, in freddezza, sovente in corruccio e disprezzo, talvolta in odio e indignazione. Or che potete aspettarvi da Me, se non i rigori della mia giustizia, come tralignanti dal mio esempio, come trasgressori del mio precetto? A queste giustissime invettive quale risposta potremo noi dare, quale scusa addurre? – Deh preveniamo, Cristiani amatissimi, il colpo irreparabile d’una sentenza fatale al tremendo giudizio di Dio. Eviteremo questo colpo se la carità sarà diffusa nel nostro cuore, ma quella carità ch’è propria dei figli di Dio. Udite S. Giovanni l’evangelista, predicatore della carità, e ponderate bene le sue parole: “Dedit potestàtem filios Dei fieri” (Joan. I), avranno dritto ad essere computati figli di Dio tutti coloro che animati dalla fede nel santo suo nome adempiono i suoi precetti, “his qui credunt in nomine eius”, tutti coloro l’amor de’ quali verso de’ prossimi non avrà per base né l’attenenza del sangue, né l’inclinazione della natura “non ex sanguinibus”; molto meno se sarà fondato sull’avvenenza, sul genio, sull’interesse, su qualche altra passione, cose tutte che secondo le divine Scritture vengono sotto il nome di carne, “neque ex voluntate carnis; neppure sull’umana ragione o sulla mondana prudenza, “neque ex voluntate viri”; ma per soprannaturali motivi avrà Dio per fondamento, avrà per fine Iddio, Iddio, da Cui hanno la vita e la filiazione: “sed ex Deo nati sunt”. – La sola carità, conchiudo con S. Agostino, è il distintivo de’ figli di Dio: “Sola dilectio discernitur inter filios Dei, et filios Diaboli(Ad Rom. VIII). Siate figli di Dio per una vera, pura, disinteressata carità, e sarete eredi del suo beato regno, “si filii, et haeredes”, che Dio vel conceda!

TRASFIGURAZIONE DI NOSTRO SIGNORE

6 AGOSTO

TRASFIGURAZIONE DI NOSTRO SIGNORE

[Dom Guéranger: “L’anno liturgico”, vol. II]

transfiguratione

« O Dio, che nella gloriosa Trasfigurazione del tuo Unigenito confermasti con la testimonianza dei patriarchi i misteri della fede, e con la voce uscita dalla nube luminosa proclamasti mirabilmente la perfetta adozione dei figli, concedici, nella tua bontà, di divenire coeredi della gloria e partecipi della medesima » (Colletta del giorno). – Nobile formula, che riassume la preghiera della Chiesa e ci presenta il suo pensiero in questa festa di testimonianza e di speranza.

Senso del mistero.

Ma è bene osservare subito che la memoria della gloriosa Trasfigurazione è già stata fatta due volte nel Calendario liturgico: la seconda Domenica di Quaresima e il Sabato precedente. Che cosa significa ciò, se non che la solennità odierna ha come oggetto, più che il fatto storico già noto, il mistero permanente che vi si ricollega, e più che il favore personale che onorò Simon Pietro e i figli di Zebedeo, il compimento dell’augusto messaggio di cui essi furono allora incaricati per la Chiesa? Non parlate ad alcuno di questa visione, fino a quando il Figlio dell’uomo non sia risuscitato dai morti (Mt. XVII, 9). La Chiesa, nata dal costato squarciato dell’Uomo-Dio sulla croce, non doveva incontrarsi con Lui faccia a faccia quaggiù; e quando, risuscitato dai morti, avrebbe sigillato la sua alleanza con lei nello Spirito Santo, solo della fede doveva alimentarsi il suo amore. Ma, per la testimonianza che supplisce la visione, nulla doveva mancare alle sue legittime aspirazioni di conoscere.

La scena evangelica.

A motivo di ciò, appunto per lei, in un giorno della sua vita mortale, ponendo tregua alla comune legge di sofferenza e di oscurità che si era imposta per salvare il mondo, Egli lasciò risplendere la gloria che colmava la sua anima beata. Il Re dei Giudei e dei Gentili (Inno dei Vespri) si rivelava sul monte dove il suo pacifico splendore eclissava per sempre i bagliori del Sinai; il Testamento dell’eterna alleanza si manifestava, non più con la promulgazione d’una legge di servitù incisa sulla pietra, ma con la manifestazione del Legislatore stesso, che veniva sotto le sembianze dello Sposo a regnare con la grazia e lo splendore sui cuori (Sal. XLIV, 5). La profezia e la legge, che prepararono le sue vie nei secoli dell’attesa, Elia e Mosè, partiti da punti diversi, si incontravano accanto a lui come fedeli corrieri al punto di arrivo; facendo omaggio della loro missione al comune Signore, scomparivano dinanzi a lui alla voce del Padre che diceva: “Questi è il mio Figlio diletto!” Tre testimoni, autorizzati più di tutti gli altri, assistevano a quella scena solenne: il discepolo della fede, quello dell’amore, e l’altro figlio di Zebedeo che doveva per primo sigillare con il sangue la fede e l’amore apostolico. Conforme all’ordine dato e alla convenienza, essi custodirono gelosamente il segreto, fino al giorno in cui colei che ne era interessata potesse per prima riceverne comunicazione dalle loro bocche predestinate.

Data della festa.

Fu proprio quel giorno eternamente prezioso per la Chiesa? Parecchi lo affermano. Certo, era giusto che il suo ricordo fosse celebrato di preferenza nel mese dell’eterna Sapienza: Splendore della luce increata, specchio immacolato dell’infinita bontà (Verso alleluiatico; cfr. Sap. VII, 26). -Oggi, i sette mesi trascorsi dall’Epifania manifestano pienamente il mistero il cui primo annuncio illuminò di così dolci raggi il Ciclo ai suoi inizi; per la virtù del settenario qui nuovamente rivelata, gli inizi della beata speranza [S. Leone: Il Discorso sull’Epifania] sono cresciuti al pari dell’Uomo-Dio e della Chiesa; e quest’ultima, stabilita nella pace del pieno sviluppo che l’offre allo Sposo (Cant. VIII 10), chiama tutti i suoi figli a crescere come lei mediante la contemplazione del Figlio di Dio fino alla misura dell’età perfetta di Cristo (Ef. IV, 13). Comprendiamo dunque perché vengano riprese in questo giorno, nella sacra Liturgia, formule e cantici della gloriosa Teofania. Sorgi, 0 Gerusalemme; sii illuminata; poiché è venuta la tua luce, e la gloria del Signore s’è levata su di te (I Responsorio di Mattutino; cfr. Is. LX, 1). Sul monte, infatti, insieme con il Signore viene glorificata la sua Sposa, che risplende anch’essa della luce di Dio (Capitolo di nona; cfr. Apoc. XXI, 11).

Le vesti di Gesù.

Mentre infatti « il suo volto risplendeva come il sole – dice di Gesù il Vangelo – le sue vesti divennero bianche come la neve » (Mt. XVII, 2). Ora quelle vesti, d’un tale splendore di neve – osserva san Marco – che nessun tintore potrebbe farne di così bianche sulla terra (Mc. IX, 2), che altro sono se non i giusti, inseparabili dall’Uomo-Dio e suo regale ornamento, se non la tunica inconsutile, che è la Chiesa, e che Maria continua a tessere al suo Figliuolo con la più pura lana e con il più prezioso lino? Sicché, per quanto il Signore, attraversato il torrente della sofferenza, sia personalmente già entrato nella sua gloria, il mistero della Trasfigurazione non sarà completo se non allorché l’ultimo degli eletti, passato anch’egli attraverso la laboriosa preparazione della prova e gustata la morte, avrà raggiunto il Capo nella sua resurrezione. O volto del Salvatore, estasi dei cieli, allora risplenderanno in te tutta la gloria, tutta la bellezza e tutto l’amore. Manifestando Dio nella diretta rassomiglianza del suo Figliuolo per natura, tu estenderai le compiacenze del Padre al riflesso del suo Verbo che costituisce i figli di adozione, e che vagheggia nello Spirito Santo fino alle estremità del manto che riempie il tempio (Is. VI, 1).

Il mistero dell’adozione divina.

Secondo la dottrina di san Tommaso, infatti (III, qu. 45, art.4), l’adozione dei figli di Dio, che consiste in una conformità di immagine con il Figlio di Dio per natura (Rom. 8, 29-30), si opera in duplice modo: innanzitutto per la grazia di questa vita, ed è la conformità imperfetta; quindi per la gloria della patria, ed è la conformità perfetta, secondo le parole di san Giovanni: « Ora noi siamo figli di Dio; ma non si è manifestato ancora quel che saremo. Sappiamo che quando si manifesterà saremo simili a Lui, perché lo vedremo quale Egli è » (I Gv. 3, 2). Le parole eterne: Tu sei il mio Figliuolo, oggi io ti ho generato (Sal. II, 7) hanno due echi nel tempo, nel Giordano e sul Tabor; e Dio, che non si ripete mai (Giobbe 33, 14) non ha in ciò fatto eccezione alla regola di dire una sola volta quello che dice. Poiché, per quanto i termini usati nelle due circostanze siano identici, non tendono però allo stesso fine – dice sempre san Tommaso – ma a mostrare quel modo diverso in cui l’uomo partecipa alla rassomiglianza con la filiazione eterna. Nel battesimo del Signore, in cui fu dichiarato il mistero della prima rigenerazione, come nella sua Trasfigurazione che ci manifesta la seconda, apparve tutta la Trinità: il Padre nella voce intesa, il Figlio nella sua umanità, lo Spirito Santo prima sotto forma di colomba e quindi nella nube risplendente; poiché se, nel Battesimo, Egli conferisce l’innocenza indicata dalla semplicità della colomba, nella resurrezione concederà agli eletti lo splendore della gloria e il ristoro di ogni male, che sono significati dalla nube luminosa (III, qu. 45, ad 1 et 2).

Insegnamento dei padri.

« Saliamo il monte – esclama sant’Ambrogio; – supplichiamo il Verbo di Dio di mostrarsi a noi nel suo splendore e nella sua magnificenza; che fortifichi se stesso e progredisca felicemente, e regni nelle anime nostre (Sal. XLIV). Alla tua stregua infatti, o mistero profondo, il Verbo diminuisce o cresce in te. Se tu non raggiungi quella vetta più elevata dell’umano pensiero, non ti appare la Sapienza; il Verbo si mostra a te come in un corpo senza splendore e senza gloria » (Comm. su san Luca, 1. VII, 12). – Se la vocazione che si rivela per te in questo giorno é così santa e sublime (VII Responsorio di Mattutino; cfr. Tim. I, 9-10), «adora la chiamata di Dio – riprende a sua volta Andrea da Creta (Discorso sulla Trasfigurazione): – non ignorare te stesso, non disdegnare un dono così sublime, non ti mostrare indegno della grazia, non essere tanto pusillanime nella tua vita da perdere questo celeste tesoro. Lascia la terra alla terra, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti (Mt. VIII, 22); disprezzando tutto ciò che passa, tutto ciò che muore con il secolo e con la carne, segui fino al cielo senza mai separartene Cristo che per te compie il suo cammino in questo mondo. Aiutati con il timore e con il desiderio, per sfuggire alla caduta e conservare l’amore. Donati interamente; sii docile al Verbo nello Spirito Santo, per raggiungere quel fine beato e puro che é la tua deificazione, con il gaudio di indescrivibili beni. Con lo zelo delle virtù, con la contemplazione della verità, con la sapienza, arriva alla Sapienza principio di tutto e in cui sussistono tutte le cose» (Col. I, 16-17).

Storia della festa.

Gli Orientali celebrano questa festa da lunghi secoli. La vediamo fin dagli inizi del secolo IV in Armenia, sotto il nome di « splendore della rosa », “rosae coruscatio”, sostituire una festa floreale in onore di Diana, e figura tra le cinque feste principali della Chiesa armena. I Greci la celebrano nella settima Domenica dopo Pentecoste, benché il loro Martirologio ne faccia menzione il 6 di agosto. In Occidente, viene celebrata soprattutto dal 1457, data in cui il Papa Callisto III promulgò un nuovo Ufficio e la rese obbligatoria in ringraziamento della vittoria riportata l’anno precedente dai Cristiani sui Turchi, sotto le mura di Belgrado. Ma questa festa era già celebrata in parecchie chiese particolari. Pietro il Venerabile, abate di Cluny, ne aveva prescritto la celebrazione in tutte le chiese del suo Ordine quando Cluny ebbe preso possesso, nel secolo XII, del monte Thabor.

La benedizione delle uve.

Vige l’usanza, presso i Greci come presso i Latini, di benedire in questo giorno le uve nuove. Questa benedizione si compie durante il santo Sacrifìcio della Messa, al termine del « Nobis quoque peccatoribus». I Liturgisti, insieme con Sicardo di Cremona, ci hanno spiegato la ragione di tale benedizione in un simile giorno: « Siccome la Trasfigurazione si riferisce allo stato che dev’essere quello dei fedeli dopo la Resurrezione, si consacra il Sangue del Signore con vino nuovo, se è possibile averne, onde significare quanto è detto nel Vangelo: “Non berrò più di questo frutto della vite, fino a quando non ne beva del nuovo insieme con voi nel regno del Padre mio” » (Mt. XXVI, 29). – Terminiamo con la recita dell’Inno di Prudenzio, che la Chiesa canta nei Vespri ed al Mattutino di questo giorno:

INNO

O tu che cerchi Cristo, leva gli occhi in alto; ivi scorgerai il segno della sua eterna gloria. La luce che risplende manifesta Colui che non conosce termine, il Dio sublime, immenso, senza limiti, la cui durata precede quella del cielo e del caos. – Egli è il Re delle genti, il Re del popolo giudaico, e fu promesso al patriarca Abramo e alla sua stirpe per tutti i secoli. – I Profeti sono i suoi testimoni, e sotto la loro garanzia, testimone egli stesso, il Padre ci ordina di ascoltarLo e di credere in Lui. Gesù, sia gloria a Te che Ti riveli agli umili, a Te insieme con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

La strana sindrome di nonno Basilio: 31

La strana sindrome di nonno Basilio 31

 nonno

Caro direttore sono qui a raccontarle ancora delle bizzarrie dello zio Pierre, del quale le ho riportato tempo fa il contenuto di una lettera che penso lei ricorderà bene per la stravaganza del contenuto, anche se a rileggerla oggi, non sembra poi tanto strampalata … vuol vedere che in fondo avesse ragione lui? Mah … Così, ancora una volta, approfittando dell’assenza di mia moglie, (…. mi raccomando, non glielo faccia sapere!!!) sono salito non senza grande sforzo, fino alla soffitta di casa per rovistare tra le lettere che lo zio Pierre aveva inviato, dopo la mia malattia, e che per questo io non avevo mai potuto leggere, anche perché mia moglie aveva pensato bene di nasconderle, preoccupata per il mio stato di salute, e per le conseguenze disastrose che avrebbero potuto suscitarmi [e non le posso dare tutti i torti … come vedrà]. Cerco di condensarne il contenuto. Si parla di un personaggio ecclesiastico che secondo lo zio stava mettendo in atto le manovre finali della sovversione di tutta la Tradizione ecclesiastica, in modo da introdurre delle novazioni, già condannate da Santi Papi come Pio IX, Leone XIII, Pio X, Pio XI e XII, in modo subdolo, rivestendo marchiani errori filosofici, politici e teologici con espressioni moderniste equivoche e “da lingua biforcuta” (beh … ma questo è proprio il linguaggio dello zio!), mettendo in rilievo “quanta contraddizione esista tra quello che ci fu insegnato una volta e quello che ci viene disinsegnato oggi (spudoratamente sdoganato dalla cosiddetta ridicola “ermeneutica della continuità”!) con l’abiura di quanto ricevuto come dottrina sicura, eterna, universale, irreformabile ed infallibile della “Ecclesia docens”, ossia del Magistero cattolico di sempre! “Il mio dovere di cristiano – continua lo zio – … mi obbliga a constatare, con il mio intelletto che rende “omaggio ragionevole” a Dio, mediante la Fede (Cfr. Rom. XII, 1 – Pio IX: “Qui pluribus”, DB 1837.) che la Chiesa aveva sempre parlato lo stesso linguaggio, mentre, invece, con questo strano personaggio, in apparenza dimesso ed umile, sornione ma decisamente “ruspa demolitrice” (sic!) da tempo preparata e rodata da “coloro che odiano tutti gli uomini”, si è usato un altro linguaggio nel nome della “novità”, del “cambiamento”, cambiamento che nasconde in realtà “eresie”, “scismi” e “apostasia manifesta”! Un “abuso di potere”, quindi, che ci porterà in una situazione senza precedenti, tanto da far dire già allo stesso personaggio (il 7 dicembre 1968) di essere arrivati in uno stato di auto-demolizioneaccelerata, mediante la Riforma(attenzione …. non si trattava di un’allerta, ma di un segnale in codice per dire, a chi doveva capire: “l’obiettivo è stato raggiunto ormai, il resto verrà da sé gradualmente” … the work in progress!!). Gesù ci ha detto: «li riconoscerete dai loro frutti» (Mt. VII,16): ed infatti la Chiesa continua a distruggersi, proprio con questa “Riforma” nata tra l’altro quando Essa si stava già difendendo dagli attacchi, interni ed esterni, di una religione riformista che aveva ripreso, dopo la bufera luterana, uno straordinario vigore nel XVIII° secolo spinta dai marrani della quinta colonna. Qui comincia a parlare lo storico: segno precorritore di tutti i disordini fu il “Sinodo di Pistoia” che Pio VI condannò duramente con la Bolla “Auctorem Fidei” del 28 agosto 1794 (DB 1501-1599 …. sottolineo che la sigla si riferisce al Denzinger, che i preti di una volta conoscevano bene, soprattutto lo zio Tommaso!, ma che oramai non fa parte del loro bagaglio culturale né dottrinale! – n.d. Bas. -). Dopo la bufera rivoluzionaria francese, la società, con le idee dettate dalle “conventicole cabalistiche” di Emmanuele Kant e di Jean Jacque Rousseau, col loro “soggettivismo” e “naturalismo”, [le solite idiozie gnostiche riciclate … la solita minestra riscaldata] aveva dato uno scossone alle certezze della Fede e alla necessaria elargizione della Grazia. Fu la “rivolta dell’uomo contro Dio” che troverà il suo profeta in Lamennais. I Papi fecero subito fronte con l’enciclica “Mirari Vos” di Gregorio XVI, del 15 agosto 1832 (DB 1613-1617) e come Lui, si sono comportati tutti gli altri Papi (che avevano a cuore la custodia del “Depositum Fidei”, la principale attività papale, fino alla vigilia del Vaticano II: centotrent’anni di lotta! Facciamo una breve analisi storica: Il “Sillabo” dell’8 dicembre 1864 (DB 1688-1780) tracciò un elenco degli “errori” del “Modernismo”; Pio IX si batté contro il “Liberalismo cattolico” (16 giugno 1871; 11 dicembre 1876). Il Concilio Vaticano (quello vero!), segnò l’apogeo di quel pontificato col trionfo della Fede divina e dell’Autorità infallibile della Chiesa e del suo Pontefice. E poi Leone XIII che con le sue encicliche: “Immortale Dei”, “Libertas Praestantissimum” (DB 1866) combattè il “Liberalismo”, dichiarandolo “delirio”, “libertà di perdizione”, “licenza”, perché metteva l’uomo contro Dio. Pio X s’impegnò su tutto il fronte dell’“errore”, soprattutto contro il “Modernismo dottrinale” con l’enciclica “Pascendi” del 1907 (DB 2071-2110) e la “Lettera sul Sillon” del 25 agosto 1910, contro l’utopia politico-religiosa di Marc Sanguier. Pio XI, con la sua enciclica “Quas Primas” dell’11 dicembre 1925 (DB 2194-2196) definì una dottrina che è all’opposto dell’attuale secolarizzazione, e con la sua enciclica “Mortalium Animos” del 6 gennaio 1928, condannò tutto ciò che oggi trionfa con l’attuale blasfemo “ecumenismo”, targa dell’apostasia anticristica. Pio XII (al quale, direttore, come lei ben sa, sono legatissimo perché è stato e … direi, è ancora il mio Papa … W il Papa!) combatté con tutta la Sua copiosa Opera magistrale, come la “Mistici Corporis” del 29 giugno 1943, contro l’ecclesiologia riformista; come il “Divino Afflante Spiritu” del 30 settembre 1943 contro il “Modernismo biblico”; come la “Mediator Dei” del 20 novembre 1947 sulla sacra liturgia; come la “Haurietis Aquas” del 16 maggio 1956 sul Sacro Cuore; come, soprattutto, la sua stratosferica “Humani generis” del 15 agosto 1956 contro il “riformismo dogmatico” e contro il nuovo Modernismo (caro direttore, la invito a leggere, se non lo ha mai fatto, queste encicliche, per capire innanzitutto come si scrive un’enciclica veramente cattolica, e poi per misurare la grandezza poliedrica, lo spessore immenso di questo Santissimo Papa che non finiremo mai di rimpiangere). Disgraziatamente nel 1963, è salito sulla Cattedra di San Pietro, con spintarelle non provenienti dallo Spirito Santo, ma ben altro spirito, uno spirito fumoso, cornuto, con zampe di capra, denti voraci e fame di anime, questo strano personaggio, dall’aria di intellettuale salottiero, ed ha cominciato a mettere in atto tutto ciò che la Chiesa, prima di lui, aveva sempre respinto con forza e condannato! … oltre ad altri strani “vizietti” e conoscenze extracortina! [ … qui veramente non riesco a seguirlo bene]. Le “novità” ebbero inizio intanto già dal discorso di apertura di uno stravagante e chiaramente “falso” concilio, o meglio conciliabolo, convocato in barba alla bolla “execrabilis di Pio II, l’11 ottobre 1962, pronunciato dall’allora Santo Padre (così diceva lui, ma chissà se lo fosse realmente? … intanto con certezza era un massone iniziato alla loggia del grand’Oriente di Parigi … perfezionato in Turchia!), ma che era stato preparato e redatto da questo Arcivescovo (“Testimonianza di Mons. Colombo”.). Era un “Messaggio al Mondo”, votato, per acclamazione, il 20 ottobre dai “l”adri conciliari. Più tardi, asceso al cardinalato, in barba alla volontà di Pio XII, che lo aveva trovato con i suoi “amichetti” a comunicare con i boiardi del KKB per segnalare la presenza di vescovi e sacerdoti operanti oltrecortina, prelati che poi venivano giustiziati o spediti “in ferie” in Siberia) ne fece un elogio ditirambico, dicendo: «Gesto insolito, ma mirabile. Si direbbe che il carisma profetico della Chiesa sia improvvisamente esploso» (Cfr. “Discorso al Concilio” del 29 settembre 1963). Seguì, poi, l’enciclica “Pacem in Terris”, una falsa enciclica tutta ispirata alla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo”, alla “libertà” e alla “pace universale”, [sembra scritta da Robespierre!] in accordo con l’ideologia gnostico-kabalista-muratoria. Compare nel frattempo anche il “testo segreto” del fanta-gesuita Karl Rahner, proposto ai Padri conciliari come un compendio della “Nuova Teologia”, che si sarebbe dovuto adottare (Cfr. “Lettres 132, 204”, p. 2). Ed ecco che il “modernismo” esplode con i due “Discorsi d’apertura” e di “chiusura” della “II Sessione”del conciliabolo riaperto, due discorsi impregnati di “spirito nuovo” ammantati delle scomuniche di Pio II, Paolo IV, Pio V, Pio IX … e chi più ne ha …, benché abilmente oscillanti tra gli estremi e le contraddizioni. Ma ormai, nel 1964, aveva già scelto la “Riforma”, difatti nella sua prima pseudo-enciclica “Ecclesiam Suam” del 6 agosto 1964 – già adombrata nel suo Discorso del 29 settembre 1963 – apre l’orizzonte ad una “Nuova Religione”, che tutti i Papi, suoi predecessori, avevano respinto come “seduzione del Demonio”! Da allora egli sta consolidando e aggravando la “Riforma”, appunto la “seduzione del demonio”. Ma lo scoop maggiore lo ha fatto all’ONU, nota organizzazione mondialista, in anticipo sui tempi del Nuovo Ordine Mondiale, di cui rappresenta la prova generale, pronunciandovi un discorso che io oserei dire “aberrante”; e, infine, il 7 dicembre 1965, ha promulgato la “Dichiarazione sulla Libertà religiosa” e la “Costituzione Pastorale sulla Chiesa” nel mondo di oggi; e, per ultimo, ha pronunciato un “Discorso alla gloria dell’Uomo che si fa Dio” (Cfr. Discorso del 7 dicembre 1965), un Discorso delirante, degno di lucifero in persona, che non ha mai avuto precedenti negli Annali della Chiesa! (Direttore … ma questa è pura fantasticheria “alla zio Pierre”!!… lo perdoni …). Da allora, la “Vecchia-Vera Religione” è stata virtualmente abbandonata per essere sostituita con un falso “culto dell’Uomo”, abominio della desolazione, che sfocerà nella costituzione della “Chiesa dell’Uomo”, meglio l’anti-Chiesa, travestita da Chiesa di Cristo, di cui conserverà l’apparenza, l’esteriorità, e qualche rito svuotato dal suo contenuto soprannaturale con simboli astratti e confusi, o peggio copiato dai cavalieri rosa+croce e dai cavalieri kadosh [… e questi chi saranno mai?] … una specie di Cinecittà, con facciate di cartone e polistirolo, e dietro … il vuoto. Vado ad annunciarti i temi principali di questa “Nuova Chiesa”: LA SUA “NUOVA RELIGIONE”: “IL CULTO DELL’ “UOMO”, ove vige un amore incondizionato, ma non dipendente né regolato dall’amore di Dio, che è, invece, un amore affrancato dalla Verità, dalla Legge, dalla Grazia! Un amore luciferino …, magari saffico o sodomitico! Mentre Gesù amò il giovane ricco, perché da sempre fedele alla Legge di Dio, qui invece l’uomo diventa “centro e capo del mondo” con i suoi veri e soprattutto falsi bisogni. Leggi le parole di questo discorso del 7 dicembre 1965 e comincerai a capire quale varco si è aperto per l’umanesimo ateo filosofico e muratorio, in ultima analisi all’anticristo stesso. “La religione di Dio che si è fatto uomo, si è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio, [illuminato da Prometeo-lucifero, n.d.Bas.]. Cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere, ma non è avvenuto (…). Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani … ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo, almeno, voi, umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo (?) umanesimo: anche Noi, Noi più di tutti siamo i cultori dell’uomo”! (Direttore, ma questo mi sembra uno dei discorsi che si tengono nelle conventicole filantropiche anticristiche … questa volta allo zio veramente gli ha dato di volta il cervello … ma qui dice che questo è un discorso all’ONU di questo fantoccio kazaro …spacciatosi per Papa!). La prossima volta ti parlerò del resto …”. Qui, mi pare … si chiude la missiva … direttore … direttore!? … c’è ancora? È ancora saldamente seduto nella sua poltrona? Allora può leggere la chiosa: “I Pastori in tutto questo tacciono, il gregge è allo sbando anche se tutto ciò non è ancora avvenuto irrimediabilmente, ma se si continua così (non loquendo, nec currendo, sed tacendo) vi si arriverà inevitabilmente. Quando si vede un lupo non solo si deve parlare, ma addirittura gridare a piena voce: “attenzione, al lupo!”. “Clama ne cesse”, scriveva Isaia. “Vi è un tempo per ogni cosa, […] uno per tacere e uno per parlare, uno per far la pace e uno per la guerra” (Qoelet, III, 17.), ed oggi non è tempo di tacere, né di far pace, ma di ‘gridare sui tetti quel che abbiamo sentito all’orecchio’ (Mt X, 27) e di combattere (Mt X, 34) per la salvezza delle anime, che corrono il pericolo di essere sedotte dalle nuove false dottrine -la Iezabel della Nuovelle Theologie-, predicate ed imposte da “lupi, draghi, basilischi, serpentoni, vestiti da agnelli”. (Mt VII, 15). San Luigi Grignion de Montfort, nella sua “Preghiera infuocata”, al n. 28 urla: «Permettetemi, o Signore, di gridare dappertutto: al fuoco, al fuoco, al fuoco! Aiuto, aiuto, aiuto! Al fuoco dentro la casa del Signore, al fuoco nelle anime, al fuoco sin dentro il Santuario! Aiutiamo i nostri fratelli che vengono assassinati spiritualmente!». Per il momento è tutto, ma c’è dell’altro ancora, direttore, non si perda la continuazione. Saluti da nonno Basilio.