Omelia della Domenica VIII dopo Pentecoste

Omelia della Domenica VIII dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Luca XVI, 1-9]

giudiz.univ. giotto. part.

-Tre tribunali-

“Rendimi conto, economo infedele (così Cristo introduce a parlare nell’evangelica parabola un padrone mal soddisfatto del suo fattore), rendimi conto, servo malvagio, di tua condotta nell’amministrazione a te affidata de’ miei averi; perciocché tu più non avrai né impiego, né tempo a dissipare le mie sostanze!: ”redde rationem villicationis tuae: iam enim non poteris villicare”. Atterrito da questa minaccia il tristo castaldo cominciò a pensare, e a dire fra sé: “Che farò quando dal mio Signore io venga rimosso dalla mia carica? Zappare? Io non ho forza. Mendicare? Io non ho faccia. So ben io quel che fare mi giova”; e chiamati i debitori del suo padrone, se l’intese con quelli, e provvide, sebbene ingiustamente, a’ suoi futuri bisogni. Cristiani uditori, saremo ancor noi citati un giorno innanzi al divino giudice, anche a noi sarà intimato quel “redde rationem villicationis tuae”. Non potremo in quel dì pigliar tempo, e provvedere a noi stessi, come lo scaltro fattore. Il tempo che allora ci mancherà l’abbiamo adesso: Iddio ce l’accorda al presente, non ce lo promette in futuro. Anzi, notate finissimo tratto della sua immensa bontà, acciò al suo divin tribunale possiamo rendere buon conto di noi, Egli, dice il Crisostomo, Egli ha stabilito due altri tribunali: “tribunal mentis, tribunal poenitentiae, tribunal iudicii” [Homil. De poenit.]. Osservate con qual ordine. Il primo è piantato nel nostro cuore da Dio Creatore, il secondo nella sua Chiesa da Dio Redentore, il terzo al fin di nostra vita da Dio giudice; il primo è un tribunale di giustizia e di misericordia: il secondo di pura misericordia; il terzo di sola giustizia. Il primo è diretto acciò ricorriamo al secondo, il secondo affinché ci disponiamo al terzo. Guai se non usiamo bene de’ due primi, saremo irrevocabilmente condannati nel terzo. Uditemi attentamente.

I. Il primo tribunale collocato nel nostro cuore da Dio Creatore, egli è un tribunale di giustizia insieme e di misericordia; e primieramente di giustizia. – Appena gl’incauti nostri progenitori rompono il primo precetto, che sull’istante, presi da confusione e da rossore, si ritirano, si nascondono, si coprono di frondi e foglie. Chi li accusa? Chi li condanna? Non hanno ancor sentito la voce di Dio sdegnato nel terreno paradiso, perché dunque si turbano, si coprono, e si nascondono? E nol vedete; chi gli accusa, e chi li condanna è quel giudice inesorabile da Dio Creatore custodito nel loro cuore, che alza la voce, che li confonde, che fa provare tutto l’orrore, che fa sentire tutto il peso del loro delitto. Una più chiara prova ci somministrano le parole del grande Iddio dirette al loro primo figliuolo, invidioso Caino. Io leggo, o Caino nel tuo volto turbato un certo iniquo disegno. Ascolta, infelice, se tu opererai il bene ne avrai la ricompensa, se il male, ne porterai subito la pena. Il peccato, come un cane latrante alla porta del tuo cuore, ti farà provare i più fieri rimorsi : “Si bene egeris, recipies, sin autem male, statim in foribus peccatun aderit” [Gen. IV, 6], Così avvenne. Appena tinto del sangue dell’innocente fratello, un torbido orrore gl’invase la mente, un così strano e gelido spavento gli sconvolse l’animo, che profugo sulla terra temeva ad ogni passo incontrarsi in chi gli desse la morte. – È questo il tribunale della coscienza, “tribunal mentis”, in cui, come nel tribunale degli uomini, v’interviene il reo detenuto, gli accusatori che denunziano, il giudice, che condanna. Reo detenuto è il peccatore, che non può fuggire da sé stesso; accusatori sono l’intelletto che gli fa conoscere, la memoria, che gli ricorda i suoi delitti; il giudice è la coscienza, giudice inesorabile, che parla contro chi non vorrebbe, che non si può far tacere, che dà sentenze, che pronunzia condanna. Tu tieni ingiustamente la roba altrui, dice ad uno, tu sei un ladro coperto, ma sei un ladro. Tu sei un disonesto, dice ad un altro, ti nascondi agli occhi del mondo, ma a te stesso nascondere non ti puoi. Tu sei in stato di dannazione, dice ad un terzo, se tu non lasci il peccato, se non ti penti, se non ti confessi, tu sei perduto. – Via, peccatori quanti mai siete, distraetevi pure dai reclami della rea coscienza, fate strepito per non sentirla, passate senza interrompimento dall’uno all’altro piacere, dal convito al giuoco, al passeggio, al ballo, al teatro, vi saprà ben seguire e mordere in ogni luogo, in ogni tempo il verme della sinderesi, e massime alla prima disgrazia che v’intervenga, o alla prima malattia che vi colga. Disingannatevi, dice il Crisostomo, ovunque possiate rivolgervi, porterete sempre con voi un giudice che la farà da carnefice per tormentarvi. – Questo tribunal di giustizia ne’ disegni di Dio pietoso è anche un tribunale di misericordia, fa Iddio con noi come medico sagace, che maneggia il ferro, adopra il fuoco per ridurre a sanità il povero infermo. Quelle fitte, peccatori miei cari, quelle spine, che vi trafiggono, sono dirette a farvi conoscere che il peccato non può farvi contento, che bisogna togliere la spina se volete che cessi il dolore. Ad una di queste spine deve la sua conversione il penitente Profeta: “conversus sum in aerumna mea, dum conficitur spina” [Ps. XXXI]. Sono spine, è vero, sono punture, ma sono grazie del misericordioso Signore, acciò afflitti e conturbati nel tribunale della vostra coscienza cerchiate rimedio alle vostre piaghe e pace al vostro cuore nel tribunale della penitenza. II. Il tribunale di penitenza, posto da Dio Redentore nella sua Chiesa, è tribunale di misericordia. Ne’ tribunali terreni la confessione del peccato si trae addosso la pena, confessarsi reo e condannarsi è la cosa stessa. Tutto il contrario nel tribunale della penitenza. Chi si discolpa moltiplica il suo reato: chi si accusa, chi si condanna, resta assoluto e prosciolto: “Si nosmetipsos diiudicaremus, non utique iudicaremur” [I Cor. XI, 31]. – È sempre stato questo l’ordinario costume del nostro Iddio, che è la stessa bontà e la stessa giustizia, di condannar chi si scusa, e di perdonar chi s’incolpa. Si scusa Adamo, e dice: “la donna, che dato mi avete, fu la cagione del mio trascorso”. Si scusa Eva, e ne ascrive la causa al serpente. Scuse in faccia di un Dio veggente? Fuora del terren Paradiso! Si scusa Aronne e dell’idolo da lui innalzato alle falde del Sinai, ne fa carico alla turba tumultuante, e viene escluso perciò dal metter piede nella terra promessa. Si scusa Saul, e di sua trasgressione al divino comando ne incolpa il popolo; e Samuele gli annunzia la perdita del regno temporale, a cui si aggiunse poi la perdita del regno eterno. In somma, reo che si scusa dinanzi a Dio, non l’indovina. Per l’opposto chi si umilia, chi si confessa colpevole disarma la divina giustizia, e ottiene grazia e perdono. – “Peccavi, dice Davide, peccavi Domine”, e Natan profeta l’assicura che il suo peccato è rimesso, “Dominus quoque transtulit peccatum tuum” [II Reg. XII, 13]. Si dichiara massimo peccatore il Pubblicano, si batte il petto cogli occhi a terra e se n’esce giustificato dal tempio. Si protesta il prodigo indegno del nome di figlio, e viene accolto con festa dal buon genitore. Si confessa, a finirla, il buon ladro meritevole del suo supplizio, ed ottiene da Gesù moribonde e perdono e promessa di paradiso. – Ecco come l’umile confessione delle proprie colpe placa la giusta collera di Dio offeso, e ciò in tutti i tempi, massime però nel tribunal di penitenza, in cui la sincera confessione dell’uomo ravveduto e compunto acquista soprannatural vigore, e maggior merito per l’efficacia del Sacramento, in modo, dice S. Isidoro, che se siete infermi vi risana, se in disgrazia di Dio, vi giustifica, se meritevoli di castigo vi perdona, perché nella sacramental Confessione ha collocata la sua sede la divina misericordia: “in confessione locus misericordiae”. Aggiustiamo dunque, fratelli carissimi, in questo tribunale di misericordia i nostri conti con Dio, se vogliamo incontrar bene al tribunale, a cui appena morti dovremo comparire, tribunale di pura giustizia. – III. Così è, a quel finale giudizio presiede la sola giustizia di Dio, e la misericordia è da quello affatto lontana: “Judicium sine misericordia”. Dura la divina misericordia finché dura la vita: finita questa, si chiude la porta della divina clemenza per non aprirsi mai più. A quel tremendo tribunale non ci accompagnano se non le nostre opere o buone o malvagie. Portiamo con noi il nostro processo, da cui dipende la nostra eterna sorte. Quivi, a nostro modo di intendere, ognun di noi sarà posto nelle bilance di rigorosa giustizia: se, come Baldassarre, saremo trovati mancanti, una sentenza irrevocabile, una condanna di eterno supplizio sarà il giusto castigo, che ci renderà eternamente infelici. – Ah, mio Dio! Dunque se io vi comparisco davanti col peccato nell’anima, sarò da voi rigettato in eterno? E in quel finale giudizio sarà dalla spada della vostra giustizia recisa per sempre la via della pietà e della misericordia? “Numquid in aeternum proiiciet Deus …aut in finem misericordiam suam abscìndet?! [Ps. LXXVI, 7-8] Ah mio Signore! E non ci dite voi per bocca di un vostro profeta, che in mezzo all’ira vi ricorderete della misericordia? Appunto, di me sta scritto, “cum iratus fueris misericordiae recordaberis” (Habac. II, 5), e ben me ne ricordo di quella misericordia usata con voi in tutto il corso della vostra vita: mi ricordo della mia pazienza in sostenervi per tanto tempo peccatori: mi ricordo dell’abbondanza delle mie grazie, e dell’ostinazione dei vostri rifiuti. Quanti lumi ho fatto balenare alla vostra mente, quanti impulsi ho fatto sentire al vostro cuore, quanti stimoli alla vostra coscienza per svegliarvi dal mortale letargo delle vostre viziose abitudini? La mia misericordia è quella, che colla voce delle mie ispirazioni, e con quella dei miei ministri vi chiamava al tribunale di penitenza; affinché in quello saldaste i debiti colla mia giustizia, e non aveste in questo a provarne i rigori, questi e mille altri sono i tratti della clemenza usata con voi, e al rammentarli in quest’istante si accende di maggior fiamma il giusto mio sdegno. Itene dunque maledetti per sempre. Voi non siete più miei, Io non sono più vostro; “Vos non populus meus, et ego non ero vester (Osea I, 9 ). – Miei cari, se vogliamo in quel tribunale schivar la sentenza di eterna morte, profittiamo del primo tribunale, che Dio Creatore ha posto nel nostro cuore, ricorriamo al secondo della penitenza, che Dio Redentore ha stabilito nella sua Chiesa. L’avviso è del Crisostomo : “Si volumus a tribunali iudicii particularìs absolvi, duo reliquia iudicia frequentemus” [Hom. de Poenit.].

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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