Omelia della domenica IV dopo Pasqua
[Del canonico G. B. Musso- Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]
-Dio principio e fine-
“Vado ad eum qui misit me”. Sono queste le parole colle quali il Divin Redentore prese congedo dai suoi discepoli, come ci narra S. Giovanni nell’odierno sacrosanto Vangelo. “Miei cari, più poco mi resta da star con voi, venni al mondo mandato dal Padre mio, ora men vado a Lui che mi mandò, “vado ad eum, qui misit me”.”
Oh se queste divine parole potessimo noi ripetere appropriate a noi stessi, in giusto senso di verità! Felici noi. “Io men vado a Colui che mi mandò: Dio è il mio principio, Dio è il mio ultimo fine, da Lui vengo, a Lui mi porto; da Lui vengo come mia prima cagione, mi porto a Lui come mio centro; da Lui vengo per via di creazione, a Lui mi porto per la via de’ suoi comandamenti”. Felici noi, lo ripeto, poiché saremo beati nel tempo e nell’eternità. Su questo pensiero io mi fermo, e per animarvi ad apprezzarlo colla mente, e a secondarlo coll’opera, passo a dimostrarvi che Dio è nostro principio, che Dio è nostro ultimo fine, e che nella cognizione di questo principio, e nel condurci direttamente a questo fine, consiste la nostra temporale ed eterna felicità. Di quanto peso sia l’argomento, e quanto debba impegnare e la vostra attenzione, e il mio e vostro interesse, voi lo conoscete, discreti ascoltanti. Diam principio.
I. “Ego sum alpha, et omega … principium et finis” (Apoc. XXII. 13). Così definisce se stesso il grande Iddio nel divino Apocalisse. Io sono di tutte le cose il principio, di tutte le cose il fine. A comprendere come Dio è nostro principio, ponderate questa proposizione. L’uomo non dà l’essere a se medesimo, perciocché dar l’essere a se medesimo involge contraddizione. Se l’uomo ha dato l’essere a se stesso, dunque esisteva, qual necessità di darsi l’essere? Se poi non esisteva, come fece a darsi l’esistenza? Esisteva adunque al tempo stesso e non esisteva, era e non era, contraddizione manifesta, assurdo madornale, riprovata dal senso comune. Or se l’uomo non può dare a sé l’esistenza, io domando, da chi egli mai l’ebbe? Ascendiamo di generazione in generazione, e arriveremo a quel primo uomo da cui cominciò l’ umana natura, cioè ad Adamo. Onde se voi mi dite che il primo uomo ebbe per padre un altro Adamo, io vi domando, e quest’altro Adamo da voi immaginato da chi ha avuto principio? Da un terzo, e questi da un quarto, e poi da un quinto, da un centesimo Adamo, e così fino all’infinito; ma questo progredire in infinito è una chimera fantastica, contraria al buon senso ed alla naturale ragione; perciocché convien ridursi a un punto fisso, ad un principio determinato. Questo punto, questo principio è il primo uomo; ma abbiamo veduto che quest’uomo da se stesso non si poté dar l’essere, dunque dovette averlo da una causa preesistente, da un principio eterno, indipendente, necessario, infinito, e questo è Dio.
Intelligenti delle cifre aritmetiche, ditemi se si può dare un numero che necessariamente non presupponga, che necessariamente non parta dal primo numero, qual è l’unità. Qualunque piccolo o grande numero necessariamente è basato sull’unità, come suo principio e fondamento; così che dall’unità comincia, e nell’unità con passo retrogrado conviene che ritorni e si fermi. Non altrimenti tutte le creature necessariamente suppongono una prima causa, un principio, da cui derivano, senza del quale non solo non sarebbero esistenti, ma né pur sarebbero possibili. Questa causa, questo principio è Dio, che da se stesso esiste, che “ab eterno” esiste, che necessariamente esiste, tolto il quale non v’è più creatura esistente, né possibilità di alcuna esistenza.
E perché di questo Dio, dite voi, non abbiamo un’idea chiara e adeguata? E di molte cose sensibili e naturali possiamo aver noi una chiara ed adeguata idea? Chi mi spiega la forza del moto, l’origine de’ venti, il modo onde l’anima è unita al corpo, e come il corpo materiale agisca sull’anima, e questa per mezzo degli organi corporei provi sensazioni or piacevoli, or dolorose, ed acquisti le necessarie nozioni a esulare i suoi moti, i suoi pensieri, i suoi voleri? Chi mi spiega la natura della luce così meravigliosa nella sua velocità, così meravigliosa nei suoi cambiamenti? Conosciamo noi la natura dell’aria, di questo fluido così terribile ne’ suoi fenomeni? Conosciamo l’essenza del fuoco così formidabile ne’ suoi effetti? Sudano i filosofi nello spiegare queste ed altre maraviglie che offre ai nostri sguardi la natura, ma un sistema di perfetto convincimento resta ancora a vedersi. Se dunque non possiamo penetrare ne’ segreti dell’ordine naturale, se di queste fisiche cose, delle quali abbiamo vista, tatto e sperienza, non siamo capaci a formarci un’idea che sia compiuta, quale presunzione sarà la nostra pretendere idee e cognizioni perfette nell’ordine soprannaturale? Uomo meschino, non può fissar gli occhi in faccia al sole, e presume fissarli in volto a Dio? Sarebbe più facile racchiudere l’oceano in un vaselletto, che avere una idea adeguata di Dio; che tra un vaselletto e l’oceano vi à certa proporzione, tra noi e Dio v’è una infinita distanza. A finirla, se di Dio potessimo avere una compiuta idea, una delle due: o Dio cesserebbe d’ essere Dio, o l’uomo sarebbe un altro Dio.
Basta che di Dio possiamo avere, come abbiamo di fatto, una cognizione, un’idea proporzionata alla limitata nostra capacità, un’idea giusta, veritiera secondo la retta ragione, e, senza paragone di più, secondo i lumi della rivelazione e della fede. E quale idea più elevata e più sublime di quella che Dio medesimo ci diede della sua esistenza? “Ego sum, qui sum” [Esod. III, 14] disse a Mosè dal misterioso roveto. Io sono quel che sono, vale a dire l’ essere per essenza, la pienezza dell’essere, il principio di ogni essere, l’ unico e solo che esiste per sua propria natura, ed ogni altro essere non si può dire che esista, mentre da Lui dipende e nella sua origine, e nella sua conservazione, così che tolta una, cessata l’altra, cessa la sua esistenza.
Ecco, o fedeli, la Causa prima, unica, eterna da cui discendiamo. Siam creature d’uno Dio, che colla sua onnipotenza ci trasse dal nulla.“Unus est altissimus creator omnipotens” [Eccl. I, 8]. Egli è d’ogni cosa il principio, e d’ogni cosa termine e fine. “Principium et finis, primus et novissimus. In questa cognizione ammessa e tenuta per fede, dice lo scrittore del libro della Sapienza, sta la nostra giustificazione. “Nosse te consummata iustitia est” [Sap. 15, 3]. Ma questa cognizione esser non dee di puro intelletto, sterile, inefficace, ma una cognizione che muova la volontà, che ci porti a Dio per la via della giustizia, per la strada de’ suoi comandamenti, se vogliamo essere felici nel tempo e nell’eternità.
II. Il cuore dell’uomo per naturale necessaria pendenza è portato a cercare la propria felicità; onde come l’ acqua corre al declive, come la pietra tende al centro, per simil modo il cuore dell’uomo è sempre in moto, e sempre in cerca d’un bene, ove crede trovare la sua pace, il riposo, la sua felicità. Questa quiete, questa felicità non può trovarsi che in Dio sommo ed unico bene; ma siccome la bontà, come parlano i teologi, è di se stessa diffusiva, così Iddio, Fonte inesausto d’ogni bene sparge varie stille di bene nelle sue creature, in alcune la bellezza, in altre il gusto, in queste il comodo, in quelle il vantaggio; così l’uomo, allettato da queste stille, abbandona sovente il fonte da cui derivano, quel fonte che solo può spegnere la sete dell’uman cuore, che è Dio, fonte d’acqua viva che sale in vita eterna. Avviene allora, all’uomo ingannato, d’incontrare la mala sorte d’una incauta farfalla, che si aggira intorno al lume sedotta dal suo splendore; uomo deluso, dice lo Spirito Santo, simile ai pesci ingannati dall’esca lusinghiera, simile agli augelletti allettati dal pascolo insidiosamente esposto dal cacciatore.
Convien distinguersi. Il nostro cuore è fatto per Dio; se fuor di Dio cerca il suo bene, in pratica resterà convinto che lo cerca dove non è, o che è un bene d’apparenza ingannevole, che non può fare il cuor contento, anzi il più delle volte un bene avvelenato, che affligge l’animo, e cagiona la morte.
Chi più d’un Salomone gustò i piaceri di questa vita, le delizie di questa terra? In quarant’anni di regno pacifico accumulò ricchezze immense, oltre le ereditate del suo padre Davidde. La sua sapienza fu superiore a tutti i saggi del mondo che erano e che saranno; fu in altissima stima presso tutt’i popoli nazionali e stranieri, e nel colmo degli onori, e nell’apice della grandezza non negò a’ suoi sensi alcun piacere, né sfogo alcuno alle sue passioni. Lo confessò egli stesso: “Omnia quae desideraverunt oculi mei non negavi eis, nec prohibui cor meum, quin omni voluptate frueretur” (Eccl. II, 10) . Questo grand’uomo adunque, questo gran re sarà arrivato al sommo grado della felicità, sarà stato pienamente, perfettamente contento. Per chiarircene, andiamo a trovarlo nel regio suo gabinetto. Osservate com’è tutto occupato da torbidi pensieri, come serio nel volto, come inquieto nell’animo, udite ciò che pronunzia: “La vita mi è di tedio e di peso”, taedet me vitae meae (Eccl. II, 17). Leggete ciò che scrive delle sue grandezze e dei suoi goduti piaceri, “vanitas vanitatum, universa vanitas et afflictio spiritus” (Eccl. I, 14), tutto è vanità, non basta, è vanità di vanità, non basta ancora, è afflizione di spirito.
Cosi è, così sarà; un cuore che non è con Dio è fuori dell’ordine da Dio stabilito, e un pesce fuor dell’acqua, e un osso fuor della propria giuntura, in istato di penosa violenza. Signore, il nostro cuore 1’avete fatto per voi, e sarà sempre inquieto finché in voi non riposi. “Fecisti nos, Domine, ad te, et irrequietum est cor nostrum donec requiescat in te.” Lasciò scritta questa grave sentenza l’ingegno più acuto che vanti la Chiesa, un uomo, che, oltre l’impareggiabile talento, ebbe trentatré anni di esperienza: Desso è S. Agostino, che passò di accademia in accademia, di setta in setta per trovare la verità che lo convincesse, passò di piacere in piacere, lecito illecito, per trovare la pace del proprio cuore, ma vane furono le sue ricerche; finalmente e la verità e la pace trovò in abbracciare la fede di Gesù Cristo che è la via, la verità e la vita, via a conseguire la pace, verità a mantenerla, vita a goderne nel tempo e nell’eternità.
Questa pace, che cercano e trovano in Dio le anime giuste, oltr’esser la vera, essa anche è stabile permanente; perciocché, soggiunge il citato Agostino, siccome ha per oggetto un bene immutabile qual è Dio, così non è soggetta a disgustose vicissitudini. Chi ripone il suo contento in qualche bene di terra, al mancare questo convien che cessi ancor quello, ma chi lo mette in Dio, essendo eterno l’oggetto, sarà invariabile il suo godimento. “Vir habere gaudium sempiternum? Adhaere illi, qui sempiternus est.” Ripetiamolo ancor una volta, “fecisti nos, Domine ad te”. Il nostro cuore è fatto per Dio, fatto per godere Dio, e perciò niun bene creato può appagarlo. Che mai sono i beni dì quaggiù? Onori, ricchezze, piaceri, ma gli onori son fumo, le ricchezze son terra, i piaceri son fango. Come dunque volete che l’anima nostra, nobilissimo spirito, fatto ad immagine di Dio, nel pascersi di fumo, di terra, di fango, trovi la propria felicità?
Me ne appello alla vostra esperienza. Quanto vi costa un piacere proibito, un’illecita soddisfazione; quanto vi tiranneggia una malnata passione; quante gelosie, quanti sospetti, quanti timori che non si scopra quell’amicizia, che non venga alla luce quel furto, quel delitto, quel fallo ignominioso? Se voi trovate la pace e la felicità nel peccato, e perché temete che il vostro peccato si sveli? Perché cercate le tenebre, perché raccomandate il segreto, perche vi copre di confusione il solo spavento che giunga all’altrui notizia? Accordate la pace del vostro cuore con tante apprensioni, con tanti timori, con tanti palpiti, con tanti affanni. Eh via che per i malvagi non v’è pace, non vi sarà mai pace, non può esservi pace. Lo dice Colui che ha fatto il cuore di tutti, lo dice Colui che vede il cuore in seno a tutti, lo dice Iddio: “Non est pax impiis, dicit Dominus Deus” (Isaia LVII, 21).
Conchiudiamo, miei cari. Se vogliamo esser felici di una felicità cominciata su questa terra e poi consumata e perfetta lassù nel cielo, con vivezza di fede riconosciamo Dio per nostro principio, con purità di cuore portiamoci a Dio come nostro ultimo fine. Viviamo ed operiamo in modo da poter dire in vita: Dio è mio principio, da Lui venni per creazione, e a Lui mi porto per la via de’ suoi precetti “vado ad eum, qui misit me”, e da poter ripetere in morte con dolce e fondata speranza, “vado ad eum qui misit me”.