Omelia della III Domenica dopo Pasqua
[del canonico G.B. Musso, 1851]
– Recidivi –
“Miei cari (così Gesù Cristo a’ suoi discepoli nell’ultima cena, come abbiamo da S. Giovanni nell’odierno Vangelo), miei cari, fra poco più non mi vedrete, “Modicum, et non vìdebitis me”; e dopo un altro poco voi ritornerete a vedermi,” – “Modicuum, et videbitìs me”. Attoniti i discepoli a questo parlare si domandano a vicenda qual ne sia il significato, e si protestano di non intenderlo. Fra non molto (dir volea, secondo alcuni sacri spositori, il divino Maestro) fra non molto verrà l’ ora e la potestà delle tenebre, sarà percosso il pastore e disperso il gregge, avverrà quel che più volte ho predetto, il Figliuol dell’uomo sarà dato in man da’ gentili, sarà flagellato, deriso, crocifisso, sepolto, e perciò più non mi vedrete, “Modicum et non videbitis me”; ma poi dopo un altro poco, cioè dopo tre giorni, risorto da morte apparirò a voi in Galilea, e di nuovo mi rivedrete, “Modicum, et vìdebitis me”. Questa vicissitudine rinnovano in istrano senso colpevole non pochi cristiani. Dicono anch’ essi (almeno col fatto) a’ lor piaceri, a’ lor vizi , in vicinanza di Pasqua o di qualche altra solennità: convien accostarsi a’ santi Sacramenti, bisogna lasciar il peccato, male pratiche, giuochi, ridotti, fra poco non mi vedrete. “Modicum, et non videbitis me”; ma siccome ogni cosa ha il suo tempo, dopo poco, passati i giorni santi torneremo a vederci. “Modicum, et vìdebitis me”. Ad impedire, quanto per me fia possibile, questa dannevolissima alternazione dal male al bene, dal bene al male, io vengo a dimostrarvi, che il far passaggio dal peccato alla grazia, dalla grazia al peccato, in una parola, che il ricader nel peccato egli è un delitto, che merita maggior castigo, sarà il primo punto della presente spiegazione; egli è un delitto che porta all’ultimo de’ castighi, cioè l’impenitenza finale, sarà il secondo, se mi degnate di attenzione cortese.
I – Il ricadere in peccato merita maggior castigo. Volete vederlo? rammentate Caino, allorché tinte le mani del sangue di Abele, andava fuggiasco sulla faccia della terra. Ahimè, diceva egli preso dall’orror del suo misfatto, ahimè, chiunque m’ incontrerà vendicherà col sangue mio il sangue del mio tradito fratello. No, rispose Iddio, nol voglio. Perciocché ti porrò in fronte un tal segno, in cui ognun legga il mio divieto. Anzi chi avesse 1’ardire di ucciderti, sarà punito sette volte di più, “punietur septuplum”: ma come? Il primogenito de’ presciti uccide il primogenito degli elètti, e non dev’essere ucciso, e l’ uccisore di questo scellerato, sette volte di più sarà punito, “septuplum punielur” (Gen. IV, 15)? Adoro, o Signore, i vostri profondi giudizi; ma non gl’intendo. Scioglie la Glossa la difficoltà, per questa ragione, perché sarebbe questi un secondo omicida, del primo assai più reo, “quia est homicida secundus”. E qual differenza passa tra il primo, ed il secondo omicida? Eccola, il primo, cioè Caino, non avea ancor veduta in faccia la morte, né della morte i tristi effetti e le lagrimevoli conseguenze, e perciò in questo senso è meno grave il suo reato. Ma il secondo omicida, dopo aver veduto morto un simile a sé, a terra steso, senza colore, senza moto, senza respiro, e poco dopo putrido, fetente, inverminito, ridotto ad uno scheletro, risolversi poi a dar morte ad un altr’uomo, merita costui di essere più gravemente punito “septuplum punietur”.
Ecco il vostro caso, peccatori fratelli, voi quando la prima volta peccaste per bollore di gioventù, o per impeto di passione, o per debolezza d’animo, o per isconsigliato trasporto, foste in qualche modo degni di compassione e di scusa; ma dopo aver conosciuto che il vostro peccato vi ha ucciso l’anima in seno, dopo aver conosciuto che, secondo la giusta espressione di S. Paolo, avete, quanto è da voi, rinnovata la crocifissione e la morte al Figliuol di Dio, dopo aver provato angustie d’animo, riclami della sinderesi, timori della rea coscienza, frutti amarissimi del peccato, dopo averlo detestato e pianto a piè del confessore, a piè del Crocifisso, tornando di nuovo a commetterlo, la malizia si fa maggiore, maggior la gravezza, merita per conseguenza punizione maggiore, “septuplum punietur”.
Fingete che il figliuol prodigo, dopo essere stato accolto fra i dolci amplessi e le tenere lagrime del suo buon genitore, da lui distinto con ricco anello, con abito sontuoso, con lauto banchetto, co’ tratti dell’amor più sviscerato, colle dimostranze della più viva allegrezza, si fosse dopo pochi giorni nuovamente partito dalla casa paterna, senza dargli un addio, per portarsi in que’ lontani paesi a ricominciare le sue scostumatezze, e consumare le sue sostanze; che avreste voi detto? Figlio disleale? figlio snaturato! Mostro d’ingratitudine! Sarebbero state queste le vostre giuste invettive. Or queste stesse invettive ricadrebbero sopra di voi, se dopo esser tornati a Dio ritornaste al peccato. Voi come il prodigo fuggiste dal Padre celeste, e al par delle sue furono le vostre dissolutezze e le vostre disgrazie. Pentiti poi de’ vostri traviamenti faceste a lui ritorno, ed egli accogliendovi a braccia spiegate, e a cuore aperto vi rivestì dell’abito preziosissimo della grazia santificante, foste ammessi alla sacra mensa, pasciuti delle carni immacolate del divino Agnello, e si fece in cielo gran festa pel vostro ravvedimento, come ne assicura il Vangelo. Se dopo tali grazie e tal finezze voltaste di nuovo a Dio le spalle per ripigliare il primiero costume di vita licenziosa, qual termine potrebbe esprimere la vostra sconoscenza, e qual vi trarreste addosso esemplare castigo!
Ma che dissi sconoscenza? Ingiuria invece, ingiuria atroce, insulto gravissimo. Udite come parla a Dio, colla voce del fatto più esprimente che le parole, chiunque dopo essersi riconciliato con Dio ritorna ai peccati di prima : Signore, ho provato quanto è tristo il mondo, quanto costa lo sfogo delle passioni, quanto è amaro il peccato, e punto da rimorsi, sazio di me stesso e stufo di peccare, sono a voi ricorso ravveduto e pentito. Ho allora sperimentato colla quiete di mia coscienza il bene della vostra amicizia, ho gustato il dolce della vostra grazia. Con tutto ciò mi sento ora nausea del vostro servizio, mi trovo allettato da’ miei trascorsi piaceri, voglio di nuovo provare se starò meglio, se sarò più contento con soddisfar nuovamente i miei sensi, i miei capricci, le mie passioni. À tanto affronto, a tanto insulto, lascio a voi considerare, uditori, quale e quanta convenga rigorosa punizione e tremenda vendetta.
Né solo il ricader in peccato merita maggior castigo, ma porta all’ultimo e massimo di tutti i castighi, qual è l’impenitenza finale.
II – Io leggo che tutti i veri penitenti, entrati una volta nella strada della salute, d’ordinario non si sono più voltati addietro. Cosi Adamo, cosi Eva, cosi Davide, così Manasse. Mirate Matteo, mirate Zaccheo, si convertono, fanno restituzioni e limosine, e usure non più. Piange Pietro, piange la Maddalena, questa abbandona per sempre le sue vanità, quegli abbomina per sempre i suoi spergiuri. Si converte Paolo, di persecutore si cangia in Apostolo, di lupo in agnello, e più non si muta, e compie col martirio l’intrapresa carriera. Si converte Agostino, scrive le sue Confessioni, e versa lagrime sui suoi trascorsi fino all’estrema agonia. Un S. Camillo, un S. Andrea Corsino , le sante Maria Egiziaca, Margherita da Cortona, escono dalla via di perdizione, e non ci metton piede mai più. Volgete 1’antico Testamento ed il nuovo, leggete la storia della Chiesa, e vedrete che un vero penitente d’ordinario non cangia più strada, non muta più volontà. Una volontà per l’opposto, che domani ripiglia quel che ieri lasciò, che colla stessa facilità pecca e si pente, si pente e torna a peccare, mostra che la sua conversione non è sincera, ma di sola apparenza; ciò non di meno quest’istessa apparenza va lusingando il peccatore recidivo per modo che, non ostante la sua incostanza, crede una cosa facile passare dal peccato alla giustificazione onde ingannato s’incammina ad un morbo insanabile, che lo porta a morire impenitente.
Insegnano i fisici che una piaga non si può rimarginare se non colla quiete e col riposo, e perciò se avvenga che si apra una piaga nel nostro polmone, difficilmente si può saldare; perché essendo questo sempre in moto giorno e notte, nella vigilia e nel sonno, per dare al corpo il necessario respiro, quel moto continuo impedisce che si chiuda la piaga, che congiunta con lenta etica febbre cagiona la morte. Non altrimenti passando voi, recidivi fratelli miei, con un movimento continuo dal peccato alla grazia, dalla grazia al peccato, o per dir meglio dalla confessione alla colpa, dalla colpa alla confessione, questo moto, questa incostanza farà che le piaghe della vostr’anima non possano rimarginarsi, e come avviene agli etici vi lusingherete di sempre star meglio, mentre sarete già marci, già morti agli occhi di Dio, e prossimi a chiudere la vita nell’ impenitenza finale, ultimo e massimo di tutt’i castighi.
Avverrà a voi, che Dio non voglia, ciò che avvenne ad Assalonne. Questo discolo figlio di Davide, dopo aver ucciso il suo fratello Ammone, fugge dall’indignato padre, esce fuori del regno; ma dopo tre anni, mal soffrendo il lungo esilio, tanto si adopra, tanto promette, che finalmente ottiene grazia e perdono. Eccolo di ritorno in Gerusalemme, eccolo nella reggia fra le braccia del genitore, che gl’imprime in volto mille teneri baci. “Post haec” (II Re, XV, 1), dopo sì amorevoli tratti chi il crederebbe? Macchina il perfido contro del padre, forma disegni a toglierli la corona di fronte, e gli eseguisce. Già innalzato lo stendardo della ribellione, gli ha contro sollevato tutto Israele, e già coll’armi alla mano s’impegna in sanguinosa battaglia: ma disfatto il suo esercito nella foresta di Efraim, si dà avvilito a precipitosa fuga, passa sul suo destriero sotto una quercia, il vento gli solleva la chioma, s’impaccia questa fra’ rami, gli sfugge di sotto il cavallo, ed ei resta in aria sospeso pe’ suoi capelli: si divincola in questo stato, si vuol liberare, ma non può, ma non vi riesce: veeie appressarsi Gioabbo, e come io ne penso, gli avrà detto al cuore un pensiero: quegli è Gioabbo mio parente, quegli, che già una volta si è tanto adoprato per riconciliarmi col padre, senza dubbio ei viene a liberarmi: porta in mano una lancia, con quella senz’altro reciderà l’impaccio della mia chioma. Si accosta Gioabbo, e gli trapassa il cuore con tre colpi di lancia.
Cristiani penitenti, già vel dissi, voi avete data la morte co’ vostri peccati a Gesù Cristo vostro fratello, che con questo nome s’è compiaciuto appellarsi. Iddio compatendo la vostra fragilità, mosso dal vostro pentimento, dalle vostre preghiere, dalle vostre promesse, vi ha accordato il perdono, ed abbracciandovi vi ha stampato in fronte il bacio di pace. “Post haec”, se dopo tratti così amorevoli, vi rivoltate contro un Dio sì pietoso, se armati di peccato gli muovete guerra, aspettatevi pure il tragico fine di Assalonne. Verrà sì, verrà anche per voi il giorno estremo, il punto di morte, in cui, come sospesi tra il tempo e l’eternità, agitati confusi non vi sarà dato di liberarvi da’ vostri affannosi timori. Chiamerete allora quel confessore, quel Gioabbo, che già vi riconciliò con Dio: verrà alla sponda del vostro letto; ma sarete in quel punto da tre pensieri, come da tre lance, trafitti. Il pensier del passato: Oh! io era in grazia di Dio, feci quella buona confessione, se mi fossi mantenuto a Dio fedele non mi troverei in queste angosce. Il pensier del presente: ecco il ministro di Dio che mi assolve, ma quest’assoluzione sarà forse un colpo per me di pesantissimo sacrilegio. Il pensier del futuro: Ah! che la spada della divina giustizia mi pende sul capo, e tra poco scaricherà su di me il colpo fatale della giusta sua collera, e della mia eterna condanna.
Ecco l’ordinario fine de’peccatori recidivi. Si rassomigliano costoro al cane, che torna a divorarsi quel cibo che vomitò: “Sicut canis qui revertitur ad vomitum suum”, così nei Proverbi: “Sicut canis reversus ad vomitimi” [Cap. XXVI, 11], così S. Pietro [2 Piet. II, 22]. Or che sarà di questi sordidi cani? Che ne sarà? Udite S. Giovanni. “Foris canes, et venefici, et impudici” [Apoc. XXII, 15], fuori del regno dei cieli, fuori questa razza di cani stomachevoli, che vomitano il veleno de’ propri peccati, e ritornano ad ingoiarlo colla stessa franchezza,“foris canes”!
I convertiti per lume celeste, conchiude l’Apostolo, i quali gustarono quanto è dolce star bene con Dio, e di nuovo cadono in peccato, egli è impossibile che si rialzino ad abbracciare un’altra volta la penitenza. “Impossibile est eos, qui semel sunt illuminati, gustaverunt bonum Dei, et prolapsì sunt, rursus reverti ad poenitentiam” [Ebr. VI, 4,5,6.]: non già che sia ciò assolutamente impossibile, come insegnano Padri e Teologi. Finché c’è vita, c’è speranza, c’è luogo a perdono; ma la scrittura santa in più luoghi e S. Paolo nel testo citato, si servono della parola “impossibile” per significare la grande grandissima difficoltà di risorgere, e di salvarsi per quei che ricadono nel mortale peccato già detestato e pianto. Se questo tuono non ci riscuote, v’è a temere il fulmine che c’incenerisca; che Dio ci liberi!